Rassegna stampa 11 marzo

 

Giustizia: Scotti; sono pessimista sull’iter del ddl "Mastella"

 

Apcom, 11 marzo 2007

 

È "pessimista" sull’iter parlamentare del Ddl Mastella di riforma dell’ordinamento giudiziario il sottosegretario alla Giustizia Luigi Scotti. Un atteggiamento che il "padre" del testo approvato mercoledì scorso dal Consiglio dei ministri non nasconde davanti alla platea dei magistrati riuniti nell’aula Magna della Corte d’appello di Roma per un convegno organizzato dalla corrente di Unità per la costituzione. Pessimismo che deriva non solo per le posizioni ostruzionistiche ventilate dall’opposizione, ma anche per le riserve venute da "forze politiche e ministri" della maggioranza.

Il ministro Mastella, spiega Scotti, ha fatto il possibile e se, ad esempio sulla Scuola della Magistratura, "c’è stato un debordamento a favore del Governo non è colpa del Guardasigilli, ma è stato imposto da altri ministri e da altre forze politiche della maggioranza". Il clima nel quale è maturato il testo finale del Ddl ha risentito, riferisce ancora il sottosegretario, di "una spinta da parte di forze della maggioranza a riequilibrare un rapporto tra il Csm e il Governo, giudicato squilibrato": "si è chiesta una maggiore meritocrazia, un maggiore controllo sulla produttività dei magistrati, una riduzione dei poteri del Csm".

E ora quale sarà lo scenario in Parlamento? "Io mi aspetto un migliaio di emendamenti, forse anche di più - è la previsione di Scotti -. Ma non è ancora chiara la strategia operativa. Si arriverà ad un accordo? La diversità di opinioni riapparirà in Parlamento? Quali sacrifici verranno chiesti?". Uno scenario poco chiaro, di fronte al quale "da una nota di ottimismo sono passato ad una nota di pessimismo", dice Scotti.

Ma i tempi sono fondamentali, anche perché incombe la scadenza del 31 luglio, data entro la quale bisognerà modificare le norme precedenti per evitare che diventino operative quelle della legge Castelli. "Il via libera al Ddl almeno in un ramo del Parlamento è condizione indispensabile - evidenzia Scotti - per ottenere forse un decreto legge che proroghi la sospensione dei decreti attuativi".

Giustizia: Mancino; il ddl "Mastella" indebolisce il ruolo del Csm

 

Ansa, 11 marzo 2007

 

Il Ddl Mastella sull’ordinamento giudiziario "indebolisce le funzioni e l’autonomia del Csm". A mettere in guardia dai rischi che comportano alcune norme del provvedimento varato mercoledì scorso dal Consiglio dei ministri è lo stesso vicepresidente dell’organo di autogoverno dei magistrati, Nicola Mancino, intervenuto stamattina ad un convegno organizzato a Roma dalla corrente di Unità per la costituzione. Il numero due di Palazzo dei Marescialli dà un giudizio "complessivamente positivo" del Ddl che rivede parti della riforma Castelli, ma non nasconde "alcune preoccupazioni e perplessità".

A cominciare appunto dai poteri del Csm, che "esce indebolito nelle sue funzioni e nella sua autonomia", dice Mancino, riferendosi soprattutto alla composizione della Scuola per la Magistratura: non va bene, sostiene, la "compartecipazione" del Governo, una "interferenza" che andrebbe eliminata.

"La Scuola - osserva Mancino - deve essere espressione più del Csm che di una commistione con l’esecutivo. Occorre una più precisa delimitazione". Anche perché il collegamento di questa struttura con l’esecutivo "è un problema che riguarda anche profili di carattere costituzionale". Da qui, per Mancino, l’esigenza di una ulteriore "riflessione".

Il vicepresidente del Csm esprime comunque la sua "soddisfazione" per il fatto che sia stata "finalmente posta chiaramente" la questione che riguarda la distinzione delle carriere dei magistrati: "Nel Ddl c’è una definizione di parità tra Pm e giudici, seppure nella diversità delle funzioni. Non si parla più di separare le carriere, ma finalmente di distinguere le funzioni". Un aspetto sul quale però Mancino invita a fare attenzione, sollecitando "una disciplina più puntuale" da parte del Governo: "La distinzione delle funzioni pone comunque dei problemi - spiega - perché complessivamente non è facile rimuovere un magistrato dalla giudicante alla requirente, o viceversa, applicando un sistema troppo rigido. Per questo c’è qualche preoccupazione, speriamo che il Parlamento sarà in grado di affrontarla". In ogni caso, aggiunge, è assolutamente indispensabile che la parte che riguarda la distinzione delle funzioni dei magistrati sia "messa a regime entro il 31 luglio", quando cadrà il provvedimento di sospensione delle norme della legge Castelli.

Mancino non nasconde comunque la sua preoccupazione per "il duro scontro" che si prospetta in Parlamento sul Ddl. "Penso che sul piano parlamentare ci sarà una forte dialettica, anzi ci dobbiamo aspettare un duro scontro sulla distinzione delle funzioni. Ma spero che in Parlamento si possano realizzare intese perché l’ordinamento giudiziario sia davvero nuovo e coerente con la Costituzione. Questo è il mio auspicio".

Il vicepresidente del Csm coglie anche l’occasione per rilanciare la necessità di mettere in campo anche riforme del processo. Il Ddl sull’ordinamento giudiziario, sostiene, "non risolve i problemi della giustizia, la priorità è la riforma del processo, che il Parlamento deve affrontare con urgenza contestualmente". "Il problema della ragionevole durata del processo - sottolinea Mancino - è una questione molto importante. Al più presto bisogna discutere l’ampiezza della delega e i tempi necessari perché il Parlamento approvi le modifiche processuali. Sono questioni da affrontare con l’urgenza che la velocità delle legislature pone".

Giustizia: Anm; non accetteremo mai separazione carriere

 

Apcom, 11 marzo 2007

 

La Magistratura non accetterà mai la separazione delle carriere, un principio che considera "non barattabile". Lo dice senza mezzi termini il presidente dell’Anm, Giuseppe Gennaro, nel suo intervento ad un convegno organizzato a Roma dalla corrente di Unità per la costituzione. "Se il prezzo da pagare per arrivare ad un’intesa che consenta di approvare il Ddl Mastella è quello della separazione delle carriere dei magistrati - dice il leader del "sindacato delle toghe" - si sappia che noi non lo accetteremo. Non è il male minore. Questa bandiera non si può abbassare. Il principio va salvaguardato e non è barattabile". "È noto - osserva Gennaro - che una parte del nostro Parlamento vuole una netta separazione delle carriere. Ma la Magistratura non può tradire cinquanta anni della sua storia".

Parma: domani due incontri con il sottosegretario Manconi

 

Sesto Potere, 11 marzo 2007

 

Domani 12 marzo sarà a Parma, su invito della Provincia, Luigi Manconi. Il sottosegretario alla Giustizia interverrà a due incontri che avranno luogo in città e che riguarderanno temi di grande attualità: l’indulto e il testamento biologico.

Il primo appuntamento dal titolo "Per un buon uso dell’indulto" si terrà alle 16 nella sala Savani (p.le della Pace 1). L’assessore provinciale alle Politiche sociali e sanitarie Tiziana Mozzoni introdurrà il confronto fra Luigi Manconi sottosegretario alla giustizia Nello Cesari, Provveditore degli istituti penitenziari della regione.

Il secondo appuntamento, promosso dalle associazioni "Marino Savini" e "A buon Diritto", in collaborazione con la Provincia, è in programma alle 21.00 nella Sala dell’Assistenza Pubblica (via Gorizia). Il dibattito verterà su "Il Dolore e la politica. Il testamento biologico e il diritto di scegliere" e ne discuteranno Rocco Caccavari, presidente dell’Associazione Marino Savini, Luigi Manconi, presidente dell’associazione "A buon Diritto", Carmen Motta deputata di Parma e l’assessore provinciale Tiziana Mozzoni.

Parma: da via Burla alla Provincia, storie di uomini "rinati"

 

La Gazzetta di Parma, 11 marzo 2007

 

Fare fotocopie, smistare la posta, accogliere con un sorriso chi varca la porta al secondo piano del palazzo di piazzale Barezzi: la libertà è anche questo. "Libertà di ricominciare da capo, di lasciarsi alle spalle i giudizi e i pregiudizi, di mostrare ciò che si vale".

Gianni (il nome è di fantasia) è stato rinchiuso in via Burla fino all’ottobre scorso. A scarcerarlo è stato l’indulto votato dal Parlamento ("Ero dentro per una custodia cautelare, dopo essere stato arrestato per spaccio due anni fa"). Era ottobre. A Gianni hanno aperto la cella all’improvviso: quando non ci sperava più, dopo aver visto tutti gli altri prendere il largo.

"È arrivato il detenuto con la spesa chiedendomi a chi doveva lasciarla, visto che io uscivo - sorride -. Mezz’ora dopo, ero fuori". Dieci giorni fa, la Provincia gli ha firmato un "permesso di ritorno alla vita", assumendolo per un progetto di borsa-lavoro. Qualcosa che gli permette di guadagnare molto più di uno stipendio. "Già. A motivarmi non sono tanto i 500 euro che porto a casa ogni mese, ma il senso di riscatto". Riscatto dal carcere (dei suoi 40 anni di vita, ne ha trascorsi dieci dietro le sbarre). Riscatto dalla droga. "Da tre anni non mi faccio più. Presto, smetterò anche con il metadone, come previsto dal programma". Era successo anche in passato: dai 24 ai 30 anni, Gianni aveva chiuso con la droga, da un giorno all’altro.

Palermo: detenuti avviati al lavoro grazie all’arte del corallo

 

La Sicilia, 11 marzo 2007

 

Un imprenditore di Sciacca, Giuseppe Conti, specializzato nella produzione di gioielli in corallo, insegnerà a tre detenuti l’arte dell’orafo e del "corallaro" e, a pena espiata, ne assumerà uno. Gli altri saranno assorbiti da un mercato che richiede figure specializzate. É solo una delle iniziative messe in campo in Sicilia dal Dipartimento amministrazione Penitenziaria, retto da Orazio Faramo, per unire la formazione in carcere al lavoro, nell’ambito del reinserimento sociale per il recupero della legalità.

Ieri a Palermo, presso il Cerisdi, il ministero della Giustizia e il Dap hanno presentato il progetto "L’arte del corallo e gli altri mestieri del mare per il recupero della legalità", che mira al reinserimento lavorativo del 60% dei circa 3.000 detenuti isolani.

La Sicilia è inserita nel progetto "Asis", finanziato dall’Ue e dal "Pon Giustizia", per preparare le istituzioni e la società al reinserimento degli ex detenuti. Il progetto sul mare, coordinato da Cristina Busà e finanziato dall’assessorato regionale Cooperazione, vuole valorizzare esperienze già collaudate a Favignana, Sciacca e Trapani.

Vi si legano azioni parallele: i Giovani di Confindustria Siracusa hanno promosso una coop che nel locale carcere ha aperto un biscottificio biologico; una coop opera a Barcellona Pozzo di Gotto; il progetto "Marinando" consente a tre minori del "Malaspina" di Palermo di imparare a bordo di navi; il progetto "Il carcere va a scuola" con l’istituto Pio La Torre di Palermo coinvolge detenuti nell’avvio di un’impresa. Formazione e lavoro si farà al Consorzio di ripopolamento ittico di Patti. Nei 26 penitenziari sarà formato personale per la lavorazione del sale e del corallo, per la pesca e l’itticoltura, per la cantieristica.

Torino: alle Vallette è nato un gruppo di detenuti buddisti

 

La Stampa, 11 marzo 2007

 

Gigi congiunge le grandi mani con i semi delle carte tatuati sulle nocche, chiude gli occhi e piega la testa. Tra le dita fa scorrere il "gjutzu", il rosario buddista da 108 grani, e, quasi in trance, ripete il mantra "nam myoho renge kyo, nam myoho renge kyo...".

Lo sa a memoria, ma la lavagna appesa al muro ricorda la formula ai neofiti. Accanto a lui, raccolti in preghiera nella cella da due metri per tre decorata con ideogrammi cinesi e candele, siedono Elio, Giancarlo, Evandro, Massimo, una quindicina di detenuti della sezione "Prometeo", quella dei sieropositivi: blocco A, casa circondariale Lorusso-Cutugno, Torino, Italia. Il mondo grande sta fuori, ma qui dentro, in fondo a una sequenza di strati, muri, barriere, portoni, ce n’è uno piccino, un microcosmo che spicca quanto il fiore di loto dipinto sulle pareti grigie.

Da un paio d’anni, pioniere tra i penitenziari italiani, il Lorusso-Cotugno, più noto come Le Vallette, ospita un tempietto buddista con tanto di Gohnzon, l’oggetto di culto della scuola Daishonin, per soddisfare l’esigenza di una comunità di fedeli che cresce al ritmo di quasi un adepto al mese. A cominciare fu Elio, testa glabra come il Budda con cui ha tappezzato porte e muri della sua sezione, 55 anni di cui 25 passati in carcere, tentato alla "resurrezione spirituale" dalla sorella Assunta e sedotto definitivamente dall’impegno di un ex detenuto.

Era il 2002. Oggi Elio può contare su una quarantina di correligionari e altrettanti curiosi che, di tanto in tanto, si affacciano a sbirciare la "pratica" quotidiana di questi compagni di clausura diventati meno rissosi, più sorridenti, sereni quel tanto possibile nella routine filtrata dalle sbarre. Capitano anche degli stranieri, capita che siano musulmani, moschee in prigione non ce ne sono ancora: "Abbiamo avuto due marocchini una volta. Mi dicevano "Elio vogliamo venire agli incontri". Benvenuti. Si trovavano bene. Ma una volta fuori gli islamici mollano quasi tutti, è comprensibile, devono vivere nella loro comunità".

Il direttore Pietro Buffa ha seguito l’evangelizzazione" del blocco A dall’inizio, incoraggiando l’iniziativa di "socializzazione" indipendentemente da quanto sarebbe durata. È durata. Prima qualche incontro sporadico con i volontari dell’istituto Soka Gakkai, poi un calendario regolare, infine la concessione del luogo di culto a dispetto della diffidenza delle autorità carcerarie per gli assembramenti umani.

Ora l’esperienza delle Vallette, 1.177 detenuti di cui 250 con condanne definitive, è un modello per gli altri penitenziari. Perché, sarà pure una coincidenza, ma "nam myoho renge kyo" rende i detenuti migliori. "Negli ultimi sei mesi del 2006 abbiamo avuto 54 casi di autolesionismo contro i 107 medi dei precedenti quadrimestri", osserva il direttore.

Praticamente la metà. Merito del Gohnzon, della magia terapeutica della preghiera in generale, della pazienza del sovrintendente Salvatore Cannì, che con il mazzo di chiavi appese alla cintura apre e chiude di continuo la cella-tempio per le esigenze spirituali dei "ragazzi di Elio"? Per i secondini non fa molta differenza: "I benefici ci sono e si vedono". Basta guardare Daniele con il braccio intorno alle spalle di Luciano seduti a capo chino davanti all’altare con mele e arance offerte in dono al Gohnzon: erano cane e gatto fino a un anno fa, da quando praticano sono inseparabili, "ci amiamo".

Elio, Daniele, Luciano, il brasiliano Evandro con la corporatura d’un capocannoniere carioca e Massimo che sogna una visita di Roberto Baggio, "il buddista più famoso". Storie di spacciatori, rapinatori, trafficanti risorti Budda delle periferie, che intrecciano una trama comune. Uomini, quasi sempre. Le donne che finiscono in cella sono spezzate, spiegano i volontari del Soka Gakkai torinese, che due sabati al mese vengono a guidare una sorta di preghiera collettiva con autocoscienza annessa e paste alla panna a fine incontro: "Poche detenute riescono ad afferrare questo centro di gravità permanente che è la fede buddista, la fiducia in se stessi: troppo gravoso per una donna ricomporre la frattura tra fuori e dentro, luce e ombra".

Gli uomini forse, cedono meglio all’ozio spirituale, si perdono, si ritrovano. "Mi chiamo Rodolfo, ad agosto ho beneficiato dell’indulto ma sono rientrato in galera dopo appena un paio di mesi. Adesso prego due ore al giorno e mia figlia, per la prima volta, mi ha scritto una lettera". "Sono Giancarlo, ero un cattolico praticante, andavo in chiesa la domenica, quando sono finito nel vortice del crimine ho pensato che Dio fosse una grande bufala. Ho ritrovato il divino qui dentro". "Il mio nome è Claudio, nella vita precedente ho sempre fatto il delinquente, volevo tutto subito e me lo prendevo".

La fretta. L’incapacità di accompagnare con pazienza le stagioni della vita. Un destino che "i ragazzi di Elio" condividono con G., l’uomo che senza averli mai incontrati ha portato loro il Sutra del Loto, il verbo di Siddharta. Era un corsaro della finanza negli Anni 80, anni sfrontati, anni d’ostentazione, deliri d’onnipotenza, donne mozzafiato. "Mani pulite" travolse gli orizzonti di gloria, il potere, la rubrica con i numeri di Calvi, Sindona, Buscetta. Restarono i libri di Stephen King, la claustrofobia delle carceri di massima sicurezza condivisi con i famigerati 41bis, mezzo secolo di pena da scontare.

Blindato ai domiciliari, dove si cambiava d’abito a pranzo e cena per ingannare il vuoto, G. trovò per caso Budda e la sua attuale compagna: "Avvenne nel 2001 e mutò ogni cosa. Seguirono il recupero, la buona condotta, la libertà. Allora decisi di raccontarlo a quelli rimasti dentro con l’unico mezzo che avevo, scrivere".

Gli ex detenuti non possono accedere al carcere. In sei anni G. ha mandato e ricevuto migliaia di lettere a Torino, Roma, Saluzzo. Ha "convertito" decine di persone che non ha mai visto: "Per sapere che faccia avesse Elio sono andato al suo processo". Davanti al Gohnzon delle Vallette s’intona spesso un "nam myoho renge kyo" per lui, G., il seme dei Budda delle periferie, e per chi l’ha fatto germogliare. Elio, ovviamente, ma anche il sovrintendente Salvatore Cannì, il secondino custode delle chiavi del tempio, un po’ curioso e, sotto sotto, un po’ tentato.

Nuoro: vi spiego cos'è l’omicidio barbaricino, di Alberto Sirigu

 

Crime List, 11 marzo 2007

 

In Sardegna, precisamente nella regione della Barbagia, esiste ed è radicata una tipologia di omicidio legato a questioni di onore personale, immagine sociale, rispetto individuale, le cui dinamiche fanno capo ad un antico sistema di regole informali (implicite, non scritte), una sorta di codice di comportamento per la regolamentazione di conflitti, faide, sgarri, offese, contese, il c.d. Codice Barbaricino, un antico codice d’onore, molto probabilmente un’evoluzione stessa del banditismo sardo della Barbagia.

Una sorta di faida, che spesso insanguina la cronaca sarda, è un tipico fenomeno legato a questa regione della Sardegna, che nasce e trae origine dalla sete di vendetta. Nella fattispecie la faida non è altro che un susseguirsi di azioni conflittuali, che indirizzi o gruppi o famiglie si scambiano tra di loro. Si attua per riscattare quelle che sono ritenute gravi offese, per chi le subisce, e che hanno in qualche modo leso l’onore e l’integrità morale di una persona, ma non solo. Il codice barbaricino, è un codice culturale che nutre e alimenta quella che viene definita la "cultura della vendetta". Esso nasce come azione di tutela giuridica derivante da una sfiducia nei confronti dello Stato e del suo sistema giudiziario, ritenuto inadeguato a far fronte a qualsiasi tipo di contesa privata.

Nel codice d’onore barbaricino quando viene subito un torto, un’offesa, ci si deve vendicare; un uomo d’onore non si può sottrarre alla vendetta. Una volta accertata la responsabilità di un’azione, la vendetta può essere eseguita; essa deve essere progressiva, prudente e proporzionata, cioè deve arrecare un danno maggiore ma analogo a quello subito; sono differenti le tipologie di offesa, si va dai danni patrimoniali (furto di bestiame), alla diffamazione e calunnia, e a quelli più gravi come le offese di sangue (omicidio o tentato omicidio di un parente e/o familiare) In questa sede ci si occuperà del classico omicidio (volontario) barbaricino.

Abbiamo detto precedentemente che questo fenomeno delittuoso si consuma in una regione ben definita, nell’entroterra sardo della Barbagia, in cui regna un clima e una cultura agro-pastorale, molto chiuso verso l’esterno ai cambiamenti sociali, culturali e istituzionali (Stato, leggi etc..); quando si verifica una situazione per la quale un individuo subisce un’offesa, a questa si deve rispondere con l’offesa, in virtù appunto del codice d’onore barbaricino, da sempre radicato nella cultura e nella mentalità degli abitanti di questa regione; in altre parole, perché si compia un omicidio da uomo d’onore ci deve sempre essere un movente, che può essere legato ad una faida familiare, a tutela della proprietà privata, del bestiame, per far tacere testimoni che parlano o hanno parlato troppo, spie, ma anche per auto tutelarsi da analoghe azioni criminose della parte avversa.

Bisogna sottolineare il fatto che oggi però, a differenza di quanto avveniva in passato quando l’offesa veniva restituita per mano propria, la parte offesa non si sporca le mani (ovvero il mandante), nel senso che non è lei l’autore materiale del reato, ma viene incaricata una terza persona, il c.d. sicario.

Il mandante prende comunque tutte le precauzioni del caso, cioè prima di commissionare un omicidio, si preoccupa di trovare un alibi di ferro, solitamente nel momento in cui viene uccisa la parte avversa si fa trovare in luogo molto affollato, dove è sicuro che ci siano molti testimoni, come un bar; tuttavia, quando non si ha la possibilità di procurarsi un alibi reale e concreto, il mandante ricorre, in taluni casi, alla falsa testimonianza che in genere non viene mai negata, grazie anche alla diffusione della cultura, in questo clima agro-pastorale, dell’omertà; l’alibi può anche essere comprato tramite il denaro, ma il più delle volte si ricorre ad un favore alla pari; anche il sicario, comunque, ha la necessità di procurarsi un alibi quantomeno minimo, senz’ alibi non si uccide.

Il mandante fornisce al sicario tutte le informazioni necessarie per la riuscita, senza rischi, dell’assassinio, ovvero abitudini, consuetudini, attitudini e comportamenti della futura vittima. Il sicario, per contro, non ha né la necessità di conoscere le ragioni del perché deve uccidere, deve solamente eseguire un mandato, un compito, per il quale verrà ricompensato in denaro (50% si paga alla commissione dell’assassinio e il saldo a omicidio compiuto) oppure sa che un domani potrà comunque richiedere un favore alla pari; utilizza sempre armi proprie, mai accetta armi proposte da altre persone, per non correre il rischio che siano state utilizzate in altri omicidi e quindi la possibilità che gli vengano attribuiti delitti da lui non compiuti; il sicario, inoltre, non opera mai da solo quando compierà l’agguato, ma solitamente si avvale di un’altra persona, proprio perché sparando con due armi la riuscita del delitto è praticamente certa.

Le armi predilette, in questo tipo di omicidio, sono sempre armi da fuoco, solitamente il fucile (cal. 12 , la c.d. doppietta), caricato a pallettoni, per avere sia maggiori garanzie di riuscita con la sua classica rosata di pallettoni, sia perché non lascia bossoli, ma anche perché non lascia residui di polvere da sparo sugli indumenti dell’autore del reato, quindi utili indizi per gli inquirenti nelle indagini investigative.

Del tutto particolare risulta essere la dinamica dell’esecuzione dell’omicidio; il sicario predilige quasi sempre operare al buio, quasi sempre nella tarda sera o all’alba; la scenario del crimine è quasi sempre la località dove la vittima si reca per lavorare, quindi l’ovile o l’azienda; spesso accade che il delitto è consumato lungo l’itinerario che dalla abitazione della vittima porta al luogo di lavoro, ma anche in prossimità dell’abitazione stessa della vittima, magari quando vi rientra a tarda sera; sovente capita che l’itinerario percorso dalla vittima è ostruito con dei massi per far si che la vittima sia costretta a rallentare, divenendo così un più facile bersaglio sotto il fuoco del sicario e dei suoi eventuali aiutanti.

Da un’ analisi del contesto culturale (quello barbaricino) in cui un crimine così violento si consuma, si comprende quanto possano essere difficili e complesse le indagini investigative per la ricerca dell’autore del reato; non ci sono mai diretti testimoni dell’omicidio, anzi , in ragione dell’omertà e del disonore nel testimoniare agli occhi della collettività, essi sono sempre a favore del mandante e del sicario; si riesce a trovare dei testimoni solamente tra i parenti della vittima, ma se neanche tra questi ve ne sono, è facile ritenere che è in atto un’azione di vendetta nei confronti dell’autore dell’offesa. Inoltre, è diffusa la cultura della falsa testimonianza che può essere concessa sia a titolo di favore, o di solidarietà in virtù del Codice Barbaricino, sia dietro compenso pecuniario.

Tralasciando gli esami dell’autopsia, quelli balistici e scientifici, e comunque l’analisi della scena del crimine, che sono fondamentali per la ricostruzione dell’evento, il primo passo che un buon investigatore deve compiere per la ricerca dell’autore del reato è quello di ricostruire minuziosamente le dinamiche familiari e relazionali della vittima per la ricerca di un movente (aveva dei nemici…? chi? perché ?), non solo interrogandone i familiari, ma anche avvalersi di buoni informatori che, possono essere già dei conoscenti dell’investigatore, sia magari dei carcerati per aver compiuto altri reati ma che, in modo indiretto per la circolazione di informazioni tra il carcere e i dintorni dei paesi vicini, sono venuti a conoscenza di alcuni indizi importanti; in questo caso si rivelano molto utili le intercettazioni ambientali nel mondo carcerario, soprattutto quando non si riescono ad ottenere informazioni dai colloqui con i detenuti.

Pena di morte: nel 2007 ci sono già state sessantasei esecuzioni

 

La Repubblica, 11 marzo 2007

 

Almeno 428 vite sono state spezzate dalla pena capitale nel solo 2006. Senza considerare le condanne a morte eseguite in Cina, dove le statistiche sono considerate ancora segreto di Stato. I dati reali potrebbero essere molto più alti, ma se confrontati con quelli dell’anno precedente - 2148 prigionieri uccisi in ventidue Paesi e almeno 5186 imputati condannati in altri cinquantatre Stati - sembrano segnare una positiva inversione di tendenza.

Il 94 per cento delle pene eseguite nel mondo si concentra in pochi Paesi: Cina, Iran, Iraq, Arabia Saudita e Usa. In Cina, Amnesty stima tra le otto e le diecimila esecuzioni all’anno. Ma si tratta di cifre dedotte dalle informazioni di ufficiali locali e giudici e che lasciano ampi coni d’ombra sui numeri reali. Una certa evoluzione del diritto ha ridotto le modalità di esecuzione - un tempo si applicavano pratiche tipo l’asportazione della pelle o lo squartamento dove il corpo veniva legato a quattro cavalli fatti partire improvvisamente in diverse direzioni - ma restano ancora tanti i reati punibili con la morte. Il codice penale del 1997 ne elenca circa sessantotto.

A parte la Cina, i cui dati non sono quantificabili, il primato delle condanne a morte dello scorso anno è detenuto dall’Iran, il cui sistema giuridico si basa sui principi religiosi. Alle 177 morti riportate nelle cifre ufficiali del 2006 - di cui quattro nel solo giorno di Natale - se ne aggiungono dodici nel 2007. Solo per il reato di droga, si contano, dal 1991 al 2001 cinquemila esecuzioni e più di novantamila arresti.

Segue il Pakistan, con settanta pene eseguite nel 2005. Nel 1947 solo due reati venivano puniti con la morte: l’omicidio e il tradimento. Ma durante il regime del generale Ziaul Haq le fattispecie sono aumentate e così ora sono ben 27 i crimini passibili di condanna capitale. A questi si è venuta ad aggiungere, nel 1985 la legge contro la blasfemia, che ha aperto la via del carcere a non pochi cristiani e musulmani. Il presidente Musharraf, il 13 dicembre 2001 ha convertito in prigionia la pena di morte per i minorenni e nel novembre 2006 ha sottratto alle esecuzioni il reato di adulterio. A gennaio 2007 la Commissione dei diritti dell’uomo del Pakistan ha pubblicato un rapporto che testimonia più di 7400 condannati a morte e 1029 esecuzioni tra il ‘75 e il 2002.

In Iraq, la condanna capitale è stata reintrodotta nell’agosto del 2004 per reati contro la sicurezza nazionale, l’omicidio premeditato, il traffico di droga e, in alcune circostanze, per il rapimento. Nel corso del 2006 sono state impiccate almeno 65 persone, uomini e donne, compreso l’ex rais Saddam Hussein. E altre ventotto esecuzioni sono state compiute nei primi due mesi del 2007. Tra questi, il 15 gennaio, il fratellastro di Saddam, Barzan Ibrahin al-Tikriti e l’ex presidente del Tribunale rivoluzionario, Awad Hamad al - Bandar. Il 12 febbraio il Tribunale penale supremo iracheno ha condannato a morte anche l’ex vicepresidente Taha Yassin Ramadhan, rivedendo la sentenza di ergastolo comminata il 5 novembre 2006 nel processo contro Saddam. E, secondo notizie prevenute ad Amnesty, sembra imminente l’esecuzione di quattro donne detenute nella prigione al-Kadhimiya di Bagdad. Due di loro hanno con sé i figli: Zeynab Fadhil una bambina di tre anni e Liqà Qamar una di appena un anno, nata in carcere.

Negli Stati Uniti cinquantatre persone nel braccio della morte sono state uccise nel 2006 - il numero più basso degli ultimi dieci anni - ed altre sette quest’anno. Nel 2005, la morte di Kenneth Boyd, ha segnato l’esecuzione numero mille. Un terzo dei 38 Stati che applicano la pena capitale ha sospeso o sta ritardando le esecuzioni, ma in Texas, Tennessee, Virginia, Missouri, Georgia e Utah è in corso una discussione per estendere la pena anche ad altri reati. In particolare, in Georgia si propone di non chiedere più l’unanimità dei giurati, ma solo nove voti su dodici mentre lo Utah ha votato una legge che prevede la morte per chi uccide un minore di 14 anni. Il 31 gennaio New York ha deciso una nuova condanna, la prima negli ultimi cinquant’anni, accompagnata da tre esecuzioni in Texas e una in Oklaoma. Buone notizie arrivano invece dal New Jersey: il primo dei 38 Stati mantenitori ad introdurre per legge una moratoria sulle esecuzioni ha istituito una commissione di studio per esaminare diversi aspetti della pena, dalla correttezza delle procedure ai costi. L’ultima esecuzione risale al 1963, ma decine sono i prigionieri ancora nel braccio della morte.

Segue l’Arabia Saudita: i dati ufficiali riportano 38 esecuzioni pubbliche nel 2006 e 126 minorenni nel braccio della morte. Le condanne vengono realizzate per decapitazione, nei luoghi più frequentati, dopo la preghiera del venerdì. Con le esecuzioni di quattro cittadini dello Sri Lanka, il 19 febbraio scorso, sale a diciassette il drammatico conteggio del 2007. In soli due mesi, il Paese di re Abdullah ha eseguito la metà del numero delle esecuzioni dello scorso anno. Amnesty segnala processi a porte chiuse e senza avvocati, imputati che non conoscono le accuse, confessioni estorte con la tortura e assistenza consolare limitata per gli stranieri. Ma forse qualche spiraglio si sta aprendo: il 13 gennaio il presidente della Commissione saudita per i diritti umani ha annunciato la commutazione della condanna a morte di Hadi Sàeed al-Muteef, prigioniero di coscienza i carcere dal 1994 per commenti contrari alla shari’a.

Il Giappone, dopo una moratoria informale dall’89 al ‘93, nel Natale scorso ha eseguito le condanne nei confronti di Hidaka Hiroaki, 44 anni, Fukuoka Michio, 64 anni, Fujinami Yoshio, 75 anni e Akiyama Yoshimitsu, 77 anni. Almeno cento sono i prigionieri che attendono nelle carceri il giorno della propria esecuzione. Scrive Amnesty nel rapporto di gennaio 2007: "Mentre la Corea del Sud e Taiwan considerano seriamente la possibilità di bandire la pena di morte dalle rispettive legislazioni, il Giappone continua con le impiccagioni, in netta controtendenza rispetto ad altri Stati della stessa regione come Cambogia, Nepal, Timor Est e le Filippine". Con la morte del trentottenne Yasutoshi Matsuda, il 6 febbraio di quest’anno, è arrivato a novantanove il numero dei detenuti nel braccio della morte.

In Vietnam, dove la pena capitale si applica per 29 reati, il 2006 si è chiuso con un bilancio di tredici esecuzioni e il 2007 si è aperto con diciassette condannate a morte. In Kuwait, lo scorso anno si sono registrate nove esecuzioni ufficiali. Nel Bahrain, che nel 2003 ha votato contro la risoluzione dell’Onu sulla pena di morte, tre persone sono state uccise lo scorso anno ed una nel gennaio 2007. E ancora, i dati del 2006 testimoniano quattro esecuzioni in Indonesia, quattro in Giordania, almeno due in Egitto e nello Yemen e, nel 2007, due a Singapore. Mentre a Cuba, dove l’ultima condanna risale al 2003, sono circa quaranta i detenuti in attesa dell’esecuzione.

Droghe: non ci sono più i tossici di una volta

di Pino di Maula (Avvenimenti-Left)

 

Il Cassetto, 11 marzo 2007

 

Viaggio nel basso Lazio, dove negli anni ottanta c’erano più giovani drogati che ad Amsterdam.

L’acqua si fa sempre più trasparente man mano che si risale il fiume Rapido. Si parte dalla fabbrica di cuscinetti a sfera in direzione delle montagne del parco nazionale d’Abruzzo. In alto, a sinistra, domina l’abbazia di Montecassino. A destra, le colline del casertano. Siamo nel mezzo. Tra Lazio e Campania. Costeggiando la pista pedonale è facile notare i sassi che formano il letto dell’asta principale di quel che, più a valle, diventa il Garigliano.

Un confine naturale, già al tempo dei briganti, tra nord e sud, considerato discarica per la ex Cassa del mezzogiorno e gran parte dei "liquami" della camorra più violenta gestita dai Casalesi. Pur tuttavia, ogni pietra lì, dove t’illudi di trovare la sorgente, conserva ancora un aspetto particolare. Peculiarità che non appaiono nei ragazzi che passeggiano.

Hanno un’espressione che rende i loro volti simili. Quasi facessero parte di un unico cast di attori riunito per girare, 30 anni dopo, una scena melodrammatica. I sorrisi sinceri non bastano a smentire la sensazione. Si distingue però il movimento di una fanciulla. Valentina ha una forma esile e un aspetto, determinato anche dal suo fare, gentile, eppure sorprendentemente energico. È l’educatrice 27enne del gruppo Exodus che guida la carovana di 20 giovani ex tossicodipendenti. Con lei e la banda di giovanotti, per lo più napoletani e della periferia romana, entriamo nel centro di accoglienza fondato da don Mazzi.

Uno dei 18 della fondazione (40 considerando anche i centri d’ascolto e le altre strutture delle cooperative e associazioni che fanno parte di questo variegato sistema) in grado di fermare il mondo, quando si fa insopportabile, con quel tanto che dovrebbe servire a farlo ripartire con nuove modalità: dall’orto alla sala informatica, dal biliardino alla sala lettura. Un bel posto, insomma. Che allo Stato, per misure alternative al carcere, costa poco più di 30 euro al giorno. Dalla giovane operatrice si intuiscono le qualità umane.

Sul resto riusciamo a sapere solo che ha una laurea in Lettere con indirizzo pedagogico con qualche esame in psicologia, ma senza nessuna specifica formazione psichiatrica. Tutto quel che sa (fare) lo deve, in pratica, solo all’esperienza maturata sul campo: "Sto con loro giorno e notte - racconta Valentina -, quando ridono, ma anche quando soffrono e piangono". Il cronista vorrebbe fare altre domande sulla prassi che regola quella comunità, ma non c’è più tempo per accendere il registratore. Glielo fa intendere Ivan. Un gigante d’uomo che non ama le regole ma che ci convive per amor cristiano: "A 12 anni - confida - giocavo a calcio nella primavera del Napoli con Marco Materazzi e suo padre Beppe in qualità di allenatore". E poi cosa è successo? "Mah…a 17 anni giravo già con bancomat, Golf GT, la vita era troppo facile. Finché - continua- al ritiro di Viareggio la società mi scopre e mi spedisce in comunità".

Ivan è convinto di essere una specie di miracolato. A 31 anni ha già alle spalle un vita di tossico duramente espiata con il volontariato in Africa a favore di bambini colpiti dall’ Aids. Nonostante ciò diffida dei moderni eroinomani:"Certo un tempo, molti per sconvolgersi si facevano prescrivere dal medico Zitoxil (sciroppo per la tosse a base oppiacea per fortuna messo al bando), si sballavano con qualche canna e "strippavano" con l’anfetamina ma oggi assumono tutto e di più: alcool e il suo antagonista Alcover, Roipnol e persino il Darkene per cavalli". D’accordo, è un suicidio ma quelli che sono qui ne vengono fuori?

"No, solo una percentuale bassissima, purtroppo". Quanti? "Solo uno su dieci ce la fa". Vorremmo sapere delle cause di tante recidive, ma una delle possibili spiegazioni arriva al telefono. C’è un padre che si ostina a chiamare, con scuse diverse, interrompendo continuamente il dialogo che si va instaurando con operatori e utenti del centro.

"Servirebbe una comunità per i genitori", sbotta Ivan mentre si congeda per terminare un lavoro in azienda". Se è vero, dunque, come battono le agenzie di questi giorni, che la famiglia uccide più della mafia (un morto ogni due giorni, 1.200 vittime in cinque anni), ai morti ammazzati, anche se indirettamente, tra le mura domestiche, andrebbero allora, forse, aggiunti almeno una parte delle 603 vittime, solo nel 2005, della tossicodipendenza. Discorsi complicati, meglio tornare a chi cerca aiuto.

Stando alle fonti istituzionali, il 25 per cento circa delle domande di trattamento per consumo di droga viene da chi ha compiuto 35 anni di età o più, mentre solo il 7 per cento che arriva a sottoporsi al trattamento per la prima volta ha meno di 20 anni. Il che significa che i giovanissimi restano convinti di farcela da soli e restano nell’ombra. Il dato potrebbe però venir parzialmente smentito dalle nuove tendenze. Stando infatti ad un’anticipazione dell’Agenzia che monitora il fenomeno nel Lazio, ai Sert nell’ultimo anno si sono avvicinati un 30 per cento in più di "sconosciuti" che richiedono assistenza farmacologica.

Tra una riflessione e una battuta di spirito, arriva il momento della sigaretta. Se ne possono fumare un massimo di dieci al giorno. E ognuno è libero di gestirle come crede. Un clima d’autogestione che sembra però non convincere troppo Andrea. "Preferivo i metodi di altre strutture più rigide, dove ti fanno lavorare continuamente e non ti lasciano mai il tempo per pensare. Ma è perché - ammette - ho il vizio di farmi condurre per mano. Cerco ancora di non assumermi responsabilità. Ma poi, forse, questo è il metodo vincente: se elabori qualcosa qui, lo fai certo con l’aiuto di altri ma diventa una realizzazione personale".

Andrea non ha l’aspetto furbetto di altri, c’è una linea di tristezza in più nei suoi occhi quando ripensa a come trattavano le persone ricoverate con lui nella sezione psichiatrica di un ospedale poco distante. "Per fortuna un assistente sociale mi ha strappato da quel posto per condurmi qui". Forse, per gli altri non c’erano speranze?

"Forse o forse i miei occhi erano troppo sensibili per sopportare il dolore e non capivo che quei medici non potevano comportarsi altrimenti per contenere quei malati". La malinconia di Andrea viene distratta dalla cucina dove fervono i preparativi per la cena con altri ospiti. Sono attesi i ragazzi di una casa famiglia, considerati simpatici e affettuosi. Sapremo, più tardi, che non hanno torto. Nel frattempo, è tutto una guerra di pizzaioli.

L’ala napoletana, momentaneamente estromessa dal forno, è avvelenata con i romani a cui è stata affidata la cucina. Sono Paris di Cori e Mauro di Centocelle, aree a sud della capitale con alto tasso di criminalità. Il primo ex fornaio, 46 anni con tre figli e un passato di furti d’auto. E per fortuna un indulto che gli ha risparmiato qualche anno di prigione. Ha modi simpatici e affabili. È pronto a spiegare tutte le cause di quella vita andata di traverso.

È un racconto semplice, di quelli classici (e un po’ improbabili) che - immaginiamo - si formano attraverso gli incontri con lo psicologo di turno che, assieme a un neurologo, fa visite di controllo al Centro. Secondo Paris c’è qualcosa nel Dna che, in qualche modo, ti porta sempre a sfidare la vita. Pur essendo praticamente convinto di aver una sorta di difetto organico parla di pulsione che scatta all’improvviso. E se l’ultima volta è riuscita a contenerla è perché - spiega - ha intuito che stava arrivando e ha perciò chiesto ospitalità alla Comunità. Dove prevalgono le regole.

La sua ostinata dedizione a quello che appare come uno Scalfari - pensiero ci fa voltare verso Mauro. Lui è più giovane. Molto più piccolo e gracile anche nell’aspetto. Sembra il tipico figlio vivace del vicino di casa. Almeno finché non scopri che ha girato un numero impressionante di comunità, cliniche e carceri. I suoi reati preferiti erano la rapina, possibilmente, a mano armata.

"Non riuscivo a fermarmi neanche quando non ne avevo affatto bisogno. Ero pieno di soldi ma temevo il vuoto. Mi perdevo - spiega con impressionante consapevolezza del suo malessere - e per sfuggire l’angoscia mi lasciavo deviare da quelli tosti che richiedevano manodopera risoluta". Anche per lui, che ha iniziato a impasticcarsi a 13 anni è difficile uscir fuori da quella logica malavitosa e suicida. "Qualche tempo fa - confessa - mentre mi trovavo in un nuovo ufficio postale con mio padre, pensai: Qui è "regalata"" Cioè? "Guardandomi in giro pensavo a come sarebbe stato facile rapinare quel posto, infatti un mese dopo l’hanno ripulito".

Più che il metadone utilizzato peraltro solo nelle prime settimane, l’unica vera medicina all’Exodus di Cassino sembra essere il rapporto. Sono tutti concordi infatti, operatori e ragazzi, che la vera dipendenza da "scalare" non è dalla "sostanza" ma da un metodo di pensiero malato. Come a dire, o a voler credere, che questo prendersi cura, seppur sprovvisto di un vero e proprio impianto teorico (non ce ne voglia Don Mazzi), possa perfino produrre un qualche effetto terapeutico.

Ma fino a quando? Non importa. L’essenziale è scivolare con la corrente del fiume che, costeggiando la comunità, accarezza i ciottoli determinando infinite impercettibili modificazioni. Cosicché a volte può capitare che se si smuovono in cerca di plecotteri, quei macroinvertebrati che indicano lo stato di salute dell’acqua, ne scopri uno con forme e magari un tono di colore diverso dagli altri. Un tono particolare che sembra evocare potenzialità inespresse. Ancora da sviluppare. Ma reali. È tutta una questione d’immagine e identità. A sostenerlo non è il responsabile Comunicazione dell’ultima azienda entrata in Borsa bensì, a suo modo, Antonio che cerca l’aerosol (ha un po’ di catarro per quelle sigarette che ha smesso definitivamente di fumare) mentre Adamo organizza i turni brontolando per le pizze ormai fredde sul tavolo e gli ospiti che ancora non si vedono. Antonio sa che non può più andare al suo paese dove vive la sua famiglia: "Lavorano tutto il giorno, spaccandosi la schiena.

Se dopo 18 mesi trascorsi qui dovessi tornare a casa, non mi farebbero mancare niente. Anche se non mi festeggerebbero". Come mai? Loro sono fatti così, onesti, seri, ti vogliono bene ma non amano sdolcinerie". Non ci vuole un esperto in realtà umana per sentire che Antonio si sta emozionando. E che, ora, non se vergogna. "Gli affetti non sapevo neanche cosa fossero. Per me contavo solo io. Dovevo apparire.

Ero preso da un delirio di onnipotenza che mi spingeva a fare il gradasso, a fregare il prossimo, sempre e comunque. Con la tessera falsa per raccogliere fondi contro la leucemia o saltando da un tetto all’altro. Non sentivo più, forse per colpa delle sostanze che prendevo, neanche il corpo, ora - dice quasi sottovoce - sento lo stomaco in subbuglio. Avevo perso il piacere delle piccole cose. Forse, la dimensione umana".

Forse, forse l’aveva persa. Ma non sembra accorgersene una biondissima bambina di sei o sette anni che, correndo dal cancello d’ingresso, vola subito tra le sue braccia violando ogni record di velocità. Lei forse riconosce la sua nuova immagine interna, sa che dietro il volto da "fighetto" c’è un’identità nuova che potrebbe prendere forma. Lei non sa del lavoro che richiederebbe una tale reale trasformazione. Sente solo una grande simpatia per lui. Comunque sia, Antonio fa appena a tempo ad abbracciarla forte per condurla sicura nella sala da pranzo dove, seguendoli, scopriamo un trionfo di pizze.

C’è n’è una anche a forma di cuore in onore della ragazza "leader" del gruppo ospite. Con lei altri tre operatori dall’aria un po’ sessantottina cattolica oriented. La cena inizia con un veloce segno della croce. Al veloce rituale non si sottrae nessuno. Neppure, forse, il piccolo marocchino ripescato chissà da quale stato d’abbandono e che ora, stando ai resoconti degli assistenti, sembra voler sbalordire tutti con performance scolastiche da piccolo genio. Seppur un po’ svogliato.

C’è aria di festa all’Exodus. Un tenerissimo signor anziano scherza con due bambini, anche loro sorridenti e graziosi. Così come appare ogni ragazzo della comunità. Difficili immaginarli, in quel momento, come la teppa della società dedita alla malavita o al suicidio. Tra muscoli e facce da malandrini che muovono con particolare attenzione verso quei bimbi senza genitori si fa spazio un altro Antonio. Una ragione forse sta nel fatto che ci confida mentre usciamo dalla sala per fumare l’ultima sigaretta consentita: "Sono un orfano cresciuto da solo nelle Vele di Napoli".

Spacciavi anche da piccolo? "Chiaro, che altro potevo fare. Per me era normale. A tredici anni - racconta - guadagnavo già 500.000 lire al giorno. Per me era difficile -aggiunge - capire che non "bastavano" a vivere". In che senso? "Per me quel mondo era il mondo, peraltro il migliore dei mondi visto come mi sentivo forte e protetto rispetto ad altri ragazzi". E allora? "Allora succede che poi mi mandavano a inondare d’eroina questa zona".

La conversazione coinvolge anche l’operatore della casa famiglia: "Qui, nel ‘77, c’era la percentuale europea più alta di eroinomani tra la popolazione giovanile. Piumarola, un borgo alle porte della Fiat, strappò il triste primato persino ad Amsterdam". A chi ascolta fa eco la memoria sui dati nazionali che in quegli anni registrano un salto impressionante. Nel giro di dodici mesi si passò dai 10.000 a quasi 100.000 eroinomani censiti. Stavamo dunque calpestando i resti dell’epicentro di quel drammatico sisma sociale.

Con tanto di testimonianze. Si passa dal caso di chi è ripiombato nella droga per colpa di quel tipo (ex tossico) che lavorava nella macelleria a San Patrignano per finire con l’elenco della "vecchia guardia" del cassinate che non c’è più. "L’ultimo - ricorda un assistente sociale - è morto accovacciato, un mese fa, nella villa comunale". C’è qualcosa di strano però in quei ricordi. Forse un metodo di pensiero che non funziona.

Ci deve pur essere chi è sfuggito a quell’inesorabile destino? Destino dettato, probabilmente, anche dalle vicende sociali e politiche di quegli anni. Fatto anche lì di cultura della morte, di terrorismo (basti pensare agli attentati alle centrali elettriche degli stabilimenti). Di ribellismo cieco senza sbocchi, per dirla alla Asor Rosa.

Troppo complicato. Meglio raggiungere il biliardino per lanciare una sfida ai suoi nuovi interlocutori. Che prima l’illudono, poi lo fanno "nero". In quei casi scatta di rigore l’amarezza per la disfatta. Ma la "bestemmia" no. Quella viene prontamente affogata dai ragazzi con un movimento morbido e immediato, quasi impercettibile. Non ha nulla di veramente moralistico. Somiglia più al gesto di chi nella speranza di separarsi dal passato cerca nel collettivo, con modi soft, nuovi valori, per farcela e godersi meglio ogni frammento della nuova vita. Che sembra trovar qualche conferma in quella serata.

Così fino alla mezzanotte circa. Dopo di che, resta soltanto Valentina. Ci accompagna silenziosa con dolcezza al cancello. I suoi occhi hanno già ampiamente risposto alla possibile ultima indiscrezione. E non c’è più alcun bisogno di chiederle se ha paura di restare, di notte, con quei "briganti". Ma c’è spazio per una domanda. La sua. Tornerete a trovarci?. Perché no, seguendo il corso del fiume intanto ci ritroviamo sulla Casilina dove, il giorno seguente, scopriamo un altro un centro. Si chiama Reto.

È un’associazione nata in Spagna, ma diffusa un po’ in tutta Europa. La sede italiana più importante - spiega un signore con fa da capo spirituale - sta a Milano. E solo in Lombardia questa strana organizzazione, severamente religiosa, pare sia riconosciuta ufficialmente e in qualche modo -stando alle loro dichiarazioni- finanziata. Nella struttura che ruota intorno a una bibbia posta al centro della casa non si fa uso di alcun medicinale.

Niente metadone, dunque. Per i drogati in crisi d’astinenza sono previste solo tisane e passeggiate nel bosco. Chiediamo se sono ammessi medici in quella sede. Niente, neanche quelli. Visto che non pare poterla definire una vera e propria comunità terapeutica proviamo a capire come si sostiene quell’attività di presunta solidarietà agli emarginati. E scopriamo che oltre alle fiere di oggetti usati, ci sono le donazioni libere che i privati elargiscono in cambio di lavoro che svolgono quei disperati che si affidano all’associazione.

Il responsabile riferisce di un suo vissuto come vittima della droga. Ma c’è dell’altro del suo passato che non risulta chiaro agli occhi del cronista. Chiediamo allora se ci sono anche donne all’interno della comunità. La domanda pone fine all’intervista.

È a quel punto, infatti, che i modi già manierati del padrone di casa, dopo aver accennato imbarazzato al temporaneo uso della sua abitazione per eventuali ragazze di passaggio, si fanno nervosi. Meglio allora uscire per evitare di "contaminare ulteriormente con energie negative" quel luogo. L’aria si è fatta già sin troppo pesante. E sempre più grigia.

Svizzera: test antidroga obbligatori anche per controllori treni

 

Notiziario Aduc, 11 marzo 2007

 

Le Ferrovie svizzere optano per la tolleranza zero nei confronti degli stupefacenti, compreso lo spinello fumato nel tempo libero. Dallo scorso dicembre i controllori con meno di 40 anni in servizio sui treni devono sottoporsi a test anti-droga simili a quelli riservati in precedenza ai soli macchinisti, ha rivelato ieri la trasmissione "10 Vor 10" della televisione svizzero tedesca SF.

Secondo l’azienda i controlli, che mirano in particolare a reprimere il consumo di cannabis in uso fra i giovani, sono nell’interesse della sicurezza dei viaggiatori, ma un professore di diritto del lavoro dell’universtà di San Gallo sostiene che le Ferrovie elvetiche non possono imporre ai loro dipendenti come comportarsi nel tempo libero. In campo è sceso anche il Garante della Privacy, che nella Confederazione viene ribattezzato Mister Dati.

Hanspeter Thur, l’Incaricato federale della protezione dei dati e della trasparenza (Ifpdt) esprime serie perplessità sui controlli anti-droga a tappeto decisi dalle Ferrovie. Si tratta a prima vista di una misura sproporzionata che non c’entra nemmeno l’obiettivo, ha spiegato Thur all’agenzia di stampa elvetica Ats. Per professioni in cui si richiede un elevato grado di sicurezza, come per esempio per i macchinisti, i controlli antidroga possono entrare in considerazione, ha affermato Thur, che si dice sorpreso per come si stanno muovendo le Ferrovie. "Non riesco a capire perché si limiti il test alle sole droghe illegali", si chiede Thur, secondo il quale l’alcol potrebbe essere un problema ben maggiore.

Il Garante non coglie nemmeno il senso della soglia dei 40 anni fissata dalle Ferrovie elvetiche: vi sono sicuramente anche dipendenti più anziani che fanno uso di stupefacenti, afferma convinto Thur. Inaccettabili appaiono infine le conseguenze per la vita privata dei lavoratori. "Non afferro come il consumo di cannabis nel tempo libero possa rappresentare un rischio alla sicurezza mesi più tardi", sostiene il Garante, che ora intende valutare la legalità dei test. Se le Ferrovie forniranno risposte plausibili, nessuno dirà nulla contro i controlli. "Al momento ho però dei dubbi che sarà così", precisa Thur.

L’ufficio del Garante era già intervenuto nel 2000 nei confronti della Roche, che eseguiva test anti-droga dell’urina sui suoi dipendenti. Thur aveva chiesto la revoca di questi controlli, ma la multinazionale farmaceutica aveva risposto picche. La società basilese aveva fatto marcia indietro solo quando la Commissione federale della protezione dei dati (Cfdp) decretò che la misura era sproporzionata e violava la personalità dei suoi dipendenti.

Interpellato durante il servizio del telegiornale di metà serata di SF, che ha diffuso la notizia, il portavoce delle Ferrovie Roland Binz ha spiegato che la compagnia pretende dal suo personale che arrivi al lavoro con la testa perfettamente funzionante. Le Ferrovie non accettano quindi il consumo di droghe illegali né durante il servizio, né fuori dal tempo di lavoro. I controllori che risultato positivi ai test dell’urina perché per esempio hanno fumato spinelli nel fine settimana devono firmare una dichiarazione in cui si impegnano a rinunciare alla cannabis anche nel tempo libero.

"Non trovo corretto che le Ferrovie ficchino il naso nella vita privata dei loro dipendenti, quando questi hanno lavorato per dieci anni senza causare alcun problema: se invece insorgono difficoltà allora sì che si potrebbe andare a cercare il motivo", ha affermato nel servizio televisivo Esther Lauper, una donna controllore finita nelle maglie del test dopo aver fumato un joint durante le vacanze.

Una posizione che trova sostegno da parte del professor Thomas Geiser dell’università di San Gallo. A suo avviso il dipendente delle Ferrovie si impegna a mettersi a disposizione al 100% mentalmente e fisicamente sul suo posto di lavoro, ma non deve accettare che l’azienda organizzi anche la sua vita privata. "Viviamo in una società libera, non può esistere un rapporto di sudditanza", sostiene l’esperto di diritto del lavoro. Secondo Geiser l’iniziativa delle Ferrovie viola quindi la legge.

Intanto, sempre in materia di sicurezza, le registrazioni delle telecamere sistemate nelle stazioni e sui treni potrebbero essere conservate per cento giorni e non più per 24 ore. In caso di necessità, il materiale verrebbe trasmesso all’autorità penale. Lo ha proposto ieri il Consiglio federale, sottoponendo una modifica della legislazione al Parlamento. Le imprese di trasporto dovrebbero ottenere l’adozione di ulteriori mezzi e strumenti. L’attuale polizia ferroviaria sarà sostituita da un servizio di pattuglia, non armato, in grado di agire anche su autobus, battelli e funivie.

 

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