Rassegna stampa 7 maggio

 

Giustizia: l’altra faccia delle carceri

di Giorgio Vittadini (Presidente Fondazione per la Sussidiarietà)

 

Il Riformista, 7 maggio 2007

 

L’esistenza delle carceri è dovuta a diverse e complementari ragioni. Si tratta di uno strumento per garantire la sicurezza dei singoli e della società nei confronti di persone che si rendano responsabili di comportamenti socialmente pericolosi, per perseguire una giustizia umana, punendo chi viola la legge, per prevenire reati attraverso il deterrente della pena detentiva. Ma si tratta solo di questo? Possono bastare queste ragioni, a volte accompagnate da una mentalità giustizialista che si accanisce contro i colpevoli, magari a seconda del colore politico? La nostra Costituzione su questo tema recita all’articolo 27: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Un’utopia? No, non è solo qualcosa che accade nelle indimenticabili ultime pagine di Delitto e Castigo. Nelle carceri c’è degrado, violenza, depravazione, condizioni di vita a volte inumane, sovraffollamento, reiterazione dei reati. Ma c’è anche qualcosa di diverso.

In questo numero vogliamo mostrare la faccia dimenticata delle carceri, quella del doloroso e silenzioso cammino di ritorno alla vita di tanti detenuti, non per poter ottenere degli sconti di pena, ma per un intimo e profondo convincimento umano. Può avvenire nelle carceri di Biella o in quelle del North Carolina, può essere il seguito di un percorso religioso e cristiano o nascere come un cammino alla riscoperta della propria umanità perduta.

In ogni caso è qualcosa che ha la sua radice in un dialogo profondo con la propria umanità, con quell’esigenza di verità, di giustizia, di bellezza, che don Giussani ha insegnato a molti a guardare e a chiamare "cuore". È un percorso che non può non sfociare nella riscoperta del senso del lavoro vissuto e praticato, all’interno delle mura delle carceri o in regime di semilibertà, come uno strumento per recuperare un significato più autentico della vita, una conoscenza più integrale della realtà, un’utilità personale e sociale della propria esistenza che si pensava ormai impossibile.

Tuttavia questi tentativi, questi percorsi di vita nuova sarebbero molto più difficili, più isolati e meno forieri di speranza se non fossero accompagnati dal tentativo di tante persone che li guardano con simpatia e li sostengono. Sono semplici persone divenute amiche di carcerati, guardie, educatori, autorità carcerarie disponibili a maggiori sacrifici nel loro lavoro, magistrati disposti ad assumersi rischi e responsabilità di fronte alla collettività, imprenditori e soci di cooperative che rischiano "del loro" per permettere questa evoluzione nella concezione e nella prassi della vita carceraria.

Sono anche politici che, dopo il pur necessario e doveroso provvedimento d’indulto, non ritengono esaurita la loro responsabilità, ma vogliono favorire una legislazione parimenti attenta alla sicurezza del cittadino e a questi percorsi in atto di nuova umanità che realizzano un dettame della Costituzione. Di tutto questo si parla in questo numero e sono gli stessi protagonisti a farlo, presentandoci una prospettiva che riguarda, in fondo, tutti, anche ciascuno di noi.

Giustizia: Mastella; l'indulto è stato solo l’inizio della riforma

 

Il Riformista, 7 maggio 2007

 

Tutti ricordiamo la spaccatura trasversale che sembrò esserci nel mondo politico italiano in occasione dell’approvazione del provvedimento di indulto. Tra i suoi promotori c’era il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, che oggi, a quasi un anno di distanza, può presentare alcuni dati incoraggianti: "Il primo e principale è il ritorno a una condizione di legalità rispetto ai limiti regolamentari di capienza degli istituti.

Inoltre, i detenuti beneficiari di indulto che sono stati riarrestati sono poco più di 3.500, con un tasso di recidiva molto basso rispetto alla normale media". Ma non c’è solo questo, infatti "il ministero della Giustizia - spiega Mastella -, in collaborazione con i ministeri dell’Interno e del Lavoro, ha guidato il processo di reinserimento sociale degli ex reclusi.

Il ministero ha anche avviato un coordinamento di servizi e strutture per l’accoglienza; ha promosso progetti di reinserimento lavorativo impiegando risorse; ha assecondato i processi di presa in carico di soggetti con patologie, devianze e dipendenze, da parte delle strutture sociosanitarie del territorio; ha fornito collaborazione agli organi di polizia a scopi di prevenzione generale e allontanamento dal territorio nazionale di soggetti irregolari. Credo che il basso livello di recidiva registrato dopo l’indulto sia merito anche di queste iniziative".

Appare perciò evidente che in Italia, come afferma il ministro, "esiste una cultura di notevole attenzione ai problemi della detenzione più che in altri Paesi, anche europei. Prova ne è la riforma penitenziaria del 1975, a tutt’oggi attuale e piena di contenuto, che si fonda sul valore della rieducazione del condannato, in attuazione del dettato costituzionale".

Ma qual è il "cuore" di questa cultura nostrana? Qual è la sua modalità peculiare nell’affrontare il problema di chi si trova in carcere? "Il problema della detenzione e delle condizioni di vita di chi sconta una pena - sostiene Mastella - deve essere affrontato in un sistema in cui venga considerata essenziale la capacità di ricostruire un progetto attorno all’uomo, sia anche il detenuto, l’uomo che ha sbagliato. Ritengo, comunque, che si possano e si debbano migliorare sempre di più le condizioni di chi è in carcere affinché il fine rieducativo della pena diventi sempre più concreto e reale, giorno dopo giorno".

E certamente il ritorno ad una situazione in cui i limiti di capienza degli istituti di pena sono più rispettati aiuta i carcerati a vivere meglio il loro periodo di detenzione. In questo senso preoccupano, però, i dati sulle nuove condanne, che parlano di circa 1000 ingressi mensili nel sistema carcerario e che dimostrano come nel giro di circa un anno si possa arrivare ad un nuovo sovraffollamento.

L’esecutivo si sta già occupando di questa eventualità, attraverso alcune riforme: "Di recente - spiega il guardasigilli - il consiglio dei Ministri ha approvato un importante testo di riforma al codice di procedura penale. Altrettanto accadrà a breve per il codice penale, a conclusione dei lavori della commissione, da me insediata, per la modifica del vecchio testo. Si è pensato ad un sistema delle pene che vede nel carcere l’extrema ratio dell’intervento repressivo dello Stato.

Nel frattempo sono state anche introdotte dall’amministrazione, e avranno ancor più sviluppo in seguito, forme di custodia attenuata per soggetti connotati da bassa pericolosità ovvero provenienti da particolari situazioni di disagio sociale. Tutto ciò, naturalmente, senza dimenticare la tutela delle vittime dei reati e le esigenze di sicurezza dei cittadini legate alla custodia dei soggetti pericolosi, espressione della criminalità organizzata".

Tornando all’importante tema della rieducazione e del reinserimento dei detenuti nella società, il lavoro negli istituti di pena riveste senza dubbio un ruolo rilevante, spesso sottovalutato, ma che lo Stato promuove, come Mastella tiene a precisare: "In carcere esiste un tipo di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, che consiste nello svolgimento di piccole attività domestiche o artigianali, retribuite direttamente dallo Stato (questa forma di impiego è direttamente collegata alla quota di bilancio del ministero impegnata per le mercedi e rappresenta una quota fissa).

Esiste poi un tipo di lavoro subordinato alle dipendenze di ditte esterne, che possono beneficiare della legge Smuraglia (una norma che prevede sgravi fiscali e contributivi per quei soggetti pubblici o privati - imprese o cooperative sociali - che assumono lavoratori che si trovano nella condizione di detenuti in esecuzione di pena) e ottenere benefici, facendo crescere il complesso delle attività lavorative che si compiono negli istituti.

Quest’ultima è un’attività che prelude spesso all’effettivo reinserimento del soggetto, al termine della detenzione. Sulla riuscita di queste iniziative, naturalmente, molto dipende da quanto si voglia investire sulla manodopera offerta dietro le sbarre. Spesso si tratta di ottimi investimenti, come testimonia il polo cooperativo presso la casa di reclusione di Padova o l’esperienza di alcuni cali center.

Si realizzano situazioni di lavoro molto qualificato e di sicura convenienza per l’impresa che lo fa proprio. Ciò che occorre è un’adeguata campagna di informazione sulla produttività della manodopera offerta dai detenuti, uomini e donne che, se aiutati nel reinserimento sociale, possono avere un’occasione in più per ritrovare la strada giusta".

Infine, Mastella tiene a rispondere a due "critiche" sul nostro sistema giudiziario, proprio in qualità di ministro della Giustizia. La prima riguarda la durata dei processi nel nostro Paese, che troppo spesso obbliga i detenuti a lunghe attese per conoscere il verdetto finale. "Si tratta - dichiara il ministro - di un problema complesso che va affrontato con la dovuta razionalità. Prima di giungere ad una definizione del processo, i cittadini vengono lasciati per troppo tempo senza risposte definitive.

Una giustizia lenta, anche se giusta, non è vera giustizia. Con le modifiche progettate per il nuovo rito penale, e anche per quello civile, abbiamo previsto un sistema che consenta una durata del processo pari a cinque anni, salvo i casi più complessi. Ad una previsione di durata più breve dei procedimenti si accompagna un intervento anche sul regime della prescrizione. Garanzie delle parti e certezza della pena sono obiettivi che diventano in questo modo compatibili e realizzabili".

A chi, invece, parla di un abuso della misura cautelare per "estorcere" una confessione o che rischia di essere una sorta di "condanna anticipata", Mastella, mostrandosi in totale disaccordo con tali argomentazioni, rilancia il suo ruolo istituzionale di garante: "La custodia cautelare è prevista nel codice di rito quando ricorrono determinate, tipiche condizioni.

Si tratta di una misura che assolve un ruolo previsto dalle norme: impedire la reiterazione dei reati, la fuga e l’inquinamento delle prove. Il suo utilizzo è sottoposto alla verifica di un organo collegiale di riesame e anche alla Corte di Cassazione, con la possibilità, dunque, per il cittadino di far valere tempestivamente le proprie ragioni". E infine assicura: "tutti gli abusi che eventualmente venissero accertati possono essere perseguiti anche con gli strumenti disciplinari che sono nella competenza del ministro della Giustizia".

Giustizia: ecco il vaccino per la "malattia carcere"

di Luigi Manconi (Sottosegretario alla Giustizia)

 

Il Riformista, 7 maggio 2007

 

All’indomani dell’approvazione dell’indulto, invitato con il ministro Clemente Mastella a uno spettacolo della compagnia teatrale di Rebibbia penale, ho assistito a una scena surreale: man mano che lo spettacolo andava avanti, la compagnia si assottigliava e, tra abbracci e lacrime, alcune vecchie glorie e consumati attori dell’istituto romano si congedavano dai loro compagni, improvvisamente raggiunti dall’ordine di scarcerazione della Procura della Repubblica.

"Correre il rischio del bene" è l’unico modo per far fronte radicalmente - ovvero, a partire dalle radici del problema - alla "malattia carcere" di cui scrivono dal carcere di Biella: correre il rischio del bene significa restituire il carcere alla società, perché se ne faccia carico, senza infingimenti. Una cura omeopatica (capace cioè di curare la febbre con la febbre) e tutt’altro che astratta, anzi: fatta di uomini e donne in carne e ossa che escono dal confino carcerario e scommettono insieme con noi su una second life, reale e non virtuale.

Ci abbiamo provato, poco meno di un anno fa, e ad oggi pare che ci abbiamo azzeccato: una mobilitazione straordinaria di risorse umane, finanziarie e materiali, dei ministeri, delle Regioni, degli Enti locali, del terzo settore e del volontariato, cui finora corrisponde un tasso di recidiva estremamente contenuto, ben lontano dai suoi livelli abituali (tra coloro che finiscono di scontare la pena senza usufruire di sconti e benefici).

Oggi la popolazione detenuta nelle carceri italiane non raggiunge la capienza regolamentare di 43mila unità: non succedeva da quindici anni. Oggi è possibile sperimentare, per coloro che sono rimasti in carcere, politiche e interventi più attenti ai bisogni umani e di reinserimento sociale che quelle persone esprimono. Abbiamo iniziato da una piccola, ma simbolicamente rivoluzionaria, iniziativa: la chiusura del reparto detentivo per detenute madri nel carcere milanese di San Vittore e l’apertura di una casa a custodia attenuata.

Un luogo (un appartamento) dove i figli di quelle donne possano non percepire la clausura forzata delle madri e la loro esclusione dal mondo grande che c’è oltre le sbarre. Ora ci attendono la riforma del sistema di assistenza sanitaria e il superamento di quel residuo manicomiale che si annida negli ospedali psichiatrici giudiziari.

Ma il discorso dovrà allargarsi al recupero delle finalità trattamentali delle case di l’esclusione e alle offerte di istruzione, formazione, lavoro e cura per la generalità delle perone detenute. Anche per persone assegnate a circuiti alta sicurezza, per i quali deve valere - come per chiunque altro - il principio della finalità rieducativa della pena.

Nelle scorse settimane, il Consiglio dei ministri ha fatto la sua parte, proponendo la riforma della legge sull’immigrazione e l’abrogazione delle norme più odiose sulla recidiva ("ex Cirielli"). Speriamo che si possa fare altrettanto, e altrettanto bene, sulle droghe. Intanto la Camera ha trasmesso al Senato la proposta dell’istituzione del Garante nazionale delle persone private della libertà.

Ognuno di questi piccoli passi contribuisce a dare senso alla audace scelta di correre il rischio del bene. Affrontare la "malattia carcere" richiede, infatti, un lavoro faticoso, che ha bisogno di scelte legislative coerenti, ma soprattutto del concorso di molti altri soggetti, istituzionali e non.

Nel bene come nel male, quelle movimentate settimane delle scarcerazioni seguite all’indulto ce lo hanno insegnato: una politica penitenziaria non ottusamente reclusoria ha bisogno del concorso di tutto il pubblico e il privato-sociale disponibile; il ministero della Giustizia ha molte responsabilità, ma non è autosufficiente, non ha il monopolio delle risorse e delle competenze necessarie ad accompagnare i detenuti nella loro second life.

Ne siamo consapevoli e consapevolmente chiamiamo a raccolta le forze, magari anche - se ne è iniziato a discutere - in una grande assise di enti e istituzioni, operatori e responsabili, uomini e donne di buona volontà, riuniti nella prima conferenza nazionale sull’esecuzione penale.

Giustizia: Mantovano (An); ma per le riforme servono risorse

 

Il Riformista, 7 maggio 2007

 

"Se mi si chiede di valutare le condizioni di vita dei detenuti all’interno delle carceri attuali, mi è difficile dare una risposta d’insieme. In alcuni casi alla pena della reclusione viene aggiunta quella di espiare la detenzione in una struttura inadeguata quanto a spazi e a rispetto della dignità. Ma ci sono anche istituti di pena di costruzione recente, o relativamente recente, la cui vivibilità interna è accettabile.

Se l’attuale governo procedesse nel programma di ammodernamento degli edifici avviato dall’esecutivo precedente, questa condizione si estenderebbe. Vi è anche, e soprattutto, un problema di qualificazione del personale, che parte dal necessario riconoscimento economico per gli agenti della Polizia penitenziaria - oggi in attesa del rinnovo contrattuale, come tutte le forze di polizia - e continua con la carenza di educatori: su questo fronte le risorse disposte dall’ultima Legge finanziaria sono insufficienti, o addirittura assenti, e ciò ha riflessi sulla vita del singolo detenuto".

Così il senatore Alfredo Mantovano (An), già sottosegretario del ministro degli Interni nel governo Berlusconi. Quando è stato approvato l’indulto ha avuto parole di critica per l’operato del governo Prodi e ancora oggi il suo giudizio non è cambiato: "L’indulto è stata una cambiale ideologica, ma non solo tale, pagata dal governo a settori della maggioranza che lo sostiene, in danno della sicurezza generale.

Durante la discussione del provvedimento molti fra i contrari hanno proposto ordini del giorno, quasi tutti accolti o approvati, tesi a predisporre misure di serio reinserimento per chi avrebbe lasciato il carcere: nonostante gli impegni assunti dal governo, non è successo quasi nulla. Anzi, si è scaricato l’onere sugli enti territoriali, sui quali effettivamente ricade la competenza di provvedere all’assistenza, ma che avrebbero avuto necessità di un incremento di risorse che tenesse conto della quantità dei soggetti da scarcerare in tempi brevissimi".

L’indulto è stato varato per ridurre il problema annoso del sovraffollamento delle carceri. Un problema che, tuttavia, presto potrebbe ripresentarsi tale e quale.

"Entro il 2007, al massimo la metà del 2008 - spiega ancora Mantovano - la popolazione carceraria italiana tornerà ai livelli pre-indulto. È stato così per tutti i provvedimenti di clemenza varati in passato, fino al penultimo condono, nel 1990. Peraltro vanno considerati almeno due elementi: innanzitutto il fatto che il tasso di presenza negli istituti di pena, comparato col totale della popolazione italiana, è il più basso al mondo; in secondo luogo occorre non dimenticare che coloro che, condannati in via definitiva, espiano la pena fuori dal carcere con misure alternative, sono per quantità superiori a coloro che stanno in carcere.

Ciò vuol dire realisticamente prendere atto che l’area di soggetti destinati al carcere, in corrispondenza dei livelli di delittuosità attuali, non ha un’estensione abnorme e che quindi il sovraffollamento può essere affrontato con efficacia solo aumentando la capienza del sistema penitenziario: costruendo nuovi istituti o ampliando quelli esistenti e, con questo, assecondando il progetto avviato dal precedente ministro della Giustizia.

Aggiungo che le misure alternative al carcere ci sono, e forse sono troppe o troppo ampie; certamente si cumulano reciprocamente e portano a sostanziali riduzioni delle sanzioni irrogate al termine dei processi: se infatti si tiene conto dei benefici che derivano dal codice penale (attenuanti di vario tipo, meccanismo della continuazione, anche in fase esecutiva, sospensione della pena), dal codice di procedura penale (riduzioni consistenti quando si ricorre al patteggiamento o al rito abbreviato) e dall’ordinamento penitenziario (semilibertà, liberazione anticipata, detenzione domiciliare, affidamento in prova...), si può constatare che quel che resta da espiare in carcere spesso corrisponde a meno della metà di quel che è stato stabilito nella sentenza. All’assenza di misure serie di recupero e di reinserimento sembra quasi che si voglia far fronte con la larghezza degli istituti alternativi alla detenzione, che minano qualsiasi certezza".

Proprio in merito alle misure alternative al carcere, l’Italia sembra essere oggi indietro rispetto ad altri Paesi europei dove, come accade ad esempio in Inghilterra, non è difficile trovare, accanto alle carceri, delle fabbriche in cui i detenuti possono imparare un lavoro ed eventualmente esercitarlo una volta messi in libertà.

"Nella legge sulla droga approvata in Italia al termine della passata legislatura - la contestatissima "Fini-Giovanardi" - c’è una disposizione che a mio avviso andrebbe maggiormente utilizzata. Si prevede, infatti, che se un condannato per fatti di stupefacenti non può avere la sospensione della pena e non accetta di affrontare un percorso di recupero, può però egualmente evitare il carcere eseguendo, per un tempo pari a quello della pena che dovrebbe espiare, lavori di utilità sociale, ovviamente remunerati.

Questa disposizione permette realmente di considerare il lavoro - al tempo stesso - un antidoto alla reclusione e uno strumento di recupero. Ovviamente non è una misura estensibile ad libitum, ma per i fatti di droga e per quel tipo di criminalità da strada che viene fuori dal rifiuto della fatica connessa a una qualsiasi onesta attività può costituire una esperienza interessante".

Altro problema è il troppo tempo che intercorre nel processo tra la condanna e l’esecuzione. Dice Mantovano: "È velleitario immaginare che i tempi del processo penale si accorcino stabilendo - come è scritto in un recentissimo ddl del governo, proposto dal ministro Mastella - un termine massimo entro il quale si deve esaurire anche il giudizio di Cassazione.

Le lungaggini si evitano se si sfronda il codice di procedura penale di una serie di formalismi (penso al provvedimento di formale chiusura delle indagini) che moltiplicano inutilmente l’attività giudiziaria senza rispondere a esigenze di garanzie per gli indagati, e se si affronta con la serietà che merita il tema della verifica della produttività dei magistrati: un tema destinato a sollevare barricate e ostilità della parte più attiva dei diretti interessati, ma la cui non considerazione lascerà la questione-tempi irrisolta".

L’abuso della misura cautelare che sovente viene utilizzata per estorcere una confessione è un altro problema cronico del sistema italiano. Un abuso che spesso può anche significare una condanna anticipata.

"Gran parte dei detenuti che oggi rientrano negli istituti di pena dopo averli lasciati grazie all’indulto - spiega Mantovano - vi tornano in stato di custodia cautelare. È un paradosso: da un lato un provvedimento così largo, come il recente condono, cancella la pena riguardante processi definiti con fatica, con anni di lavoro alle spalle e con più giudici che si sono pronunciati, dall’altro migliaia di persone rientrano in carcere da indagati, in virtù di un primo vaglio da parte di un solo giudice.

C’è qualcosa che non funziona; sono certo che una pena applicata in tempi accettabili, la cui espiazione non si allontana fino a oltre la metà dall’entità che è stata fissata in sentenza, e che non viene cancellata da assurdi atti di presunta clemenza, ridurrebbe l’area della custodia cautelare e impedirebbe a quest’ultima di svolgere una funzione di surroga e/o di anticipazione della detenzione per condanna definitiva. Senza contare che anche le vittime dei delitti ne trarrebbero beneficio, perché vedrebbero assottigliarsi le proprie file".

Giustizia: Antigone; gli Opg sono inaccettabili, vanno superati

 

Associazione Antigone, 7 maggio 2007

 

L’associazione Antigone ha visitato tutti e sei gli ospedali psichiatrici giudiziari italiani. "Alla data del 3 maggio - ricorda l’associazione - gli internati risultano essere 1.266, di cui 116 stranieri, che costituiscono il 9,16% del totale. Una percentuale molto più bassa rispetto al 35,31% (corrispondente a 15.017 detenuti) di popolazione reclusa straniera. Ad oggi il totale dei detenuti è pari a 42.533 unità, di cui 1.842 donne".

Continua Antigone: "Nei sei ospedali psichiatrici giudiziari il numero di internati è il seguente: Aversa 316 (capienza regolamentare 164), Barcellona Pozzo di Gotto 215 (capienza regolamentare 216), Castiglione dello Stiviere 225 di cui 90 donne (capienza regolamentare 193), Montelupo Fiorentino 137 (capienza regolamentare 100), Napoli Sant’Eframo 105 (capienza regolamentare 150), Reggio nell’Emilia 268 (capienza regolamentare 120). Aversa e Reggio Emilia risultano drammaticamente sovraffollati".

In questo senso, per Antigone "l’indulto non ha inciso granché sugli Opg. I motivi dell’internamento sono in ordine di consistenza numerica: proscioglimento per totale infermità psichica, applicazione di una misura di sicurezza provvisoria, sopravvenuta infermità psichica, minorazione psichica, invio da istituti penitenziari per osservazione psichiatrica temporanea".

Sempre secondo l’associazione, "è elevato il numero di internati negli Opg che non avrebbero più ragione di permanervi in quanto non più ritenuti socialmente pericolosi, e che invece restano per decenni in condizioni disumane. Ad esempio, 45 internati a Reggio Emilia e ben 100 ad Aversa si trovano in questa situazione".

Si registra, poi, un uso frequente della coercizione. "Almeno 515 episodi di coercizione in un anno, secondo i dati ufficiali - evidenzia Antigone -. Un internato su sei, spesso più di una volta, vive l’esperienza della contenzione. I letti di contenzione sono abitualmente usati in tutti e sei gli istituti, secondo protocolli operativi e terapeutici non sempre chiari. Nel 2006 a Napoli si sono registrati 52 casi di coercizione. Ciò significa che un internato su due è stato contenuto. Il protocollo prevede la sola registrazione del caso, con verifica periodica da parte del personale, senza che la direzione specifichi ogni quanto tempo questa ha luogo".

Gli ospedali, poi, sono gestiti principalmente da agenti di polizia penitenziaria, e solo secondariamente da specialisti medici, in numero assai inferiore. "Ad esempio ad Aversa lavorano 116 agenti e 7 psichiatri a contratto. Per gli stranieri la condizione di vita diviene peggiore a causa della mancanza di operatori specifici. A Napoli e Aversa, ad esempio, non opera alcun mediatore culturale.

A Napoli le condizioni igieniche di alcuni reparti sono inaccettabili, sino a toccare livelli in cui la detenzione diviene degradante. Ad Aversa le condizioni igieniche sono relativamente migliori, ma comunque notevolmente al di sotto di un qualsiasi carcere nonché degli standard richiesti dal Regolamento. Barcellona Pozzo di Gotto pare si appresti a ricevere tutte le donne oggi internate a Castiglione delle Stiviere, che rischieranno ora un sempre maggiore isolamento e abbandono da parte dei famigliari".

"La situazione è tale da richiedere un progressivo superamento - conclude Antigone -, attraverso soluzioni di carattere normativo, degli ospedali psichiatrici giudiziari, così come sono stati chiusi trent’anni fa i manicomi. Nel frattempo Opg come quello di Napoli non possono rimanere aperti."

Giustizia: Antigone; in visita all’Opg di Napoli, un vero inferno

 

Ansa, 7 maggio 2007

 

Resti di cibo in terra, odore di urina nelle stanze e lungo i corridoi. Questa è la descrizione dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli fatta dal presidente dell’associazione Antigone del capoluogo campano, Dario Stefano Dell’Aquila, in visita, con gli altri componenti dell’osservatorio nazionale sulla detenzione, agli Opg di Napoli e Aversa, per avviare il quarto rapporto nazionale sulla condizione della detenzione. "Malgrado lo sforzo degli operatori penitenziari e delle direzioni delle strutture - sottolinea Dell’Aquila - la situazione è molto grave, in particolare nella struttura di Sant’Eframo a Napoli".

In Campania ci sono 2 dei 6 Opg del Paese, 320 i detenuti e gli internati ad Aversa, 105 a Napoli. Secondo il presidente dell’associazione Antigone "sarebbe più onesto chiamarli manicomi giudiziari e andrebbero subito chiusi". Altro problema sollevato dai componenti dell’osservatorio sulla detenzione è quello degli internati in regime di proroga della misura di sicurezza (detenuti che hanno scontato la pena, ma vengono tenuti negli Opg perché non ci sono alternative): le Asl di residenza non possono occuparsene e, anche al termine della detenzione, restano negli Opg.

È il caso di C.C., 58 anni, in ospedale da 20. È stato colpito da ictus durante la sua permanenza ad Aversa, non c’è parere negativo all’uscita, ma non esiste un’altra struttura di accoglienza diversa dagli Opg. "L’Asl di appartenenza dovrebbe prendersene cura e non lo fa - spiega Dell’Aquila - mentre l’Asl territoriale non accetta cittadini appartenenti ad altra azienda sanitaria". L’associazione Antigone conta 150 persone nell’Opg di Aversa in regime di proroga della misura di sicurezza e aggiunge che alcuni casi sono incompatibili con la detenzione. La soluzione? Regionalizzare le strutture.

"La chiusura e il superamento delle strutture e l’immediata presa a carico, da parte servizi sociali e socio sanitari, degli internati per i quali è cessata pericolosità sociale - aggiunge il presidente napoletano di Antigone - Bisogna superare il modello manicomiale e creare strutture residenziali per 15 persone, come in Gran Bretagna, in ogni regione.

I pazienti e i detenuti devono rimanere nella regione di appartenenza". L’Opg di Napoli ha solo 4 educatori, addirittura 3 in quello di Aversa. "Gli internati sono in completo abbandono, nonostante la coscienziosa attività di infermieri e operatori sociali. La responsabilità è delle istituzioni e del sistema sanitario che non si fanno carico del problema", conclude Dario Stefano Dell’Aquila.

Giustizia: le misure alternative? con poliziotto alle calcagna

 

Vita, 7 maggio 2007

 

Le statistiche dicono che l’attività degli assistenti sociali assicura tassi di recidiva molto bassi. Ma il Dap replica: "C’è bisogno di più sicurezza". I volontari: "Demagogia".

Agenti a piede libero? Pare proprio di sì. Dopo l’indulto per i detenuti, adesso tocca alla polizia penitenziari. Il lasciapassare che, in via sperimentale riguarderà una piccola fetta delle 42 mila divise in servizio, è contenuto in un decreto del ministero della Giustizia che si colloca nel solco della legge Meduri (54/2005) approvata nella scorsa legislatura dal centrodestra. I combinati degli articoli 1 e 2 della bozza, ancora top secret ma che Vita ha potuto visionare in anteprima, stabilisce infatti che "la verifica del rispetto degli obblighi di presenza (...), che sono imposti alle persone ammesse (...) alla detenzione domiciliare e all’affidamento in prova (...) sono svolti da un nucleo di verifica, composto da personale del Corpo di polizia penitenziaria". I nuclei potranno essere stanziati anche all’interno degli Uepe, gli Uffici esecuzione penale esterna.

Il colpo di spugna. Un colpo di spugna che dopo 32 anni rivoluziona il sistema di esecuzione penale esterna, offrendo agli agenti un potere mai avuto prima al di fuori delle mura degli Istituti. Claudio Messina, a nome degli 8.000 volontari che si riconoscono nel Cnvg - Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia attacca: "Siamo all’esportazione del modello carcere fuori dalle mura.

"Nel calcio si dice: squadra che vince non si cambia, qui invece stanno facendo l’opposto", rincara Mario Nasone, Direttore dell’Uepe di Reggio Calabria. Un recente studio, presentato da Fabrizio Leonardi, direttore dell’osservatorio delle misure alternative, dimostra che solo il 19% dei detenuti ammessi alle misure alternative torna a delinquere contro il 68% di chi è uscito dopo aver scontato la pena in cella. Difficile quindi comprendere l’urgenza di un decreto voluto in prima persona dal capo del Dap Ettore Ferrara, che andrebbe ad affiancare ai 1.200 assistenti sociali attivi nei 64 Uepe italiani, un numero imprecisato di task force composte da agenti penitenziari con il compito di "garantire la sicurezza che tutti i cittadini chiedono". Le ragioni di Ferrara non ammorbidiscono Elisabetta Laganà, presidente del Seac, il Coordinamento di Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario: "Parlare di tolleranza zero è demagogico e ideologico".

Numeri che parlano. I numeri sono dalla sua. Nel 2006 sono state 45.546 le persone sottoposte a misure alternative. Come vuole la norma in vigore, gli assistenti sociali hanno quindi seguito in via esclusiva i 27.558 affidati(mentre per le altre fattispecie, come la semilibertà, intervengono solo in via ausiliare).

Le revoche per andamento negativo degli affidati sono state 936 (3,4%), per nuova posizione giuridica 169 (0,61%), per nuovo reato 34 (0,12%), per irreperibilità 17 (0,06%): in totale fanno 1.166 revoche pari al 4,23% del totale. "Sono risultati che la stessa amministrazione vanta come fiore all’occhiello, salvo poi mettere tutto in discussione sotto la pressione delle lobby degli agenti", ringhia Anna Muschitiello, segretaria generale del Casg - Coordinamento Assistenti Sociali della Giustizia. Ancora la Muschitiello: "Le forze dell’ordine presenti sul territorio effettuano già adesso controlli sistematici su chi è sottoposto alle misure alternative". Non solo "Un’interpretazione troppo rigida delle norme di sicurezza che non tenga nel dovuto conto il percorso trattamentale che sta seguendo ogni singolo condannato produrrà un pericoloso effetto boomerang: mentre gli istituti si svuoteranno, le celle torneranno a riempirsi di detenuti a cui saranno revocati gli affidamenti in prova".

Una tesi che convince un giudice esperto come Magistrato di Sorveglianza di Pescara, Maria Rosaria Parruti: "L’attività di controllo non è mai mera rilevazione e contestazione dell’infrazione, ma costituisce un’occasione per responsabilizzare il condannato".

Contrario: Luigi Manconi, Sottosegretario alla Giustizia. Luigi Manconi prende le distanze dal provvedimento in elaborazione presso il suo ministero: "È una scelta dei vertici dell’Amministrazione, di certo non una mia iniziativa".

Favorevole: Ettore Ferrara, Capo del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria. Si è dichiarato favorevole al Decreto: "La cittadinanza ci chiede maggiore sicurezza sul territorio e gli agenti daranno un contributo importante in più".

Possibilista: Luigi Pagano, Provveditore in Lombardia: "L’uso degli agenti fuori dagli Istituti è un’evoluzione naturale del loro ruolo. Dovranno però occuparsi di sicurezza e non interferire nel trattamento".

Giustizia: Di Pietro; contro la criminalità serve una sanzione certa

 

Apcom, 7 maggio 2007

 

"Contro la criminalità ci vuole più educazione, ci vuole più prevenzione ma ci vuole soprattutto la sanzione certa perché quando i delinquenti sanno che vanno in galera e non escono con l’indulto il giorno dopo, prima di andarci la seconda volta ci pensano perché hanno tanto tempo per pensarci quando stanno dentro". Così ha detto il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, parlando con i giornalisti a margine della firma della convenzione per l’ultimo tratto dell’autostrada Asti-Cuneo, riguardo al problema della sicurezza e ai recenti episodi di delinquenza registrati a Torino.

Giustizia: caso Battisti; i parenti delle vittime contro Mastella

 

Corriere della Sera, 7 maggio 2007

 

L’amarezza dei familiari delle vittime, l’ex Guardasigilli Castelli che dà dell’italiano furbetto al ministro Mastella, una nota del ministero della Giustizia per rispondere agli attacchi. È polemica sulla richiesta di estradizione dal Brasile dell’ex terrorista Cesare Battisti.

Come ha scritto ieri Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera, il ministro della Giustizia Clemente Mastella ha firmato e inviato per via diplomatica al Supremo Tribunale Federale di San Paolo la richiesta di estradizione nei confronti dell’ex leader dei "Proletari armati per il comunismo", arrestato il 18 marzo scorso a Rio de Janeiro e condannato in Italia all’ergastolo per quattro omicidi commessi tra il 1978 e il 1979.

Nel documento inviato alle autorità brasiliane Mastella ha assicurato che, nonostante Battisti sia stato condannato al carcere a vita nel nostro Paese, "il regime dell’ergastolo, secondo l’ordinamento italiano, non implica che coloro i quali sono condannati a tale pena devono restare detenuti in carcere per tutta la durata della loro vita", elencando i benefici previsti dalla legge: "permessi, semilibertà, liberazione condizionata, liberazione anticipata, possibilità di svolgere attività lavorativa fuori dall’istituto di pena".

Questo perché in Brasile non esiste l’ergastolo, dunque potrebbero sorgere ostacoli nella consegna dell’ex terrorista, come prevede il trattato firmato da Italia e Brasile nel 1989 "se vi è fondato motivo di ritenere che la persona richiesta verrà sottoposta a pene o trattamenti che configurano violazioni dei diritti fondamentali".

"Sono amareggiato, non mi aspettavo queste parole dal ministro della Giustizia. Ho letto il giornale e ho provato un senso di sconcerto", dice Adriano Sabbadin, figlio del macellaio Lino Sabbadin ucciso dai Pac di Battisti nella sua macelleria in provincia di Venezia "per solidarietà con la piccola malavita", come rivendicarono i terroristi.

Molto critico nei confronti di Clemente Mastella anche Alberto Torregiani, figlio adottivo di Pierluigi, il gioielliere ucciso a Milano durante un tentativo di rapina, altro delitto rivendicato dai Pac: "Se quella di Mastella è una mossa finalizzata a ottenere l’estradizione di Battisti e quindi applicare la legge senza sconti, allora mi sta bene. Altrimenti, se vogliono lasciarlo libero tra qualche anno, Mastella si dimetta pure". Proteste anche dall’associazione familiari vittime del terrorismo Domus Civitas: "La storia si ripete, se lo estradano Battisti avrà la stessa sorte di Silvia Baraldini, con buona pace della certezza della pena".

La richiesta firmata da Mastella non è piaciuta nemmeno all’ex Guardasigilli, il senatore leghista Roberto Castelli che sulla vicenda non usa mezzi termini: "Mastella ha scelto la via traversa dell’italiano furbetto, una cosa alla Alberto Sordi. Il ministro è comunque sincero, in Italia la certezza della pena non esiste". Per replicare alle critiche, in serata il ministero della Giustizia ha emesso una nota ufficiale nella quale è spiegato che "ciò che è apparso una sottovalutazione dei gravissimi reati commessi da Battisti è in realtà lo strumento per far valere con successo il buon diritto a ottenere la consegna dello stesso".

Giustizia: domani Napolitano e Mastella visitano Rebibbia

 

Apcom, 7 maggio 2007

 

Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si reca domani alla Casa Circondariale di Rebibbia. Alla presenza del ministro della Giustizia, Clemente Mastella e del capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Ettore Ferrara, il Capo dello Stato visita la Casa Circondariale femminile e successivamente quella maschile "Nuovo Complesso".

Catania: mostra nazionale di manufatti dei minori detenuti

 

Adnkronos, 7 maggio 2007

 

Al via da domani fino a domenica 13 maggio presso il chiostro dell’ex liceo classico "Gulli e Pennini" ad Acireale (Catania) verranno esposti i manufatti dei minori detenuti presso la maggior parte degli Istituti Penali per Minorenni d’Italia. I lavori realizzati riguardano oggetti in decoupage, sculture, gazebo, oggetti in legno e ceramica, presepi in terracotta e materiale da riciclo. Le tecniche artistiche sono state apprese dai ragazzi attraverso corsi professionali o con l’aiuto di volontari che ruotano attorno all’area penale.

L’iniziativa è nata grazie alla collaborazione tra l’istituto penale per i minorenni di Acireale e l’assessorato ai Servizi sociali e alle Politiche giovanili. Il programma inizierà con l’inaugurazione della mostra, che avverrà domani e nel periodo della manifestazione ci saranno molte iniziative, a partire da lunedì 7 maggio con le proiezioni di cortometraggi realizzati dai giovani del liceo scientifico statale "Archimede", del liceo classico "Gulli e Pennini", dell’istituto professionale per l’industria e l’artigianato e i ragazzi dell’istituto penale per i minorenni di Acireale. Infine ci saranno seminari e incontri sulle tematiche relative alla giustizia minorile.

Droghe: rischio schizofrenia per troppe "canne" da adolescenti

 

Notiziario Aduc, 7 maggio 2007

 

Su sette adolescenti che consumano cannabis, uno diventa dipendente. Non solo, in soggetti vulnerabili le molte "canne" creano un maggiore rischio di sviluppare malattie psichiatriche come la schizofrenia. Se ne parla in un corso di formazione organizzato dalla Società Italiana di Psichiatria che inizia oggi a Roma e che si terrà in 16 città italiane sino al 19 giugno.

Gli adolescenti che diventano dipendenti da cannabis sono più spesso maschi, e possono facilmente manifestare comportamenti antisociali, aggressivi e violenti. "Un altro rischio sottovalutato per gli adolescenti che diventano dipendenti da cannabis - sottolinea il Presidente SIP, Mariano Bassi, coordinatore scientifico del corso - è quello di passare al consumo di altri tipi di sostanze illecite e dannose, di manifestare sintomi depressivi e psicotici. Questi rischi sono ormai stati confermati dai risultati di numerosissimi studi internazionali su vastissimi gruppi di adolescenti e di giovani, attraverso osservazioni protratte nel tempo".

L’uso di cannabis viene da tempo studiato in rapporto a disturbi e malattie psichiche. "Il quesito principale riguarda il rapporto causa-effetto che potrebbe esistere tra uso di cannabis e la manifestazione di sintomi psicotici, sia in persone non malate che in persone portatrici di una particolare vulnerabilità e quindi a maggiore rischio di ammalarsi di un grave disturbo mentale come la schizofrenia".

Numerosi fattori e variabili condizionano il rischio di utilizzare cannabis e il rischio di sviluppare un disturbo psicotico. Una delle più significative e recenti prove scientifiche della correlazione tra uso di cannabis e insorgenza di manifestazioni psicotiche deriva dai risultati di una ricerca prospettica, durata 15 anni, su una platea di circa 50 mila giovani svedesi. "I risultati della ricerca - spiega ancora il presidente della Società italiana di psichiatria, Mariano Bassi - dimostrano che la relazione tra il rischio di ammalarsi di schizofrenia e l’uso di cannabis è significativa dal punto di vista statistico ed è influenzata dalla quantità di canne fumate dai giovani oggetto della ricerca dall’età di 18 anni".

Uno studio successivo ha riportato i dati di un’osservazione di 27 anni sulla stessa platea di giovani svedesi. Questa seconda ricerca ha messo in evidenza risultati coerenti a quelli del primo studio, conferendo tuttavia "maggiore attendibilità ed autorevolezza" allo studio stesso, realizzato utilizzando strumenti diagnostici più appropriati e procedure statistiche più sofisticate. "I risultati hanno dimostrato una inequivocabile correlazione tra intensità nell’uso di cannabis e rischio di ammalarsi di disturbi psicotici: in poche parole, maggiore è il consumo di canne durante l’adolescenza e maggiore è il rischio di ammalarsi di disturbi mentali gravi e persistenti, come i disturbi psicotici".

Anche una ricerca condotta in Olanda su circa 5 mila giovani per 3 anni ha portato alle stesse conclusioni. I giovani che hanno preso parte a questo studio, si ricava sempre dal materiale della Società italiana di psichiatria, non avevano avuto mai manifestazioni disturbi mentali prima della ricerca. Anche in questo caso il rischio di ammalarsi è stato molto maggiore per coloro che avevano consumato la maggiore quantità di cannabis durante il periodo di osservazione.

In Germania la stessa ricerca è stata effettuata per 4 anni su circa 2.500 adolescenti tra il 1995 e il 1999. I giovani che all’inizio del periodo di osservazione avevano riportato un uso più massiccio di cannabis sono stati quelli che durante il periodo dello studio si sono più frequentemente ammalati di psicosi.

"È opinione comune che l’uso di cannabis si possa identificare, per le persone affette da schizofrenia, con una forma di terapia auto-indotta. L’ipotesi dell’uso di cannabis come auto-terapia tuttavia non viene confermata da buona parte degli studi sugli adolescenti, dato che l’insorgenza precoce di sintomi psicotici non sarebbe un elemento predittivo di un maggiore rischio di divenire un consumatore abituale di cannabis". Questi risultati sono stati confermati da una ricerca condotta a Bordeaux, in Francia, nel 2002. Lo studio francese ha anche confermato, insieme ad altre ricerche, che la presenza nella storia familiare di disturbi dello spettro psicotico (una sorta di vulnerabilità ad ammalarsi di disturbi psicotici trasmessa geneticamente) rende ancora più elevato il rischio di ammalarsi nei giovani consumatori di cannabis. "In piena coerenza con i risultati degli studi precedentemente citati - conclude Bassi - si è dimostrata una correlazione biologica tra cannabinoidi e i neurotrasmettitori dopaminergici, che sono responsabili della genesi dei sintomi e dei disturbi psicotici".

Immigrazione: in 15 anni sono 7.200 i rimpatri volontari assistiti

 

Redattore Sociale, 7 maggio 2007

 

La maggior parte è collegata alle emergenze umanitarie e ai flussi di richiedenti asilo: il 41% dei beneficiari è cittadino albanese. I dati della ricerca "Le migrazioni di ritorno: il caso italiano".

Sono 7.223 le persone che dal 1991 fino ai primi mesi del 2006 hanno beneficiato dei programmi di rimpatrio assistito volontario nei propri paesi di origine; si tratta di richiedenti asilo, stranieri accolti per motivi umanitari, persone sottratte alla schiavitù della tratta e dello sfruttamento sessuale.

A prendere in esame tutte le fattispecie di rimpatrio assistito finora praticate nel Paese è una ricerca, "Le migrazioni di ritorno: il caso italiano", curata da Idos (Punto Nazionale di Contatto dell’Emn - European Migration Network) e realizzata in collaborazione con il Dossier Statistico Immigrazione Caritas - Migrantes e con il supporto del Ministero dell’Interno - Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione. I dati sono stati presentati oggi a Roma.

La maggior parte dei rimpatri (72,7%) sono legati alle emergenze umanitarie prima nei Balcani (inizio anni ‘90) e poi in Kosovo (inizio del 2000). La prima esperienza di gestione e ritorno di flussi migratori di massa ha infatti riguardato proprio l’Albania, che dopo la caduta del regime comunista ha conosciuto due ondate migratorie verso l’Italia: quella del febbraio-marzo e agosto 1991 (1.198 persone) e quella del 1997 (1.261), quando dai porti albanesi sono salpate navi gremite dirette verso la Puglia.

"Le emergenze degli anni ‘90, con le ripetute ondate di migrazioni forzate dall’Albania, dalla ex Jugoslavia e dalle altre aree di instabilità prossime al nostro paese, sono state affrontate ricorrendo all’emanazione di leggi o decreti ministeriali ad hoc, senza affrontare il problema più generale della capienza e della qualità del sistema d’accoglienza in Italia e dell’assenza di una normativa organica in materia di asilo", spiegano gli osservatori.

Nel 2001 è stato istituto il Piano Nazionale Asilo (PNA), divenuto operativamente, dal dicembre 2003, come Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR); il coordinamento è stato affidato dal ministero dell’Interno all’Anci. Dal 2001 al settembre 2006 dunque si sono aggiunti altri 797 casi riguardanti richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione temporanea, pari a circa l’11% del totale.

Bulgaria: viaggio in un sistema carcerario da "Delitto e castigo"

 

Osservatorio sui Balcani, 7 maggio 2007

 

Sovrappopolamento, pene cumulative che hanno portato a condanne decennali per piccoli crimini, un progetto di amnistia arenato, osteggiato dalla società che teme un aumento del tasso di criminalità. Un viaggio della nostra corrispondente all’interno del sistema carcerario bulgaro.

Il 2 marzo scorso, in occasione del recente ingresso della Bulgaria nell’Unione Europea, nel parlamento di Sofia è stata discussa una proposta di legge sull’amnistia. Il progetto prevedeva che chi si fosse macchiato di crimini leggeri, precedentemente alla data di approvazione della legge, fosse dispensato da ogni responsabilità penale, e che i detenuti che avessero già scontato buona parte della pena potessero essere scarcerati. Più in dettaglio, i recidivi avrebbero avuto accesso all’amnistia solo nel caso avessero da scontare ancora meno di tre mesi, i minori se condannati a pene inferiori a due anni, i detenuti alla prima condanna nel caso avessero meno di un anno da scontare, le madri con due o tre bambini con pene detentive fino a tre anni. L’amnistia non è diretta a condannati per omicidio e stupro.

Se dovesse essere approvata una normativa del genere, circa 1500 detenuti tornerebbero in libertà (il 10% circa della popolazione carceraria bulgara), e 80mila processi verrebbero annullati. La proposta, però, non è stata votata, ed è stata anzi criticata dal comitato parlamentare sui diritti civili. L’ultima amnistia in Bulgaria risale al 1990. La recente proposta ha suscitato forti reazioni negative nella società bulgara, preoccupata di un effetto negativo sulla possibile crescita della criminalità.

 

I "jackpot"

 

Svetoslav, 39 anni, originario di Troyan, nella Bulgaria centrale, è detenuto dal 2000. Dal 2003 si trova nella prigione centrale di Sofia, dove deve scontare ancora quattro anni e mezzo per furto, anche se la pena maggiore prevista per questo reato è tre anni. Questo perché Svetoslav ha accumulato 5 condanne diverse per lo stesso reato, per complessivi 13 anni di reclusione. Anche lui è uno dei "jackpot", termine con cui, nel gergo carcerario, si definisce chi sconta lunghe pene in seguito a più condanne.

Secondo la legge di ispirazione statunitense in vigore dal 1997 al 2002, le sentenze vengono cumulate, e devono essere scontate separatamente, una ad una. Svetoslav, che prima si trovava nel penitenziario di Lovech, parla di molti detenuti che hanno accumulato pene astronomiche, come un giovane che, per aver commesso sessanta furti, è stato condannato a più di cento anni di pena, o di un tossicodipendente di 21 anni che, dopo aver "ripulito" più case in una sola notte, è stato condannato a 27 anni. "La società non vede di buon occhio l’amnistia. Non sono ottimista, perché sono realista", mi dice con un ampio gesto. Svetoslav da un anno lavora come barista nel caffè della prigione ed ha accesso al regime di detenzione "transitoria", col diritto di visitare la moglie e il figlio.

"In questo istituto abbiamo otto detenuti "jackpot", dichiara ad Osservatorio Mileti Oresharski, direttore del Penitenziario Centrale di Sofia. "Si tratta soprattutto di ladruncoli con numerose condanne per reati lievi, che, però, sommate, corrispondono a una condanna per omicidio."

Gli edifici degli istituti di pena in Bulgaria sono molto vecchi, e quello di Sofia ha più di cento anni. Qui, non lontano dal centro cittadino, vicino al boulevard Slivnitza, scontano la propria pena 1100 recidivi, tra cui alcuni stranieri, solitamente condannati per traffico di droga. Ismail, un autista di Novi Pazar, in Serbia, è stato fermato cinque anni fa a Sofia, mentre trasportava 80 chili di eroina, e condannato a nove. "Adesso le condanne per questo reato arrivano al massimo a tre-quattro anni. Io ho perso ogni speranza, non ho piani per il futuro. Potrò pensare al futuro solo sapendo che verrò perdonato. Sono stato stupido, un tipo mi ha detto di portare un pacco a Sofia…Non so dove si trova adesso, ma un giorno lo troverò…".

"C’è un fraintendimento alla base dell’interpretazione della legge attuale, causa del meccanismo con cui le pene vengono cumulate. Abbiamo detenuti condannati, per vari furti di piccola entità, a quindici anni di reclusione. Spero che il parlamento possa apportare modifiche positive su questo punto problematico", ha dichiarato ad Osservatorio Dimitar Bongalov, vice-ministro della Giustizia. Un’altra aberrazione giudiziaria riguarda l’articolo 354 A, in vigore dal 2004 al 2006, che prevedeva, per i detentori di droghe di qualsiasi tipo, anche in quantità minime, dieci anni di reclusione. Da ottobre 2006 questa pena è stata ridotta di tre volte.

 

Meno di due metri quadrati

 

In Bulgaria ci sono tredici penitenziari, di cui otto per detenuti recidivi, uno femminile e uno per minori. La popolazione carceraria ammonta a 11.058 persone, ed è aumentata costantemente negli ultimi tre anni. Il risultato è la sovrappopolazione della maggior parte degli istituti, e oggi molti detenuti hanno a disposizione meno di due metri quadrati di spazio. L’amnistia potrebbe alleviare questo problema, almeno temporaneamente.

Secondo il rapporto "Human Rights in Bulgariàs closed institution", dell’International Center for Prison Studies, nel 2006 la crescita dei detenuti è stata pari al 27%, e oggi ci sono circa 148 detenuti ogni 100mila abitanti. In questo indicatore, la Bulgaria ha sopravanzato nettamente i paesi dell’Europa occidentale ( Germania, 97, Spagna, 140, Italia, 97, Francia, 88, Portogallo, 123, Austria, 108). L’aumento dei detenuti, tra l’altro, è in netto contrasto con la diminuzione della piccola criminalità nello stesso periodo esaminato.

Secondo un rapporto annuale del 2006, a cura del Bulgarian Helsinki Commitee, le condizioni materiali complessive negli istituti di pena in Bulgaria sono nettamente peggiori a quelle di altri paesi nella regione, con un affollamento tre volte superiore a quello degli standard internazionali. In molti casi, in piccole celle, vengono sistemati dai venti ai trenta detenuti.

Le celle delle prigioni di Sofia, Vratsa, Pleven, Stara Zagora, Plovdiv, Sliven, Varna e Burgas non hanno servizi sanitari indipendenti. Di conseguenza, bagni in comune e in condizioni di scarsissima igiene vengono utilizzati da trenta-cinquanta persone. "Tutte queste considerazioni, ci fanno affermare che il sistema carcerario in Bulgaria provoca sofferenze e condizioni inumane e degradanti", a dichiarato a Osservatorio Stanimir Petrov, coordinatore del Bulgarian Helsinki Committee.

Il vice-ministro della giustizia Dimitar Bongalov è a conoscenza delle condizioni in cui vivono i detenuti, ma crede che si sia ancora lontani dalla nascita di una nuova filosofia. "Siamo ancora al livello sbarre e chiavistelli. Le nostre prigioni sono state costruire all’inizio del ventesimo secolo, come luoghi di mera punizione". Ogni anno, spiega Bongalov, lo stato spende 4500 leva (2300 euro) per ogni prigioniero. "È una cifra risibile rispetto al resto d’Europa. In Inghilterra, ad esempio, le spese annuali per detenuto arrivano a 25mila sterline".

 

Non è l’amnistia a far paura, ma l’impunità

 

Il progetto di amnistia include anche chi è sotto inchiesta, e il cui caso non è stato ancora portato in aula. Esistono indagini nei confronti di parlamentari che, nel caso la legge venga approvata, avranno amnistiato se stessi, ha commentato il settimanale Tema. "Quello che è terribile non è l’amnistia, ma l’impunità", ha osservato Petrov. "Nessuno fra i mandanti e gli esecutori dei 170 omicidi su commissione commessi negli ultimi dieci anni è in prigione. Lo stato è preda della corruzione, ma non ci sono colletti bianchi, politici o banchieri che stiano pagando per quanto succede".

 

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