Rassegna stampa 7 luglio

 

Giustizia: Manconi; decreto interministeriale su riforma sanitaria

 

Liberazione, 7 luglio 2007

 

Lo scorso martedì Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, era nel penitenziario romano di Regina Coeli. Presenti anche il capo dell’Amministrazione Penitenziaria Ettore Ferrara, l’assessore comunale Dante Pomponi e il Garante comunale dei detenuti Gianfranco Spadaccia, Piero Marrazzo e gli assessori Nieri, Battaglia e Fichera illustravano la legge regionale sul carcere approvata il 23 maggio e salutavano l’avvio dei lavori di ristrutturazione di due bracci dell’istituto oggi in condizioni disastrate, lavori che si effettueranno grazie a uno stanziamento regionale di 450.000 euro. Abbiamo chiesto a Manconi un parere su entrambe le cose.

"La legge di cui Nieri è primo firmatario è sacrosanta. È del 1999 la riforma nazionale della medicina penitenziaria, che ne sposta le competenze dal Ministero della Giustizia a quello della Salute, e solo oggi, dopo anni di inerzia, stiamo lavorando al decreto interministeriale che ne darà applicazione. Ben venga allora che la Regione Lazio, come già fece la Toscana, "si riformi" da sola. Il cittadino detenuto ha diritto a curarsi al pari di quello libero, e il referente deve essere per tutti il Servizio Sanitario Nazionale".

 

Una Regione si adopera dunque per colmare una lacuna dello Stato.

In questo caso è così, ma cresce il numero delle Regioni e degli Enti Locali che cooperano in sinergia con lo Stato nella gestione della pena. Il reinserimento sociale del condannato previsto costituzionalmente sarebbe monco senza gli Enti Locali. Non può realizzarsi certo all’interno del carcere. Dentro può partire il percorso, ma il suo esito è fuori.

 

È la prima volta che una Regione finanzia ristrutturazioni di un edificio penitenziario.

Sì, e si sono dovuti superare vincoli burocratici non indifferenti. È stato un piccolo segno (ma nemmeno troppo piccolo) di quanto il sistema penitenziario si gioverebbe se in generale le norme fossero al servizio del buon senso e non invece quest’ultimo sacrificato alle prime.

 

Due settimane fa la burocrazia ha avuto la meglio sul buon senso e una donna ha partorito nel carcere di Rebibbia. Lei ha parlato di offesa alla dignità…

Il bambino è nato in anticipo e imprevedibilmente, ma resta tutta la gravità del caso; e si tratta propriamente di una circostanza in cui la norma si sarebbe dovuta interpretare con intelligenza. Si poteva scegliere di considerare il parto nella sua valenza psicologica, emotiva e relazionale così da consigliare la scarcerazione, e non come un evento di natura esclusivamente sanitaria, più o meno urgente, subordinabile a esigenze di sicurezza. Anche il Consiglio d’Europa, nelle nuove regole penitenziarie europee, ha tolto esplicitamente le disposizioni sul parto dal contesto clinico.

 

E per quanto riguarda la prevenzione dei suicidi?

In questi primi mesi del 2007 nel Lazio ce ne sono stati già tre. L’indulto, migliorando le condizioni di vita interne e di tutti i servizi, ha diminuito assai il numero dei suicidi. Ma ovviamente uno solo è già troppo. Il Ministero della Giustizia ha elaborato delle linee guida per le carceri nelle quali si danno indicazioni per predisporre adeguate sezioni di accoglienza per detenuti appena giunti dalla libertà. È in questa fase che avviene infatti la gran parte dei suicidi.

Giustizia: Manconi; tre milioni per ristrutturare Opg di S. Eframo

 

Il Mattino, 7 luglio 2007

 

Il sottosegretario al ministero degli Interni Luigi Manconi ha visitato l’ospedale psichiatrico giudiziario di Sant’Eframo: un’occasione per affrontare il tema del disagio dei detenuti caratterizzata da una situazione di "estremo degrado". All’incontro hanno partecipato, fra gli altri, il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Ettore Ferrara e il provveditore regionale Tommaso Contestabile. Annunciato un intervento entro novembre con uno stanziamento di tre milioni di euro "per rendere più decorose le condizioni di vita dei ricoverati". "Al problema del sovraffollamento - si legge in un comunicato di Ministero e Provveditorato - va aggiunta, per quanto concerne Aversa e Napoli, una condizione di inadeguatezza strutturale degli edifici".

Veneto: a un anno dall’indulto le carceri sono già sovraffollate

 

Corriere Veneto, 7 luglio 2007

 

Arriva dal Veneto la prima conferma dell’allarme criminalità al Nord lanciato al Senato dal nuovo capo della polizia, Antonio Manganelli ("è una paura che per noi diventa priorità"): a un anno esatto dall’indulto gli istituti di reclusione della regione sono di nuovo al collasso.

"L’effetto indulto è già finito - annuncia Felice Bocchino, provveditore delle carceri del Triveneto - inizialmente si pensava durasse almeno due anni, invece a dicembre torneremo allo stesso sovraffollamento del 2006. Purtroppo quella scelta è servita solo a far rifiatare l’amministrazione penitenziaria per pochi mesi, durante i quali diverse strutture, come Treviso e Vicenza, sono arrivate addirittura ad avere alcune sezioni vuote. Condizione ora impensabile".

I numeri - Nel luglio 2006, poco prima dell’indulto, nel Veneto c’erano 2.839 detenuti, contro una capienza regolamentare di 1.772. Ottimale, quest’ultimo, migliorato dopo il provvedimento che nella nostra regione ha scarcerato 1.408 reclusi (733 stranieri e 675 italiani): nel settembre 2006 i prigionieri erano scesi a 1.689.

Adesso, luglio 2007, sono già lievitati a 2.047 - su un totale triveneto di 2.840 - e continuano a salire. Anche perché circa il 20% dei beneficiati (295) sono tornati dietro le sbarre. "L’indulto sarebbe stato veramente utile se abbinato all’amnistia, che avrebbe annullato molti processi e quindi snellito l’enorme mole di fascicoli colpevole di rallentare il lavoro dei tribunali - rileva Bocchino -.

Nel contempo si sarebbe dovuto riformare l’ordinamento giudiziario, così da consentire procedimenti più rapidi, e ristrutturare le carceri. E invece non è successo nulla di tutto questo: l’Italia si è limitata a rimettere in libertà 27 mila persone, che a poco a poco stanno tornando in cella".

Quanto alla "paura del Nord" evidenziata da Manganelli, il provveditore conferma: "È tangibile e del resto i veneti fanno bene ad avere timore quando, per esempio, gli stupri sono all’ordine del giorno. Io stesso vedo reati che mi terrorizzano. Indubbiamente abbiamo perso una buona occasione per cercare di cambiare le cose".

La protesta - Stessa conclusione tratta da coloro che dentro le prigioni ci lavorano e che lamentano pure un sotto organico tornato insopportabile: i poliziotti. La sezione penitenziaria della Cgil Veneto ha inviato una lettera al ministro della Giustizia, Clemente Mastella, per denunciare "la grave carenza di personale" e proclamare lo stato di agitazione, che in caso di mancata risposta da parte del governo si concretizzerà in un sit-in davanti al Provveditorato alle carceri di Padova, nell’astensione degli agenti dai pasti e nell’auto consegna.

Nella nostra regione mancano quasi 400 unità di polizia penitenziaria: ce ne sono 1450 invece delle 1822 previste e solo il 12% sono donne. "La situazione è drammatica - dice Gianpietro Pegoraro, coordinatore veneto della Cgil settore penitenziario - la carenza di organico, determinata anche da un’alta quota di distacchi verso altre sedi (174 unità, ndr), rende impossibile un’organizzazione del lavoro rispettosa dei diritti e della dignità dei poliziotti.

Il risultato sono turni di 9 ore, notturni prolungati senza tutele, aggressioni (l’ultima, a Verona, risale a meno di un mese fa, ndr), impossibilità di godere di riposi, ferie e maternità. Per di più le carceri cadono a pezzi: alla Giudecca e nella mensa di Padova ci sono i topi, a Verona e Vicenza infiltrazioni d’acqua, al Due Palazzi della città del Santo i fari del muro di cinta si staccano, a Rovigo i semiliberi sono a contatto con gli altri detenuti a causa di lavori in corso, quasi ovunque manca la climatizzazione e in molte realtà sotto restauro il livello di sicurezza si abbassa".

E così aumentano i casi di stress tra il personale, che tra l’altro invecchia per la mancanza di ricambio generazionale. La fine dell’effetto indulto peggiora le cose. "Il governo doveva approfittarne per rivedere le leggi Bossi-Fini sull’Immigrazione, Cirielli sui recidivi e Fini-Giovanardi sulla droga, che contribuiscono al sovraffollamento - chiude Pegoraro -.

C’era bisogno di una revisione del Codice penale e di sanzioni alternative per le condanne più lievi, utili a evitare recidive. E invece siamo alla situazione di partenza, con la differenza che ora, se non si interviene con urgenza, si rischia la paralisi". "È vero - concorda Bocchino - al Nord hanno sempre mandato pochi uomini. La nostra amministrazione è riuscita a demotivare tutti, anche i detenuti".

Veneto: denuncia della Cgil; "giro di vite" su misure alternative

 

Corriere Veneto, 7 luglio 2007

 

La denuncia della Cgil: "Visti i molti recidivi è scattato un giro di vite sulle pene alternative, ma così le prigioni scoppiano".

Il provvedimento di indulto del luglio 2006 ha rimesso in libertà 1.408 detenuti dalle carceri venete (295 già tornati in cella), ma nello stesso tempo c’è stata una diminuzione dei condannati affidati ai servizi sociali, o destinatari di pene alternative alla detenzione.

I motivi sono tre: l’applicazione della legge Cirielli, che toglie ogni beneficio ai recidivi, purtroppo numerosi; un maggior rigore attuato dal sistema giudiziario, dopo l’allarme sociale scatenato da un provvedimento "buonista" e colpevole di aver concretamente aumentato i reati; la carenza di personale incaricato di gestire i semiliberi e curarne il reinserimento in società. Morale: le carceri venete sono di nuovo piene (2.047 detenuti contro una capienza prevista di 1.772).

I numeri parlano chiaro: l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) di Padova e Rovigo prima dell’indulto - da gennaio a luglio 2006 - ha seguito 1.957 casi affidati ai servizi sociali; dopo l’indulto le pratiche sono scese a 1.340. Gli assistenti sociali che ci lavorano sono 12.

L’Ufficio di Venezia, competente anche per Belluno e Treviso, ha visto precipitare i fascicoli da 946 a 579. Gli operatori sono 22, di cui 11 part-time e 4 distaccati a Padova.

"Un trend pericoloso - avverte Gianpietro Pegoraro, coordinatore veneto della Cgil Settore Penitenziario - causa del sovraffollamento delle carceri ma anche di problemi di sicurezza esterni. Con il ridimensionamento del ricorso a pene alternative viene meno il reinserimento in società dei detenuti, importante argine alle recidive.

Un giro di vite indotto dalla Cirielli ma anche dal pugno di ferro adottato a causa di una minoranza di semiliberi tornati a delinquere. Bisognerebbe però considerare che la maggior parte riga dritto. È inutile invocare più poliziotti sul territorio, se poi non si usano gli strumenti veramente efficaci per scongiurare nuovi crimini".

La Cgil denuncia infatti la carenza di amministrativi, educatori e assistenti sociali, soprattutto quest’ultimi "indispensabili a creare sicurezza". "E invece teniamo tutti dentro - continua Pegoraro - anche chi ha condanne di sei o dodici mesi. Così la tensione nelle prigioni sale e aumentano i suicidi riusciti e tentati".

Dice il procuratore generale di Venezia, Ennio Fortuna: "Il nostro Tribunale di Sorveglianza è molto serio, concede i benefici di legge a chi li merita, ma è indubbio che l’indulto è stato un provvedimento scriteriato. Si doveva evitare, anche perché è stato concesso pure a plurecidivi, creando così una contraddizione insanabile tra leggi. A dicembre 2005 è stata approvata la Cirielli, che elimina i benefici ai recidivi, destinatari però dell’indulto del luglio 2006".

Cosenza: "Informa lavoro", progetto per i detenuti stranieri

 

Quotidiano di Calabria, 7 luglio 2007

 

Un progetto per attivare percorsi di recupero e inserimento nel tessuto sociale di detenuti immigrati è stato presentato, nel corso di un incontro tenutosi a Castrovillari, dall’assessore al Mercato del lavoro della Provincia di Cosenza.

"Sportello informa - lavoro immigrati" è il titolo dell’iniziativa che ha coinvolto, oltre all’assessorato provinciale, le principali autorità degli istituti penitenziari della provincia di Cosenza. Il progetto, avviato da poco nell’istituto di pena di Castrovillari, che consiste in un sostegno psicologico ai circa trenta detenuti migranti extracomunitari presenti.

L’iniziativa, che l’assessore ha auspicato possa essere avviata anche negli altri istituti di pena del comprensorio e per la quale è stata stanziata una cifra di settemila euro, prevede l’inserimento nelle carceri della figura del mediatore culturale, l’avvio di una serie di incontri con i detenuti, sostegno psicologico e seminari per promuovere l’integrazione, il recupero della legalità e l’inserimento linguistico. Il progetto prevede, inoltre, corsi di formazione per l’inclusione nel mercato del lavoro. Lo stadio successivo del progetto, secondo quanto ha riferito l’assessore è la stesura di un piano di lavoro che mira a coinvolgere gli altri istituti di pena del comprensorio, all’interno dei quali si registra la presenza di detenuti migranti.

Napoli: spettacolo musicale "Oltre le Mura dell’Indifferenza"

 

Il Mattino, 7 luglio 2007

 

A soli tre giorni di distanza dal concerto di Sal Da Vinci, ieri nuovo appuntamento musicale per i detenuti di Poggioreale. Organizzata dall’Associazione "La Mansarda" presieduta da Sanuele Ciambriello, si è svolta ieri all’interno della casa circondariale partenopea, la prima tappa della manifestazione "Oltre le Mura dell’Indifferenza". Una giornata di festa per i reclusi, che stavolta hanno applaudito le sonorità del cantautore milanese Daniele Stefanini, diventato star della serata dopo la defezione di Annalisa Minetti. L’artista lombardo che ha al suo attivo una apparizione al Festival di Sanremo, con il brano "Chiaraluna", si è fatto apprezzare per le sue doti canore soprattutto nell’intonazione di pezzi del repertorio classico napoletano. Il presidente dell’associazione "La Mansarda" Sanuele Ciambriello ha dapprima scherzato con i carcerati intonando cori da stadio, poi con i giornalisti ha affrontato i problemi delle carceri italiane.

Sicurezza: Caprio; mia figlia ha fatto solo opera di proselitismo

 

Il Gazzettino, 7 luglio 2007

 

Parla per la prima volta l’ingegnere Roberto Caprio, padre della presunta brigatista Amarilli, rinchiusa in carcere da febbraio.

Nel giorno dell’arresto di altri due presunti brigatisti rossi e a quasi cinque mesi (12 febbraio) dalla cattura dei primi quindici, parla, per la prima volta, il padre di uno dei detenuti. È l’ingegnere Roberto Caprio, papà di Amarilli, 27 anni, appena compiuti, reclusa nel carcere di San Vittore a Milano con l’accusa di garantire le comunicazioni tra i vertici delle due cellule delle presunte Brigate Rosse e di effettuare inchieste su potenziali obiettivi.

E inoltre di diffondere l’organo di propaganda chiamato "L’Aurora". L’ingegnere Caprio, 63 anni, sposato con Maria ed ex ufficiale dell’esercito, vive attualmente in un signorile condominio del quartiere residenziale di Santa Rita. Uomo distinto e affabile, racconta le vicissitudini della figlia con estrema dignità e tranquillità.

"Mia figlia è stata messa in cella di isolamento - esordisce Caprio - perché ha fatto del proselitismo come lo aveva fatto Gesù Cristo. Tuttora, nonostante da una decina di giorni riesca a effettuare il giro d’aria con le altre detenute, le sue condizioni sono disumane. Amarilli non può avere neppure un tavolo dove studiare.

Già, perché nonostante il momento lei continua a leggere i suoi testi universitari. Le vengono negati diversi oggetti personali e in cella non può tenere, come le altre detenute, un fornellino per scaldarsi qualcosa. L’accusa sostiene che Amarilli si sia trasferita a Milano non per proseguire i suoi studi per diventare mediatrice culturale, ma per altri scopi. Non è così".

L’ingegnere Caprio si ferma, prende fiato e accenna un sorriso. Quindi ricomincia. "Quando sono andati ad arrestarla era nel suo appartamento di Milano con il fidanzato Alfredo (Alfredo Mazzamauro, di 22 anni, nato a Camposampiero, anche lui incarcerato, ndr). Gli agenti che sono entrati indossavano tutti il passamontagna e le hanno distrutto il divano di casa. Comunque, non si sono comportati male. Più che altro lo spavento è stato grande.

Io e mia moglie - prosegue Caprio - andiamo a trovare Amarilli quattro giovedì al mese. Riusciamo a stare tutti e tre in una stanza e io le tengo sempre la mano. Per fortuna ho un contatto fisico con mia figlia. Le portiamo da mangiare, magari qualche fetta di torta, e parliamo per un’ora. Cerchiamo di farle coraggio anche se Amarilli è forte. Le manca il suo ragazzo".

Il 23 giugno scorso Roberto Caprio insieme alla moglie Maria ha guardato da lontano la manifestazione di fronte alla stazione ferroviaria organizzata dal Cpo Gramigna in favore dei quattordici presunti brigatisti rossi (niente solidarietà a Valentino Rossin considerato un traditore). "Sono andato a qualche cena al Gramigna - ricorda Caprio - e ho trovato un ambiente composto da famiglie, bambini e giovani.

Niente mi ha dato l’idea di qualcosa di violento. Ho voluto capire chi ha frequentato in questi anni Amarilli. Poi di altre vicende non mi importa, il mio unico pensiero va a mia figlia. Per me e mia moglie sono giornate molto dure. Facciamo fatica a riposare, perché avere la mente fissa su tua figlia rinchiusa in carcere non è uno scherzo. La speranza e la fiducia, però, non ci mancano".

Caprio, polo azzurra, pantaloni chiari e barba perfettamente curata, è stato informato che nella mattinata sono state tradotte in carcere altre due presunti brigatisti rossi padovani: Andrea Tonello di 52 anni e Giampietro Simonetto, di 19. "Queste due persone - termina Caprio - non le ho mai sentite nominare. Non le conosco. Mi fa impressione che ancora una volta sia stato arrestato un ragazzo così giovane. In Italia quando si gioca con le armi la vicenda diventa seria. La mia spada da ufficiale dell’esercito, ad esempio, è regolarmente denunciata".

 

Dove sono finiti

 

L’amministrazione penitenziaria li ha trasferiti di punto in bianco, in strutture che offrono maggiori garanzie di isolamento. Così Claudio Latino, uno dei leader della colonna padovana delle nuove Brigate Rosse - Partito comunista politico militare - è "emigrato" dalla vecchia casa circondariale milanese di San Vittore al carcere di Livorno.

Trasferimento anche per Massimiliano Toschi, braccio operativo-logistico del gruppo, che dalla casa circondariale milanese di Bollate è stato spostato nella casa di reclusione di Casale San Michele, in provincia di Alessandria. Spediti al Sud, invece, altri tre big della colonna brigatista facente riferimento a Seconda Posizione.

Vincenzo Sisi, responsabile della cellula torinese, ha lasciato San Vittore per la casa di reclusione di Palmi, che in passato fu soggiorno di terroristi del nucleo storico brigatista, nonché di affiliati alla criminalità mafiosa. Sfrattato da San Vittore pure Massimiliano Gaeta, l’alter ego di Claudio Latino: per lui è stata riservata una cella nella casa di reclusione napoletana di Poggioreale. Soggiorno sempre partenopeo, infine, per Bruno Ghirardi, trasferito alla casa circondariale di Secondigliano.

Il Centro popolare occupato Gramigna non ha mancato, nel suo sito internet, di aggiornare i nuovi "indirizzi", approfittando per rinfocolare la campagna di solidarietà (economica) a favore degli arrestati nel blitz del 12 febbraio. Rimangono ristretti nel carcere milanese di Opera, fiore all’occhiello del panorama penitenziario italico, l’ex sindacalista Davide Bortolato, Federico Salotto, Andrea Scantamburlo e Alessandro Toschi, fratello minore di Massimiliano.

A Monza, invece, rimangono Aldredo Davanzo, considerato la "mente" della colonna, ideologo ispiratore del foglio clandestino "Aurora", rientrato in Italia dopo una lunga latitanza tra Francia e Svizzera, nonché Davide Rotondi, che gli fornì alloggio in Friuli, e Salvatore Scivoli.

A San Vittore sono infine ristretti Alfredo Mazzamauro e Amarilli Caprio, che la colonna aveva fatto trasferire a Milano con il compito di fare opera di proselitismo tra gli studenti universitari. La Caprio ha avviato uno spiraglio di collaborazione con il pm Boccassini. Lontano da tutto e da tutti nella struttura penitenziaria di Bollate il "pentito" Valentino Rossin.

Droghe: FI; diventi reato fare acquisto da pusher minorenni

 

Notiziario Aduc, 7 luglio 2007

 

Introdurre il reato di acquisto di droga da minorenni. È questo l’obiettivo della proposta di legge che i deputati di FI Enrico Costa e Gaetano Pecorella intendono presentare alla Camera.

"Si raccoglie così l’allarme lanciato dal magistrato torinese Laudi, sulla piaga dei baby pusher, ossia dei piccoli spacciatori divenuti ormai manovalanza a buon mercato a Torino ed in tutta Italia", spiegano i parlamentari in una nota.

"La nostra proposta non mira a far diventare reato l’acquisto di droga tout court. Si prevede piuttosto la possibilità di denunciare penalmente e quindi mandare a processo chi acquista droga da un minorenne. Sempre più spesso, infatti, le organizzazioni criminali che gestiscono lo smercio utilizzano come venditori al dettaglio ragazzini minorenni o addirittura infra-quattordicenni che non sono punibili per la legge italiana".

"Questi bambini, soprattutto minori extracomunitari sono vittime di sfruttamento che arriva anche alla riduzione in schiavitù. I minori infatti vengono messi sulla strada proprio per questi motivi: non sono punibili (o lo sono attraverso la giustizia minorile) e non espongono direttamente l’organizzazione che li sfrutta".

"Le Procure hanno di recente condotto indagini di successo che hanno fruttato pesanti condanne per gli aguzzini. Per arginare il fenomeno, tuttavia, occorre intervenire anche sulla domanda, ossia su chi beneficia del servizio offerto da questi ragazzini, vale a dire gli acquirenti. Comprare o comunque ricevere droga da un minorenne deve essere previsto dalla legge come reato e sanzionato adeguatamente".

"In più - si legge ancora nel comunicato - la nostra proposta prevederà un’aggravante per chi compra da un minore di 14 anni. Ogni ragazzino che vende droga è in grado di incassare anche 1.000 euro al giorno, un business immenso, alimentato dalle migliaia di persone che quotidianamente si riforniscono dai baby spacciatori". Un business che, per Costa e Pecorella, va fermato punendo "non solo coloro che li mandano in strada, ma anche quelli che in strada li cercano per acquistare stupefacenti".

 

 

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