Rassegna stampa 26 luglio

 

Giustizia: l’inferno di Poggioreale raccontato in tre lettere

 

www.radiocarcere.com, 26 luglio 2007

 

Il carcere Poggioreale di Napoli è diviso in sezioni che si chiamano Padiglioni. Ogni Padiglione ha il nome di una città. Queste tre testimonianze di persone detenute raccontano l’inferno in tre Padiglioni di Poggioreale.

 

1° Padiglione, l’Avellino: "Alle 10 di mattina di un anno fa sono entrato nel carcere di Poggioreale. Era la mia prima detenzione. Non pensavo esistesse un posto così. Ho passato 10 ore tra foto segnaletiche, impronte e perquisizioni corporali. Volevo piangere, ma non ci riuscivo. Un umiliazione continua. Mentre aspettavo ho visto un ragazzo di colore essere menato solo perché puzzava. Tremavo. Alle 10 di sera sono entrato nella mia cella del Padiglione Avellino.

Stavo male e ho chiesto un’aspirina. L’agente si gira e mi fa: "Fatte ‘a galera!". Era il benvenuto a Poggioreale. Il padiglione Avellino è il più nuovo. Quello che fanno vedere ai politici. Le celle sono migliori e c’è pure la doccia. Un lusso nell’inferno di Poggioreale. Dentro quella cella stavamo in 6. Bella la cella sì. Ma sempre chiusi stavamo. 22 ore chiusi. E ora che fa caldo è una vera sofferenza. Si dice che quando stai in carcere stai al fresco, ma noi stavamo in un forno! La cella era infuocata, per un po’ di fresco ci buttavamo l’acqua in testa e basta. La notte, ci chiudevano pure la porta di ferro (il blindato) e non si respirava più. Senza corrente d’aria era da impazzire. E non riesci a dormire, ti giri sulla branda che diventa sempre più bagnata dal sudore. C’è chi protesta, chi urla, e lì so botte. La scena è sempre la stessa. Arrivano 4 agenti ti prendono, ti portano nelle celle di sicurezza per menarti. Le botte sono entrate anche nella nostra cella. È successo che il Napoli è andato in serie A e noi abbiamo urlato dalla gioia. Dopo un po’ sono arrivate le guardie. Erano in 4, a volto coperto. Uno alla volta ci hanno preso per portaci giù. A me mi fanno: "Tu tifi Napoli?" e io: "Sì!". Primo ceffone. Poi il secondo, il terzo. Non mi sono più alzato.

Ma non solo. Quando andavamo all’ora d’aria dovevamo camminare con le mani dietro la schiena, rasenti al muro (mai camminare al centro del corridoio) e a testa bassa. Se non facevamo così erano botte. O, se hai fortuna ti urlavano: "Le mani dietro capito! Non la sai l’educazione?". Ma perché quella era educazione! Così ogni giorno.

Ora vivo in uno scantinato con mia moglie. Siamo in tanti a vivere così. Ma questa è una Napoli che non dicono, come le botte nella cella "migliore" di Poggioreale."

 

Enzo, 35 anni

 

2° Padiglione, il Roma: "Ho lasciato da poco un sovraffollamento esagerato, quello dei celloni del Padiglione Roma di Poggioreale. L’indulto in quei celloni è una parola e basta. Stavamo ammassati. 18 detenuti dentro la stessa cella. 18 detenuti e un solo bagno. Il bagno è una tazza e un lavaturo, come lo chiamiamo noi. Che è un lavandino più grande. Il bidè non c’era. Noi ce lo facevamo con delle bacinelle che compravamo noi. Perché il carcere ti da solo ‘u uacillo, ovvero un secchio che secondo loro servirebbe a lavare 18 persone. Noi 18 detenuti stavamo chiusi in cella per 22 o 23 ore al giorno. È una cosa di oggi questa, non è ‘u medioevo. Adesso chi è rimasto lì dentro dorme, come c’ho dormito io, su letti a castello a 4 piani, che l’ultimo sta come in una cassa da morto. E siccome i letti a castello sono alti bloccano pure la finestra della cella, che non si può più aprire. Ora che fa caldo si muore in quella cella di Poggioreale. Io ne ho viste tante in vita mia, ma quello è un inferno. Si vive in condizione disperate e non s’immagina che può succedere lì dentro.

Qualche giorno fa, poco prima che uscissi, un ragazzo per la disperazione s’è spaccato la testa contro un armadietto della cella. Chi sa che fine ha fatto. In un posto così sopravvivi solo per istinto, o per la famiglia. Ma c’è chi non resiste. Capitava che di notte qualcuno di noi urlava. Allora gli altri cercavano di calmarlo perché sapevamo cosa sarebbe successo. Puntuali infatti arrivavano le guardie, se lo prendevano e lo riempivano di botte. Io una volta sono stato messo in isolamento, perché non avevo abbassato il volume della tv. M’hanno lasciato in mutande, dentro una cella senza materasso, per tre giorni. Da solo, con gli scarafaggi a farmi compagnia. "L’uomo esce animale da Poggioreale!"

 

Carlo, 43 anni

 

3° Padiglione, il Napoli: "Tre giorni fa sono uscito da Poggioreale. Stavo nel Padiglione Napoli. In quattro eravamo in cella. Una cella piccola, che era la nostra vita. Lì dentro ci passavamo tutto il nostro tempo. Tranne che per andare al passeggio, non un’ora, ma 40 minuti la mattina e 40 il pomeriggio. A Poggioreale la rieducazione non esiste. Noi passavamo il tempo a giocare a scopa con le carte fatte da noi. Le fabbricavamo con il cartone delle sigarette, sempre della stessa marca, e nella parte bianca ci disegnavamo i segni: il cavallo, il re, l’asso. Quello facevamo. Poi arrivavano le guardie e ce le sequestravano. E noi ricominciavamo.

Un altro passatempo era ‘u dadariello, una specie di dama che si gioca a Poggioreale. Si fa con un pezzo di lenzuolo disegnato e si gioca usando i tappi delle bottiglie come pedine. Anche quello ci sequestravano, e noi ricominciavamo. Le docce stavano fuori dalla cella e la potevamo fare solo due volte a settimana. È poco col caldo che fa ora a Napoli. In più sono docce sporche, piene d’acqua sporca, tanto che noi ci portavamo i giornali per non prenderci malattie. E ti devi anche sbrigare a farti quello schifo di doccia. Un agente appena entri ti fa: "gioventù muoversi!" e sbatte le chiavi sul tavolo. Una doccia schifosa di pochi secondi.

A Poggioreale ogni occasione è buona per umiliarti o peggio ancora per menarti. Anche la conta, il momento in cui fanno l’appello in cella. A Poggioreale prima spengono le tv in tutto il piano e poi urlano "Contaaa!!". Quando entrano in cella ti devi far trovare in piedi, col pigiama, pure con questo caldo, e lo sguardo in basso.

La guardia entra ti fissa come a provocarti, e se tu alzi gli occhi, la frase è sempre la stessa: "Collega rompi a cella e scendili a abbasso!". Portano giù tutta la cella e menano. Ma le violenze non si fermano qui. C’è chi ha subito violenza quella brutta, quella non da uomo, quella di sesso. Noi lo sappiamo che ci sono quest’altre violenze. A bassa voce ci diciamo: "o sai che chello guaglione ha subito ‘a violenza".

Io ho fatto 4 anni di carcere per una bustina di erba, sono recidivo, m’hanno condannato e grazie alla legge Ciriello (leggi "legge Cirielli") il giudice m’ha dovuto dare quattr’anni per un po’ d’erba. A Napoli per certi reati ti dovrebbero dire: "vuoi faticà, o fatte 4 anni di carcere?" Invece siamo cristiani in bocca a ‘o porco!".

 

Mario, 34 anni

Giustizia: il pm a Napoli... nei nostri uffici è emergenza cronica

di Liana Esposito (Pubblico Ministero a Napoli)

 

www.radiocarcere.com, 26 luglio 2007

 

È cronaca di tutti i giorni l’emergenza criminalità a Napoli. Anche gli uffici giudiziari sono in emergenza. Anch’essa cronica. Anch’essa non fa, oramai, più notizia. In rapidissime battute, i fatti.

1. Il numero delle notizie di reato pendenti presso la Procura della Repubblica di Napoli è di molto superiore a quello di qualsiasi altro ufficio giudiziario italiano (e probabilmente europeo). Attenzione, non solo camorra ma anche truffe, bancarotte, malasanità, criminalità predatoria, abusi edilizi, infortuni sul lavoro, reati ambientali, immigrazione clandestina, cellule terroristiche, corruzione, contrabbando, reati contro i minori. A Napoli non manca nulla e le fattispecie di reato sono di assoluto spessore criminale. Si pensi che l’Ufficio Affare Urgenti (competente a trattare gli atti indilazionabili relativi agli arresti in flagranza, ai fermi, ai decessi "sospetti") gestisce una media di 25 arresti e 5 decessi al giorno, escluse le notizie di camorra che sono gestite a parte. Si tratta di procedure complesse e delicate che richiedono competenza, rapidità decisionale, dinamismo e, non ultima, una buona dose di umanità.

Alla eccezionalità della sovrappopolazione criminale partenopea non corrisponde una adeguata pianta organica dal momento che essa è stata elaborata avuto riguardo al mero numero di abitanti "amministrati". Ne deriva un’evidente aggravio per i magistrati napoletani costretti, più degli altri, a gestire una "clientela di qualità" e straripante.

2. La carenza di risorse logistiche e di personale amministrativo (cancellieri, segretari, commessi) è drammatica. Ad essa i magistrati sono chiamati giorno dopo giorno a sopperire con nuove incombenze. Ex plurimis, a mero titolo esemplificativo, sia noto che:

- al verificarsi di una delle periodiche interruzioni del servizio di stenotipia per esaurimento di fondi, la stessa viene contingentata, ossia autorizzata solo per i procedimenti con molti imputati mentre, in tutti gli altri casi, viene rimesso al magistrato ed alle altre parti di fare poche e brevi domande cui devono corrispondere risposte anch’esse concise perché devono essere verbalizzate a mano;

- decine di faldoni vengono dai magistrati trasportati a mano o con valigie private;

- vengono personalmente realizzate decine di fotocopie (i pochi cancellieri sono oberati da tanti e tali adempimenti che non si osa chiedere di più);

- all’aumento delle competenze del giudice penale in composizione monocratica non è corrisposto un correlativo aumento del numero delle aule di udienza e ciò con immediate ricadute sulla lunghezza dei rinvii e, quindi, sulla durata del processo;

- spesso una stampante viene divisa per mesi da 2 magistrati in coordinamento anche con il loro rispettivo personale di polizia giudiziaria;

- è oramai abitudine studiare i propri fascicoli ad ogni periodica attesa (che dura in media 20 minuti) degli ascensori necessari per salire i tanti piani di un ufficio giudiziario concepito in verticale;

- le risorse economiche per le auto di servizio sono finite da anni, e finanche i procuratori aggiunti dividono in 2 o 3 la stessa autovettura (mentre il parcheggio della propria autovettura privata spesso non è garantito);

- il magistrato provvede da sé a pulire la propria scrivania, a munirsi di sapone e carta igienica, lampada da tavolo, toner e pen drive.

3. In questo quadro si inseriscono, poi, le disfunzioni del continuamente rimaneggiato processo penale italiano con le necessarie riforme (del sistema notificatorio, ad esempio) sempre al palo e con l’indulto e la prescrizione (quest’ultima che da mero limite temporale alla potestà punitiva dello Stato si è trasformata in una meta processuale cui ogni imputato tende con ogni espediente ed impedimento possibile, laddove in altri ordinamenti processuali la richiesta di rinvio a giudizio ne interrompe definitivamente il decorso) a far girare sempre più spesso la macchina a vuoto.

4. Sia consentito sottolineare che, a tutto ciò, i magistrati fanno fronte con abnegazione, spirito di servizio, a prezzo spesso di enormi sacrifici personali, e sfruttando le tipiche doti locali di creatività, fantasia e disincanto. I pur lodevoli risultati ottenuti nella lotta alla criminalità sono il frutto della costante mobilizzazione di tutte le risorse ed intelligenze disponibili. Tuttavia, per quanto anche i vertici dei nostri uffici facciano la propria parte, continuamente monitorando le dinamiche procedimentali ed organizzative, assumendo scelte organizzative oculate ed aprendo alla partecipazione degli operatori interessati in un continuo sforzo di coordinamento, i problemi irrisolti sono ancora tanti. Siamo in attesa di risorse e di meditate modifiche del quadro normativo e regolamentare.

Giustizia: fare l'avvocato a Napoli... siamo arrivati al collasso

di Gianpiero Pirolo (Avvocato penalista del Foro di Napoli)

 

www.radiocarcere.com, 26 luglio 2007

 

La giornata tipo di un avvocato penalista militante napoletano è intrinsecamente orientata verso l’ansiogenesi. Il grande spiazzo antistante il Tribunale, ristrutturato in tempo record, resta desolatamente vuoto da luglio 2006. Parcheggiare è dunque un’impresa. La scarsa tolleranza dei vigili e gli immancabili parcheggiatori abusivi fanno il resto.

Entrati nel palazzo, sviluppato in verticale senza un adeguato sistema di ascensori, la fila per salire alle cancellerie è estenuante. L’arrivo del Tribunale civile ha reso la situazione esplosiva. I colleghi civilisti abbandonano disperati gli ascensori delle loro torri (33 piani, circa 3.000 avvocati, otto ascensori!) per raggiungere quelli delle "nostre" torri.

Dall’emergenza al collasso totale. Comincia l’attività. Un "veloce" controllo al registro generale della Procura richiede mezza mattinata. Due soli sportelli per una Procura con circa 75.000 notizie di reato all’anno (solo mod. 21) hanno imposto la posa in opera di un dispenser di numeri: attesa media, un’ora. La lunga fila talvolta riserva sorprese: a fronte di un sequestro, del cui verbale si è in possesso unitamente alla nomina, più volte, invece di conoscere subito numero di procedimento e Pm delegato, ci si sente rispondere che bisogna richiedere la certificazione ex art. 335 c.p.p. (norma relativa alla comunicazione, previa richiesta, della iscrizione della notizia di reato, attività ultronea in considerazione della misura cautelare reale). Morale della favola: venti giorni di attesa, salvo complicazioni, in barba ad ogni scadenza processuale, anche solo per interloquire col Gip prima del provvedimento.

Peggiore sorte solo alle parti offese: ore di attesa per sapere che il procedimento è "fermo". Non è possibile nemmeno sapere di una eventuale delega d’indagine. Si deve parlare col Pm, che, mediamente, riceve una volta a settimana, se non impegnato nei turni. Crudamente, essere parte offesa a Napoli può voler dire solo avere una ulteriore mortificazione da una giustizia lenta e, quindi, inefficace.

Non tocca miglior sorte a chi necessiti della copia di una sentenza per la redazione dei motivi di impugnazione. Si scopre che le cancellerie hanno stabilito giorni fissi per il deposito delle istanze e per il ritiro delle copie. Scegliere il giorno sbagliato, per l’adempimento, può equivalere a rimbalzare su un muro di gomma. Anche indovinando il giorno giusto, tempi lunghi per le copie. Eppure non è complicato pensare a delle schede multifunzione per pagare servizi da effettuare autonomamente senza l’ausilio di operatori.

Difficile, rectius, quasi impossibile ottenere documentazione su supporto informatico; la scannerizzazione dei fascicoli non è né la regola, né, purtroppo, l’eccezione. Provare a sopravvivere non basta. L’uso di scanner portatili, previo pagamento dei diritti, anche con urgenza, è bandito perché il dirigente generale delle cancellerie ha sancito che l’avvocato ha diritto alla copia e non all’accesso diretto agli atti, come intende configurare l’utilizzo del mezzo tecnologico. Il personale di Cancelleria è abbastanza disponibile, finché non si chiede di bypassare, in nome del buon senso, le rigide competenze funzionali, perché magari l’operatore addetto alle fotocopie è malato da dieci giorni.

È ora di andare in udienza. L’accesso alle aule è agevole. Solo per poche udienze è fissato un orario, quasi mai rispettato. Per il resto, precedenza alle prime udienze (perché di solo smistamento) ai detenuti e ad avvocati e testi extra foro. Ultimo criterio, la prenotazione degli avvocati, ottima se gestita con la correttezza di tutti. È evidente che una migliore scansione temporale dell’udienza (per esempio almeno con l’individuazione di 3 fasce di orari) aiuterebbe gli avvocati a non rimanere "impantanati" per ore nelle aule dei giudici monocratici. Il carico del Collegiale è ormai estremamente ridotto e non sorgono particolari problemi. In Corte di Appello il vero problema è rappresentato dall’ora di inizio delle udienze; in molti casi si sfiorano le undici!

A Napoli purtroppo si deve salutare come un trionfo anche il graduale ritorno alla regola processuale del verbale stenopitico o quanto meno della fonoregistrazione dopo mesi di verbali forzatamente in forma riassuntiva, dovuti alla mancanza di fondi. Certo il pensiero corre al rapporto costo/pagina e righe/pagina, visto che talvolta i costi dei verbali si avvicinavano a quelli delle tesi di laurea! I verbali vengono depositati con regolarità, mediamente il giorno successivo all’udienza, anche se poi, al solito, ci si inceppa nella richiesta delle copie. Insomma, Palazzo di Giustizia, Centro Direzionale… talvolta vien davvero la voglia di cambiare direzione!

Giustizia: conoscere tutta la verità è un nostro diritto-dovere

di Sergio Cusani (Fondatore Banca Solidarietà, Consulente Fiom e Cgil)

 

Liberazione, 26 luglio 2007

 

C’è solo l’imbarazzo della scelta nel fare l’elenco dei problemi antichi e attuali che attanagliano il paese e che ricadono sempre e solo sui ceti più deboli: le infrastrutture obsolete - quelle primarie per muoversi e vivere - l’acqua, l’aria irrespirabile delle città, l’evanescente attenzione verso il patrimonio artistico e culturale tra i più grandi e importanti al mondo, l’ambiente naturale deturpato in continuazione e infine - ma non ultimo - il tema centrale del lavoro, di quello dipendente e autonomo ma soprattutto del non-lavoro precario.

I problemi materiali della vita quotidiana dei cittadini, in particolare di quelli più poveri e socialmente emarginati, non interessano alla politica dei palazzi del potere che preferisce creare e alimentare beghe da cortile per occupare spazi di visibilità, deteriore, che il sistema dell’informazione gli concede. Tutto ciò non fa altro che alimentare il disgusto per la politica e quindi l’indifferenza e quindi il qualunquismo. E tutto ciò prima o poi si paga, salato.

Per questi motivi trovo "incredibile" la vicenda del giudice Clementina Forleo fatta oggetto delle peggiori scostumatezze politico-istituzionali quando invece tutti i cittadini, i risparmiatori, i piccoli azionisti e i dipendenti delle imprese coinvolte hanno il diritto/dovere di conoscere tutta la verità sulle vicende relative alle scandalose recenti scalate finanziarie che hanno prodotto soltanto guasti, e figuracce anche a livello internazionale.

Posso testimoniare che negli anni 1992, 1993, 1994 e seguenti, prima da libero e poi da detenuto, ho assistito ad una ininterrotta quotidiana falcidia di singole persone e gruppi di persone sulla base di un semplice avviso di garanzia quasi sempre anticipato dai mezzi di comunicazione: tutti immediatamente messi alla gogna ed emarginati socialmente, molti perdendo subito il posto di lavoro, talvolta la salute e addirittura la vita.

E tutto ciò ben prima di un regolare processo che ne accertasse la colpevolezza e, tranne poche isolate voci dissonanti, nel totale silenzio e nella sospetta acquiescenza di gran parte, se non di tutta, la politica dei palazzi romani da parte di personaggi politici di allora che oggi ricoprono importanti incarichi politici e di governo.

Ora che un giudice come la Forleo con rigore segue un percorso trasparente, garantista e corretto, con l’attuale procura di Milano che è sulla stessa linea di rigore e correttezza, in più con una competenza, autorevolezza e professionalità indiscusse, si assiste da parte della politica dei soliti palazzi a scomposti attacchi, strali anche personali, pesanti denigrazioni e indebite ingerenze nel tentativo di bloccare ciò che tutti i cittadini hanno il diritto/dovere di sapere e cioè come si sono svolti realmente i fatti e su quali appoggi politici autorevoli hanno potuto contare i personaggi coinvolti nel grande scandalo delle recenti scalate finanziarie.

Non ha certamente il giudice Forleo bisogno della mia difesa d’ufficio, ma ciò che mi interessa rimarcare che tali comportamenti non fanno che allontanare sempre di più i cittadini da una partecipazione attiva alla vita politica e ne incrementano l’indifferenza e la distanza, perché è sentire comune che la legge non deve avere riguardi privilegiati di alcun tipo verso alcuni ma deve essere davvero uguale per tutti: ieri, oggi, domani.

Con amarezza devo prendere atto che dalle indagini su tangentopoli ad oggi si sono susseguiti annualmente scandali sempre più grandi (per importi, per il numero enorme di risparmiatori colpiti e per i dipendenti espulsi dal lavoro) praticamente senza soluzione di continuità, nonostante sulla carta siano state introdotte norme che dovrebbero garantire più trasparenza, più tracciabilità e più informazione. Non è solo un problema giudiziario o normativo, è soprattutto un problema fondamentale di cultura politica. E ancora più incredibile, quindi, che la politica dei palazzi si indigni, inveisca, distorca messaggi e vada ben oltre il senso della misura, senza aver preso atto, culturalmente e politicamente, di cosa sia davvero avvenuto e di quale gravità in questi anni nella commistione tra affari e politica. Poco o nulla è cambiato nella realtà, per non voler di fatto cambiare niente.

Polizia Penitenziaria negli Uepe: lettera dell’Ugl - Ministeri

 

Blog di Solidarietà, 26 luglio 2007

 

Al Dr. Riccardo Vita Turrini

Direttore Generale

Ufficio Esecuzione Penale Esterna

Dipartimento Amministrazione Penitenziaria

 

A tutte le Direzioni

degli U.E.P.E.

 

Al Presidente

Ordine Assistenti Sociali

Via I. Nievo n. 61 Sc. D Int. 15

00153 Roma

 

Alla D.ssa Anna Muschitiello

Segretario Nazionale

Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia

 

e, p.c. Al Pres. Ettore Ferrara

Capo del Dipartimento

Amministrazione Penitenziaria

 

Oggetto: inserimento nuclei di valutazione della Polizia Penitenziaria negli Uepe

 

Il dibattito in corso, relativo all’inserimento sperimentale di "nuclei di valutazione" della Polizia Penitenziaria presso gli Uepe, c’induce a fare alcune considerazioni sul lavoro svolto in più di trenta anni dagli assistenti sociali dei Centri di Servizio Sociale per Adulti, ora Uffici di Esecuzione Penale Esterna.

Gli assistenti sociali degli Uepe, sin dalla promulgazione della l. 354/75, hanno sempre garantito il funzionamento del servizio, anche a rischio della propria incolumità personale quasi sempre in solitudine.

Si sono attivati per garantire secondo il proprio mandato professionale ed istituzionale, un processo di aiuto alla persona condannata, attraverso la realizzazione di programmi trattamentali e dare al tempo stesso sicurezza alla società con la prevenzione dalle recidive, così come disposto dal dettame normativo, assumendone in prima persona, soprattutto in relazione all’affidamento in prova al servizio sociale, tutte le responsabilità dell’ aiuto e del controllo.

Si pensi soltanto alle relazioni inviate alla magistratura di sorveglianza, per segnalare le violazioni delle prescrizioni da parte degli affidati in prova al servizio sociale, a quelle inviate al carcere per i semiliberi e per gli ammessi al lavoro all’esterno.

Si pensi poi alla puntualità con cui hanno cercato di soddisfare le scadenze imposte dalla magistratura stessa, per rispettare il diritto del condannato ad avere un’udienza senza rinvii e senza ulteriori costi legali e, se detenuti, senza ulteriori costi per le traduzioni e quindi per lo Stato.

Si pensi che tutte le attività per la concessione, la modifica, l’esecuzione per l’applicazione, delle misure alternative alla detenzione, delle misure di sicurezza detentive e non, hanno comportato viaggi con mezzi pubblici, auto di servizio, ed in mancanza, anche con mezzi propri, in zone disagiate, ben distanti dalla sede di servizio, presso le abitazioni dei condannati, i loro luoghi di lavoro, i loro luoghi di vita e quelli dei loro familiari e datori di lavoro, senza, a garanzia della loro sicurezza, disporre di cellulari di servizio, né essere accompagnati.

A fronte del disagio e delle difficoltà, hanno percepito un’indennità di missione che non sempre riusciva a coprire le spese sostenute, e più recentemente nel 2006 l’indennità é stata loro tolta completamente.

Il Servizio Sociale, considerato come l’altro "occhio lungo" della Magistratura, ha sempre fornito alla Magistratura di Sorveglianza elementi tali da consentire una valutazione articolata del condannato e del suo ambiente, con una chiave di lettura professionale per le decisioni dell’Autorità Giudiziaria.

Gli Assistenti Sociali della Giustizia operanti con i condannati adulti, dal 1975 in poi, hanno sempre rappresentato per l’Amministrazione Penitenziaria, la punta di diamante per la costruzione del lavoro di rete effettuato con gli Enti Locali e le Conferenze dei Sindaci, con le Forze di Polizia operanti sul territorio, da sempre vissute e considerate come "risorsa" con cui interagire, nonché con il Terzo Settore e col Volontariato, in una sinergia a 360 gradi nell’interesse congiunto della collettività e del cittadino condannato.

La dimensione di "aiuto e controllo" in mano al Servizio Sociale ha creato in questi 32 anni di esecuzione penale extradetentiva, una "pacificazione sociale" ed un’interpretazione della condanna che ha contribuito a attuare quei presupposti per variabili alternative alla detenzione, che costituiscono le più evolute risposte dell’esecuzione penale attuale, differenziate a seconda della tipologia del reato e della personalità del reo, quali la detenzione domiciliare, la libertà controllata, la semidetenzione e modalità educative quali la restituzione sociale, il risarcimento del danno, la coscientizzazione del reo riguardo alla vittima, riguardo al fatto e riguardo alla collettività.

Al tempo stesso, gli assistenti sociali della Giustizia, hanno lavorato e lavorano per il reinserimento sociale del condannato, per portarlo ad un rapporto di fiducia con l’Autorità, agendo con tutte le tipologie di persone, sia cittadini italiani che comunitari ed extracomunitari, dagli ammalati di mente, ai tossicodipendenti ed alcooldipendenti, così come autori di reati comuni e di criminalità organizzata. Nessuna tipologia esclusa.

Questo lavoro, prevalentemente agito sul territorio, ma anche in carcere, é un lavoro fortemente usurante, come documentato in letteratura, sia per il coinvolgimento professionale con i drammi delle persone e dei loro congiunti, sia per l’attività in strutture totali ed in ambienti di vita fortemente degradati, sia per i rischi connessi all’esercizio di tale attività, che mai é stato riconosciuto come tale dall’Amministrazione Penitenziaria, neppure a coloro che hanno subito minacce serie dalla malavita organizzata e per cui sono state attivate le consuete forme di protezione da parte della Polizia di Stato e delle Prefetture.

Oggi stiamo avvertendo un processo che di fatto si presenta come espulsivo da parte dell’amministrazione Penitenziaria.

I 1.200 Assistenti Sociali sono stati occultati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per 32 anni, pur avendo avuto una produttività sconosciuta generalmente nella Pubblica Amministrazione, sia in quanto a qualità che a quantità, e perciò percepiti solo in modo distorto dai giornalisti e dall’opinione pubblica, considerati a torto, a seconda dei casi, buonisti, o incompetenti per gestire la materia.

Assistenti Sociali della Giustizia, Polizia di Stato e Carabinieri, si occuperanno come sempre dei condannati in esecuzione penale extradetentiva, ovunque si trovano, su qualsiasi terreno e con tutti i climi, con scarsi mezzi, poco carburante, poche autovetture, e gli assistenti sociali anche senza indennità di missione, senza l’abbuono di un anno ogni cinque per lavoro usurante, senza tutte quelle indennità di presenza e benefit di altra natura che sono previsti nel contratto delle Forze di Polizia.

Gli Assistenti Sociali della Giustizia continueranno a fare inclusione sociale, senza essere visti né dall’opinione pubblica, né dai giornalisti attenti solo quando c’é da criticare senza la necessaria conoscenza, subendo la "nuova ideologia" di chi ha un concetto di esecuzione penale "carceraria" e vuole portare questo modello sul territorio.

In questo clima di disconoscimento professionale, dell’immagine e dei risultati, poiché le parole rassicuranti della Direzione Generale dell’Esecuzione Penale Esterna non hanno significato, a fronte di decreti interministeriali di altro segno, gli assistenti sociali della Giustizia, chiedono:

Formale riconoscimento del lavoro usurante, con i relativi benefici, così come previsto per il personale destinatario della l. 395/90 e di quello della l. 145/05 (ne beneficiano i poliziotti penitenziari ed i dirigenti penitenziari, ma non gli assistenti sociali);

ripristino del trattamento di missione, abolito con la finanziaria del 2006 solo per il personale del comparto Ministeri, ma conservato dal personale di Polizia Penitenziaria;

riconoscimento della loro specificità professionale nella conduzione dell’affidamento in prova al servizio sociale, misura alternativa alla detenzione in cui aiuto e controllo della condotta, attuato in chiave psico-socio-educativa, non possono essere scissi, pena lo snaturamento della misura stessa;

Giusta visibilità all’opinione pubblica del proprio operare, sia in termini qualitativi che quantitativi, sia come espressione professionale (gli Uepe sono gli unici Uffici dell’Amministrazione Penitenziaria che lavorano con standard di produzione, e che hanno realizzato la "Carta dei Servizi". Che lavorano per progetti finanziati da altri Enti, o direttamente dall’Amministrazione Penitenziaria attraverso la Cassa delle Ammende, o da progetti Europei; che lavorano con piani trattamentali individualizzati, con lavoro di rete; che attuano un approccio interdisciplinare coinvolgendo sia nella fase di analisi e progettazione del trattamento del condannato che potenzialmente fruirà della misura alternativa alla detenzione, sia durante l’attuazione di essa, attraverso il coinvolgimento di operatori di altre professionalità quali esperti in psicologia che operano come consulenti presso gli l’Uepe sia con collaborazioni con i professionisti socio-sanitari ed educativi degli Enti Pubblici Territoriali, del Terzo Settore del Volontariato, sia con gli operatori del Carcere;

Assunzione di personale amministrativo per gli Uepe;

Formazione ed aggiornamento amministrativo e di gestione del personale, per i Capi Area degli Uepe estendendo quella formazione ed aggiornamento oggi prevalentemente rivolto alle figure amministrative di fascia "B" ed agli appartenenti alla polizia penitenziaria operanti negli uffici;

Formazione ed aggiornamento professionale per gli assistenti sociali in sinergia con l’Ordine Professionale.

Gli assistenti sociali, tutto personale laureato, che non ha ottenuto il contratto di "professionisti dipendenti" perché é stato considerato troppo numeroso, ma che é così poco numeroso da non avere un potere contrattuale da essere riconosciuto per il lavoro usurante, né per beneficiare di quei contratti di cui godono le altre figure dell’Amministrazione Penitenziaria dai Dirigenti ai Poliziotti, né essere considerati dalla propria Amministrazione, non tollerano più il disconoscimento perpetrato nei loro confronti e la strumentalizzazione che di loro viene fatta, a fronte di un impegno che non é mai venuto meno.

 

Il Segretario Nazionale, Paola Saraceni

Milano: la "capitale dell’indulto" rivista a un anno di distanza

 

Affari Italiani, 26 luglio 2007

 

Un anno dopo, Milano fa i conti con una delle decisioni più discusse e impopolari del governo Prodi: ed è guerra di numeri sui beneficiari e sul conseguente impatto sociale una volta usciti di prigione. Secondo l’Istituto di studi, alla Lombardia spetta il primato nazionale con 3.462 detenuti liberati, pari al 14,1 per cento del totale nazionale, che ammonta a circa 25mila scarcerazioni.

Solo a Milano nei tre istituti penitenziari di S. Vittore, Bollate e Opera, hanno goduto dello sconto di pena un migliaio di soggetti. Ad accendere la miccia è l’assessore alla Sicurezza Riccardo De Corato nonché deputato di An, il quale si appella ad altri numeri, quelli del Viminale sulla criminalità.

"Nel 2006 qualcosa è cambiato, visto che le denunce sono tornate a crescere, da 224 a 272 ogni 100mila abitanti. Ciò si spiega con l’effetto dell’indulto - argomenta De Corato -. Hanno liberato dalle galere un numero esorbitante di persone. Il risultato è che oggi Milano è una delle città più rapinate d’Italia". Secondo il ministero dell’Interno, invece, tra il 2004 e il 2005 le rapine erano in calo. "E così i cittadini pagano la crescita della criminalità predatoria".

Il punto, allora, è stabilire "l’indice di recidiva", cioè la frequenza con cui i beneficiari dell’indulto sono ricaduti in errore vedendosi spalancare di nuovo i cancelli del carcere. Le statistiche per Milano rilevano il 12 per cento di "cavalli di ritorno", appena sopra la media italiana. Da sinistra levate di scudi in difesa di un "provvedimento tanto giusto quanto necessario per razionalizzare il sistema carcerario milanese", mentre è materia per un nuovo atto d’accusa da parte di De Corato: "Basta leggere la cifra al contrario: vuol dire che molti di quell’88 per cento in libertà non sono ancora stati fermati. Al contrario di quanto vorrebbero far credere, questo dato non rappresenta un alto numero di reinseriti".

A frenare le dichiarazioni del vicesindaco ci pensa Alberto Garocchio, consigliere comunale di Fi e presidente della sottocommissione carceri. "L’approvazione dell’indulto è stata dolorosa, ma dettata dall’emergenza per l’affollamento delle strutture. È sbagliato, comunque, confondere i dati sull’indulto con quelli sulla criminalità predatoria. Milano ha saputo gestire bene la fase più critica delle scarcerazioni, offrendo alternative per chi è a rischio".

Luigi Pagano, direttore delle carceri lombarde, spinge per "combattere il pregiudizio verso l’indulto. Grazie alla sinergia tra terzo settore e istituzioni siamo riusciti a rendere meno traumatico il rientro in società dei condannati". Dello stesso avviso la responsabile dei Servizi Sociali Mariolina Moioli, che giusto un anno fa aveva chiesto al governo assistenza adeguata e adesso provvede autonomamente annunciando "la costituzione di un gruppo di lavoro per l’affidamento di servizi di pubblica utilità al Comune da 200mila euro".

Viterbo: inaugurato il primo ufficio per la mediazione penale

 

www.asgmedia.it, 26 luglio 2007

 

Gestire la conflittualità nell’ottica della pacificazione. Questo l’obiettivo dell’ufficio di giustizia riparativa e mediazione sociale presentato stamattina a Palazzo Gentili di Viterbo dall’assessore regionale alla Formazione professionale, Silvia Costa, e dall’assessore provinciale alla Pubblica istruzione, Aldo Fabbrini.

L’obiettivo della giustizia riparativa è di offrire una maggiore accessibilità dei cittadini alla giustizia, avere una nuova attenzione alle vittime e un’apertura costruttiva a spazi responsabili. A tal fine, grazie al progetto pilota avviato dalla Regione Lazio, è stato costituito nella provincia di Viterbo un ufficio ad hoc.

Vi partecipano 11 operatori del territorio, appositamente formati con un corso di 270 ore, finanziato dall’Assessorato regionale alla formazione. Si tratta di un ufficio polifunzionale che, attraverso interventi integrati in rete con i servizi e le istituzioni del territorio, assicurerà attività di accoglienza, ascolto, orientamento delle persone coinvolte in vicende penali, ma anche programmi di mediazione penale e di giustizia riparativa verso le vittime e la comunità, insieme ad attività di mediazione sociale -scolastica al fine di prevenzione dei conflitti.

"Abbiamo dato vita a questo progetto pilota - afferma l’assessore regionale alla Formazione professionale Silvia Costa - che vede Viterbo come provincia che lo avvierà concretamente con la prima attuazione in Italia delle risoluzioni internazionali e comunitarie sulla giustizia riparativa e mediazione penale (del 2000) e sulla tutela delle vittime dei reati (del 2006). Il progetto, in collaborazione con gli assessorati regionali alle Politiche sociali e alle Politiche istituzionali, dopo un percorso di formazione di 11 operatori durato due anni, prevede l’attivazione di tre seminari territoriali e di un’opera di sensibilizzazione delle istituzioni per avviare concretamente questo servizio nella provincia di Viterbo.

Il progetto riconosce il ruolo centrale della comunità e le relazioni tra le istituzioni per sostenere processi di mediazione, riparazione e di messa in relazione degli autori di reati con le vittime, anche attraverso forme di riparazione sociale che davvero ricostruiscono relazioni interrotte e prevengono conflitti sociali".

Anche la comunità quindi sarà coinvolta per sviluppare e incentivare la diffusione dei modelli di prevenzione del crimine e di informazione e reinserimento sociale.

"È un progetto importante - dice l’assessore Aldo Fabbrini - che vede la Provincia parte attiva. Sia perché il nostro territorio è stato scelto per l’avvio dell’iniziativa pilota sia perché è importante rendere, con gli appositi strumenti, la comunità come soggetto promotore di una cultura della pace. Gli 11 operatori che costituiranno l’ufficio sono tutti viterbesi che operano e conoscono il territorio nelle sue peculiarità e che quindi sapranno spendersi in maniera efficace ed efficiente nel ruolo che sono stati chiamati a ricoprire".

Alla presentazione erano presenti anche il presidente del Tribunale di Viterbo Riccardo Micci, i rappresentanti dell’Università della Tuscia e della diocesi di Viterbo, e la dirigente dell’amministrazione penitenziaria nonché presidente del comitato tecnico dell’ufficio di giustizia riparativa e mediazione sociale, Maria Pia Giuffrida.

"È un progetto che nasce dall’esigenza di trovare effettive ed efficaci risposte - dice Maria Pia Giuffrida - per l’inserimento dei condannati attraverso la costruzione o ricostruzione delle relazioni civili. È una risposta alla conflittualità urbana e di vicinato, più congrua e democratica. Il progetto si caratterizza per una forte dimensione territoriale. Il gruppo costituito, infatti, rappresenta il Viterbese e ha svolto 270 ore di formazione composita, atte a gestire le conflittualità nella prospettiva della pacificazione".

Firenze: detenuti indultati, 7 nuovi tirocini per trovare lavoro

 

Vita, 26 luglio 2007

 

Al via altri 7 tirocini formativi nella provincia di Firenze, destinati ai beneficiari dell’indulto. L’iniziativa rientra nell’ambito del progetto "Lavoro nell’inclusione sociale dei detenuti beneficiari dell’indulto", promosso dai ministeri del Lavoro e Previdenza sociale e della Giustizia, con l’assistenza tecnica dell’agenzia governativa Italia Lavoro, per favorire il reinserimento nel mondo dell’occupazione e nella società in generale di ex detenuti che hanno usufruito della legge sull’indulto.

Il progetto prevede, infatti, misure di sostengo al reddito per i beneficiari, ma anche incentivi economici per le aziende coinvolte. E, soprattutto, punta a migliorare le competenze delle persone uscite dal carcere grazie ai tirocini formativi, durante i quali è assicurato l’affiancamento di un tutor.

Un’iniziativa che coinvolge 14 aree metropolitane, tra cui la provincia di Firenze. Con quelli avviati in questi giorni, diventano complessivamente 13 i tirocini già avviati a Firenze.

Ad accogliere i nuovi 7 tirocinanti sono Caritas (due persone), Cospe e le cooperative "Ulisse", "Il Mosaico", "Progetto Ambiente" e "Samarcanda". "L’esperienza di Firenze -commenta Mario Conclave, responsabile nazionale del progetto- conferma due aspetti: la funzione importante dell’esperienza lavorativa al fine del reinserimento sociale dei soggetti con esperienza detentiva; l’importanza dell’apporto attento e qualificato degli attori pubblici e privati del territorio che si muovono in modo coordinato.

Questo diventa determinante per soggetti, quali quelli beneficiari dell’indulto, che non sono stati compiutamente destinatari di politiche adeguate di presa in carico nel percorso di fuoriuscita dello stato detentivo e che sono determinati ad intraprendere percorsi che allontanano il rischio di recidiva".

"È un progetto molto importante perché per la prima volta ci si preoccupa non solo del provvedimento legislativo, ma anche delle conseguenze che può portare. Il governo, infatti, si è posto il problema di cosa succede alle persone beneficiarie dell’indulto". Così l’assessore al Lavoro della provincia di Firenze, Stefania Saccardi, commenta l’avvio sul territorio di nuovi tirocini previsti dal progetto, auspicando che "possa essere applicato anche in modo più ampio".

Per Saccardi, "occorre cercare di inserire gli indultati nella società per evitare che tornino nel circuito criminale". Per questo, "il tirocinio, che è uno strumento importante in generale, lo è ancora di più in questo caso". "Grazie al tirocinio -spiega- si crea un rapporto umano tra il datore di lavoro e il lavoratore, anche attraverso il ruolo del tutor, un contatto altrimenti difficile da stabilire solo inviando un curriculum. Così, l’aziende riesce a percepire questa occasione come un’opportunità e il lavoratore come un momento di qualificazione".

Tra gli ultimi tirocini partiti a Firenze, c’è anche quello attivato presso il Cospe, che riguarda un indultato di 54 anni, con un buon livello di preparazione culturale e un’esperienza di anni maturata nel campo dell’editoria. E che, grazie al progetto "Indulto", si è rivolto a questa Onlus per la cooperazione internazionale e ha potuto così costruire un percorso formativo adeguato alle proprie competenze. Infatti, ha cominciato a occuparsi di interculturalità, girando per i quartieri a partire dalle scuole.

Per conto del Cospe, sta quindi attivando contatti con istituti scolastici e associazioni, per lo sviluppo di temi come il plurilinguismo, l’interculturalità, la diffusione di materiale editoriale. E già pensa al futuro, come conferma la sua tutor per il tirocinio, Angelica Pea: "È molto contento perché questa possibilità corrisponde perfettamente alle sue esigenze. Non è esclusa la possibilità di una collaborazione con il Cospe, ma questa persona pensa piuttosto ad avviare un’attività sua in futuro nel campo proprio dell’interculturalità. È stata, dunque, un’occasione di ripartenza con una nuova attività e forte di un bagaglio di esperienza passata".

Firenze: una partita di calcio tra i detenuti e gli ex campioni

 

La Nazione, 26 luglio 2007

 

Una giornata speciale quella che hanno vissuto gli "ospiti" della Casa di reclusione di Porto Azzurro, stamani a Coverciano. I ragazzi detenuti hanno infatti incontrato a Firenze, sui campi da calcio dove si allena la nazionale italiana, i grandi campioni dello sport. Da Beppe Signori a Marco Del Vecchio, da Carbone all’ex viola Fabio Rossitto. Tanti ex calciatori e tanti altri in cerca di squadra, che oggi hanno dedicato la loro giornata per un triangolare di calcio con le persone detenute nella Casa di Reclusione di Porto Azzurro.

Una gara terminata 12-1 per la squadra degli campioni del calcio, una gara importante al di là del risultato. Sotto il sole cocente di luglio, sui verdissimi campi di Coverciano, si è giocata infatti una partita di amicizia, di solidarietà, di speranza, nata da un’idea del Direttore del carcere e del Dr. Fino Fini, Direttore del museo del Calcio di Coverciano. Brillavano, a fine partita, gli occhi verdi di Marco, uno degli ospiti della casa di reclusione - "È una bella giornata, una giornata diversa dalle altre - ci racconta con la maglietta intrisa di sudore sulle spalle - speriamo che sia la prima di tante altre, un modo per riscattarsi. A volte basta avere una seconda opportunità".

Un’iniziativa, quella di stamani a Firenze che mira ad inserirsi in un programma di manifestazioni sportive che coinvolgano direttamente la comunità locale, con l’obiettivo di farla entrare direttamente a contatto con la realtà del carcere. L’idea futura, infatti, è quella di realizzare un torneo di calcio strutturato ad hoc, dove le squadre elbane possano partecipare ed affrontarsi calcisticamente con le persone recluse di Porto Azzurro.

È lo stesso direttore del Carcere ad illustrarci programmi e future iniziative dell’amministrazione penitenziaria. " la manifestazione di oggi rientra nei nostri programmi di integrazione del carcere con il territorio, per dare all’esterno un’immagine positiva della realtà carceraria. Lo sport ha un ruolo importante, di aggregazione e solidarietà, un ruolo di coinvolgimento anche con la realtà esterna al carcere. Vogliamo organizzare infatti un vero e proprio torneo a tutti gli effetti coinvolgendo le squadre locali, perché il carcere di Porto Azzurro fa realmente parte della realtà elbana".

In campo oggi a Coverciano anche l’ex viola Fabio Rossitto, che ha sottolineato l’importanza di dare un buon esempio di vita ai giovani, anche attraverso il calcio - " Queste sono partite importanti, incontri particolari di amicizia e voglia di stare insieme a persone che oggi sono meno fortunate di noi. Il calcio va cambiato - continua Rossitto - bisogna dare nuovi esempi, soprattutto ai giovani. I veri valori dello sport, non legati al denaro ma alle cose davvero importanti della vita".

Infine il campione Beppe Signori, uomo determinante in campo e nella vita - "Credo che queste partite siano importanti. Noi siamo persone fortunate, che persone che sono riuscite a realizzare i sogni della propria vita. Oggi è importante che noi dimostriamo solidarietà verso le persone meno fortunate di noi. Anche in passato ho avuto modo di entrare in contatto con la realtà del carcere, a Rebibbia. Credo che siano momenti importanti, perché anche se una persona può sbagliare nella vita, non dobbiamo dimenticare che siamo, prima di tutto, esseri umani". Ci sorride Beppe Signori, ringrazia e se ne va, con il sudore che scende sulla fronte ma con il volto soddisfatto. Una gara importante oggi, dove non si vince niente se non una stretta di mano e la certezza di aver regalato attimi di libertà e speranza alle persone detenute. Un calcio ad un pallone e, almeno per qualche istante, la vita torna a sorridere.

Droghe: Cnca; tossicodipendenti, occupazione è un miraggio

 

Vita, 26 luglio 2007

 

Il lavoro per i tossicodipendenti? Nel 2007 è ancora un sogno, nonostante la riforma delle politiche del lavoro e la profonda trasformazione dei centri per l’impiego. È il risultato più eclatante di uno studio del Cnca - Coordinamento nazionale delle comunità d’accoglienza sulle modalità d’inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati.

Alla ricerca di un posto è il titolo dell’indagine (una delle due commissionate dal Cnca) che si pone come obiettivo quello di fare il punto sui servizi offerti dai Centri per l’impiego provinciali, a dieci anni dalla rivoluzione introdotta dalla riforma del decreto legge 469/1997 che, oltre a cambiarne il nome (prima si chiamavano Centri di collocamento) ne ha modificato soprattutto l’impianto e la filosofia. Con il passaggio di competenze dal ministero del Lavoro al governo provinciale (un processo graduale implementato anche dalla riforma del Titolo V della Costituzione, oltre che dalla legge Biagi), qualcosa è cambiato all’interno dei Centri per l’impiego. Ma non per i lavoratori svantaggiati.

 

A macchia di leopardo

 

I numeri parlano chiaro: solo 3 dei 53 centri analizzati offrono servizi specifici per i tossicodipendenti che, sottolinea Valerio Belotti, uno dei curatori della ricerca, "sono il vero buco nero del servizio". Diverso è il discorso per i disabili che, invece, disponendo di una norrmativa specifica (legge 68 del 1999) sull’inserimento lavorativo, hanno nella maggior parte dei casi presi in esame servizi dedicati.

"Ogni Provincia ha la sua politica attiva del lavoro", spiega Belotti, "e questo produce un panorama molto differenziato: ci sono territori nei quali l’ inserimento è incluso in un più ampio Piano provinciale del lavoro e si integra con servizi socio-sanitari efficienti; in altri casi si assiste a un monadismo territoriale che penalizza soprattutto i soggetti più deboli".

Le differenze tra Provincia e Provincia, continua Belotti, nascono soprattutto da un diverso livello di benessere economico e sociale, oltre che da una certa cultura amministrativa di attenzione alle fasce più deboli.

Difficile isolare le politiche rivolte ai lavoratori svantaggiati dal panorama generale del mercato del lavoro, a livello provinciale e non solo. Il lavoro è un’emergenza per tutti", fa notare Teresa Mazzocchi, vicepresidente del Cnca, "e per i soggetti più svantaggiati lo è ancora di più: bisogna rendersi conto che è un passaggio indispensabile nel processo d’inclusione sociale".

Le differenze a livello provinciale vanno di pari passo con l’attuazione del decreto legge 469/1997: dove i Centri per l’impiego hanno raggiunto un grado di efficienza maggiore, si offrono servizi specifici anche a soggetti deboli; al contrario dove, come in Sardegna, la riforma fatica a decollare, i lavoratori svantaggiati sono lasciati a loro stessi.

C’è ad esempio il caso di Roma; dove l’ufficio per il collocamento è situato proprio dietro il carcere di Rebibbia e i suoi utenti principali sono ex detenuti e tossicodipendenti; oppure quello di Lucca dove la Provincia ha attivato una serie di protocolli di intesa e di convenzioni con vari organismi sul territorio (Asl, Casa circondariale, Centro servizi sociali adulti) per realizzare un tavolo di coordinamento tutto dedicato all’arca dello svantaggio (disabili, tossicodipendenti ecc.) che si riunisce mediamente una volta al mese.

Stati Uniti: un condannato a morte scrive all’amica italiana

 

Panorama, 26 luglio 2007

 

"Mi fa tanto piacere sentire che cercherai di scrivere di me sul giornale. Ho cercato di far parlare del mio caso in Italia, ma è difficile. La tua iniziativa potrebbe invece aprirmi qualche porta. A volte cambiare è solo questione di incontrare la persona giusta. E per me sei forse tu quella persona". Comincia così una delle tante lettere di Kenneth Foster, un giovane statunitense recluso per la law of parties, legge che riguarda chi in qualche modo favorisce l’assassino.

La missiva di Kenneth è cerca di mobilitare l’Italia in suo favore: "È una delle poche cose in grado di distrarlo dai pensieri di morte" racconta Maria Teresa a Panorama. E infatti, in una lettera datata 17 aprile 2007 Kenneth scrive che si sente "speciale, perché tu hai scelto di diventare mia amica… l’amicizia è come una perla - rara e preziosa e in una situazione così s’impara realmente ad apprezzarla". E ancora: "Guardiamo alla nostra amicizia come a un giardino: piantiamo e coltiviamo piante e fiori…".

Dalla sua prigione nel Texas Kenneth scrive spesso, a volte a mano anche se preferisce la macchina per scrivere: "È più facile e si capisce molto meglio. Ecco perché ho chiesto alla mia famiglia di mandarmene una nuova" scrive a Maria Teresa "ma ti ringrazio per esserti offerta di spedirmela tu. Il fatto è che non possiamo ricevere dall’esterno oggetti come questo. Bisogna inviare il denaro al fondo della prigione, che poi si occupa di acquistarli".

Pagine di vita quotidiana dal braccio della morte. Un diario quotidiano che si fa più emozionante quando Kenneth ricorda con l’amica italiana le sue vicende personali. "Sono felice che le foto ti siano piaciute": si riferisce a quelle della figlia Nydesha di 11 anni. La loro storia è complicata e per non dilungarsi troppo il giovane invita Terry di visitare i siti che parlano di lui. Di fatto, Nydesha va a trovarlo appena può, quando è in vacanza dalla scuola, insieme con Nicole, la madre che Kenneth non ha sposato: "La piccola viene a farmi visita ogni estate e per questo provo molto rispetto nei confronti di Nicole: ha fatto in modo che la bambina restasse nella mia vita. Molti prigionieri non sono altrettanto fortunati: i figli sono usati spesso come strumenti di vendetta".

Ad alleviare la sua quotidianità c’è anche la musica. "Possiamo ascoltarla solo attraverso la radio" perché ai detenuti non è permesso di tenere nelle celle uno stereo con cd o cassette. Ma la radio è in fondo un ottimo mezzo per mantenere i contatti con il mondo: "Sulle frequenza di Kdol, ogni domenica tra le 13 e le 18 c’è poi una trasmissione sulla pena di morte" scrive Kenneth "dove i familiari dei detenuti possono partecipare telefonicamente o lasciare dei messaggi via mail che poi vengono letti in diretta".

Maria Teresa ha ingaggiato da qualche tempo una battaglia molto personale per salvare il suo amico. E non si è fermata, nemmeno davanti alla data dell’esecuzione: "È innocente, lo so", ripete. E non è la sola a sostenere questa tesi. Per fare pressioni perché al detenuto sia concessa la grazia si sono costituite varie associazioni, il Comitato Paul Rougeau ha aperto un conto corrente postale ad hoc i cui soldi dovrebbero essere utilizzati, secondo quanto dichiarato, per pagare gli avvocati di Kenneth. "Ma ormai siamo agli sgoccioli: il 30 agosto è vicinissimo e bisogna mobilitare molta più gente e mezzi di informazione", è l’ennesimo appello di Terry.

Stati Uniti: in carcere ci sono cinque neri per ogni bianco

 

Ansa, 26 luglio 2007

 

Questione di razza, più che di razzismo. Negli Stati Uniti i neri finiscono in prigione 5 volte più spesso dei bianchi, e gli ispanici con una frequenza doppia dei secondi. A rilevare la disparità, elaborando i dati del casellario giudiziario, è una ricerca condotta dal Sentencing Project. Il primato assoluto spetta all’Iowa: ogni 100.000 abitanti, finiscono in prigione 4.200 persone di colore e 309 bianchi; un rapporto di 13 a 1. Ma l’Iowa non si distacca troppo dalle statistiche degli altri Stati del Midwest e del Nordest: in Vermont la proporzione è di 1,5 a 1, nel New Jersey 12,4... Per trovare un po’ di equilibrio bisogna andare nelle carceri di Hawaii, Georgia e Mississipi. Lì i neri vanno in carcere tra le 2 e le 3 volte più dei bianchi. Dati, commenta il direttore di Sentencing project, che "riflettono il fallimento degli interventi sociali ed economici" oltre al carattere ancora discriminatorio del sistema giudiziario.

 

 

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