Rassegna stampa 23 luglio

 

Giustizia: il carcere non è un "deterrente" per chi c’è già stato

 

Redattore Sociale, 23 luglio 2007

 

Lo sostiene uno studio di tre ricercatori riguardo l’effetto della pena carceraria sulla propensione a delinquere. Diffusi intanto gli ultimi dati a quasi un anno dall’indulto: un detenuto su 5 è tornato in carcere: 5.027 su 26.378.

Fare l’esperienza del carcere per lunghi periodi non implica, paradossalmente, un maggior timore di tornarci. Lo sostiene lo studio che un gruppo di ricercatori italiani - Francesco Drago, Roberto Galbiati e Pietro Verteva - ha presentato all’Iza - Institute for the Study of Labor di Bonn - nei giorni scorsi, i cui risultati sono anticipati dal Sole 24 Ore di oggi.

La ricerca indaga il nesso tra carcerazione e criminalità sulla base di un "esperimento naturale", cioè l’indulto. In particolare, l’articolo 3, che prevede la revoca del beneficio in caso di nuovo reato, punito con una pena non inferiore ai due anni, nei cinque anni successivi alla legge. In pratica c’è una pena aggiuntiva: oltre a quella per il nuovo reato, c’è da scontare la pena "condonata".

La ricerca contesta quindi la cosiddetta teoria della "deterrenza specifica", secondo cui quanto più una persona ha esperito la punizione carceraria, tanto più sarà sensibile a future minacce di pena. Insomma, il tempo passato in carcere riduce la sensibilità rispetto alla pena carceraria attesa - invece di aumentarla - rendendo la minaccia di qualche mese in più o in meno poco incisiva o addirittura ininfluente rispetto alla scelta di commettere o meno un reato per cui è previsto il carcere.

Dunque, secondo i ricercatori, c’è una contraddizione interna: il carcere fa paura, ma chi ci finisce ne rimane assoggettato. In altre parole, non sarebbe vero che chi fa l’esperienza dell’istituto penitenziario sviluppa gli anticorpi che lo aiutano a non volerci tornare. Alla domanda su come interpretare questa tendenza, i ricercatori concludono che "il carcere non mantiene le sue promesse rieducative".

Dalla ricerca viene confermata invece la teoria della "deterrenza generale": la minaccia di una pena carceraria tende a ridurre la propensione a commettere un reato per il quale è prevista la carcerazione. Il fatto che chi è stato in carcere ha meno timore di tornarci sembra confermato dagli ultimi dati sull’indulto a un anno dall’entrata in vigore della legge. Un detenuto su 5 è tornato in carcere dopo averne beneficiato.

È successo a 5.027 degli "indultati" sul totale di 26.378 mila che ha beneficiato della legge dal primo agosto 2006 al 15 giugno 2007. Dei cinquemila ex detenuti rientrati, la maggior parte ha commesso reati contro il patrimonio e legati al traffico di stupefacenti. Nella particolare classifica dei reati al più altro tasso di recidiva, insieme a furti e stupefacenti, ci sono i reati contro la pubblica amministrazione. Sotto la media, ma comunque a rischio recidiva, i reati contro la personalità dello Stato e contro l’incolumità pubblica. Meno frequenti i reati contro il testo unico sull’immigrazione.

Tra i 5.027 detenuti rientrati, poco meno di un terzo sono stranieri. 24 mesi è il tempo medio trascorso all’interno degli istituti penitenziari dai detenuti di sesso maschile che hanno beneficiato dello sconto di pena. La media femminile è invece di 18 mesi. L’età media degli "indultati" è appena inferiore a 37 anni ed è uguale per gli uomini e per le donne. Dei 26.378 ex carcerati, poco meno di 10 mila sono stranieri.

Per quanto riguarda il sovraffollamento, lo studio rivela che si tratta di un problema di carenza di strutture. Infatti, prima dell’indulto, il numero dei detenuti per 100 mila abitanti - 96 nel 2004 - in Italia era in linea con i paesi europei, se non più basso. Oggi, con l’indulto, questo numero è sceso fino a 66 nel 2006. (vedi la ricerca in pdf)

Giustizia: il carcere e le contraddizioni "dell’effetto deterrenza"

di Francesco Drago*, Roberto Galbiati** e Pietro Vertova***

 

Il Sole 24Ore, 23 luglio 2007

 

Qual è l’effetto del carcere sulla propensione a delinquere? Quale il nesso tra carcerazione e criminalità? I dati relativi alle caratteristiche degli ex-detenuti che hanno beneficiato dell’indulto offrono l’opportunità di affrontare queste problematiche in modo rigoroso. I dati indicano in forma anonima le caratteristiche degli individui indultati e, soprattutto, se l’indultato è rientrato nel sistema penitenziario nei mesi successivi al "condono".

Il meccanismo della legge rappresenta un’occasione unica per analizzare l’effetto della pena carceraria sul comportamento criminale in quanto costituisce ciò che gli scienziati sociali chiamano un "esperimento naturale". In particolare l’articolo 3 che stabilisce la revoca del beneficio in caso di commissione di un nuovo reato. La disposizione implica che, per un gran numero di reati, ogni beneficiario ha una pena aggiuntiva attesa uguale al numero di mesi che avrebbe dovuto scontare al rilascio.

Ad esempio, un individuo la cui pena residua è di un anno sa che rientrando in carcere per un reato che implica una pena di 5 anni dovrà scontare in carcere complessivamente 6 anni. Per lo stesso reato, un individuo con pena residua di 2 anni sa che dovrà scontarne 7. Dunque abbiamo potuto osservare se individui con pene attese minori rientrano con minore o maggiore probabilità in carcere.

I risultati ci dicono due cose. Primo: la minaccia di una condanna carceraria più alta tende a ridurre la propensione a commettere un reato per il quale è prevista la carcerazione. Questo risultato corrobora la "teoria della deterrenza generale", tanto credibile intuitivamente quanto difficile da testare scientificamente in virtù di una serie di problemi di identificazione causale ampiamente rilevati in letteratura.

Secondo, il tempo che le persone hanno trascorso in carcere influisce significativamente su come queste rispondono a successive minacce di pena carceraria. In particolare il tempo passato in carcere tende a ridurre la sensibilità rispetto alla pena carceraria attesa, rendendo la minaccia di qualche mese in più o in meno poco incisiva o addirittura ininfluente rispetto alla scelta di commettere o meno un reato per cui è previsto il carcere.

Questo risultato va a falsificare la "teoria della deterrenza specifica" secondo cui quanto più una persona ha esperito la punizione carceraria, tanto più sarà sensibile a future minacce di pena carceraria. L’idea alla base di questa teoria è che una persona che ha esperito il carcere ha sviluppato degli anticorpi che lo aiutano a non volervi ritornare. L’evidenza empirica dà un’indicazione esattamente opposta.

Come si può interpretare allora questo secondo risultato? Ci viene in aiuto la riflessione svolta da Michel Foucault che, nel celebre saggio "Sorvegliare e Punire", compie uno studio rigoroso circa le origini storiche del carcere come meccanismo punitivo "per eccellenza" della "società civilizzata", con particolare riferimento alla Francia del diciannovesimo secolo.

Secondo Foucault anche metodi di punizione relativamente "dolci" (che invece di suppliziare o eliminare i corpi mirano "semplicemente" a rinchiuderli e correggerli), hanno una presa immediata sui detenuti perché li costringono, li addestrano, li disciplinano. Il meccanismo carcerario, con le sue prassi e i suoi dispositivi, è in grado di assoggettare i "corpi e le anime" dei carcerati. Ed è questo processo che alla fine rende i detenuti, una volta rilasciati, poco sensibili alla pena carceraria attesa. Non c’è allora da stupirsi che i nostri risultati empirici falsifichino la teoria della deterrenza specifica.

In conclusione, i nostri risultati mettono in luce una contraddizione che pare insita nel sistema carcerario: la minaccia del carcere disincentiva le persone dal commettere reati; allo stesso tempo chi per un qualche motivo finisce in carcere ne rimane assoggettato. In questo senso, i nostri risultati suggeriscono che il carcere non mantiene le sue promesse rieducative, bensì crea la sua materia prima. (vedi la ricerca in pdf)

 

* Università di Napoli Parthenope

** Istituto Universitario Europeo di Fiesole

*** Università di Bergamo e Università Bocconi

Intercettazioni: il gip Forleo; i politici erano complici, non tifosi

 

Vita, 23 luglio 2007

 

Alle Camere arriva il ciclone intercettazioni. Il giudice Forleo trasmette al Parlamento 68 trascrizioni delle telefonate sulle scalate di Antonveneta, Bnl e Rcs, e accusa i politici: "Sarà proprio il placet del Parlamento a rendere possibile la procedibilità penale nei confronti di suoi membri - inquietanti interlocutori di numerose di dette conversazioni soprattutto intervenute sull’utenza in uso al Consorte (Giovanni Consorte, ndr) - i quali all’evidenza appaiono non passivi ricettori di informazioni pur penalmente rilevanti né personaggi animati da sana tifoseria per opposte forze in campo, ma consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata".

Così si esprime il magistrato milanese nelle conclusioni dell’ordinanza, che riguarda le intercettazioni relative ai tentativi di scalata Bnl, in cui chiede al Parlamento l’autorizzazione all’utilizzazione delle conversazioni nel procedimento penale. Ricevendo una secca replica del segretario Ds Piero Fassino: "Totalmente estraneo ad ogni illecito".

I politici presenti nelle due ordinanze sono in tutto sei. Uno, il senatore Luigi Grillo di Forza Italia, in quella legata alla vicenda Antonveneta. Nell’ordinanza relativa a Bnl e Rcs si chiede il via libera per Massimo D’Alema, Piero Fassino e Nicola Latorre (tutti e tre dei Ds), Salvatore Cicu e Romano Comincioli (entrambi di Forza Italia).

Calabria: nuova interrogazione sull'operato del Provveditore

 

Comunicato Stampa, 23 luglio 2007

 

Atto Camera. 23 luglio 2007. On. Menia al Ministro della Giustizia. Per sapere: se sia a conoscenza di una situazione critica venutasi, progressivamente, a creare nella Regione Calabria, tra il locale provveditore regionale, dirigente generale, dell’amministrazione penitenziaria, dottor Paolino Quattrone, e numerosi dirigenti penitenziari, direttori d’istituto penitenziario e di uffici dell’esecuzione penale esterna; se corrisponda al vero che diversi dirigenti penitenziari abbiano adito l’autorità giudiziaria amministrativa per contrastare i provvedimenti, di regola di trasferimento d’ufficio, ritenuti vessatori ed illegittimi del provveditore, dottor Quattrone, ottenendo giudizi favorevoli; se corrisponda al vero che alcuni dirigenti penitenziari calabresi abbiano adito l’autorità giudiziaria ordinaria avendo ipotizzato nei loro confronti condotte penalmente rilevanti poste in essere da parte del provveditore regionale, dottor Quattrone; se corrisponda al vero che i rapporti interrelazionali tra il dottor Quattrone e diversi dirigenti penitenziari calabresi, alcuni dei quali anche recentemente sono stati verosimilmente oggetto di azioni intimidatorie, siano fortemente deteriorati a discapito dell’azione amministrativa la quale, invece, richiederebbe, proprio in ambito penitenziario, un clima di proficua serenità e leale collaborazione, nonché particolare vicinanza e sostegno da parte del provveditore verso i dirigenti penitenziari, direttori d’istituto in realtà difficilissime, ove sono presenti organizzazioni rappresentative di una feroce criminalità di tipo mafioso; se corrisponda al vero che, in data 21 giugno scorso, presso la Casa circondariale di Crotone, nel corso di una riunione ove erano presenti il Direttore generale del personale, dottor De Pascalis, lo stesso Provveditore della Calabria, dottor Quattrone ed i Direttori penitenziari d’istituto e di Uepe (uffici esecuzione penale esterna) in servizio presso il provveditorato, nonché i Comandanti di Reparto, i funzionari dell’area educativa, quelli delle aree contabili, gli assistenti sociali ed altri ancora, il precitato dottor Quattrone, dopo avere sostanzialmente affermato di non credere da tempo nelle istituzioni e nel sistema politico (singolare affermazione se solo si pensi che la nomina a dirigente generale è di natura politica, ancorché governativa...), nonché aver ricordato come lui incarnasse l’amministrazione penitenziaria in Calabria, talché quanti non si fossero adeguati a tale verità avrebbero potuto fare le valigie e lasciare quella regione, sarebbe andato ben oltre, sostenendo che "alcuni direttori sono fuori dalle istituzioni e devono fare le valigie ed andarsene dalla regione in parola"; ove gli interrogativi esposti risultassero, anche solo parzialmente, veritieri e noti al Ministro interrogato, quali iniziative urgenti lo stesso intenda assumere al fine di consentire ai diversi dirigenti-direttori penitenziari interessati di poter svolgere, in un clima il più possibile sereno e proficuo, la loro difficilissima missione istituzionale in Calabria, nonché quali provvedimenti cautelativi si adotteranno nei confronti di chi, dirigente generale penitenziario, mostri così scarsa ed ingiustificabile attenzione verso le istituzioni politiche, evidenziandone visibile disprezzo; se inoltre il ministro non ritenga utile e necessario convocare egli stesso, o il sottosegretario delegato, un incontro urgente con tutti i dirigenti penitenziari della Calabria, onde accertare direttamente se il malumore e le preoccupazioni espresse da alcuni siano condivise dalla generalità del management penitenziario e se anche con le autorità giudiziarie ordinarie, in particolare con la magistratura di sorveglianza, si siano realizzate situazioni se non di conflittualità con il Provveditore, quantomeno di perplessità, in particolare con l’ufficio di sorveglianza del Tribunale di Cosenza; se il ministro non ritenga utile e doveroso da parte del Governo revocare l’incarico di dirigenza generale a chi non mostri leale collaborazione verso i vertici politici ma, anzi, indirizzi verso i medesimi un malcelato disprezzo.

Bologna: inserimento lavorativo, nasce una banca dati on-line

 

Redattore Sociale, 23 luglio 2007

 

Consultabile sui portali dell’associazione bolognese "Nuovamente" e dell’agenzia di comunicazione sociale sul carcere "Equal Pegaso", l’archivio è stato realizzato grazie al progetto "Strade" con il sostegno della Regione Emilia Romagna.

È nata un’importante banca dati sulle attività di orientamento e formazione al lavoro per detenuti ed ex carcerati svolte a livello nazionale dal 2001 fino ad oggi. Consultabile sui portali dell’associazione bolognese Nuovamente e dell’agenzia di comunicazione sociale sul carcere Equal Pegaso, l’archivio è stato realizzato grazie al progetto "Strade" con il sostegno della Regione Emilia Romagna.

Si tratta dell’unica banca dati on-line che raccoglie tutte le esperienze elaborate negli ultimi sette anni in Italia per favorire il reinserimento lavorativo di detenuti, beneficiari di misure alternative ed ex carcerati. Pasticceri e panificatori, operai agricoli, parrucchieri, attori teatrali e artigiani: sono solo alcuni tra i percorsi professionali che potranno essere appresi grazie all’offerta formativa attivata nelle città italiane (da Terni a Vicenza, da Milano a Roma e in tanti altri centri). Diverse le attività organizzate per dare un’opportunità di lavoro a carcerati ed ex: si passa dal corso di stampa serigrafica su t-shirt ad attività di documentazione, come la realizzazione di cd rom sulla condizione della donna e dell’infanzia nei Paesi in via di sviluppo.

Il progetto della banca dati ha più di una finalità: ben si sposa con la necessità per gli operatori del settore carcerario di confrontarsi scambiando idee, esperienze, opinioni, materiali relativi alla formazione professionale, ma ha anche lo scopo di dare visibilità a chi quotidianamente vive e lavora in carcere e di essere motore di sensibilizzazione e di coinvolgimento dei mezzi di comunicazione. Per ogni progetto di formazione "censito", l’archivio on-line descrive brevemente i contenuti dei corsi e fornisce recapiti e indirizzi dei responsabili e degli enti coinvolti.

La banca strumenti verrà aggiornata e arricchita con una cadenza settimanale, data la grande quantità di materiale raccolto, e anche per consentire una migliore valutazione delle attività svolte dagli operatori. Ad oggi è già possibile consultare i primi venti progetti, integrati dai relativi documenti tecnici e divulgativi, tra cui schede di progetto, dispense didattiche, brochure, report di ricerca, filmati ed altri materiali; ma il completamento dell’archivio è previsto entro dicembre 2007.

Udine: non c’è spazio per i corsi e l'affollamento è al limite

 

Il Gazzettino, 23 luglio 2007

 

Del carcere di Udine conosce tutto perché ci lavora da molti anni. E non si nasconde certo le magagne, dal problema dei corsi professionali a quello dell’affollamento, se è vero che a meno di un anno dall’indulto il numero dei detenuti è tornato pericolosamente vicino al limite massimo di 168.

Ma il direttore Francesco Macrì - che gentilmente risponde a tutte le nostre domande - si gode pure qualche buon risultato: la ristrutturazione che gli ha consegnato celle finalmente a misura d’uomo, il clima interno tranquillo, la rotazione nei lavori "domestici" che consente a un numero significativo di detenuti di raggranellare un po’ di denaro.

 

Direttore Macrì, quante persone sono rinchiuse nel carcere di Udine?

"Prima dell’indulto i detenuti erano 190 e il provvedimento del Parlamento li ha ridotti a 50, nell’agosto del 2006. Ma nel giro di tre mesi siamo tornati a numeri significativi: in gran parte sono detenuti nuovi perché sono rientrate in carcere soltanto poche persone che erano uscite grazie all’indulto. Oggi i carcerati sono circa 140, vicini al limite massimo di 168".

 

Il detenuto-tipo di via Spalato?

"Questa è una casa circondariale, non un istituto di pena. Sostanzialmente è dunque il vecchio carcere giudiziario che ospita prevalentemente imputati in attesa di giudizio. Può entrarvi chiunque, dal ladro di polli al terrorista, e rimanervi fino alla condanna. La gente non lo sa, ma qui in 25 anni sono transitati anche detenuti molto noti. Naturalmente cerchiamo di non mettere assieme il ladro d’auto con il mafioso...".

 

Quali sono i reati di cui sono accusati, in genere, i detenuti di Udine?

"Spaccio e reati connessi alla droga, rapina".

 

Quanti detenuti sono tossicodipendenti?

"Oggi il 25 per cento, ma un tempo erano addirittura la metà della popolazione carceraria".

 

Quanti stranieri e quanti italiani?

"Gli stranieri sono circa il 70 per cento".

 

Il numero delle guardie carcerarie è sufficiente?

"Ce ne sono 127, siamo leggermente sotto organico: servirebbero dieci persone in più".

 

I rapporti tra detenuti: ci sono problemi di convivenza italiani-stranieri, di violenza?

"Da molti mesi la situazione è tranquilla, anche grazie alla ristrutturazione del carcere. Abbiamo celle con i bagni, mentre prima c’erano le docce comuni e all’interno solo il water alla turca: i detenuti avevano poco spazio".

 

Quante persone per ogni cella?

"Le celle sono di diversa tipologia: da 2, 4 o 5 posti. Solo tre celle possono ospitare un massimo di otto persone. Prevalgono comunque quelle da due persone".

 

Il carcere di Udine è sicuro? A livello di evasioni, intendiamo.

"Beh, nel 2001 evasero in cinque, anche se il problema non era imputabile alla struttura. In ogni caso, dopo la ristrutturazione è più difficile tentare la fuga".

 

I detenuti lamentano il problema del lavoro: è vero che tutti, al momento di entrare in carcere, chiedono di poter lavorare, ma solo una modesta parte delle domande viene accolta?

"Qui si può fare solo cucina, pulizia e facchinaggio. E i detenuti li facciamo ruotare in questi servizi. Purtroppo i corsi per gli addetti alla cucina, che abbiamo organizzato in passato per insegnare un mestiere, non possiamo più farli".

 

Perché?

"Manca lo spazio a norma per ospitare le lezioni. Con la ristrutturazione abbiamo ampliato gli spazi per le celle e ora ci sono poche aule disponibili. Che utilizziamo dando priorità ai corsi scolastici, quelli per la licenza media e l’alfabetizzazione. Una volta si facevano diversi corsi professionali, dalla cucina alla legatoria, i detenuti lavoravano anche il cuoio e la ceramica".

 

Un altro motivo di scontento sono i soldi: si guadagnerebbe troppo poco, con il rischio di trovarsi alle strette appena usciti dal carcere...

"Le tariffe che applichiamo sono quelle del Ministero. Come le dicevo, cerchiamo di accontentare più persone, facendole ruotare nei lavori, anche se il guadagno è modesto".

 

Quanto vengono pagati questi lavori?

"Chi lavora in cucina, e fa le sei ore e 40, riceve uno stipendio netto di circa 600 euro. Chi per un mese fa uno dei servizi a rotazione, ad esempio lo scopino, guadagna 220-240 euro".

 

Qualcuno dice che i prezzi dello "spaccio" interno sono troppo alti, addirittura superiori a quelli praticati all’esterno...

"Non possono essere più alti perché li rapportiamo a quelli adottati nei supermercati: mando degli agenti a controllare nei market vicini. C’è infatti l’obbligo di adeguare i prezzi a quelli di libera vendita. Ecco, questo è il listino: tanto per fare un esempio, mezzo chilo di pasta costa 67 centesimi e ci sono diversi tipi di dentifricio, da 1,42 a 1,81 euro. L’impresa di mantenimento, che è una società esterna, vende 150-200 prodotti, ci sono anche le sigarette".

 

Un altro problema segnalato dai carcerati è quello delle telefonate: è vero che un detenuto non può offrirsi di pagare al posto del compagno, magari straniero, che non ha denaro per chiamare a casa?

"Sì, la normativa non ci consente il trasferimento. Tenga conto che i detenuti non hanno denaro contante, ma solo dei libretti di credito. In base alla legge noi possiamo fornire solo oggetti di corrispondenza, tipo francobolli e buste".

Chiavari: nuove proteste del Sappe per situazione del carcere

 

Secolo XIX, 23 luglio 2007

 

L’assetto organizzativo del carcere di Chiavari continua a preoccupare il sindacato della polizia penitenziaria Sappe. Dopo l’interrogazione parlamentare del deputato Sergio Olivieri di Rifondazione comunista e la conseguente risposta del ministro della Giustizia, Clemente Mastella, il Sappe resta critico sulla carenza di organico nella casa circondariale e sui problemi connessi per il personale e per l’istituto.

"La situazione del carcere chiavarese e in particolare del personale di polizia penitenziaria che ci lavora non è affatto così rosea come emerge dalla recente risposta del ministro Mastella - esordisce il segretario generale aggiunto del Sappe, Roberto Martinelli - Come si fa a sostenere che non desta allarme la carenza di poliziotti nel penitenziario di via al Gasometro se nei primi 19 giorni di luglio il personale ha dovuto fare ben 713 ore di lavoro straordinario?" Da qualche tempo, infatti, per sopperire alle carenze di organico di Chiavari (16 unità) vengono inviati agenti della Spezia per consentire lo svolgimento dei turni.

"Chi ha preparato la risposta all’interrogazione parlamentare - prosegue Martinelli - e non credo proprio sia il ministro Guardasigilli, ha presentato una fotografia del carcere di un anno fa, quando venne approvato l’indulto e da Chiavari uscirono ben 42 detenuti". Un numero considerevole, se si pensa che la capienza detentiva regolamentare del penitenziario è di 78 posti e che prima dell’indulto" erano stabilmente presenti 80/90 detenuti.

"Peraltro - aggiunge il segretario - gli ultimi dati nazionali sull’indulto, 26 mila scarcerati di cui circa 5.600 riarrestati, evidenziano come non siano stati affatto programmati dal governo quegli interventi strutturali per il sistema carcerario chiesti anche dal presidente della Repubblica, necessari per non vanificare in pochi mesi gli effetti di questo atto di clemenza. Ad esempio il potenziamento dell’area penale esterna con il ricorso a misure alternative alla detenzione come i lavori socialmente utili. E ancora la revisione della legge sugli extracomunitari che renda più semplice espellerli in modo da non gravare esclusivamente sul personale della polizia penitenziaria".

"Per queste considerazioni - sostiene il sindacalista - dire che tutto va bene a Chiavari è davvero una bugia. Il ministro ha risposto al deputato Olivieri che il dipartimento penitenziario segue con particolare attenzione la situazione della Liguria. Noi, come Sindacato più rappresentativo della polizia penitenziaria, con oltre 12mila iscritti, ce lo auguriamo e gli chiediamo pubblicamente, visto che ad ottobre saranno immessi in ruolo circa 500 nuovi agenti che hanno già svolto il servizio di leva nel corpo, di impegnarsi personalmente a darci un segno tangibile di questo impegno, destinando a Chiavari gli agenti che mancano in organico".

Verona: semilibertà per Pietro Maso?, scontro tra pm e giudici

 

Il Giornale, 23 luglio 2007

 

E alla fine Pietro Maso si è potuto sedere a tavola a pochi passi dalla sua Verona, con gli amici e con alcuni familiari, a festeggiare il suo trentacinquesimo compleanno. Ma perché il protagonista del delitto familiare più sconvolgente degli anni Novanta potesse lasciare per una manciata di giorni il carcere di Opera si è dovuto combattere l’ennesima puntata dello scontro tra pubblici ministeri e giudici: con la Procura di Milano fermamente contraria a qualsiasi tipo di concessione, e il Tribunale di sorveglianza ormai fiducioso nella possibilità di Maso di seguire un percorso di reinserimento.

Uno scontro, quello tra pm e giudici, che si riproporrà, e in modo ben più pesante, tra pochi mesi: quando Marco De Giorgio, l’avvocato di Maso, chiederà, come prevede la legge, che il suo cliente ottenga la semilibertà. Che possa lasciare ogni giorno in carcere, andare a lavorare. E tornare nelle strade di Verona, nella città in cui il suo nome evoca ancora inevitabilmente l’orrore di quel mattino di aprile del 1991, quando i corpi dei due genitori di Maso apparvero ai primi carabinieri in un lago di sangue: solo il rumore dei tuoni aveva coperto le loro urla, mentre il figlio aiutato da un paio di amici li uccideva a colpi di bloccasterzo. Una prospettiva che la Procura ritiene assolutamente impraticabile.

Oggi Pietro Maso è un uomo maturo, che non ha indulgenze verso il suo passato, che rifiuta ostinatamente di spettacolarizzare la sua storia, di entrare nel gorgo dei talk show e degli amarcord, che vive con disagio lo scontro che si è svolto nei giorni scorsi intorno al suo caso. Negli ultimi anni Maso aveva goduto già di nove permessi. All’inizio di questo mese, una nuova domanda: Maso punta a festeggiare a casa il suo compleanno.

Giorno 17 di luglio, diciassettesimo compleanno da quando uccise i suoi genitori. Visto il buon andamento dei permessi precedenti, è convinto di avere l’okay anche della Procura. Invece la pratica arriva sul tavolo del pubblico ministero Nicola Piacente che a sorpresa dà parere contrario: per motivare il suo diniego il pm scrive semplicemente che "ci si riporta alla motivazione a sostegno del rigetto del primo permesso richiesto dal condannato con motivazioni che si ritiene che siano tuttora ostative alla concessione del permesso".

È un parere che risale a cinque anni fa, quando la prima richiesta avanzata da Maso venne respinta per un motivo specifico: gli agenti di custodia avevano scoperto un suo intenso scambio epistolare con Gilberto Cavallini, neofascista dei Nar e rapinatore. Compresa una lettera in cui Maso definiva senza giri di parole il magistrato che si occupava di lui "una testa di cavolo".

Da allora sono passati cinque anni e nove permessi. Ma per la Procura le motivazioni di quel diniego sono tornate di colpo attuali. La legge penitenziaria prevede che, quando manca il consenso della Procura, a decidere sui benefici deve essere il tribunale di sorveglianza. Ed è il tribunale a dare ragione in pieno al difensore del detenuto: "In realtà, dopo quel primo rigetto - scrivono i giudici - Maso Pietro ha fruito di nove permessi con regolarità, pertanto non sono più attuali le argomentazioni poste a fondamento del primo rigetto".

Permesso quindi concesso: quattro giorni più dodici ore, con le raccomandazioni di rito: non accompagnarsi a pregiudicati, restare in casa tra le 22 e le 7, eccetera. Solo due le località frequentabili oltre a Milano: Verona, dove vivono i parenti superstiti, e Sant’Anna di Altaedo, il comune - tra Veneto e Trentino - dove ha sede Telepace, l’emittente di don Guido Todeschini, divenuto da anni il padre spirituale del detenuto di Opera.

Così, Maso ha potuto spegnere le candeline nella sua terra, prima di fare tranquillamente ritorno nel carcere di via Ripamonti: dove si occupa della palestra insieme ad un ex agente dei servizi di sicurezza iracheni, Jabbar al Assadi. Ma il carcere potrebbe essere ormai agli sgoccioli: Maso venne condannato a trent’anni, ne ha già scontati sedici, ha diritto ad uno sconto di quattro anni per la buona condotta, altri tre sono cancellati dall’indulto. Insomma, ha abbondantemente superato i due terzi della pena, la soglia per la semilibertà, e quest’autunno potrebbe uscire. A meno che il ricordo di quel salotto affrescato col sangue non sia ancora troppo ingombrante.

Catania: omicidio Raciti; scarcerato il giovane indagato

 

Ansa, 23 luglio 2007

 

Il Tribunale per i minorenni di Catania ha disposto la scarcerazione del diciottenne Antonio Speziale, l’ultrà indagato per l’omicidio dell’ispettore di polizia Filippo Raciti, durante le violenze dei tifosi il 2 febbraio scorso a Catania. Speziale non tornerà comunque a casa: i giudici hanno deciso di affidarlo a una comunità. I giudici del tribunale hanno motivato la scarcerazione con l’attenuazione delle esigenze cautelari. Non si è invece tenuto conto delle precarie condizioni psicofisiche dell’indagato, lamentate dai suoi difensori, in quanto la perizia disposta dai giudici avrebbe accertato che lo stato di salute di Antonino Filippo Speziale è compatibile con la detenzione.

Secondo quanto si è appreso in ambienti giudiziari la Procura della Repubblica per i minorenni non presenterà ricorso contro il provvedimento ritenendolo una "buona soluzione". Speziale era detenuto dal 6 febbraio scorso. Oltre che indagato per l’omicidio Raciti, è imputato anche di resistenza e violenza a pubblico ufficiale nel processo apertosi il 5 luglio scorso, giorno in cui il giovane ha compiuto 18 anni.

Minori: nel 2006 calato del 12% ricorso alla "messa in prova"

 

Redattore Sociale, 23 luglio 2007

 

La maggior parte è stata emessa a Genova e Firenze, sopratutto per i reati contro il patrimonio (992), in particolare furto e rapina: 7 ragazzi su 10 erano a piede libero. Risultati positivi: condanna solo per l’8% alla fine del programma.

Valutare la personalità del minore, analizzare la capacità di comprendere gli errori e modificare comportamenti: è l’obiettivo della "messa in prova", strumento giuridico che offre ai minorenni che delinquono la possibilità di una sospensione del processo, prima che sia emessa la condanna, e l’affidamento ai servizi minorili per seguire un programma di recupero. Uno strumento che ha dato ad oggi buoni risultati secondo gli ultimi dati diffusi dal Dipartimento per la giustizia minorile, che ha ne monitorato l’applicazione dal 1992 al 2006. In media circa l’80% dei casi si è concluso con l’estinzione del reato e solo nell’8,1% è stato pronunciato un provvedimento di condanna.

Tuttavia il ricorso a questo misura ha subito una diminuzione del 12,1% nell’ultimo anno, a fronte di un aumento progressivo e costante tra il 1992 (788) e il 2005 (2127), anno in cui si è toccato l’apice. Nel 2006 sono complessivamente 1.869 i provvedimenti di messa in prova, 1.743 i minori interessati (un minore può essere sottoposto a più provvedimenti).

Il Dipartimento ha anche elaborato un indice più preciso, il tasso di applicazione, mettendo in rapporto il numero dei provvedimenti concessi rispetto al numero di minori denunciati e per i quali è stata avviata un’azione penale. Anche questo indice conferma l’incremento costante dell’applicazione della "messa in prova", che passa dal 2,9% nel 1992 al 10,6% del 2004, anno in cui si fermano le rilevazioni dell’Istat sui minori denunciati. Il dato rischia dunque di essere poco significativo nella lettura complessiva del fenomeno.

Nella maggior parte dei casi (quasi l’87% nel 2006) è il giudice preliminare che emette il provvedimento di "messa in prova", solo nello 0,5%, nell’anno considerato, è stato concesso in sede di appello; il maggior numero di provvedimenti si segnalano a Genova (180) e Firenze (147), seguono in ordine Napoli, Lecce, Milano, Taranto, Bari e Cagliari. Secondo la legge il processo può essere sospeso da un minimo di 3 anni a un massimo di 12 per i reati più gravi per cui è prevista la reclusione fino ai 12 anni, per un minimo di 1 per tutti gli altri; la sospensione del processo può essere applicata anche in caso di una misura cautelare già in atto.

L’analisi storica, tuttavia, mostra che la "messa in prova" è utilizzata sopratutto per i reati contro il patrimonio: sono 992 i provvedimenti di questo tipo nel 2006, relativi sopratutto a furti (486) e rapine (240), seguono le violazioni della legge sulle droghe (378). Per i reati più gravi i numeri si riducono: di quelli contro la persona (391 in tutto nel 2006) più frequentemente l’istituto è accolto per le lesioni personali volontarie (185) e in 20 casi è stato utilizzato per l’omicidio volontario.

Il numero maggiore di minori che hanno usufruito della misura era a piede libero (74% nel 2006, il 73% l’anno precedente), mentre tra i minori in misura cautelare prevalgono quelli collocati in comunità (l’8%) e in permanenza in casa (6%). Per quanto riguarda invece la durata della prova, in media nei 14 anni considerati è di 9,2 mesi; rispetto al 2006 per 493 ragazzi ha avuto una durata di un anno, 988 se si considera la fascia 7-12 mesi, mentre solo 9 sono stati in prova per più di 2 anni. La durata in prova più lunga riguarda evidentemente il reato di omicidio, ma anche nei reati di violenza sessuale, rapina, estorsione e violenza contro le disposizione sulle tossicodipendenze i tempi sono sopra la media.

Minori: "messa in prova", nel 2006 straneri il 16% dei ragazzi

 

Redattore Sociale, 23 luglio 2007

 

Diminuiscono dell’11% i minori che provengono da Serbia, Montenegro e Albania, aumentano del 10% i romeni. È il volontariato la prima attività "prescritta" a chi delinque.

Nel 2006 il 16% dei minori messi in prova era straniero (su un totale di 1.743 minori), l’1% in meno rispetto all’anno precedente. Si tratta sopratutto di marocchini (82%), romeni (43%), albanesi (23%): sono diminuiti dell’11% i minori che provengono da Serbia, Montenegro e Albania, mentre aumentano del 10% quelli provenienti dalla Romania.

Sono 1.456 i minori italiani interessati al provvedimento. Secondo il Dipartimento per la giustizia minorile, che ha monitorato l’applicazione dell’istituto dal 1992 al 2006, il 45,4% ha tra i 16 e i 17 anni (792), il 45,6% 18 anni e oltre (794), erano cioè maggiorenni al momento dell’applicazione del provvedimento ma hanno commesso il reato da minorenni. Rispetto al 2005 diminuisce l’incidenza dei minori compresi nella fascia 16-17 anni (il 3,4% in meno) e è inferiore al 10% quella dei minori di 14-15 anni (157, il dato è stabile). Rispetto alla nazionalità tuttavia si nota che nella fascia di età tra i 14 e i 15 anni prevalgono gli italiani (129 contro 28 stranieri). In larga maggioranza si tratta di maschi (1.630).

L’80% di chi è messo in prova ha completato la scuola dell’obbligo (solo il 2% non è in possesso di un titolo di studio), il 43% è uno studente, 368 minori erano apprendisti, 205 operai. La situazione familiare dei ragazzi, dal punto di vista lavorativo (dato parziale, spiega il Dipartimento, e dunque da prendere come indicativo) segnala che il 79% dei padri e il 39% delle madri lavora stabilmente, sono in pensione il 6% dei padri e l’1% delle mamme; è casalinga la maggior parte delle mamme.

È forte la presenza del privato sociale nei progetti che, come prevede l’istituto della "messa in prova", sono individuati per ogni minore da parte degli Uffici di servizio sociale per i minorenni in accordo o meno con latri enti: nel 2006 dei 1.869 progetti, 697 sono stati realizzati con il contributo di associazioni, 543 con il Comune di riferimento, 346 con le Asl.

Si "recupera" soprattutto facendo volontariato, seguono le attività lavorative e di studio; nella valutazione il giudice sembra, infatti, maggiormente orientato verso attività che non ripaghino solo la vittima del reato, ma l’intera comunità: nel 2006 sono 1011 i ragazzi a cui è stata "prescritta" attività di volontariato e a 362 quelle di utilità sociale, rispetto ai 73 casi in cui è stato chiesto un risarcimento simbolico del danno o conciliazione con la parte lesa (187).

Minori: Venezia; contro i baby-ladri abbiamo le mani legate

 

Il Gazzettino, 23 luglio 2007

 

Vengono dalla Romania, hanno meno di 14 anni e quindi non sono punibili. Portati nei centri di accoglienza scappano subito.

"È come pensare di svuotare l’acqua dall’oceano con un cucchiaino. Un continuo girare a vuoto per noi, per le forze dell’ordine che li fermano, per le comunità che li ospitano" confessa Rosanna Marcato la responsabile del servizio che il Comune di Venezia ha attivato per prendersi cura dei "minori non accompagnati" presenti nel territorio, baby borseggiatori rumeni compresi. "Noi abbiamo le mani legate - le fa eco Gianni Franzoi, il responsabile del servizio sicurezza urbana della Polizia municipale, che di questi ladri bambini ne ha fermati tanti -: non possiamo arrestarli; se hanno più di 14 anni li denunciamo a piede libero, ma non serve a nulla.

All’inizio provavamo a convincerli a restare nei centri di accoglienza almeno per un giorno, in modo da poter incontrare l’assistente sociale e tentare un percorso di recupero. Tutto inutile, tagliano l’angolo dopo dieci minuti...". Così il giorno dopo l’inchiesta del Gazzettino sul dilagare, nella città lagunare, di questa nuova forma di microcriminalità e sfruttamento dei minori, due degli operatori che più sono in prima linea su questo fronte denunciano tutta la loro impotenza. La riprova di un problema complesso, dove questi borseggiatori in miniatura non rischiano nulla - probabilmente in virtù di una legislazione carente - ma non hanno nemmeno la speranza di un recupero.

E chi sta dietro ne approfitta. Ma chi sta dietro? Difficile risalire ai mandanti. A Piazzale Roma, porta d’ingresso della città, la gente ti racconta di fantomatiche Mercedes da cui vengono fatti scendere questi ragazzini. Ma i ladri bambini arrivano anche in autobus da Padova, o in treno da Milano. "Un paio di mesi fa, dopo un’intera giornata di appostamenti, abbiamo individuato due adulti - ricorda Franzoi -: la madre di uno dei bambini e un sedicente zio a cui il gruppetto ha consegnato una serie di cellulari rubati. Non abbiamo potuto fare altro che denunciarli a piede libero per ricettazione. Non si sono più fatti vedere, mentre i ragazzini del gruppo continuano a borseggiare".

C’è chi ha collezionato fino a 20 foto segnalazioni, chi è stato fermato la mattina e rifermato il pomeriggio. Praticamente sono tutti rumeni. E l’impennata del fenomeno è legata all’apertura quest’anno della frontiera. "In Romania c’è una situazione allarmante sul fronte della popolazione giovanile - denuncia Rosanna Marcato -, con minori abbandonati che vivono in strada o chiusi negli istituti che diventano preda delle organizzazioni criminali". Luoghi comuni come quando, fino a qualche tempo fa, tutti se la prendevano con gli albanesi? No, numeri: secondo l’ultimo rapporto sulla criminalità del ministero dell’Interno i romeni risultano al primo posto in sette su quindici tipologie di reati commessi dagli stranieri in Italia tra il 2004 e il 2006: tra queste c’è il furto con destrezza (37% sul resto immigrati e 25% sul totale).

E arrivano qui. Ci sono quelli che si spostano con le loro famiglie che li usano per furtarelli o per chiedere la carità, e quelli che vengono sfruttati da queste bande. A Milano, nel marzo scorso, un romeno è stato condannato a 11 anni per aver messo in piedi un giro di minorenni, uno dei quali comprato dalla sua stessa madre, e costretto a fare lo scippatore di giorno e a prostituirsi di notte. "Per agire scelgono le grandi città o quelle, come Venezia, particolarmente appetibili per i borseggiatori - prosegue Rosanna Marcato - E quando, come a Milano in questi giorni, si assiste ad una "stretta" da parte delle forze dell’ordine, questi si spostano da qualche altra parte".

Quando li prendono, poi, sono di nuovo liberi nel giro di qualche ora. E così, di volta in volta, si sentono sempre più dei superman impunibili e capaci di tutto. Un’educazione alla rovescia che, da semplici scippatori, li trasforma in piccoli criminali progressivamente più sfrontati ed aggressivi.

Diritti: caso Welby; prosciolto il medico che "staccò la spina"

 

Affari Italiani, 23 luglio 2007

 

Piergiorgio Welby aveva tutto il diritto di chiedere l’interruzione della ventilazione artificiale che lo teneva in vita e il medico anestesista Mario Riccio, che lo sedò per poi staccare il respiratore meccanico, aveva il dovere di assecondare la volontà del malato. Con questa motivazione, il gup del tribunale di Roma, Zaira Secchi ha ordinato il "non luogo a procedere" nei confronti di Riccio, indagato per "omicidio del consenziente" perché il fatto non costituisce reato ai sensi dell’articolo 51 del codice penale sull’adempimento di un dovere. Soddisfatta della sentenza Mina Welby che in udienza ha raccontato la storia di suo marito.

Il giudice, con la sua decisione, ha recepito l’impostazione della procura di Roma da sempre convinta che su Riccio non si dovesse indagare ma costretta da un altro giudice (Renato Laviola) a formulare l’imputazione coatta ai fini di un rinvio a giudizio. Le argomentazioni del pm Francesca Loy, il contenuto del libro "Lasciatemi morire" di Piergiorgio Welby, portatore da moltissimi anni di distrofia muscolare progressiva e deceduto il 20 dicembre scorso, la lettera che lui scrisse al presidente della Repubblica per fargli conoscere il caso e la testimonianza resa oggi dalla moglie hanno spinto il Gup Secchi a scagionare l’anestesista da ogni accusa.

"La sentenza - ha commentato l’avvocato Giuseppe Rossodivita, legale del medico - costituisce un precedente molto importante: riconosce il diritto del malato, grazie agli articoli 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, di rifiutare le terapie o la prosecuzione di terapie non più volute anche quando questa interruzione possa determinare la morte del malato stesso. Di fatto il giudice ha stabilito che era un dovere, per il dottor Riccio, staccare il respiratore perché così aveva chiesto il paziente".

"Spero ora che il Parlamento faccia qualcosa per il testamento biologico. Lo chiedo soprattutto a nome di Piergiorgio perché non vada perso il suo sacrificio". Mina Welby, moglie dell’esponente radicale affetto da una grave forma di distrofia muscolare e morto il 20 dicembre scorso, è soddisfatta della sentenza che ha prosciolto il dottor Riccio. "Sono molto contenta del verdetto - ha esordito la donna -. Devo dire che ci speravo e che me l’aspettavo. Quando un giudice chiede cose così personali sul consenso della persona interessata e sulla fermezza del suo proposito, significa che è orientato a scagionare l’indagato. Io, in vista della mia deposizione di oggi, non mi ero preparata nulla, non avevo bisogno di cercare alcuna documentazione. Sapevo quello che avrei dovuto dire".

La donna ha così raccontato al Gup Secchi la storia del suo rapporto con Piergiorgio, tutto il decorso della sua malattia, "come lui ha cercato di darsi una mossa per vivere al meglio delle sue possibilità, informandosi della malattia e sapendo tutto della sua evoluzione. Lui mi aveva avvertito: non mi sposare, mi diceva, perché io ti rovino la vita. Io ho insistito e l’ho sposato ugualmente. Tornando indietro rifarei la stessa cosa. Siamo stati insieme 27 anni".

La prima crisi respiratoria di Piergiorgio è del ‘97: "In quella occasione, io e lui facemmo un patto, di non chiedere aiuto ai medici. Subito dopo lui mi disse di aiutarlo. Negli anni a seguire, lui lavorò sul testamento biologico, sulla legge sull’eutanasia in Italia, aveva visto che in Olanda e Belgio c’era già un ampio dibattito. È stato mio marito a rivolgersi ai radicali perché potesse avere un megafono, una voce in più, e rendere nota la sua storia. Con questo obiettivo scrisse al presidente Napolitano".

Mina Welby ha spiegato in udienza come la coppia incontrò il medico Mario Riccio: "Il dottor Casale si rifiutò di fare la sedazione e staccare il ventilatore, la magistratura era un po’ incerta sul da farsi, perché non c’era una legge che regolasse la materia. Tramite l’associazione Luca Coscioni, è stato il dottor Riccio a contattare mio marito che gli chiese personalmente di procedere alla sedazione e al distacco del respiratore. Così è accaduto. Il medico ha soltanto assecondato il volere di Piergiorgio".

L’assoluzione di Riccio "è una conquista straordinaria della nonviolenza radicale di Piergiorgio Welby, dell’Associazione Coscioni, di Mario Riccio e di quanti in questi mesi hanno lottato per l’affermazione del diritto a scegliere sulla propria salute, sulle proprie cure e sul proprio corpo". A parlare è Marco Cappato, segretario dell’associazione Coscioni ed europarlamentare radicale. "Ci auguriamo e ci impegneremo - prosegue Cappato - perché da oggi il Paese dell’agonia e della tortura di Giovanni Nuvoli abbia la forza di essere più civile e più rispettoso delle volontà dei malati italiani, qualunque esse siano: di assistenza, di terapia, di interruzione senza dolore di terapie". La battaglia dei radicali, chiarisce poi il segretario dell’associazione Coscioni, non si fermerà ma proseguirà, dentro e fuori il Parlamento, "per l’estensione, attraverso il testamento biologico, di tale diritto nel momento in cui non si sia più in grado di intendere e volere. Ci batteremo anche per il diritto dei malati terminali che pur non dipendono da trattamenti sanitari e anche per l’eutanasia legale e controllata contro l’attuale eutanasia selvaggia e clandestina".

 

 

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