Rassegna stampa 6 giugno

 

Giustizia: Napolitano al Csm; cautela nell’uso del carcere

 

Ansa, 7 giugno 2007

 

"I magistrati sappiano procedere a valutazioni rigorose degli elementi indiziari nel decidere l’apertura del procedimento e a maggior ragione l’adozione di misure cautelari". È l’invito che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rivolge alle toghe al plenum del Csm.

"Occorre che i magistrati - ha detto il presidente della Repubblica - esercitino accortamente la loro funzione, contribuendo a garantire la pienezza dei diritti del cittadino e quindi la credibilità della giustizia. In quest’ottica è importante che i magistrati si calino nella realtà del Paese, facendosi carico delle ansie quotidiane e delle aspettative della collettività. A tal fine - ha concluso su questo tema il Capo dello Stato - vanno evitati atteggiamenti che appaiono non tener conto a sufficienza delle esigenze di sicurezza così generalmente avvertite".

Giustizia: abrogazione dell’ergastolo, più dubbi che certezze

di Riccardo Arena (Radio Carcere)

 

www.radiocarcere.com, 7 giugno 2007

 

31/12/9999. Questa è la data del fine pena scritta sui fascicoli di chi è in carcere condannato all’ergastolo. 31/12/9999. Fine pena mai. Ergastolo. Carcere a vita. Sono 1.294 in Italia le persone detenute condannate all’ergastolo. Da libero, e senza conoscere i singoli fatti che hanno portato a condanne così severe, quando ci penso mi vengono i brividi.

In carcere per sempre. Il tema è d’attualità. Mercoledì 30 maggio un gruppo di "ergastolani" capeggiati da Carmelo Musumeci (che saluto) scrivono una lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in cui affermano: "Chiediamo che la nostra pena sia tramutata in pena di morte". La provocazione, se pur drammatica, ha una sua valida ragione. Ma andiamo per gradi.

Il giorno dopo le agenzie impazzano. "L’abolizione dell’ergastolo è nel progetto di riforma del codice penale di Pisapia". Mastella frena: "Non è proposta mia".

Le famiglie delle vittime s’indignano. Una parte della sinistra tace, un’altra si dice favorevole all’abolizione del carcere a vita e si prepara alla mobilitazione. La destra è contraria. Il quotidiano La Repubblica dedica per due giorni un paginone sull’argomento. Pausa week end. Silenzio.

Ora Radio Carcere, e il suo colpevole, vi dice che ne pensa dell’abolizione dell’ergastolo. Un pensiero che costerà consensi e critiche. Ma non è il consenso che ci muove, bensì l’ambizione all’efficienza della giustizia e delle pene.

Il pensiero è: sono contrario all’abolizione dell’ergastolo. Mi spiego con le parole del teologo Von Baltharar: "L’inferno esiste, ma si può sperare che sia vuoto".

Ecco, io credo in un sistema che ambisca con tutte le sue forze a questo: l’ergastolo c’è, ma nella speranza è che non lo sconti nessuno. L’ergastolo c’è, ma si fa di tutto per evitare che un uomo stia per sempre in carcere. "A Riccà, ma se è così perché insisti con l’ergastolo?". La risposta, per me dolorosissima risposta, è nella realtà. Eccola.

1 ottobre 1975, in una villa del Circeo vengono violentate due ragazze. Donatella Colasanti e Rosaria Lopez. Età 17 anni. 36 ore di violenza sfrenata. La Lopez viene uccisa, la Colasanti riesce a sopravvivere. Riconosce i tre assassini, che sono: Gianni Guido, Andrea Ghira e Angelo Izzo. 1977, gli imputati vengono condannati all’ergastolo. Sbagliato? Il carcere a vita è una cosa terribile?

Vediamo la realtà di Angelo Izzo. Tra un’evasione e l’altra (l’ultima nel 1994), Izzo prende la patente di pentito. Parla di mafia e di terrorismo di destra. Appare utile alla giustizia. Va beh! Ma non solo. Izzo appare ravveduto, cambiato. Gli viene concessa la semilibertà. Tutto bene? No.

28 aprile 2005, Angelo Izzo, nei suoi momenti di libertà, uccide Maria Carmela Maiorano e la figlia Valentina che ha solo 14 anni.

Izzo, le strangola e poi le seppellisce in un giardino. Per questo delitto è condannato, e io dico giustamente, all’ergastolo. Angelo Izzo è, purtroppo, una di quelle persone che fuori dal carcere proprio non ci può stare. Che facciamo aboliamo l’ergastolo?

Ed ancora. Giovanni Brusca (allora difeso dall’avv. Luigi Ligotti, oggi sottosegretario alla Giustizia). Brusca è quello che ha premuto il telecomando a Capaci, la strage. Brusca ha commesso un centinaio di omicidi. Brusca ha ucciso anche il piccolo Giuseppe Di Matteo. Brusca ha prima strangolato il piccolo Giuseppe e poi lo ha sciolto nell’acido.

Per non dimenticare: Bernardo Provenzano, Totò Riina. Non è giusto che stiano in carcere per sempre? Dicevo, la lettera degli ergastolani ha una sua ragione. Ma questa ragione non è nell’abolizione dell’ergastolo. La loro ragione sta in una speranza disattesa e nella legge disapplicata.

La legge già prevede un probabile cammino verso la libertà dell’ergastolano. Dopo 10 anni di detenzione può avere dei permessi. Dopo 20 anni di carcere può chiedere la semilibertà. Ovvero lavorare fuori durante il giorno e la notte tornare in carcere. Dopo 26 anni, l’ergastolano può ottenere la liberazione condizionale. Ovvero quasi totale libertà. Purtroppo questa è legge disapplicata o applicata male. E così tanti ergastolani, che lo meriterebbero, restano in carcere alla faccia della legge e delle loro speranze. Non abolire l’ergastolo, ma aumentare la qualità di quei meccanismi che consentano all’ergastolano, che lo merita (e sono tanti), di riacquistare gradualmente la libertà.

Giustizia: dopo-indulto; il problema delle riforme (non fatte)

 

www.radiocarcere.com, 7 giugno 2007

 

Dopo essere stato approvato dal Parlamento a larga maggioranza, l’indulto è rapidamente finito sul banco degli imputati. Incremento della criminalità, è il primo capo d’accusa, non solo per le "ricadute" dei beneficiari, ma per l’aumento di reati a "vocazione carceraria". Ostacolo alla giustizia, è la seconda imputazione, perché l’applicazione dell’indulto costringe gli apparati giudiziari a girare a vuoto, nell’occuparsi di vicende criminose antecedenti il 2 maggio 2006 che si chiuderanno con una condanna "virtuale": la pena inflitta, se pari o inferiore a tre anni, non sarà mai eseguita. Vendita di fumo, è la terza accusa, in quanto l’indulto risulterebbe inutile rispetto allo scopo perseguito, cioè il miglioramento delle condizioni di vita carceraria.

Grazie ai nuovi accessi, in parte propiziati dall’indulto stesso, queste condizioni tornano rapidamente al punto di partenza: a che pro, dunque, dar la stura ad un meccanismo destinato a implodere su se stesso? Insomma per ottenere un po’ di respiro, si sta rischiando il soffocamento. Il coro dei censori s’infittisce a vista d’occhio: agli oppositori della prima ora, in nome delle ragioni che ora vedono concretizzarsi, si aggiungono i sostenitori dimentichi di quello che avevano messo in campo in favore del provvedimento. La memoria va recuperata.

L’indulto non è stata una scelta; si è imposto per necessità: rimediare agli orrori di una situazione carceraria che definire "incostituzionale" era ancora dir poco. Con che faccia un paese civile può invocare il rispetto della legalità quando la calpesta clamorosamente proprio nei confronti di chi l’ha violata? È indubbio che la disciplina dell’indulto poteva essere calibrata con più attenzione, lavorando di cesello, e non con l’accétta, come invece si è fatto.

Ma è sterile polemizzare su questo aspetto. Il punto è che tutti, sostenitori dell’indulto compresi, sapevano benissimo quel che avrebbe potuto accadere. I detenuti liberati non escono da collegi di educande, ma da scuole specializzate nel forgiare con la promiscuità, l’ozio, il degrado, l’abiezione, le migliori leve del crimine. Si è pensato a qualche forma di assistenza e di controllo per sostenere il non semplice cammino nella libertà?

L’indulto può - com’è noto - essere sottoposto a condizioni o ad obblighi. Si è preferita l’assenza, che è sempre meno costosa, ma anche più rischiosa. Soprattutto, l’indulto non poteva ridursi ad una sorta di intervento spot, nell’attesa passiva che tutto ritornasse in breve come prima. Occorreva impedirlo, dando immediato corso ad una serie di interventi organici sul sistema punitivo, tutti attesi da tempo, e da tempo rimessi a una gestazione interminabile: rispetto ad essi l’indulto avrebbe dovuto assumere una pressante efficacia sollecitatoria.

L’agenda era (ed è) tanto nota che ripercorrerne le urgenze appare persino stucchevole. Primo: lavorare drasticamente sull’apparato delle sanzioni penali, nella prospettiva di un ricorso alla pena detentiva contenuto non solo e non tanto nei limiti di quell’extrema ratio che rischia di tradursi in perpetuazione dell’esistente (la soluzione dei reati a "vocazione carceraria" risente di valutazioni magari giustificate in astratto, ma esuberanti in concreto); si tratta di fare i conti col principio di realtà, che è il primo indicatore dell’extrema ratio.

Un sistema penitenziario capace di tot detenuti non può essere utilizzato per accoglierne il doppio, o poco meno. Su questa strada, il primo moltiplicatore da azzerare era la truce disciplina della ex Cirielli sulla recidiva, investita da critiche che si supponevano condivise dalla nuova maggioranza, e suscettibile di essere cancellata con un semplice tratto di penna. Secondo: interventi sul processo penale capaci di ridimensionare la vergogna della custodia cautelare in carcere e di attuare la ragionevole durata del processo.

In questo contesto si dovrebbe affrontare anche il tabù dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale: non per colpire l’autonomia della magistratura inquirente, ma solo per dar senso, con una disciplina legale, a un dovere oggi tanto vacuo da risultare insensato. Si sta lavorando - è la replica spesso messa in campo - ma il tempo sembra davvero scaduto. Alla fine, allargare i cordoni della borsa: non tutti gli interventi necessari sono a costo zero.

Qui il tasto si fa particolarmente dolente: le istanze di sicurezza sollecitano risposte repressive, più spendibili, e, in apparenza, più "rassicuranti" e meno onerose (in realtà, con costi differiti onerosissimi). Sin tanto che non ci si persuaderà che ogni euro speso per migliorare l’efficienza dei meccanismi giudiziari e per garantire i diritti costituzionali dell’imputato e del detenuto, è un euro per garantire una sicurezza più umana nei contenuti e più consistente nei risultati, non si farà strada, si affonderà.

Giustizia: custodia cautelare, come ai tempi di "Mani Pulite"

 

www.radiocarcere.com, 7 giugno 2007

 

A.G.R., avvocato romano di circa quarant’anni, è sdraiato sul letto. Si trova nella lussuosa stanzetta di una famosa clinica della capitale. È uscito dal coma da poco più due mesi. Era il 30 aprile 1993. La Camera dei deputati il giorno prima aveva negato per 4 volte l’autorizzazione a procedere contro Craxi. Si erano dimessi tre ministri del PDS e il verde Francesco Rutelli, Ministro dell’Ambiente. L’ultimo litigio costringeva la testa da un altra parte.

Il bestione arancione, con il numero 8, che collegava il Vaticano a Piazza Argentina non era stato segnalato da suoi neuroni. Dell’impatto nessun ricordo. Così come della folla corsa in autoambulanza. Il coma profondo. Quattordici anni dopo si è miracolosamente risvegliato. La memoria da che era scomparsa e poco a poco ritornata. Entro. Lo trovo seduto nel letto coperto di giornali. Non il tempo di un saluto. Hai letto. Sorrido. Continua.

Il ragazzo accusato di avere ucciso a Catania l’ispettore Filippo Raciti. Arrestato i primi di febbraio. Quattro mesi fa. Il giudice ha revocato l’arresto perché non ci sono prove sufficienti. Rimane in carcere per resistenza a pubblico ufficiale. L’unico in Italia ad essere in carcere per resistenza a pubblico ufficiale. Arrestato sulla base di poco o niente. Testimonianze vaghe. Mai dirette. Nessuno ha affermato di averlo visto uccidere l’ispettore. Nessun filmato.

La vera prova ricostruzioni tecniche che si sono sgretolate. Il niente ha giustificato la custodia cautelare. Ha costretto ingiustamente un minorenne quattro mesi in carcere. Mani pulite. Quattordici anni fa. Ricordo che la custodia cautelare accendeva gli animi. Utilizzata impropriamente contrapponeva chi ne criticava l’uso distorto a chi realisticamente predicava che il fine giustifica i mezzi. La prova di un reato giustificava l’arresto senza processo.

Poco importava se, come prevedeva il codice, non c’era il pericolo, l’altra condizione che ne giustificava l’uso. Il carcere infatti quasi sempre produceva il risultato di una confessione e di una accusa nei confronti di altri. Risultato che semplificava enormemente le indagini degli inquirenti. L’allora Ministro di grazia e giustizia, l’on. Biondi, emanò, nel 1994, un decreto legge, non sicuramente perfetto da un punto di vista tecnico, il quale limitava l’uso della custodia cautelare. Suscitò una vera e propria sommossa da parte delle Procure della Repubblica di buona parte dell’Italia, prima, e di buona parte dell’opinione pubblica, poi, finendo col essere mai convertito in legge. L’ondata giustizialista trovava ampi consensi.

La sinistra aveva dismesso gli abiti garantisti, tradizionalmente indossati, per calzare quelli forcaioli, che l’opinione pubblica imponeva. Un momento emergenziale. Il dilagare del fenomeno corruttivo imponeva il non rispetto del diritto. Superato, ovviamente, si sarebbe ritornati nei limiti fisiologici e la custodia cautelare sarebbe stata ricondotta negli angusti limiti imposti dalla legge. Quattordici anni un risveglio amaro. Le porte del carcere durante le indagini si aprono più facilmente. La custodia cautelare non è rientrata nel proprio alveo.

L’omicidio Raciti, Rignano Flaminio e l’arresto di un alto magistrato. Fatti, a cui la cronaca a dato ampio spazio, dai quali emerge che in carcere si finisce per sospetti, congetture e talvolta in assenza di un reato. A.G.R. è un fiume in piena. Non ha perso il suo carattere impulsivo e bellicoso. Ancora si appassiona. Probabilmente se non avesse passato questi anni in coma anche lui avrebbe mollato. Si ferma e mi guarda con fare interrogativo. L’evoluzione affermo. Mani pulite aveva introdotto l’uso della custodia cautelare per accertare ulteriori reati. Si raccoglievano le prove relative ad un reato. Oggi la custodia cautelare si utilizza per accertare il reato su cui s’indaga.

La confessione. Si arrestava l’autore sperando che dalle sue dichiarazioni emergessero altri reati e altri rei. Oggi in assenza di prove si arresta il sospettato, sperando che confessi. Per aumentare la pressione senza alcuna giustificazione lo si tiene in isolamento senza farlo colloquiare con i difensori. Una prassi che ormai trova una crescente applicazione. Sorrido.

A.G.R. irritato mi assale. La realtà, continuo, è che la magistratura è un potere autonomo compattato da una politica folle che, negli ultimi anni, gli si è contrapposta in modo inopinato. Un potere che si è difeso dagli attacchi esterni, ma che ha sempre evitato una efficace autocritica interna. Un potere che non si accorto di una graduale perdita di efficienza e di qualità. O che forse se ne è accorto, ma non ha mai fatto nulla per porvi rimedio.

Un potere che, innalzando il vessillo dell’autonomia, ha sempre evitato che si attuasse qualsiasi tipo di sindacato sull’operato del singolo magistrato. Fatto che ha determinato una totale irresponsabilità dei magistrati, gli errori dei quali non producono nessun effetto. Errori che non incidono neppure sulla carriera, essendo il criterio meritocratico sconosciuto a questo potere. Una mosca bianca. Non vi è alcuna responsabilità per quanto fatto né si viene valutati per quanto fatto. Si fa carriera in base all’età anagrafica. Certo però non ci si può aspettare che una corporazione riformi se stessa.

Giustizia: Bruno Berardi; nessuno sconto di pena a terroristi

 

www.opinione.it, 7 giugno 2007

 

Domenica a L’Aquila i cittadini hanno assistito a un vergognoso corteo di amici, fiancheggiatori e familiari di terroristi rossi incarcerati per omicidio e altro come la famigerata Nadia Desdemona Lioce. La manifestazione, tutta a favore di questi terroristi detenuti, è stata tranquillamente autorizzata dal questore del capoluogo abruzzese. Si sono sentiti slogan infami contro il povero Marco Biagi uno dei quali particolarmente raccapricciante: "non andrai più in bicicletta". Biagi come è noto fu ucciso che era appena sceso dalla propria bicicletta sotto i portici vicino a casa sua a Bologna.

D’altronde non è certo la prima volta che un evento del genere accade e probabilmente non sarà neanche l’ultima. Il tutto ovviamente era stato organizzato a tavolino e ampiamente diffuso nei siti internet dei centri sociali e anche in quello dei Carc, Comitati di appoggio per la resistenza del comunismo, da sempre impegnati nelle battaglie a favore dei brigatisti detenuti e spesso anche loro stessi oggetto di inchieste penali. A partire dal fondatore Angelo Maj, tuttora latitante all’estero.

Abbiamo parlato di queste cose con Bruno Berardi presidente dell’associazione delle vittime del terrorismo. Che non ha dubbi su quali misure bisognerebbe prendere per farla finita con tutte queste provocazioni.

E lo dice chiaro e tondo a "L’opinione": "è colpa di chi, a partire dal Capo dello stato, pensa soprattutto e solo a loro, i terroristi, e al dialogo con chi ha ucciso, invece che stare dalla parte delle vittime".

 

E lei come la vede allora?

I Carc, i centri sociali e i fiancheggiatori dei terroristi hanno manifestato domenica a favore di Nadia Desdemona Lioce davanti al carcere de L’Aquila scandendo slogan infami? E chi ha dato loro il permesso di farlo? Perché non li sbattono tutti dentro come meriterebbero insieme a coloro che li fiancheggiano?

 

Come andrebbe gestito questo fenomeno dell’antagonismo di fiancheggiamento?

Semplicemente reprimendo queste ignobili manifestazioni e mettendo in carcere per qualche anno chi le promuove. Se dici di essere amico e sodale dei terroristi vai a fare loro compagnia in galera, che quello è il posto tuo.

 

E per i terroristi veri e propri?

Sa quanti familiari di vittime mi scrivono per chiedere la pena di morte? A me basterebbe solo che marcissero in galera per sempre e il problema sarebbe risolto. Io non capisco che interesse ha lo stato a recuperare gente che voleva colpirne il cuore per distruggerlo, quasi quasi invito tutti all’obiezione fiscale.

 

Come?

Semplice, siccome in Italia la giustizia e la sicurezza sono due miraggi per cui si pagano fior di imposte, non resta che auto ridurre l’Irpef, l’Iva e tutti i balzelli vari per la quota destinata a questi due comparti in Italia. Poi si mettono i soldi assieme e ci autogestiamo la sicurezza e la giustizia in proprio, come nel West in America. lo so che è paradossale, ma è altrettanto paradossale continuare a pagare le tasse per due servizi che di fatto non abbiamo, non abbiamo mai avuto e non avremo mai.

 

Lei come vive questa sua condizione di vittima del terrorismo?

Mi sento odiato dallo stato che non mi ha mai dato niente da 30 anni a questa parte, fin da quella maledetta mattina del 10 marzo 1978 quando mio padre Rosario venne assassinato davanti alla fermata del tram numero 7 a Torino. Da anni constato l’esistenza di uno stato che mi colpevolizza e che cerca di dialogare solo con quelli che hanno ucciso uomini come mio padre. E che mi chiede di stare in disparte. Di non fare troppo casino. Di non disturbare i manovratori. Cercano di dipingerci e di farci apparire come delle macchiette, come dei frustrati, però dopo la violenza dei terroristi noi abbiamo dovuto subire anche la violenza e l’indifferenza delle istituzioni, quasi quasi avrebbero voluto che morissimo anche noi, che ci fossimo fatti da parte. Ma io lotterò sempre contro questa ingiustizia, l’Italia è il paese che ha perdonato più terroristi omicidi in tutto il mondo occidentale, un record che non ci fa onore.

Medicina: comunicato del sindacato infermieri penitenziari

 

Comunicato stampa, 7 giugno 2007

 

Sempre più spesso, ultimamente, si leggono proclami di alcune associazioni mediche penitenziarie tese a rivendicare il merito di essere riuscite a convincere le parti politiche a restituire quanto tolto in sede di assegnazione fondi per il funzionamento della sanità penitenziaria.

Sempre più spesso abbiamo letto di proteste, scioperi ed incatenamenti contro il passaggio della sanità penitenziaria nel servizio sanitario nazionale e per salvaguardare la professionalità delle figure sanitarie penitenziarie messe a rischio con l’eventuale passaggio.

A distanza di poco tempo, oggi leggiamo la mozione finale votata all’unanimità al congresso dell’Amapi, a firma degli incatenati, la quale non solo afferma la necessità del passaggio della sanità penitenziaria al Ssn come "unica prospettiva razionale", ma termina con la frase: "Costruiamo, insieme, questo futuro, finalmente lontani dalle umiliazioni che ci ha riservato l’Amministrazione Penitenziaria".

Tali fatti evidenziano, a nostro avviso, tutta quella assenza di strategia nell’affrontare le necessità assistenziali del paziente ristretto cercando solo di cavalcare demagogicamente i punti di crisi cui un sistema complesso come quello del servizio sanitario penitenziario è soggetto a cadere specialmente quando è applicato senza alcun progetto obiettivo e/o la parte dirigenziale (medica e non) si muove aprioristicamente contro ogni direttiva tendente a modificare lo status quo per cercare di migliorare l’assistenza stessa.

La nostra Organizzazione Sindacale ha da sempre affermato il proprio disinteresse al sapere se chi paga è il Servizio Sanitario Nazionale o quello Penitenziario in quanto il nostro interesse è teso solo ed esclusivamente al riconoscimento della nostra professionalità che si traduce in assistenza; soltanto che da anni abbiamo individuato nel Ssn, rispetto al Ssp ancora troppo proteso verso l’area della sicurezza in nome della quale tutte le altre aree venivano tenute in secondo piano, un Servizio più moderno e quindi più propenso a cogliere il nuovo coinvolgendo maggiormente la nostra figura professionale nei progetti obiettivo dell’assistenza ai detenuti, così come riteniamo che la restituzione dei fondi per il funzionamento della sanità penitenziaria non sia avvenuto per le proteste, in parte anche con motivazioni forzate, di una parte di lavoratori ma semplicemente perché parti politiche governative da sempre vicine alle problematiche penitenziarie si sono rese conte delle effettive necessità economiche.

Non vorremmo che qualcuno abbia radicalmente invertito il proprio pensiero in virtù di promesse, e non vorremmo che tali promesse si traducano in atti dannosi per la categoria infermieristica così come successo all’interno del servizio sanitario penitenziario quando ogni problematica veniva, e viene, risolta con bastonate nei confronti degli infermieri.

Ma proprio queste radicali inversioni di pensiero, che possono essere soltanto lette come inaffidabilità in chi le compie, non possono che rassicurare noi come professionisti e gli utenti del nostro servizio.

 

Marco Poggi, Segretario S.A.I.

Lettere: detenuti, da diverse carceri, per Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 7 giugno 2007

 

Filippo Barra, Milano

"Illustre Ministro Mastella, uso la ospitalità di Radio Carcere per porle una domanda. Sono uno dei tanti lettori che leggendo questa pagina si rende conto dell’abuso che si fa della misura cautelare nel nostro paese. Ora le chiedo ci può aiutare a sapere quante persone vengono messe in carcere durante le indagini e poi prosciolte? Il Ministero ha fatto questa statistica? Il dato ritengo sia molto importante. Le sono grato per la sua Disponibilità"

 

Giuseppe dal carcere di Taranto

"Caro Riccardo, mi trovo detenuto, nella sezione di AS da tre anni e ti scrivo per farti sapere come siamo costretti a vivere nel carcere di Taranto. Anche dopo l’indulto, noi stiamo in 3 o in 4 dentro una piccola cella. Siamo costretti a stare qui dentro per 22 ore al giorno, senza poter lavorare o fare attività ricreative. Per noi dell’AS di Taranto esiste la cella e basta.

Nel carcere di Taranto mancano le medicine e solo i detenuti che hanno qualche soldo si possono curare… gli altri si arrangiano. Come se non bastasse in molte celle del 2° e 3° piano c’è una specie di sbarramento che impedisce l’entrata di luce… insomma lì si vive nella penombra. Se in questa situazione qualcuno di noi si lamenta… beh c’è sempre libera la cella liscia… quella di punizione, .te ne stai lì per due settimane e ti passa la voglia di protestare, di chiedere lavoro e diritto alla salute.

Caro Riccardo devi sapere che tanti miei compagni ti scrivono dal carcere di Taranto, ma quelle lettere vengono strappate prima e non ti arrivano… hai capito? Quelle poche volte che possiamo uscire dalla cella dobbiamo camminare sulla destra del corridoio, la testa abbassata e rasenti al muro… Noi detenuti qui a Taranto siamo solo numeri.. numeri e basta. Io spero che le cose possano migliorare… perché a forza di tirare la corda.. si spezza. Noi chiediamo solo dignità.. nient’altro. Caro Riccardo, grazie perché ci dai voce… proprio a noi che non l’abbiamo… ogni martedì alle 21.00 il carcere di Taranto è in ascolto di Radio Carcere"

 

Carlo e Mauro dal carcere Opera di Milano

"Caro Arena, siano due detenuti del carcere Opera di Milano e ti scriviamo per raccontarti come vive in cella con noi un nostro compagno che sta sulla sedia a rotelle. Questa persona paralizzata , oltre ai problemi che ha, deve usare tutta pazienza che ha per ottenere anche una piccola richiesta. Il rischio è una rispostaccia. Ed ogni necessità esaudita sembra una gentile concessione.

Questo nostro compagno detenuto paralizzato è arrivato qui nel carcere di Opera da San Vittore. Ed è stato potato qui per essere messo nel famoso centro clinico. Purtroppo, come ha detto Pino a Radio Carcere, questi ragazzi paralizzati non stanno nel centro clinico, ma in cella con noi.

È da novembre 2006 che questo nostro compagno paralizzato è con noi, e da allora non ha mai fatto l’ora d’aria. Lo fanno scendere solo per fare i colloqui con i familiari o con l’avvocato.

Qui nel carcere di Opera passiamo il tempo come vegetali, sperando, giorno dopo giorno, di finire presto la pena. Qui per noi non c’è la possibilità di uscire prima con le pene alternative. Molti di noi hanno quasi finito la pena eppure non c’è la possibilità di avere una misura alternativa perché l’educatore non ha concluso la c.d. sintesi comportamentale del detenuto. Questa è la nostra pena. Un grande saluto a Radio Carcere".

 

Gianluca dal carcere La Bicocca di Catania

"Caro Riccardo, ormai è tanto tempo che sto in carcere, anche se il mio giudizio di primo grado non è ancora finito. In questi lunghi lunghissimi mesi passati in carcere la mia condizione di salute è andata sempre peggiorando. Ho gravissimi problemi alla schiena che non mi permettono di muovermi. Sono uno di quei detenuti che sta in cella su una seda a rotelle.

Un compagno di cella mi assiste 24 ore su 24, grazie a lui posso pensare alla mia igiene e posso andare in bagno quando ne ho bisogno. Il fatto è che se mi avessero curato io ora non mi troverei in queste pietose condizioni. In passato, man mano che la mia schiena stava sempre peggio, sono stato visitato in carcere da diversi medici.

E tutti mi hanno prescritto delle sedute di fisioterapia, anche perché ormai operarmi era inutile. Beh la struttura del carcere sai che ha fatto? Mi ha iniziato a trasferire da un carcere all’altro, da un centro clinico all’altro, che con i soldi che hanno speso per i miei trasferimenti mi ci potevo pagare la fisioterapia. Così da Catania mi hanno portato a Opera e di nuovo Catania. Poi ancora da Catania a Pisa per poi essere portato al carcere Pagliarelli di Palermo e poi ancora Catania. Dall’11 settembre io ho fatto 11 trasferimenti. Risultato nessuno, se non che ora invece di farmi una puntura di antidolorifici al giorno adesso sono passato a 2 punture al giorno!

Riccardo ti confesso che sono esausto e non reggo più questa situazione. Resto sulla branda della mia cella per tutti il giorno. E non ho neanche più la voce per chiedere che io voglio solo essere curato…solo essere curato. In questa disperazione la voce di Radio Carcere è per me ragione di conforto".

Libri: "La penna uccide?", l’informazione vista dai mafiosi

 

www.corrieredigela.it, 7 giugno 2007

 

Valerio Martorana, giornalista mazzarinese ha dato alle stampe il suo primo libro, che sarà presentato a Gela domani, 8 giugno, alla Chiesetta San Biagio (ore 18.00).

Il titolo è "La penna uccide?. Tema dell’opera il ruolo dell’informazione in terra di mafia e cosa pensano i mafiosi dell’informazione. Il libro è stato realizzato grazie ai dati raccolti dall’autore nel corso dei colloqui che lo stesso ha intrattenuto nelle carceri italiani con alcuni personaggi mafiosi e da questi ha tratto gli spunti per comprendere quale tipo di informazione temono più i mafiosi: la carte stampata, in quanto rappresenta un documento che rimane in eterno e che può essere utilizzato dagli organi inquirenti e dalle amministrazioni pubbliche che gestiscono poteri.

Alla presentazione del libro, organizzata dal Comune, in collaborazione con l’Università di Catania, dipartimento di analisi dei processi politici, sociali e istituzionali, dal Liceo Vittorini e dall’Osservatorio sulla democrazia, ambiente e legalità, interverranno il sindaco di Gela Rosario Crocetta, il questore di Caserta Carmelo Casabona, il sostituto procuratore Dda di Caltanissetta Nicolò Marino, il vice presidente della Commissione azionale antimafia Giuseppe Lumia, il dirigente scolastico Luciano Vullo, il deputato al parlamento europeo Claudio Fava.

Introdurrà i lavori Graziella Priulla, ordinario di sociologia dei processi comunicativi dell’Università di Catania; moderatore Giuseppe D’Onchia, giornalista della tv locale Canale 10. Le conclusioni spetteranno dall’autore.

Lucca: la pittura, per colorare anche la vita dei detenuti

 

www.intoscana.it, 7 giugno 2007

 

Far volare la fantasia, dar sfogo ai propri pensieri, alla propria originalità con i pennelli, con i colori, con la pittura. Ed in carcere diventa importante trovare un modo per far parlare la propria anima, le proprie emozioni, i propri sentimenti. Lo si fa attraverso il teatro, i corsi di cucina ma anche attraverso una delle maggiori arti espressive: la pittura. E la Casa circondariale di Lucca ha infatti attivato alcuni corsi all’interno di un progetto pedagogico promosso in collaborazione con il Comune di Lucca.

Le lezioni, che si tengono presso i locali polivalenti, all’interno della casa di reclusione, sono curate da alcuni insegnanti che, per due volte la settimana, insegnano agli allievi a disegnare. Un corso basato su una parte teorica di acquisizione degli elementi utili alla concezione delle forme e alla conoscenza dei colori e delle maggiori tecniche pittoriche e su una pratica, che consente alle persone di giocare con pennelli, colori, matite e acquarelli dando libero sfogo a tutta la propria vena artistica.

I nuovi "artisti" saranno poi anche gli artefici delle scenografie, che faranno da quinte agli spettacoli rappresentati dal gruppo teatrale di detenuti "S. Giorgio tra le Mura".

Ma la pittura non è il solo corso promosso all’interno del Carcere di Lucca. Per alleggerire le tensioni dovute alla vita detentiva l’amministrazione penitenziaria ha infatti organizzato una serie di attività, dalla musica alla palestra, alla biblioteca. Tanti modi per arricchirsi e per stimolare gli interessi, la socializzazione ed il dialogo. Tanti modi per imparare a conoscere ed a conoscersi, anche in carcere.

Verona: ultimo incontro di "comunicare anche in carcere"

 

Comunicato stampa, 7 giugno 2007

 

Si avvicina l’ultimo degli incontri sulla comunicazione, organizzati dall’associazione La Fraternità per i detenuti di Montorio. La breve serie di appuntamenti si è aperta con la proiezione del cofanetto multimediale Raccontamela Giusta, per riflettere sulla realtà della pena, ed è proseguita con il giornalista dell’Arena Giampaolo Chavan, che ha voluto aprire un dialogo con i detenuti su quanto sia preziosa la comunicazione fuori e dentro le celle.

Non è stato possibile realizzare l’incontro attesissimo con Candido Cannavò, che ci si augura possa avvenire in un’altra occasione e in conclusione, sabato 9 giugno, spetta a Ornella Favero, redattrice del periodico di informazione del carcere di Padova Ristretti Orizzonti, il compito di comunicare con i detenuti di Montorio e fornire loro qualche utile spunto sull’importanza del farlo.

Appropriarsi di una modalità di espressione efficace e cosciente è un traguardo prezioso per tutti. Per chi vive uno stato di reclusione può persino rappresentare qualcosa di più: un passo determinante per il reinserimento nella società.

 

Per ulteriori informazioni

Associazione "La Fraternità"

Chiara Bazzanella - 393.5641003

Droghe: Cassazione; rischia condanna chi non denuncia pusher

 

Fuoriluogo, 7 giugno 2007

 

Chi, sorpreso con sostanze stupefacenti in modica quantità per uso personale, non rivela l’identità del proprio pusher rischierà una condanna per il reato di favoreggiamento. Lo hanno deciso le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione con la sentenza n. 21832/07.

Secondo la Suprema Corte, "è configurabile il delitto di favoreggiamento nel caso in cui l’acquirente di modiche quantità di sostanza stupefacente per uso personale, sentito come persona informata sui fatti, si rifiuta di fornire alla polizia giudiziaria informazioni sulle persone da cui ha ricevuto la droga; in tale ipotesi è applicabile l’esimente di cui all’art. 384 c.p. se in concreto le informazioni richieste possono determinare un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore".

La sentenza, scritta dal giudice Paolo Bardovagni, mette anche a tacere un contrasto giurisprudenziale che da tempo era emerso, dando torto a quella parte della giurisprudenza che considera "indagato" chi viene sorpreso con modiche quantità di droga. In realtà, dice la Corte Suprema, il consumatore di stupefacenti potrà essere sentito dal magistrato solo in qualità di persona informata sui fatti, tranne poi divenire "indagato" ed imputato nel caso in cui non riveli l’identità dello spacciatore. Così, la testimonianza della "persona informata sui fatti", al contrario di quella di un "indagato", potrà essere più facilmente utilizzata come prova a carico dello spacciatore.

Droghe: Piobbichi (Prc); adesso basta con le ideologie...

 

Ansa, 7 giugno 2007

 

Il rapporto di Cittadinanzattiva sui Servizi pubblici per le tossicodipendenze evidenzia ancora una volta, secondo il responsabile politiche sociali del Prc Francesco Piobbichi, il fatto che "un fenomeno come quello del consumo di sostanze stupefacenti debba essere affrontato con politiche pragmatiche basate sull’evidenza scientifica".

"I dati che provengono da alcune regioni - spiega l’esponente di Rifondazione - confermano che il fenomeno dell’utilizzo dell’eroina esiste e che c’è bisogno di sperimentare nuovi interventi per ridurre le mortalità da overdose. Questi interventi in Europa possono essere praticati e danno buoni frutti, ma in Italia vengono negati da una legge assurda che si è concentrata su tabelle e singole sostanze, paragonandole alla stessa maniera, e negando in maniera ideologica gli strumenti per intervenire sui comportamenti a rischio.

In pochi anni in Svizzera - continua - si sono ridotti i morti da overdose, in Italia invece le prime pagine dei giornali sono riempite da una campagna demagogica incentrata sull’interrogativo se la canapa possa provocare effetti dannosi invece che altri. Ma continuare a dire che le droghe sono tutte uguali non fa altro che far consumare le sostanze leggere come se fossero pesanti". Le forze dell’Unione, conclude Piobbichi, "devono riprendere in mano questo tema senza paura, presentando la revisione della legge Fini-Giovanardi come previsto dal programma".

Droghe: i test, un nuovo business delle case farmaceutiche

di Grazia Zuffa (Forum Droghe)

 

Fuoriluogo, 7 giugno 2007

 

Contrari i pediatri americani: sono antieducativi e scarsamente etici. Grazia Zuffa ripercorre l’esperienza americana dei test a scuola.

L’idea di sottoporre gli studenti a esami clinici per scoprire l’eventuale uso di sostanze illecite nasce in America, ed è quanto mai istruttivo sapere come stanno andando le cose al di là dell’Atlantico. Già alla fine degli anni ‘90, l’amministrazione americana cominciava a promuovere i programmi per testare casualmente gli studenti che partecipano al doposcuola e alle attività sportive. Nel 1996, l’Accademia Americana dei Pediatri (AAP) prendeva posizione contro la pratica di sottoporre a test obbligatori i ragazzi.

Con l’avvento di Bush, la campagna per i test decolla definitivamente: nel 2002, lo Ondcp (Office of National Drug Control Policy), l’ufficio antidroga del presidente, pubblica le linee guida per sollecitare le scuole ad adottare i test antidroga per tutti gli studenti. Nel 2006, lo zar antidroga John Walters ottiene uno stanziamento di oltre 9 milioni di dollari per diffondere i test e inizia un giro di propaganda nel paese. La parola d’ordine dello zar è: i test antidroga sono l’asso nella manica della prevenzione.

 

Costosi, inefficaci e contrari all’etica

 

L’interesse dell’amministrazione americana va di pari passo con la campagna di marketing rivolta dalle case farmaceutiche direttamente alle famiglie. Su internet, si possono acquistare direttamente prodotti per identificare le droghe nelle urine, nella saliva, nei capelli. Il costo dei test è elevato, specie per quelli del capello. La Drug Policy Alliance ha calcolato che il costo medio per studente per il solo esame iniziale è di 42 dollari.

Il che significa che una scuola media superiore che volesse testare 500 studenti spenderebbe 21.000 dollari: ovviamente i test vanno ripetuti per ricercare l’effetto deterrente, e sono da rifare più e più volte in caso di esito positivo. È dunque un grande business, che mette insieme le esigenze di mercato con la retorica della "lotta alla droga". E spiega l’accanimento con cui l’amministrazione americana persegue il suo obiettivo, nonostante l’assoluta mancanza di evidenze scientifiche.

Nel 2003, il Nida (National Institute on Drug Abuse) ha finanziato una costosissima ricerca su larga scala nella speranza di dimostrare l’efficacia della politica dei test. Dal 1998 al 2001 sono stati raccolti i dati sui consumi di 76.000 studenti di scuole medie superiori, provenienti sia da scuole con test che senza. I risultati non hanno affatto confermato l’effetto deterrente dei test: le percentuali di studenti che consumano droghe nelle scuole che applicano i test sono sostanzialmente uguali a quelle delle scuole che non li applicano.

L’Accademia Americana dei Pediatri ha di nuovo preso posizione contro questa politica nel marzo del 2007, sottolineando, fra l’altro, gli aspetti eticamente controversi dei test. Infatti, la raccolta delle urine deve seguire precise e complicate procedure di garanzia che le scuole non sono in grado di assicurare. Ma non lo sono neppure i genitori che in ogni caso, per ragioni di etica e di tutela del rapporto educativo, non dovrebbero stare a guardare i figli mentre urinano.

Problemi diversi presentano i test della saliva e del capello, di cui non è ancora definitivamente accertata la validità. Per il capello, sembra che interferisca l’esposizione passiva alle droghe così come la differenza di sesso e razza può avere un’influenza. Per la saliva e il sudore, l’efficacia nel determinare l’uso corrente varia da droga a droga: è buona per gli oppiacei e le metamfetamine, scarsa per i cannabinoidi e le benzodiazepine. Per finire, anche l’interpretazione dei test può essere complessa e certamente non alla portata del personale scolastico né dei genitori.

Droghe: la catena produttiva dell’illegalità e i suoi costi

 

Fuoriluogo, 7 giugno 2007

 

Quali droghe sono in circolazione? Quante legali e quante illegali? Perché ci si droga? Domande che sem-brano essere molto scontate ma che non lo sono affatto, anzi gli addetti ai lavori devono aggiornare continuamente i propri campi d’indagine. Anche il superlavoro è stato considerato una forma di droga: la ricerca di uno "sballo" per mettere in stand-by altri problemi del difficile mestiere di vivere. È possibile che la molla principale all’uso della droga sia il bisogno di emozioni forti o il desiderio di sentirsi forti.

Se provassimo ad assumere come ipotesi di lavoro che ci si "sballa" per provare emozioni, potremmo anche concludere che l’uso di droghe è maggiormente legato ad un tempo specifico, ai periodi più grigi e senza ideali. Il consumo di droghe potrebbe avere una causa collettiva e non essere solamente un fenomeno individuale. E se fosse la necessità di sentirsi forti e accettati bisognerebbe interrogarsi su come questa esigenza è stata soddisfatta in altri momenti e come in altre culture. I rave-party sono un tipico esempio di fenomeno collettivo, dove l’esaltazione si ottiene anche con l’uso di droghe. Un modo artificiale per avere l’effetto "sballo" di fronte a una musica martellante.

L’esaltazione e l’adrenalina si propaga anche in alcune assemblee politiche o nelle "convention" manageriali di alcune grandi società, pur senza (?) l’ausilio di droghe più o meno pesanti. La nostra società sembra fondarsi sull’esaltazione e sulle scariche d’adrenalina, perché stupirsi se alcuni trovano la via più rapida con l’uso delle droghe?

La società "malata" di illusione può essere legale e rispettata, come può essere illegale e marchiata a fuoco. La separazione è data dalla forma di eccesso da cui si è dipendente e dal ruolo che si assolve nella catena produttiva, commerciale e organizzativa.

Cercherò di delineare brevemente la catena produttiva e l’indotto del mercato illegale delle sostanze stupefacenti proibite. Il consumo di droga crea ricchezza, anche se illegale, e dà soddisfazione a persone insospettabili.

Sotto attività di copertura diventa quasi invisibile, con l’esclusione dalla catena produttiva legale. I guadagni illegali finanziano imprese legali e imprese illegali, fino alle organizzazioni terroristiche.

I consumi diretti di droghe sono già molto elevati (paragonabili da soli, secondo alcuni dati riportati in convegni specializzati, all’industria della raffinazione del petrolio) e creano una catena di attività e costi illegali e una serie di attività e costi legali che non avrebbero modo di essere: spese di processi e spese di detenzione; spese sanitarie dirette per sindromi legate all’uso di droghe; terapie dirette a tossicodipendenti; spese per attività di Intelligence e di contrasto...

Almeno il 30% dei detenuti italiani hanno subìto condanne per reati connessi a spaccio o sono tossicodipendenti che hanno cercato un ruolo attivo nell’economia illegale. Un costo insopportabile pari, solo per spese detentive, a circa l’equivalente di 800 milioni di euro nel ‘98. Quante spese legali hanno generato e quanti legali sono specialisti dei loro problemi? Sicuramente quasi tutti i penalisti si dedicano in parte a reati connessi alla droga.

Ma quello che è più grave è il prezzo che pesa sull’economia sana per la società "malata" illegale.

I costi esterni ed indiretti sono la perdita di ore di lavoro e di capitale umano, che sfuma. Le intelligenze annichilite. I morti. Per non parlare dei guasti sociali e psicologici che un tossicodipendente provoca intorno a sé.

La competitività di un paese potrebbe essere anche misurata sulla base di quanto valore si distrugge per i consumi di droga. Compito dello Stato è misurarlo e monitorarlo con strumenti metodologici adeguati, eventualmente adattando, con opportuni progetti di ricerca, quelli utilizzati in altri settori.

L’economia malata non è solo illegale, ma quella illegale può essere ridotta utilizzando le esperienze maturate all’estero (depenalizzazione per eliminare il mercato nero) o nella lotta contro fenomeni analoghi (prevenzione di fumo e alcolismo).

Bisogna individuare azioni di prevenzione e di contrasto che mirino anche all’informazione corretta e capillare e alla percezione del rischio e presa di coscienza collettiva del problema, che non riguarda solo i consumatori di droga.

L’economia illegale conta su una capillare rete pari a circa 60-70.000 persone a vario titolo affiliate alla filiera commerciale. Non tutti fra loro conoscono la qualità del prodotto che vendono e dei danni che producono. Ancora meno ne sanno i loro clienti.

Una nuova campagna informativa dovrebbe rendere più rapido l’accesso alle strutture (bassa soglia non necessariamente per tossicodipendenti, assistenza) prima ancora della dipendenza. Prima del guasto maggiore.

Una campagna informativa efficace dovrebbe far affluire i consumatori "al primo stadio" verso le strutture, non solo quelle sanitarie, che sono invece organizzate solo per chi ha raggiunto la fase di dipendenza e guasti già profondi.

È fondamentale, pertanto, predisporre strumenti metodologici per la pianificazione di strategie e la valutazione degli interventi e delle politiche e renderli fruibili a quanti operano nel campo delle dipendenze, sia sul versante del contrasto che dell’assistenza e della prevenzione, al fine di sorveglianza e monitoraggio continui per il supporto alle decisioni.

È utile tenere presente che la mancanza di progetti di valutazione su vasta scala dell’impatto sull’economia e dell’efficacia degli interventi ha prodotto, non solo una generalizzata disinformazione e il continuo riproporsi di pseudo analisi basate su argomenti ideologici e moralistici, ma anche la scarsa attenzione alla qualità e completezza dei dati raccolti sui fenomeni droga-correlati.

La sfida è far comprendere alla nostra società che siamo di fronte ad un problema collettivo più rilevante di quanto viene percepito, anche dal punto di vista economico. Da questo la logica conseguenza che si deve cambiare politica e passare da una semplice azione repressiva/punitiva ad una più consapevole ed articolata azione di prevenzione.

Droghe: le sanzioni, più che un’occasione, sono un ingombro

di Susanna Ronconi (Forum Droghe)

 

Fuoriluogo, 7 giugno 2007

 

Con brutto neologismo, si chiamano i "prefettati". Sono quelle persone segnalate dalle Prefetture ai Sert in quanto consumatori di sostanze illegali, secondo l’articolo 121, per lo più consumatori di cannabis, e quelli sottoposti a sanzioni amministrative per detenzione e possesso personale, secondo l’articolo 75, che possono accedere a un programma terapeutico in alternativa alla sanzione, in crescita quelli che usano cocaina.

I "prefettati" della Fini Giovanardi non sono ancora, dopo un anno, arrivati ai servizi, ma la legge 49/2006, come noto, ha inasprito alcuni aspetti, pur senza modificare sostanzialmente l’impianto del Testo unico 309, e dunque le esperienze dei servizi possono già dirci molto su percorsi e gli esiti dell’assunto-base della nostra normativa: che l’aggancio per via sanzionatoria sia produttivo dal punto di vista della cura.

O meglio e più propriamente - secondo la lettera della legge - della "guarigione", essendo l’astinenza esplicitamente l’esito richiesto. Che valutazione danno gli operatori di questo dispositivo sanzionatorio-terapeutico? E come si sono nel tempo attrezzati a gestirlo? Susanna Collodi, medico responsabile del Sert Roma B, Paola Panzieri, assistente sociale del Sert di Faenza e Riccardo De Facci della Cooperativa Lotta all’Emarginazione di Milano, pur nella diversità delle esperienze, concordano su molte criticità.

La prima, i tempi: da 1 a 3 anni tra segnalazione e contatto con un operatore. De Facci, che segue il progetto regionale lombardo con cui una partnership pubblico-privato gestisce gli invii dalla Prefettura di Milano, segnala come questa iniziativa sia stata stimolata anche da questi ritardi: "Era arrivata una richiesta di aiuto dalla Prefettura di Milano che all’inizio del 2000 aveva circa 3.000 colloqui arretrati. L’arrivo ai servizi con una media che oscilla tra i 2 e i 3 anni invalida anche quell’elemento minimo positivo che avrebbe potuto esserci in un aggancio precoce. In quel modo la segnalazione finisce con l’avere solo il senso della sanzione pura".

Anche a Roma è così: "Gli invii, sia per il 121 (segnalazione per consumo) che per il 75 (sanzioni amministrative per consumo), arrivano minimo un anno e mezzo dopo il fermo, capita che vi siano persone decedute e consumatori che nemmeno se ne ricordano più", dice Susanna Collodi. E le realtà più piccole, come Faenza, non sono diverse, anche lì si parla di due anni, e secondo Paola Panzieri "Se un’azione in cui sei perseguito per legge si concretizza dopo due anni, che senso può avere? Nel frattempo le cose cambiano".

Ma non sembra essere solo una questione di efficienza, se anche i tempi fossero brevi, gran parte dei consumatori se non costretti dall’articolo 75 non arriverebbero ai colloqui comunque: "Credo che tutto questo non sia molto utile. Dobbiamo dirci che al semplice consumatore, delle sanzioni amministrative non gliene importa niente: se gli tolgono la patente, prima che arrivi il provvedimento ne passa del tempo! Vengono qui quando sono all’ultima spiaggia costretti dall’articolo 75, ma per la segnalazione, quale aggancio?

Non ce n’è proprio, e questo da sempre" (Collodi). Oltre a quelli che non si presentano, resta secondo gli operatori il nodo di fondo dell’approccio sanzionatorio. Che nelle loro pratiche appare ben più un ingombro che un’occasione e che cercano di minimizzare e aggirare per poter aprire una relazione sensata. Dai racconti professionali si coglie l’imbarazzo di dover fare buon viso a cattiva sorte: "Il progetto milanese è un intervento per dare a questa segnalazione un valore diverso, nell’ottica di limitare i potenziali danni di una sanzione fine a se stessa. Il contatto si crea quando la sanzione "sfuma" come dimensione primaria" (De Facci).

"Dato che si deve fare, almeno proviamo a fare qualcosa che abbia senso... Anche se il senso di tutto questo è molto relativo, negli anni abbiamo tentato di fare qualche cambiamento anche per non buttare via il tempo, e non fare azioni solo burocratiche" (Panzieri). Certo, coloro che arrivano al colloquio in alcuni casi "usano" positivamente l’occasione del contatto, entrano in relazione, a volte tornano spontaneamente. E alcuni sono agganciati precocemente.

Lo fanno soprattutto quando, come a Milano e a Faenza, sono accolti in luoghi "neutri", non - Sert, centri giovanili o consultori. E lo fanno comunque quando trovano non un approccio dissuasivo e abstinence oriented, ma all’opposto un intervento informativo e orientato alla consapevolezza. Le azioni professionali prevalenti con i consumatori ex 121 non sono certo quelle attese da chi mira all’astinenza, ma proprio grazie alla professionalità degli operatori qualcosa di più pragmatico e sensato, assai vicino a quanto viene attivato nei luoghi naturali di aggregazione e divertimento: "Noi per lo più con i consumatori, il cui atteggiamento è quello di dire "cosa c’entro e che ci faccio qui?"... puntiamo molto sull’informazione legale, perché questo è uno degli aspetti di rischio.

E poi ragioniamo sulle sostanze, gli effetti, la loro storia, la dimensione culturale, promuoviamo elementi di consapevolezza, anche sul rapporto droghe e sessualità e rischi relativi". E De Facci: "Nessuno ha mai esplicitato un obiettivo di cessazione dell’uso, bensì di sensibilizzazione, anche perché in questo dispositivo non era comunque possibile garantirlo".

Insomma, un lavoro di limitazione dei rischi, sapendo che "continueranno a consumare". E su cui, però, a questo punto si apre tutta la contraddittorietà di un approccio punitivo mirato all’astinenza. La legge e le pratiche sensate degli operatori non "stanno insieme". "Credo che l’aggancio debba avvenire in altri contesti - dice Susanna Collodi - e non attraverso le sanzioni o il 121: ha più valore una buona informazione in luoghi di aggregazione.

Dobbiamo dare per scontato che il consumo c’è. I consumatori sanno benissimo qual è il meccanismo burocratico, e non ha effetto alcuno". Se con l’articolo 121 nessuno, nella pratica, si aspetta una scelta di astinenza, c’è anche da notare che le prese in carico per situazioni problematiche sono assai rare: poche decine in 3 anni su oltre 2000 persone segnalate, nel progetto milanese; assai rare anche a Roma, dove per altro, secondo Collodi, "non mi è mai capitato di trovare una situazione davvero problematica per un consumatore di canapa. In passato è capitato qualche raro caso di difficoltà scolastiche, ma c’erano altre problematiche familiari o relazionali; non mi sentirei di poterle attribuire con certezza all’uso di canapa".

Assai diverso e complesso lo scenario dell’articolo 75, dove sono presenti più consumatori di cocaina e poliassuntori, e dove l’azione degli operatori è vincolata ad un buon esito del programma in termini di scelta astinenziale.

Qui scatta la lotteria delle Prefetture: dove c’è più flessibilità un programma può essere prolungato o reiterato, su proposta del Sert, prima che scatti la sanzione. Ma anche qui, il pragmatismo disincantato degli operatori verso l’approccio sanzionatorio è evidente: "Con il 75 c’è l’obiettivo dell’astinenza, con noi per un periodo la persona si impegna a fare i controlli delle urine, per quasi due mesi, e un colloquio con il medico.

Noi seguiamo la persona aiutandola almeno a "tenere", a sperimentare un periodo, quello richiesto, di astinenza, a provare a fare un periodo della vita senza la sostanza e vedere come va" (Panzieri). E Collodi dice che "per i consumatori di cocaina, se non si riscontra altra patologia, se c’è buona integrazione sociale e un buono stato di salute - come ormai è la norma - si fanno colloqui periodici con lo psicologo e con l’assistente sociale, che possono anche diventare una psicoterapia, ma di solito sono semplicemente colloqui. Si fa poi il controllo delle urine per arrivare a una relazione alla Prefettura e evitare le sanzioni amministrative". Posizioni oneste e pragmatiche. Del resto non vi sono studi di follow up che dicano con chiarezza se e come l’astinenza ottenuta per via sanzionatoria abbia una qualche tenuta.

Droghe: attenzione alla cannabis Ogm, è più potente

 

Notiziario Aduc, 7 giugno 2007

 

Dalla cannabis geneticamente modificata, marijuana e olio di hascisc enormemente più potenti: come è accaduto per il pomodoro o il mais, oggi gli Ogm arrivano anche sul mercato della droga. Lo denuncia la Società Italiana di Psichiatria, che per fronteggiare il dilagare della droga, in particolare della cannabis, fra i giovani, mette a disposizione una task force di 500 giovani psichiatri, adeguatamente preparati.

Per la marijuana, rispetto al contenuto di principio attivo della pianta normale, pari a 0,5-1% -spiega Massimo Clerici, docente di psichiatria all’Università di Milano - l’analogo prodotto Ogm arriva a contenerne fino al 10-15%. Quanto all’olio di hascisc si va fino al 20 e anche al 50%.

"Oggi vediamo ragazzini che fumano spinelli, che mostrano i sintomi di problemi molto più gravi rispetto a quelli dei loro coetanei hippies degli anni Settanta. Se a questo aggiungiamo il fatto che l’accessibilità alla cannabis oggi è molto maggiore, anzi, negli ultimi due anni è aumentata del 20%, ci accorgiamo di come la situazione diventi sempre più grave". Per questo, la Società Italiana di Psichiatria, mette a disposizione delle singole scuole italiane, 500 giovani psichiatri particolarmente formati e preparati ad affrontare il problema. I 500 hanno appena concluso una formazione ad hoc sul tema: "Cannabis, Alcol e Disturbi psicotici", svoltosi in 16 città italiane.

 

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