Rassegna stampa 5 giugno

 

Giustizia: Olga D’Antona; serve più educazione alla democrazia

 

La Repubblica, 5 giugno 2007

 

"Una parte dei manifestanti davanti al carcere dell’Aquila facevano parte delle associazioni di volontariato nelle carceri e chiedevano condizioni più umane per chi è sottoposto al 41 bis. Ma sono stati sovrastati da chi inneggiava alla Lioce e scandiva slogan a favore del terrorismo, di quelli che hanno ucciso mio marito Massimo e Marco Biagi". Olga D’Antona parla chiaro.

 

La preoccupa il fatto che all’Aquila manifestino, anche se in pochi?

"Non credo che siano tutti terroristi, alcuni sono contigui a quella zona grigia, ma vorrei ricordare che bastano due persone armate ad uccidere un uomo inerme. Quindi mi sembra un segnale da non sottovalutare".

 

Davanti alla casa di Biagi, a Bologna, qualcuno ha scritto che lo Stato è terrorista.

È un segnale molto preoccupante. Negli anni del terrorismo delle Brigate Rosse sappiamo che ci sono stati momenti oscuri, non è un caso che Sergio Zavoli scelse per la sua inchiesta il nome "La notte della Repubblica". Ma non possiamo affermare che tutti gli uomini delle istituzioni erano terroristi. Tanto più grave è affermarlo oggi. Contro la violenza, non basta la repressione, è necessaria un’opera di educazione alla democrazia, e anche la politica non può essere latitante".

 

Ma nelle carceri la vita è grama…

"Le condizioni di chi è sottoposto al carcere duro vanno migliorate, gli schermi grigi davanti alle finestre creano sofferenza. Ma questa è una società che si deve difendere dalla criminalità, e dalle celle i boss possono continuare a comandare. Non desidero la sofferenza di nessuno, il reinserimento è primario laddove è possibile, come dice la Costituzione, ma dobbiamo difendere la società democratica".

Giustizia: pm Ingroia; un 41-bis meno duro, ma con più controlli

 

L’Unità, 5 giugno 2007

 

"Il 41 bis? Oggi è sostanzialmente inefficiente e dobbiamo cambiare impostazione: qualche fornellino a gas in più nelle celle va pure bene, a patto di registrare in video e in audio tutti i colloqui con i familiari. Per revocarlo, poi, bisogna invertire l’onere della prova: sia il detenuto a provare la rottura del vincolo associativo. Parlo di quelli mafiosi, naturalmente, perché vedo meno l’utilità del carcere duro per altre organizzazioni criminali".

Il giorno dopo la manifestazione di L’Aquila contro il 41-bis il pm della procura di Palermo, da poco rientrato nella direzione nazionale antimafia, Antonio Ingroia lancia una proposta quasi rivoluzionaria: "Non chiamiamolo più regime di carcere duro, ma soltanto più controllato. Non si potranno controllare tutti i detenuti mafiosi, ma dovrà essere applicato ai veri capi e agli esponenti di spicco".

 

Da dove nasce questa proposta?

"Dall’esigenza di uscire fuori dalle semplificazioni e dai luoghi comuni. Fino ad oggi il dibattito sul 41-bis è stato male impostato: da una parte c’è la tutela della sicurezza pubblica uguale carcere duro accentuando la funzione retributiva della pena, dall’altra parte troviamo la tutela dei diritti di garanzia del detenuto e della funzione rieducativa della pena. Il 41-bis non deve ridursi ad una maggiore afflittività della pena, per intenderci qualche fornellino a gas in meno o qualche colloquio in meno con i familiari, perché anche un solo colloquio al mese con un familiare non controllato può consentire la trasmissione di ordini di morte dall’interno verso l’esterno del carcere".

 

E allora?

"La ragione ispiratrice del 41 bis nasceva dall’esigenza di rompere il vincolo associativo che lega il mafioso alla sua organizzazione: un risultato che si realizza controllando le sue comunicazioni con l’esterno ed impedendo che si aprano maglie in questa barriera. Il vetro divisorio e, ad esempio, il controllo con video e audio registrazioni dei colloqui pure incrementandone il numero sarebbe un minimo sacrificio finalizzato alla funzionalità di una detenzione altrimenti inutile".

 

Il 41 bis è inefficiente ma anche giuridicamente discusso: molti tribunali di sorveglianza stanno restituendo numerosi mafiosi al regime normale venuto meno il presupposto dell’erogazione, e cioè i contatti con l’esterno che polizia e carabinieri provano con sempre maggiore difficoltà…

"Una volta resa meno afflittiva ma più funzionale la detenzione del mafioso verrebbe meno quest’altro paradosso della legislazione vigente. Anche questa impostazione con esiti paradossali va rovesciata: bisogna partire dalla presunzione della sussistenza del collegamento tra mafioso e associazione anche in costanza di regime carcerario e deve essere il mafioso a provare la rottura del vincolo associativo".

 

Ma così, obbietteranno gli avvocati, si inverte l’onere della prova...

"È vero, ma d’altra parte rendendo il regime meno afflittivo e soltanto più controllato avremmo un 41-bis più umano anche se sulla base di un’inversione dell’onere della prova: quindi costi e benefici anche sul piano delle garanzie, si compenserebbero. Sarebbe quindi un buon punto di equilibrio tra tutela della sicurezza dei cittadini e diritto di garanzia del detenuti".

 

Il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso sostiene che in Italia, il dibattito sulla mafia, e quindi anche sul 4-bis, sembra ripercorrere tutti i temi del documento presentato da Riina allo Stato nel ‘92. Lei che ne pensa?

"Credo che il quadro di riferimento e la storia quando si parla di temi così delicati non possono essere ignorati. Che l’abrogazione del 41-bis e dell’ergastolo fossero degli obiettivi della mafia è un dato non decisivo di per sé ma neppure trascurabile, al di là di talune nobili questioni di principio non si può ignorare il dato della realtà criminale con cui si ha a che fare".

Giustizia: temo che il mio compagno di cella stia morendo...

 

Liberazione, 5 giugno 2007

 

Dal carcere romano di Rebibbia Penale arriva questa testimonianza.

Negli ultimi anni la mia cella ha ospitato decine di persone, gente che ad un certo punto cambiava ubicazione carceraria, tornava in libertà o riusciva ad ottenere la libertà condizionale. Nel 2001 eravamo in cinque, di cui tre italiani, un rumeno e un ragazzo rom. Nel 2002 eravamo in due, io e un prigioniero condannato all’ergastolo. Nel 2003 eravamo in due, io e un giovane napoletano detenuto per rapina. Dal 2004 fino ad un mese fa eravamo in due, io e un prigioniero politico - detenuto dal 1981 e condannato all’ergastolo - che di recente ha ottenuto la libertà condizionale sulla base di dati oggettivi e delle attività socialmente utili da lui svolte.

Una trentina di giorni fa ero felice di essere rimasto da solo, ma da qualche giorno nella mia cella c’è un ospite nuovo. Il suo nome è Francesco. Ha 54 anni e proviene dal tristemente famoso carcere di Sulmona, luogo in cui si concentra un alto tasso di suicidi ormai da diversi anni e senza soluzione di continuità.

Francesco di notte, mentre dorme, ha un forte affanno respiratorio che non mi fa riposare in santa pace. Lui dovrebbe usare nottetempo un apparecchio per sopperire a questo suo malanno, ma in questo periodo non ce l’ha. Nel carcere di Sulmona poteva averlo, a Rebibbia Penale di Roma, nel reparto per detenuti in misure alternative come il lavoro esterno (ex articolo 21) e la semilibertà, non gliel’hanno fatto entrare.

Più in generale, le sue condizioni di salute mi preoccupano. Negli ultimi mesi, ha perso 30 chili di peso. Non ho idea se la causa fondamentale di questa sua notevole riduzione di peso corporeo sia lo stress della vita segregata nel carcere di Sulmona, dove il trattamento per tutti è assai duro, oppure se oltre a ciò vi sia qualche altro motivo. Non ho idea se questa situazione denoti un caso di tubercolosi, che per altro - se così fosse - presenterebbe un periodo di possibile contagio per via aerogena. La sanità in carcere, come se non bastasse, funziona molto peggio rispetto a fuori e quindi ho paura che lui muoia da un momento all’altro.

Penso a queste cose, ma non gliele dico. Cerco di fargli domande su altre questioni e lui, sdraiato sulla branda, con gli occhi al soffitto e una mano sui baffi grigi,mi racconta qualcosa della sua vita: i genitori emigrati da un paesino della Calabria a Roma, l’infanzia trascorsa a Pietralata e poi al Pigneto, i primi furti di auto all’età di 14 anni e poi tanti altri piccoli reati e tante carcerazioni.

"Ora - gli ho chiesto - per quale reato stai dentro?". "Non ho fatto nessun reato particolare, - mi ha risposto - ma dato che sono etichettato come delinquente abituale, adesso sono un internato". Finalmente, ho pensato dentro di me, ora capisco meglio chi sono gli internati, ne ho visto uno in carne ed ossa che adesso è chiuso nella mia cella in attesa della fissazione del trattamento per la semilibertà! Gli internati non sono molti ma sono una categoria inventata dal codice Rocco dell’epoca fascista.

Alcuni sono quelli che si trovano in un Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario), altri sono rinchiusi in diverse carceri. In genere si tratta di cosiddetti delinquenti abituali, persone che per disagi economici, sociali e/o mentali finiscono più volte in carcere e solo per questo motivo vengono bollati a vita.

Adesso la mia cella è una cartina tornasole dell’arcaicità del sistema penale: vi si trovano la figura dell’ergastolano, incarnata da me dal 1982 per motivi politici, e quella dell’internato, rappresentata da Francesco. Per cambiare lo stato di cose bisogna lottare, fare "controinformazione", come si diceva negli anni ‘70, altrimenti tutto rischia di peggiorare. Perché dovrei essere condannato anche a veder morire il mio attuale compagno di cella? Perché dovrei far finta di niente e stare zitto, senza denunciare pubblicamente le piccole e grandi disumanità quotidiane del vigente sistema penale?

 

Lettera firmata

Napoli: baby rapinatore a 16 anni, ucciso da un carabiniere

 

La Repubblica, 5 giugno 2007

 

La pistola del rapinatore sedicenne è un giocattolo: non può uccidere. Ma il ragazzino la punta contro il carabiniere che lo insegue, che gli grida di fermarsi e che poi spara con la sua arma d’ordinanza. Quella non è un giocattolo. IL proiettile entra nella testa del ragazzo, lo ammazza sul colpo. Non dà scampo al giovane che nella movida di domenica notte a Posillipo, nella Napoli delle cartoline, era con i cinque compagni della banda a caccia di denaro. Aveva appena preso dieci euro in un pub, dopo aver minacciato con quella innocua scacciacani il titolare. Il carabiniere che ha ucciso Marco De Rosa è ora indagato per omicidio volontario. Un atto dovuto - firmato dal pm Aldo Ingangi - per la nomina dei periti che parteciperanno all’autopsia.

È quasi l’una, nella notte tra domenica e ieri in via Posillipo, lungo il tratto che degrada verso gli chalet di Mergellina. All’interno del pub "Jenline" padre e figlio titolare stanno mettendo in ordine prima della chiusura alla fine del week-end. Il locale è vuoto. All’esterno scorrazza una banda in motorino, sono sei giovani in sella a tre scooter. Tre, quattro volte, avanti e indietro davanti al pub.

Forse vogliono assicurarsi che si tratti di un colpo facile. Infine decidono, si fermano a qualche metro di distanza dal pub ma solo due scendono dalle selle per entrare da Jenline. Hanno i caschi sulla testa, uno di loro è armato di pistola. È un giocattolo ma senza il tappo rosso, un modello di Ppk, l’arma di James Bond.

I due giovani piombano nel locale, puntano la pistola in faccia al titolare. "Dacci i soldi". "Non c’è niente, posso darvi il mio portafogli", risponde il commerciante. Si accorge che i rapinatori sono nervosi ma non può tenerli buoni con il denaro. "Sono entrati urlando - racconterà poi il titolare del pub - volevano il cassetto del registratore. Mi hanno fatto piegare, e in attimo mi sono ritrovato a testa in giù dietro il bancone, con una pistola puntata alla tempia. Ho pensato ai miei figli, e che la mia vita poteva finire lì". L’incasso del fine settimana è stato da poco depositato nella cassa continua di un vicino istituto di credito. A quel punto il malvivente armato dà la Ppk al complice che lo accompagna - e che è Marco De Rosa, il giovane che verrà ucciso di li a pochi minuti - e apre la cassa. Gli tremano le mani, fa cadere alcune monete per terra. Trova solo dieci euro. In quegli stessi istanti nel pub entra una ragazza. Vuole comprarsi un panino ma si ritrova ad essere spettatrice della rapina. La paura la spinge fuori, in strada, a gridare aiuto.

In quel momento sta passando l’auto con tre carabinieri a bordo. È una vettura privata, i militari del battaglione Campania sono in borghese. Serata libera. Vedono la ragazza correre al centro della strada, la sentono urlare. Intanto i rapinatori presi dal panico hanno preso la cassetta del denaro e si sono precipitati fuori. Ci vuole poco per capire cosa sta succedendo.

I tre carabinieri frenano, scendono dall’auto, due di loro impugnano le pistole. "Alt, carabinieri". Il primo rapinatore ha già raggiunto i compagni e saltato in sella al motorino.

La banda si allontana. Marco De Rosa, invece, è rimasto a piedi e con la pistola in pugno. Corre verso i compagni che lo incitano a far presto. "Corri, corri". Loro non possono fermarsi. E De Rosa, grande e grosso, si ritrova tra i complici in fuga che non riesce a raggiungere e i tre carabinieri che lo inseguono a piedi. Due di loro sparano in aria. Uno, due, sei colpi. Il sedicenne si volta indietro, punta il suo giocattolo contro i carabinieri. Il settimo colpo lo uccide.

Emilia Romagna: dalla regione medici specialisti per il carcere

 

www.stato-oggi.it, 5 giugno 2007

 

Dopo l’assistenza farmaceutica e l’intervento sulle tossicodipendenze, il Servizio sanitario regionale dell’Emilia-Romagna a partire dall’1 giugno garantisce, prima regione in Italia, l’assistenza medico-specialistica alle persone ristrette in carcere. Lo prevede una intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Emilia-Romagna, firmata in questi giorni dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Ettore Ferrara e dal presidente della Regione Vasco Errani. A questa intesa è collegato un accordo attuativo siglato dal provveditore regionale alle Carceri Nello Cesari e dall’assessore regionale alle Politiche per la salute, Giovanni Bissoni, i cui contenuti saranno resi noti in dettaglio domani nel corso di una conferenza stampa.

Bergamo: detenuto-record; 41 anni, ne ha passati 19 in prigione

 

Agi, 5 giugno 2007

 

In carcere è di casa, gli agenti lo chiamano per nome e se non lo vedono per un po' di tempo cominciano a preoccuparsi. Ci sono criminali incalliti e potenti mafiosi che di galera ne hanno fatta molta meno di lui: eppure il bergamasco A.R.D., che al massimo spaccia qualche grammo di droga o compie qualche furtarello, è riuscito a trascorrere in prigione quasi metà della sua vita. Dei suoi 41 anni ne ha passati dietro le sbarre 19, grazie alla sua incredibile capacità di farsi pizzicare sempre e ovunque, subito dopo avere commesso un reato di qualsiasi tipo.

Come qualche mese fa, quando aveva lasciato la sua seconda casa dietro le sbarre con l’unico divieto di allontanarsi da casa (quella vera) dalle 20 alle 7 del mattino. Ma già la prima sera era riuscito a farsi beccare a spasso alle 21 e prima di mezzanotte già aveva rivisto la sua vecchia cella: in tutto aveva trascorso all’aria aperta una dozzina di ore.

La sua fedina penale ormai è lunga come un braccio, e con quella di ieri ha messo insieme la bellezza di sedici condanne per truffa, droga, gioco d’azzardo, porto d’armi abusivo e danneggiamento. Una carriera iniziata nel 1989 e che ha come picco anche un vero record: A.D.R. è riuscito ad essere il primo imputato in Italia a farsi condannato con la legge ex-Cirielli, che prevede l’inasprimento delle pene per chi è recidivo.

I commessi del tribunale, che cominciavano a stare in pensiero, se lo sono rivisti comparire davanti per un reato dello scorso dicembre. L’imputato era in libertà da ben otto giorni, quando i poliziotti lo avevano visto passare in auto con un amico bresciano e avevano pensato bene di fare un controllo. E sulla vettura erano stati trovati cinque grammi di eroina e due di cocaina. Risultato: condanna numero sedici, tre anni a testa per i due complici. Solo che il bresciano è in libertà, mentre il bergamasco ha visto riaprirsi le porte del carcere.

Polizia Penitenziaria negli Uepe: lettera da Rsu Uepe di Ancona

 

Comunicato stampa, 5 giugno 2007

 

Al Ministro della Giustizia Sen. Clemente Mastella

Al Sottosegretario di Stato per la Giustizia Prof. Luigi Manconi

Al Capo del D.A.P. Dr. Ettore Ferrara

Al Direttore Generale D.G. E.P.E. Dr. Turrini Vita

Al Direttore Generale del Personale Dr. De Pascalis

Al Responsabile dell’Ufficio per le Relazioni Sindacali - Dap Dr.ssa Conte

Al Provveditore Regionale Amm. Pen. delle Marche Dr. Iannace

All’Ordine Nazionale Assistenti Sociali Dr.ssa Cava

All’Ordine Regionale Assistenti Sociali Regione Marche

Al Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia

Alle Organizzazioni Sindacali

 

Oggetto: Sperimentazione della Polizia Penitenziaria presso gli U.E.P.E.

 

Gli operatori dell’UEPE di Ancona, riunitisi in assemblea sindacale il 15.5.07, manifestano all’unanimità preoccupazione e perplessità per quanto contenuto nella Bozza di Decreto Ministeriale, così come concepita, che prevede l’inserimento della Polizia Penitenziaria presso gli UEPE con compiti di controllo sulle misure alternative.

L’argomento in questione appare ampio e delicato, oltre che imprescindibilmente legato ai cambiamenti legislativi allo studio in tema di codice penale e sistema sanzionatorio.

Occorrerebbe, pertanto, prevedere in futuro cambiamenti organizzativi che rispondano in modo più organico e coerente a questi principi riformisti.

Più che inseguire esigenze di immagine ed interessi parziali, bisognerebbe partire, inoltre, dall’analisi del contesto attuale e dei dati relativi alla storia dell’andamento delle misure alternative, risultati già evidenziati da altri UEPE e da altri organismi, prima di proporre modifiche che non sembrano poter produrre effetti di maggiore efficacia e che portano invece più confusione nel campo dell’esecuzione penale esterna.

Un’altra analisi da fare è sicuramente quella relativa a risorse, mezzi e strumenti a disposizione dell’Amministrazione Penitenziaria, sempre carenti negli anni, tanto da riuscire a garantire solo livelli minimi di prestazioni, nell’esecuzione penale esterna e soprattutto nel trattamento interno dei detenuti all’interno degli Istituti Penitenziari.

Gli operatori, pertanto, si associano a quanti hanno già espresso il proprio dissenso, altri UEPE, Volontariato, alcune OO.SS. e altri settori della società civile, e chiedono la sospensione della sperimentazione prevista dalla Bozza del Decreto Ministeriale e il superamento del decreto stesso, in previsione di un dibattito più ampio e democratico che coinvolga tutti gli attori che operano nel campo dell’esecuzione penale esterna, compresi e non ultimi gli assistenti sociali, cioè coloro che gestiscono le misure alternative da più di trent’anni.

 

Rsu Uepe Di Ancona

Ancona: seminario su risorse territoriali per l'inclusione sociale

 

Comunicato stampa, 5 giugno 2007

 

Le Risorse del Territorio Marchigiano quale strumento per favorire l’inclusione sociale dei condannati. Seminario conclusivo. Martedì 12 giugno 2007, dalle ore 9 alle ore 17, si svolgerà ad Ancona, presso la Sala Raffaello del palazzo della Regione Marche, il seminario conclusivo "Le Risorse del Territorio Marchigiano quale strumento per favorire l’inclusione sociale dei condannati". Il seminario rappresenta la giornata conclusiva del corso rivolto ad operatori dell’Amministrazione Penitenziaria, di Enti, Associazioni di Volontariato e Cooperative Sociali, avviato alla fine dello scorso anno e realizzato in quattro edizioni provinciali. Il corso si proponeva come obiettivo ultimo, attraverso un’attività di project work, la definizione di strategie e possibili percorsi d’inclusione sociale attraverso il supporto di una rete sociale attiva e partecipe.

In questa giornata conclusiva si presenteranno ai referenti politici locali, ai rappresentanti del mondo imprenditoriale, della cooperazione sociale e alla cittadinanza interessata, i progetti elaborati dagli operatori affinché possano trovare riconoscimenti e sostegni nelle scelte politiche ed economiche regionali.

Al seminario interverranno, tra gli altri, il Provveditore Regione Marche Raffaele Iannace, gli Assessori Regionali Marco Amagliani e Ugo Ascoli, il direttore generale della Confindustria Marche Paola Bichi-Secchi, l’assessore Sicurezza e Salute Comune di Pesaro Riccardo Pascucci, il coordinatore dell’Ambito Territoriale IX Riccardo Borini, il Presidente della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Marche Anna Pia Saccomandi, il direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale di Ancona Elena Paradiso.

Imperia: detenuti recuperano parchi e aree verdi per i disabili

 

Secolo XIX, 5 giugno 2007

 

Saranno recuperate dai detenuti a vantaggio di associazioni di persone diversamente utili due aree, a San Romolo nel parco naturale sanremese, e a Imperia presso un uliveto in località Piani. Nella prima verrà realizzata una sorta di fattoria, nell’altra un giardino con annesso parcheggio. È stato presentato ieri presso la scuola edile di via Privata Gazzano il progetto "Hansel & Gretel". Prevede , attraverso il reinserimento di detenuti delle case circondariali di Sanremo e Imperia nel mondo del lavoro, un percorso di formazione e d’impiego nei lavori di recupero di aree verdi a favore di persone portatrici di handicap.

È stato elaborato dalle direzioni dei due carceri, di Imperia e di Valle Armea, dalle amministrazioni comunali di Imperia e Sanremo e dalla amministrazione provinciale. I corsi saranno tenuti presso la scuola edile. Lo stesso istituto provvederà a seguire le due opere. Il progetto ha ricevuto un finanziamento di oltre 230 mila euro dall’ufficio cassa dell’Amministrazione penitenziaria. Scatterà a partire dal prossimo settembre.

" Le aree verdi sono praticamente dismesse e verranno recuperate grazie al lavoro dei detenuti: questo aspetto già ci conforta - hanno illustrato l’iniziativa il direttore del carcere sanremese, Francesco Frontirrè e della casa circondariale di Imperia, Angelo Gabriele Manes - Il fatto che poi queste aree possano rendersi fruibili ai portatori di handicap ci conforta a maggiore ragione". Detenuti impegnati nel sociale oltre che reinseriti, insomma.

"Ancora una volta la scuola edile entra in collaborazione con le amministrazioni degli enti locali e con l’amministrazione carceraria per realizzare un progetto di grande utilità sociale - commenta l’iniziativa il direttore della scuola, Giorgio Silvano - Credo che da questo progetto possano crearsi opportunità in linea generale per chi non è stato fortunato". A San Romolo si prevede di recuperare un’area di circa 3000 metri quadrati. Altrettanti metri di superficie verranno recuperati ai Piani, non lontano dalle case popolari. "Tra l’altro - spiega l’assessore all’arredo urbano di Imperia, Angela Ardissone - la zona interessata dai lavori, un uliveto di pregio, è in completo stato di abbandono".

Bologna: la biblioteca comunale apre un servizio nel carcere

 

Vita, 5 giugno 2007

 

È questo il risultato di un progetto sostenuto dalla biblioteca comunale Sala Borsa in collaborazione con la Casa circondariale, l’associazione "Ausilio Cultura", la Coop Adriatica e il Comune. Dopo una prima fase di sperimentazione, messa in atto tra giugno e settembre 2006, oggi diventa un servizio continuativo a tutti gli effetti.

Coordinato dalla Sala Borsa, il prestito si avvarrà anche del supporto delle biblioteche di quartiere. "Il fatto che il progetto sia diventato un servizio è il massimo che potevamo sperare", ha spiegato in conferenza stampa a Palazzo D’Accursio, la responsabile della biblioteca Sala Borsa Fabrizia Benedetti, parlando di questa iniziativa come di "un atto dovuto" nei confronti dei reclusi nel penitenziario. Un parere che ricalca quello del Garante dei diritti dei detenuti Desi Bruno, che ha osservato come "in questo modo si riconosce ai detenuti una situazione di ordinarietà e di quotidianità, oltre ad offrire un’opportunità di vicinanza alla cultura e alla conoscenza di se stessi".

Un servizio che, ha rimarcato ancora l’avvocato Bruno "va oltre, poiché offre una possibilità di approfondimento non solo ai condannati in modo definitivo, ma anche a quelli in attesa di giudizio che sono i tre quarti della popolazione carceraria e che non sono sottoposti al trattamento rieducativo". Su questa scia il Garante ha anche lanciato un appello alla Provincia di Bologna "affinché ci sia uno sviluppo ulteriore di questa iniziativa, attraverso la messa in campo di percorsi di formazione professionale che possano fornire una possibilità di sbocco agli ex carcerati" una volta fuori dalla galera.

"Il desiderio di leggere è in costante aumento" ha riferito, infine, la vicedirettrice della Dozza, Nicoletta Toscani. Un fenomeno confermato dai dati raccolti grazie ad un questionario distribuito dietro le sbarre. Nel dettaglio, dall’inizio della sperimentazione sono stati distribuiti (dai volontari di Ausilio Cultura che hanno il compito di consegnare e ritirare i volumi) 218 libri. Il 35% delle domande è giunta dalle donne (soprattutto italiane). Romanzi e poesie sono i generi più richiesti (51%), ma non mancano testi scientifici e saggi di psicologia. Rispetto alla lingua a fare la parte del leone sono stati l’albanese e l’arabo. Dan Brown, John Grisham, Steven King e Jacques Prevert gli autori più gettonati, accanto ai classici arabi e gli autori albanesi più noti come Ismal Kadarè.

Droghe: Turco; l'80-90% degli italiani è d’accordo con me

 

Il Riformista, 5 giugno 2007

 

La mia proposta sui Nas nelle scuole contro la droga ha suscitato un incredibile, almeno per me, vespaio mediatico. Sono mesi che stiamo cercando di far passare un messaggio chiaro sull’emergenza droga tra i giovani. A partire dalla necessità di un nuovo "patto" che coinvolga soprattutto insegnanti e genitori, ma anche giornalisti, sportivi, persone dello spettacolo e gestori dei luoghi di ritrovo giovanile.

Di tutto questo neanche una riga sui giornali o un servizio ai Tg. È bastato che filtrasse la parolina magica dei Nas per fare della droga a scuola la notizia che ha tenuto banco per quasi una settimana. Tutto sommato è stato utile. Polemiche comprese. Resta il fatto che gli italiani si sono dimostrati ancora una volta molto più sereni nel valutare i problemi. Non mi sono infatti sfuggiti i risultati di diversi sondaggi, effettuati a caldo da alcune testate di diversa estrazione, che evidenziano come la stragrande maggioranza degli interpellati sia a favore di un coinvolgimento dei Nas nelle scuole.

E mi ha anche fatto un certo effetto vedere questi risultati (secondo il Corriere della Sera oltre il 70% a favore, Repubblica 64%, Quotidiano nazionale 80%, Donna Moderna 92%) "incorniciati" in pagine di polemiche che apparivano lontanissime da quei pareri chiari, semplici, univoci. Anche per questo sono convinta che la politica, tutta, dovrebbe capire che la questione droga non può più essere gestita in modo così ideologico.

 

Come?

Intanto proviamo a fare un po’ d’ordine nelle nostre convinzioni.

 

Sulla lotta allo spaccio siamo tutti d’accordo?

Penso di sì. E allora si incentivino gli sforzi contro il traffico, si moltiplichino gli esempi di collaborazioni nazionali e locali per stroncare i traffici e i circuiti criminali attigui alla droga gestiti sempre dalle stesse mani (prostituzione schiavista, traffico umano di clandestini, legami con malavita organizzata italiana ed estera, ecc).

 

Sulla lotta al consumo siamo divisi?

È innegabile. E allora anziché litigare tra noi, scegliamo la via delle azioni concrete e di provata efficacia anche in altri Paesi. Si abbia il coraggio di sperimentare operazioni nuove.

 

Il kit per le famiglie?

È un’idea controversa, non c’è dubbio. Si rischia di mettere a rischio il rapporto di fiducia tra genitori e figli. Ma potrebbe anche contribuire a "sbloccare" tanti silenzi in famiglia. Per questo non mi sono tirata pregiudizialmente indietro al confronto. Parliamone. Valutiamola. Sentiamo gli esperti della materia. Lo stesso però lo si faccia dall’altra parte, quando si propongono nuove modalità di prevenzione e riduzione del danno per quei tossicodipendenti in condizioni gravissime e che possono restare facilmente vittima di una dose tagliata male o anche essere disposti a tutto per una dose.

 

Siamo anche divisi sul fatto che tutte le droghe non siano uguali?

Per quanto mi riguarda penso sia indispensabile promuovere un grande studio scientifico che tenga conto degli effetti delle vecchie e delle nuove droghe, legali e illegali. Valutiamoli questi effetti. Senza ideologie. Accettiamo quest’approccio medico-scientifica. Accettiamo che una sostanza possa essere più dannosa di un’altra e basiamoci su questi dati per le nostre politiche di prevenzione e contrasto al consumo. Tutti gli esperti ci dicono da anni che l’approccio verso un consumatore di cannabis non può essere uguale a quello verso un consumatore di eroina. E che questo è ancora diverso da chi consuma cocaina o da chi usa sostanze chimiche nuove di natura eccitante ed esternante come l’ecstasy.

 

Qualcuno pensa che alcool e fumo non siano anch’esse droghe?

Parliamone. Valutiamo anche qui i dati: lo sappiamo ad esempio che 20 morti su 100 sono ogni anno causate dal fumo e che per l’abuso di alcol ogni anno vengono ricoverate in ospedale 114 mila persone? Su una cosa, invece, dovremmo dirci tutti d’accordo: chi si droga non è un criminale, ma una persona che va aiutata e sostenuta. Ed è qui che la legge Fini-Giovanardi ha fallito. Perché fa del consumatore un potenziale criminale a prescindere.

E a decidere se è solo un consumatore o un criminale non è una valutazione attenta della persona, ma un milligrammo in più o meno di droga che può essere trovato in suo possesso. Questa logica ha portato ad entrare nel circuito penale migliaia di giovani fermati con pochi grammi di marijuana. Che poi, magari, sono stati prosciolti dalle accuse ma intanto hanno dovuto confrontarsi con il carcere, con il processo, con gli avvocati.

 

Serve tutto questo?

Io penso di no. Queste misure non sono riuscite a scoraggiare il consumo che è aumentato e inoltre spingono questi giovani ad osare sempre di più, perché la percezione di questa legge è quella che tanto la pena è sempre la stessa! Ecco perché l’approccio proibizionistico non funziona. Non ha mai funzionato con i giovani. Non funziona con le sigarette, con l’alcol, con la velocità in auto. Con i giovani serve altro. Serve portarli a ragionare, a pensare, a parlare, a confrontarsi.

Droghe: il "Forum" si autosospende dalla consulta ministeriale

 

Fuoriluogo, 5 giugno 2007

 

Il rappresentante di Forum Droghe nella Commissione Consultiva in materia di dipendenze patologiche si è autosospeso a seguito delle ultime dichiarazioni del Ministro Turco.

Quando l’associazione "Forum Droghe" mi ha fatto l’onore di chiedermi di rappresentarla all’interno della Commissione Consultativa in materia di dipendenze patologiche, istituita dal Ministero della Salute, ho accettato con entusiasmo. Le premesse lasciavano sperare in un cambiamento di stagione nel modo di affrontare le dipendenze patologiche, speranze rinforzate dalla lettera inviataci dalla Ministra.

Purtroppo i miei entusiasmi iniziali si sono tramutati, negli ultimi giorni, in un imbarazzo riguardo al mio ruolo in seno a tale commissione, nonché in forti preoccupazioni sulle politiche che il Ministero della Salute intende realmente perseguire. Le affermazioni reiterate della Ministra della Salute sull’opportunità di inviare i Nas con i cani antidroga nelle scuole, così come il suo appoggio all’iniziativa del sindaco di Milano, signora Letizia Moratti, di offrire a tutti i genitori milanesi un "kit antidroga" per controllare se i figli si drogano, mi preoccupano e mi sconcertano.

Il motivo avanzato dalla Ministra a sostegno di tali iniziative è il sacrosanto dovere di rispetto nei confronti della legalità, tuttavia rivolgendosi ad adolescenti, occorrerebbe soprattutto tener conto del dovere dell’educazione alla legalità da parte degli adulti. Sappiamo entrambi, caro Vaccari, che purtroppo i giovani si drogano, non abbiamo bisogno del kit della signora Moratti e, se lo fanno, non è perché le droghe "spengono la vita", come recita lo spot della campagna di prevenzione del Ministero della Salute, bensì perché la "illuminano", anche se purtroppo si tratta di luce artificiale.

La nostra curiosità, il nostro impegno dovrebbero essere rivolti a comprendere perché così tanti giovani hanno bisogno di questo tipo di luce. La luce naturale, di cui evidentemente mancano e che dobbiamo ridare loro, può provenire solamente dall’affetto che possono ricevere dagli altri, dalla famiglia in primis.

Purtroppo la società moderna non sa tener conto di questo tipo di bisogno, così come non è disposta a rispettare i tempi di maturazione dei suoi figli. Le espressioni di sofferenza o di disagio rappresentate dal consumo di droga, anche quando essa sembra assunta per puro scopo ricreativo, richiedono rispetto ed ascolto, e non la violenza di indagine a sorpresa. Ma che tipo di relazione vogliamo stabilire con i nostri figli?

Con questa lettera ho voluto comunicarti le mie preoccupazioni, pregandoti di renderla nota a tutti i membri della Commissione Consultativa, poiché credo che molti la condivideranno e di farla recapitare alla signora Ministra, per poter ricevere dei chiarimenti. Nell’attesa e con rammarico non posso che autosospendermi.

 

Henri Margaron

Droghe: carabinieri e cani in 16 scuole; trovato 1 grammo hashish

 

Notiziario Aduc, 5 giugno 2007

 

I carabinieri di Bologna hanno controllato nelle scorse settimane 19 istituti scolastici superiori e in una scuola media del capoluogo emiliano per verificare l’utilizzo di droghe tra gli studenti o la presenza di spacciatori all’esterno delle strutture scolastiche.

I servizi svolti da 120 carabinieri, con l’utilizzo anche di cani antidroga Flex e Mustafat (un pastore tedesco e un labrador), si sono concentrati in particolare negli orari di inizio e termine delle lezioni. Durante i controlli sono stati recuperati un grammo di hashish gettato da qualcuno in un cestino dei rifiuti in un liceo scientifico. Uno spinello già confezionato e una bustina con altri 7 grammi dello stesso stupefacente sono invece stati trovati all’esterno di un istituto professionale.

"Una valida collaborazione - fa sapere il Comando provinciale dei Carabinieri - è giunta dalle direzioni e dal corpo docente degli istituti interessati che hanno permesso di controllare bagni, corridoi, spogliatoi e palestre, cortili interni ed esterni, laboratori e quant’altro. Alcuni studenti hanno pure permesso ai militari di controllare i loro zainetti".

"Per parlare della droga e dei suoi devastanti effetti socio-sanitari non è necessario che il ministro della Salute agiti lo spauracchio di inviare i Nas nelle scuole, tutti i giorni la cronaca ci ricorda come questo sia uno dei gravi mali della nostra epoca". Lo afferma la senatrice Laura Bianconi, capogruppo di Forza Italia in commissione Igiene e Sanità. "Quello dell’uso degli stupefacenti non è un problema che si vive in modo ideologico - prosegue Bianconi - come ho sentito affermare al ministro Turco, e quando il Cnr sostiene che anche il ponentino romano sarebbe inquinato non solo dai gas di scarico ma dalla cocaina, sicuramente non c’è da stare allegri".

Un dato è certo, aggiunge, "i giovani che fanno uso di droghe e di alcol sono in continuo aumento e questo perché in loro si è innescato il meccanismo dello sballo a tutti i costi, anche grazie alla politica della canna facile, come ha fatto questo governo". Ma è qui che abbiamo il compito d’intervenire, conclude Bianconi, "fornendo loro modelli di vita che li allontanino da questa visione distorta della società, dando loro aiuto e informazioni precise sui gravi danni che queste sostanze provocano all’organismo".

Ci potevano essere altri tipi di intervento per combattere la droga nelle scuole, oltre l’invio annunciato dei Nas a partire dall’inizio del nuovo anno scolastico?

Certamente sì, risponde Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione nazionale presidi, anche se sostiene che "i Nas non creano allarmismo", se l’opportunità di intervento "viene lasciata esclusivamente al preside che conosce la realtà della propria scuola, gli elementi che ci sono da combattere e le sensibilità diffuse".

L’intervento dei Nas "comprende due questioni che vanno valutate responsabilmente dal dirigente", sottolinea il presidente dei presidi. "La prima è se occorra l’intervento - dice Rembado - la seconda è come farlo. Se si esce da questo binario il pericolo di un allarmismo diffuso ci può essere".

L’intervento delle forze dell’ordine "fa riferimento a verifiche e controlli che solo loro sono in grado di fare - sostiene Rembado - e mi riferisco alla competenza tecnica, ma anche a quella professionale, che non sono rinviabili a terzi". Per Rembado, "non ci devono essere preclusioni nell’ambito di un’attività responsabile, non ci sono strumenti che sono preclusi a priori". Vanno bene quindi anche i Nas, "altrimenti vorrebbe dire che si ha una visione ideologica del problema. Bisogna tenere conto di tanti aspetti e armonizzarli tra di loro".

"Usare i Nas nelle scuole non risolve né attutisce il problema dell’utilizzo delle droghe, che invece va affrontato con strumenti che sono l’informazione e la cultura".

Dopo i primi blitz dei carabinieri nelle scuole a Bologna e l’annuncio di altri interventi a partire dall’inizio dell’anno scolastico, gli studenti tornano in campo per ribadire la loro assoluta contrarietà all’iniziativa. "Proprio perché si tratta di scuola si dovrebbe parlare di responsabilità e di educazione degli studenti - sostiene Filippo Riniolo, portavoce dell’Unione degli studenti (Uds) - solo così potrebbe essere affrontato un tema così delicato come l’utilizzo di droghe tra i minorenni". L’impiego dei carabinieri, per il portavoce Uds, "non ha nulla a che vedere con la scuola né ha funzioni pedagogiche. Esiste un modo di trattare gli studenti che va nella direzione dell’educazione, anziché della repressione".

Secondo Riniolo, inviare i Nas nella scuola "è un provvedimento che è stato preso in maniera unilaterale dai due ministeri chiamati in causa, senza chiedere pareri neanche ai professori, che peraltro erano contrari". Non solo, aggiunge il portavoce dell’Unione degli studenti, "ancora più grave è ciò che sta a monte dell’iniziativa: un uso della politica per il controllo". L’obiettivo della scuola dovrebbe essere, invece, "quello di far esprimere e crescere i ragazzi, mentre questa soluzione va nella direzione esattamente opposta, sancendo il fallimento degli intenti pedagogici".

Secondo Riniolo, portavoce dell’Unione degli studenti, il significato dell’impiego dei Nas nelle scuole è quello di un’incapacità politica di applicare gli strumenti della "responsabilizzazione graduale dello studente". Dai 15 ai 19 anni, secondo il rappresentante Uds, "deve essere data una graduale responsabilità in più, affinché il ragazzo possa assimilare e imparare a crescere". Ma poiché questo percorso, "che dovrebbe essere pedagogico, la scuola non è in grado di farlo, lo Stato risponde con le armi che ha a disposizione".

Bruno Mellano (deputato radicale della Rosa nel Pugno) e Giulio Manfredi (Direzione Nazionale Radicali Italiani) hanno dichiarato:

I carabinieri dai presidi. Ecco il bel risultato delle incaute dichiarazioni del ministro Turco, fatte per raccattare un po’ di voti alle elezioni amministrative (visti i risultati non è stata una grande pensata) e a quindici giorni dalla chiusura delle scuole (gran tempismo).

Il generale Cotticelli mette le mani avanti, affermando che l’autonomia scolastica è salva, ma il comportamento dei suoi uomini contraddice le sue parole. Un preside è autonomo nelle scelte se decide, senza pressioni di sorta, di chiedere l’intervento delle forze dell’ordine nel suo istituto; la visita preventiva degli uomini dei Nas si configura di per se stessa come indebita ingerenza che lede alla radice l’autonomia scolastica. E l’illustrazione di quello che i carabinieri sono in grado di fare nelle scuole (controllo acqua, aria, cicche) evoca non già un dialogo costruttivo fra autorità e studenti ma scenari da stato di polizia. Per fortuna abbiamo davanti a noi i mesi estivi, da utilizzare per una salutare pausa di riflessione, senza l’assillo di campagne mediatiche inneggianti al nuovo totem della "sicurezza".

Droghe: operazione dei Nas in scuole di Bologna; risultati ridicoli

di Pietro Yates Moretti (Presidente Associazione Utenti e Consumatori)

 

Notiziario Aduc, 5 giugno 2007

 

Nelle scorse settimane, i carabinieri hanno fatto controlli antidroga in 19 istituti scolastici superiori e una scuola media di Bologna. Impegnati a controllare "bagni, corridoi, spogliatoi e palestre, cortili interni ed esterni, laboratori e… zainetti", come riferisce il Comando provinciale dell’Arma, 120 carabinieri e due cani antidroga.

Risultato delle perquisizioni: un grammo di hashish gettato da qualcuno in un cestino dei rifiuti in un liceo scientifico (uno spinello già confezionato e una bustina con altri 7 grammi di hashish sono invece stati trovati all’esterno di un istituto professionale). Non risultano esserci spacciatori arrestati o fumatori denunciati.

I risultati tangibili di questa massiccia e costosissima operazione si commentano da soli: ridicoli. Ma anche questa è la guerra alla droga, fatta di allarmi ed emergenze continue, di militarizzazione di ambiti civili, di perquisizioni e controlli intrusivi, di preziose risorse pubbliche sprecate per recuperare qualche anonimo grammo di hashish.

Gli studenti che fumano continueranno a farlo, incoraggiati da istituzioni poco serie ed efficaci di cui possono prendersi gioco. Così, nel baillame mediatico-militare, fatto di falsi proclami sulla estrema e mortale pericolosità della cannabis e di inquisizioni a mò di kit e cani antidroga, viene ancor più smarrita quella vitale informazione sulla reale nocività di ciascuna sostanza, legale e non.

Quando un compagno di classe offrirà ai nostri figli uno spinello di crack cocaine invece che di hashish, probabilmente non a scuola, può darsi che molti di essi lo fumeranno senza troppe preoccupazioni. Infondo se - come continuano a ripetere legge e istituzioni - il crack cocaine fa male al pari della cannabis, che da tempo fumano senza ancora essere morti o impazziti, tanto vale lo sballo.

 

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