Rassegna stampa 3 gennaio

 

Giustizia: dopo l’indulto meno morti in carcere, ma non basta

 

L’Unità, 3 gennaio 2007

 

Le carceri si sono svuotate ma dietro le sbarre si continua a morire. Dal 1 gennaio del 2006 al 31 luglio 2006 nelle carceri d’Italia si sono uccisi quattro detenuti al mese. Meno di tre, invece, negli ultimi cinque. Troppo, nonostante le riduzioni e l’esodo provocato dall’indulto, per i volontari che operano nel mondo penitenziario.

I dati elaborati dall’associazione dei detenuti "Ristretti Orizzonti" con il dossier "Morire di carcere" parlano chiaro: dietro le sbarre i detenuti continuano ad uccidersi. Nel 2006 sono stati 42 i carcerati che hanno deciso di farla finita, impiccandosi o soffocandosi con le buste di nylon. Non sono comunque gli unici. Se a farla da padrone sono ancora i suicidi non bisogna comunque trascurare le morti per malattia e quelle classificate con "cause da accertare".

Dati ridotti, almeno rispetto al 2005, quando in carcere sono morte 110 persone, che registrano una variazione al ribasso a partire da agosto, quando si è registrato l’esodo dalle carceri per l’entrata in vigore dell’indulto. Per la precisione, sino al 31 luglio, quando la popolazione carceraria raggiungeva le 60mila unità sono morti di galera 43 detenuti. Ventotto suicidi, 3 morti per cause da accertare, 2 incidenti e 11 per malattia. Negli ultimi cinque mesi, a leggere i dati elaborati da Ristretti, sono morte 24 persone, 14 suicidi, 4 per cause da accertare e 4 per overdose.

"Quello che emerge dall’analisi di questi dati è sicuramente confortante - spiega Fabrizio Rossetti, responsabile della Funzione pubblica della Cgil - anche perché i numeri parlano chiaro e c’è poco da barare. E i numeri hanno sempre dato ragione a chi sosteneva questa iniziativa". Un primo passaggio cui, a sentire il sindacalista, dovrebbero seguire altri interventi.

"Adesso, anche alla luce di questi dati e sarebbe opportuno che si aprisse una discussione sugli interventi e riforme". Ossia? "Pensiamo alla cancellazione delle leggi vergogna, e agli interventi che dovrebbe fare il governo e il parlamento per l’assistenza in carcere".

Tra questi interventi il rappresentante della Cgil ricorda l’emergenza sanitaria. "Bisogna risolvere il problema dei tagli all’assistenza ai detenuti ammalati - ricorda - e inoltre si devono trovare soluzioni per coloro che finiscono dietro le sbarre ma in carcere non ci devono stare". Come è successo, giusto per fare un esempio, qualche mese fa a Rebibbia dove si è ucciso un detenuto di 56 anni.

A puntare il dito contro il Parlamento per "quello che non si sta facendo" è Riccardo Arena, conduttore di Radiocarcere su Radio Radicale. "Il mio è un gesto di denuncia - dice - perché vorremmo sapere cosa si sta facendo concretamente".

Parla di "occasione da non sprecare" Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si occupa di difesa dei diritti dei detenuti. "Con l’indulto abbiamo avuto un’occasione importante, come dimostrano anche i dati sulle morti dietro le sbarre - dice - è necessario però evitare di sciuparla". Per questo motivo il rappresentante dell’associazione ricorda quali sono le priorità da compiere, per evitare che i numeri sui detenuti e sulle morti riprenda a crescere. "Si devono cancellare la Cirielli, la Bossi Fini e la Giovanardi Fini - dice - altrimenti siamo al punto di partenza. E non è escluso che nell’arco di poco tempo si ritorni ai numeri del passato".

Giustizia: storia di Giampiero ucciso dall’indifferenza a Rebibbia

 

L’Unità, 3 gennaio 2007

 

Giampiero Mariossi aveva 56 anni era nato in Sardegna ma da anni viveva a Roma. In carcere, come ha denunciato poi Angiolo Marroni, garante regionale (del Lazio) dei diritti dei detenuti, non ci doveva stare. E non ci voleva stare. Per questo motivo, alla fine si è ucciso usando il lenzuolo del letto dell’infermeria in cui era ricoverato. Giampiero da anni doveva fare i conti con una serie di malattie gravi che gli rendevano la vita impossibile. A minare il fisico la cardiopatia dilatativa, il morbo di Parkinson, gastrite cronica e inoltre quel tragico passato di ex alcolista e tossicodipendente. A Rebibbia stava scontando pene per reati collegati alla droga e sarebbe uscito dal carcere nel 2010.

I suoi legali avevano pure chiesto l’applicazione delle pene alternative proprio per fronteggiare le cattive condizioni di salute. L’uomo, che non aveva neppure una famiglia e una casa dove andare, è rimasto in carcere. Ai primi di dicembre si è impiccato con un lenzuolo alle grate dell’infermeria.

A lanciare l’allarme un altro detenuti ricoverato in infermeria. Quando sono arrivate le guardie non hanno potuto fare altro che constatarne la morte. Una tragedia che, come ha scritto subito dopo il garante regionale per i detenuti Angiolo Marroni, si sarebbe potuta evitare.

"Da tempo Giampiero, doveva essere da tutt’altra parte - ha scritto in un comunicato -. Avrebbe potuto godere di misure alternative alla detenzione, ma non aveva un posto dove andare. Abbiamo segnalato più volte il suo caso, ricevendo solo risposte burocratiche, silenzio e indifferenza".

Richieste cadute nel vuoto, che alla fine avrebbero spinto il detenuto ad uscire di scena nel modo più tragico. "Quel detenuto non doveva stare in carcere - è stata la presa di posizione della Cgil - una persona con quelle patologie deve avere la possibilità di essere curata anche perché in carcere non ci sono gli strumenti per poter intervenire concretamente".

Giustizia: i medici; dopo questi tagli impossibile curare i detenuti

 

Il Giornale, 3 gennaio 2007

 

Le carceri "scoppiano"? Ecco l’indulto che libera qualche migliaio di detenuti, ma per quelli che restano la vita continua più dura che mai e, adesso, si vedono tagliate anche le cure sanitarie. La Finanziaria contempla infatti un capitolo di bilancio della Giustizia che prevede un taglio di oltre 13 milioni di euro alla medicina penitenziaria.

Senza questi soldi ora si ridurranno i medici, non si compreranno i farmaci, si renderanno impossibili molte cure e, per converso, si moltiplicheranno le spese per i ricoveri ospedalieri e i piantonamenti ai detenuti ammalati. Insomma una spirale perversa innescata da un meccanismo che sembra proprio voler togliere ossigeno a un moribondo.

L’allarme viene dall’Associazione medici dell’amministrazione penitenziaria italiana (Amapi) che ha alzato la voce con i presidenti di Camera e Senato, il premier, i ministri di Giustizia e Salute e perfino con il Quirinale. Ma l’appello è caduto nel vuoto. Ora il rischio è altissimo.

Senza quei soldi, per la precisione 13.106.838 euro, in molti pagheranno pedaggio. In primo luogo i detenuti: diventerà impossibile acquistare i farmaci salvavita, i retrovirali contro l’Aids, l’interferone per l’epatite B e C, le protesi, tanto per citare soltanto le patologie più diffuse nelle carceri. Ma non è tutto. Il taglio colpirà gli ambulatori: non sarà più possibile riparare gli eventuali guasti delle apparecchiature medicali, né, di conseguenza, sarà possibile rinnovare la tecnologia ormai anacronistica delle strumentazioni in dotazione nei centri medici delle case circondariali.

Infine, lo stesso personale, medico e paramedico, si troverà faccia a faccia a fare i conti con un portafoglio pieno solo di lacrime. Medici di guardia, infermieri, tecnici e camici bianchi verranno giocoforza ridotti. Fino ad oggi hanno lavorato in convenzione, grazie a un accordo annuale con lo Stato che garantiva loro una certa somma in cambio di una serie di prestazioni professionali.

La forbice della Finanziaria ha reso tutto più arduo: molte forme di collaborazione non saranno più rinnovabili e per il personale sanitario le sorprese saranno ancora più cocenti. Rimarranno in mezzo alla strada centinaia di camici bianchi che andranno a infoltire la schiera dei disoccupati.

Questo vortice cupo porterà con sé risvolti negativi sempre in ambito economico perché le emergenze sanitarie andranno comunque affrontate, nonostante i tagli della Finanziaria. Se gli ambulatori chiuderanno o non potranno aiutare chi si ammala, occorrerà far curare altrove i detenuti e ciò comporterà maggiori spese legate al trasporto dei reclusi in ospedale, al relativo ricovero e alla loro conseguente sorveglianza. Solo in apparenza quindi gli attuali risparmi si riveleranno tali in realtà.

Un quadro fosco davanti al quale il presidente nazionale dell’Amapi, Francesco Ceraudo attacca frontalmente la compagine politica di governo: "A parole Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi, Radicali e Ds hanno dimostrato attenzione verso i temi del carcere in generale e della medicina penitenziaria in particolare. Ora quell’attenzione bisogna dimostrarla con i fatti recuperando i tagli con le relative integrazioni per restituire operatività ai servizi sanitari penitenziari. Finora è il deserto più assoluto. Si offende il buon senso e si calpestano gli elementari diritti dei detenuti: è come togliere ossigeno a un moribondo".

Le commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno dato parere favorevole per recuperare i tagli ma il percorso sembra in salita. Nel maxi emendamento il ministro si è riservato un capitolo di spesa di 200mila euro, utilizzabili per riassestare gli scompensi maggiori. Una coperta corta, per la sanità penitenziaria che si aspetta molto più di qualche spicciolo inutle.

Giustizia: Erba; dopo rilievi dei Ris sembra ci sia nome del killer

 

Apcom, 3 gennaio 2007

 

Rilievi minuziosi, quasi maniacali, nel cortile interno al cascinale ristrutturato di via Diaz. I vicini di casa ascoltati in maniera sempre più incalzante. La scena del delitto, le vie di fuga viste e riviste più volte. L’appartamento, che per l’ennesima volta è stato analizzato nell’ultima settimana, e che è ancora sotto sequestro, a 3 settimane dalla strage.

Poi è saltato fuori un appiglio, un indizio che ha portato gli inquirenti a convincersi di avere imboccato la pista definitiva per risolvere il giallo di Erba, ma anche a sospettare una persona, che per la prima volta in modo concreto, sembra giorno dopo giorno prendere le sembianze del killer.

Sul tavolo c’è un nome, naturalmente coperto dal segreto. Il nome di chi la sera dell’11 dicembre scorso ha ucciso, armato probabilmente di un coltello da cucina, quattro persone e ferito in modo grave una quinta. Fino a oggi senza un movente plausibile, capace di giustificare tale furia. Il sospettato sembra essere una persona che conosceva Raffaella Castagna. Che intorno alle 20 di sera si è fatto aprire senza timori la porta di casa. Si scava su vecchi dissapori sorti con una persona di Erba e che conosceva perfettamente il luogo del delitto.

Dopo che è franata clamorosamente e nel giro di poche ore la strada iniziale che puntava dritta sul tunisino Azouz Marzouk, quella che indicava il movente in un regolamento di conti tra bande di spacciatori, l’ipotesi che sia stato il gesto di uno squilibrato, comunque di una persona inizialmente insospettabile, sembra diventare sempre più credibile, ma soprattutto supportata da dati concreti.

Il punto fermo è che tra questo pomeriggio e al massimo domani mattina, al pool di cinque magistrati della Procura di Como che sta seguendo l’inchiesta, dovrebbe essere consegnata la relazione scientifica dei Ris di Parma. Si tratta di un rilievo su esami effettuati proprio tra il cortile del cascinale della famiglia Castagna e l’appartamento in cui sono stati trucidati la moglie di Azouz, Raffaella, la suocera, Paola Galli, il figlio Youssef e la vicina di casa, Paola Galli. Da questo tassello mancante dovrebbe arrivare la tanto attesa svolta dell’intera inchiesta.

La relazione dovrebbe essere consegnato al luogotenente Luciano Gallorini, comandante dei carabinieri di Erba che, subito dopo, incontrerà il procuratore capo Alessandro Maria Lodolini e i sostituti Simone Pizzotti (ufficialmente titolare del fascicolo d’inchiesta perché di turno la sera dell’11 dicembre), Mariano Fadda, Massimo Astori e Antonio Nalesso. "Siamo in un momento molto delicato - confessa Lodolini - e il nostro lavoro non si è fermato neppure durante questi giorni di festa. La gente esige da noi che l’autore, o gli autori, del massacro, siano consegnati alla giustizia e massimo è il nostro impegno per farlo".

Intanto resta ancora nel mistero la data per i funerali. Pietro Bassi, il legale di Marzouk, ha deciso ieri di tornare in Procura per sollecitare il rilascio dei nullaosta. I corpi Raffaella e del figlioletto Youssuf, appena arriverà l’ok dei pm, verranno portati in Tunisia e sepolti con rito islamico, la suocera di Marzouk, Paola Galli, a Erba per funerali con rito cattolico e Valeria Cherubini a Montorfano.

Anche la tanto attesa testimonianza di Mario Frigerio, l’unico scampato, per adesso non ha dato gli esiti sperati. L’uomo, che non è più nel reparto di rianimazione, resta piantonato, per motivi di sicurezza, all’ospedale Sant’Anna di Como in attesa che possa fornire la sua versione dei fatti.

Nei diversi incontri avuti in queste ultime 3 settimane con i carabinieri, il vedovo di Valeria Cherubini si è dimostrato confuso e ancora impreciso nei suoi ricordi, come fosse impaurito. Ma la sensazione è che la sua testimonianza possa essere superata dagli esiti degli ultimi riscontri attesi nelle prossime ore alla procura sul lago di Como.

Rovigo: ex detenuto chiede un lavoro per rifarsi una vita

 

Il Gazzettino, 3 gennaio 2007

 

Tante volte il suo nome è entrato nella cronaca nera polesana. Ora ha scontato la pena, ha una compagna che però fa lavori saltuari e ha problemi di salute, vorrebbe rifarsi una vita come tanti, sta bussando a tante porte. La mamma lo aveva accolto nella sua casa dell’Ater vicino alla Scuola materna statale "Pascoli" e all’Asilo nido comunale "I fiori più belli": dopo una lunga malattia l’anziana signora è morta poco prima di Natale e ora il figlio rischia di trovarsi su una strada dove le tentazioni non mancheranno di certo.

Per Natale ha avuto gli auguri di chi lo aveva arrestato: era contento per l’attenzione ricevuta e per l’invito a tenere duro. Ma ora che non c’è più la mamma che lo ospitava come farà a tirare avanti? È possibile che l’Ater e il Comune non possano fare nulla?

Lui ci ha scritto qualche giorno prima che la mamma morisse dicendo: "Sono Gianni Sinigaglia ex detenuto per un reato commesso nel 2001 (art.73), reato commesso per le compagnie sbagliate e anche per l’opinione pubblica: finalmente ho pagato il mio debito pubblico. Scrivo a questo giornale per un motivo molto valido: non posso delinquere ancora per vivere, per vivere bisogna lavorare onestamente e come posso formarmi una famiglia, visto che la mia famiglia non mi può aiutare, visto che ho la mamma invalida e in una posizione precaria in ospedale?

Non ho aiuto da nessuno, neppure dal comune di Badia Polesine. Chiedo solo un posto di lavoro: senza di questo come posso mantenere una famiglia mia? Mi è stato detto in Comune che io mi devo trasferire in un altro paese per trovare un posto di lavoro: secondo l’opinione pubblica tutto ciò è giusto? Il mio comune è qua e resto qua. E se mi dovesse mancare la mamma?

La casa dove sono residente è dell’Ater di Rovigo: così rischio di trovarmi su una strada visto che io sono un ospite di mia mamma: vi sembra giusto tutto ciò? Ho una sorellastra che vive alle spalle di mia madre e che non aiuta minimamente in tutti i sensi, per questo chiedo ai lettori: secondo voi è giusto ciò? Penso proprio di no. Questa lettera serve a vedere se c’è una persona che mi può aiutare a trovare un posto di lavoro onesto e sicuro. Ringrazio tutti per l’attenzione".

Milano: chiudete il carcere di San Vittore!

di Luigi Morsello (Ispettore Generale dell’Amministrazione Penitenziaria in pensione)

 

Il Cittadino, 3 gennaio 2007

 

San Vittore non è più sicuro! Con un titolo così, prima di leggere di che si tratta, il ricordo corre alle recenti evasioni, che hanno funestato la parte terminale della carriera del dottor Luigi Pagano, oggi Provveditore Regionale delle carceri in Milano, e l’inizio della carriera di Gloria Manzelli, 24° direttore del vecchio, prestigioso e ricco di memorie storiche carcere milanese, avviata anch’essa a ripercorrere i fasti del lungo principato di Pagano, durato quindici anni.Come dire, la valanga rosa alla direzione delle carceri italiane.

Qualche anno addietro replicai ad una intervista, celebrativa, rilasciata da Pagano, commentai che quel carcere ormai obsoleto ed incapace di essere ancora utilizzato come struttura penitenziaria per la totale mancanza di spazi interni da dedicare ed utilizzare a fini di osservazione e trattamento penitenziario era da abbandonare. Ricordo che l’amministrazione cittadina era disposta a finanziare la costruzione di un terzo carcere nuovo, oltre Bollate ed Opera, per consentire l’abbandono di San Vittore ed il recupero della struttura per altre finalità ed utilizzazioni (museo storico, ad esempio): la proposta fu lasciata cadere, purtroppo.

Per quanto possa sembrare incredibile, San Vittore sta crollando sotto il proprio peso: crepe nei muri, lesioni alla colonne portanti (!) hanno consigliato di procedere al trasferimento di 272 detenuti. Mi appare difficile pensare che San Vittore sia stato fatto con colonne portanti cemento armato, avendolo io conosciuto per una breve missione alla sua direzione nel 1981, avendo visto archi e volte a crociera in mattoni.

Fantasiosa mi sembra l’argomentazione del sovrappeso dovuto ai troppi detenuti (in tempi di sovraffollamento fino a 2.400 unità), spiegataci col fatto che gli edifici vicini non presentano lesioni di sorta perché gli abitanti non sono concentrati come gli ospiti di San Vittore: ed i mobili ed arredi cosa sono, delle piume? Non è condivisibile sostenere la necessità di mantenere in funzione il carcere per motivi logistici con gli uffici giudiziari, mentre il pensare ad una ambiziosissima cittadella giudiziaria è pura utopia.

Però la faccenda è seria ed i tempi per realizzare un nuovo carcere sono "biblici". Che fare? Semplice: chiudere! Mentre San Vittore crolla sotto il peso dei suoi anni, il ministero della Giustizia affanna sotto il peso dei suoi debiti (250 milioni di euro il debito trovato da Mastella, dell’attuale e dei precedenti esercizi finanziari). Ma anche vi fossero i fondi necessari (quelli del comune ormai non esistono più nemmeno nel ricordo) occorrono non meno di cinque anni, in Italia, dalla posa della prima pietra: si può attendere tanto?

Volterra: uno strano viaggio nel carcere più "colto" d’Italia

 

La Stampa, 3 gennaio 2007

 

Dici Volterra e pensi a tremila anni di storia. Il passato che ritorna dai tempi in cui da qui partiva la civiltà etrusca, una delle più misteriose dell’umanità. Arrivando da nord, le mura della Fortezza sono visibili già a molti chilometri di distanza. Ieratiche, sinistre, cariche di passato al punto tale da far sentire al forestiero un senso di colpa per la propria inferiorità culturale ed emotiva. Un istituto di pena noto in tutta Italia e non solo - paradossalmente - per la sua propensione alla comunicazione, attraverso una forma nobilissima, il teatro.

 

L’arte per rinascere

 

"I detenuti sono 170", spiega l’ispettore capo Salvatore Mercurio, divisa d’ordinanza blu carta da zucchero, scarpe nerissime, lucide, cappello ben piantato sul capo generoso. "Sono qui da 23 anni. Una vita. Undici consumati da agente diventato poi ispettore capo". Sovrano del castello, provochiamo. Ci guarda fisso senza condividere l’ironia. "Siamo ottanta addetti, tutti contribuiscono a fare funzionare l’Istituto". Un carcere modello, insistiamo noi, ma il Comandante si schermisce: "Un dato è significativo. Qui controlliamo 170 detenuti, e molti, circa una decina, dopo essere usciti, sono rimasti a vivere in pianta stabile nel territorio. Un chiaro segnale". Sbuchiamo in un ingresso lungo sul quale si affacciano la palestra, la biblioteca, l’ambulatorio medico e l’ufficio spesa. Dalle porte in metallo color verde spuntano i volti incuriositi dei detenuti. La vena creativa del luogo non risparmia neanche le pareti del carcere su cui campeggiano dipinti in stile pseudo impressionista eseguiti dai detenuti stessi. La coercizione estremizza i sentimenti umani, scriveva Bruno Bettelheim, a proposito dei lager nazisti nel Cuore Vigile. Qui ne abbiamo una prova, in positivo però. Centosettanta tra criminali, trafficanti di droga, uxoricidi, eccetera trasformati in attori, pittori, scrittori, musicisti. Con risultati a volte sorprendenti, se si pensa che la compagnia teatrale si è aggiudicata due volte il premio Ubu.

 

Il mondo visto dalla tv

 

Per l’intervista, gli agenti convogliano una ventina di "ospiti" nella sala Teatro. L’ambiente è lungo e stretto. In fondo, un piccolo palcoscenico rosso fuoco. Il pretesto è la comunicazione. Ma dalle prime battute intuiamo che sul tema sono ferratissimi e non sarà una passeggiata. Ne è prova il subitaneo intervento di Salvatore Arena, 30 anni, di Capo Rizzuto, fisico robusto e atletico messo in mostra da una tuta aderente, a Volterra da 2 anni e tre mesi. Sorridente specifica: "La tv in carcere? Ti fa spaziare con la mente - sospira -. Dà libertà alle emozioni, che in un posto come questo non è poco. Vedi la vita. Per un ragazzo come me è importante". Vita? Come la mettiamo con i reality?

Mi zittisce: "È tutto falso. Un uomo con un proprio carattere non si mette a nudo davanti al paese". Facendo capire con gli occhi che il pudore per lui è una forma di virilità. Oltre all’Isola dei Famosi, boccia i toni a suo dire alti di Buona Domenica. Salvatore preferisce Quark, Ulisse, Gaia, Stargate. Ma soprattutto adora "i programmi di Giovanni Minoli, un fuoriclasse, uno che non si tira indietro nello spiegare le cose complesse a noi popolo". Prende la parola Mario Zidda, 45anni, anche lui in tuta, fisico asciutto, fede al dito, da sei anni e 4 mesi in galera. Attivo come attore nella compagnia, si capisce che è un leader dal silenzio che accompagna le sue dichiarazioni. Ma si scaglia contro l’informazione: "Guardo tutti i tg. Confronto ciò che dicono, ovvero le stesse cose in modo diverso. Secondo me alcuni confondono ancora di più la gente. I reality? Non sono reali: la tv è una scatola che vende il prodotto". Dal carcere il giudizio su chi la guarda non è tenero: "Gran parte della gente fuori si identifica con questi programmi". Ben inteso, Mario ci tiene a precisare che "quelli fuori non sono tutti Pupe e Secchioni, ma certo il consenso per certi programmi è inquietante. L’Italia che li guarda è deprimente".

 

Un po’ moralisti un po’ goliardi

 

Per questo lui si impegna nel teatro "abbiamo recitato i Pescecani, l’Opera da tre soldi, l’Amleto. Per noi più che la tv è il teatro la vera terapia. Incanala tutta l’energia negativa che uno ha in corpo e la trasforma in energia positiva. Mi ha cambiato, non ascoltavo gli altri. Per esempio i tagli dei governi alla cultura e ai teatri appiattiscono la gente, la consegnano nelle mani dei programmi trash". Insomma stando qui sembra che l’affollamento di corpi di donne nude in tv piaccia solo fuori… Una risata generale fa seguito ad un boato di plastico dissenso dell’uditorio. Si ribella Salvatore per tutti: "Di donne in tv non ce n’è mai abbastanza… Lasciateci almeno quello". E qui il moralismo si dissolve. Stefano Balestri, 32 anni, di Pisa, da 4 anni e 5 mesi in carcere rompe il tono cultural buonista: "Il libro che ho consumato di più ha un titolo eloquente, Rendila felice…". Sorvoliamo sul prevedibile contenuto. Poi tornano seri e pensosi. Interviene Gianfranco Sestili, romano, sui 55, cappello da hip hopper, naso aquilino, da 4 anni e due mesi a Volterra e una barba biancastra da radere che circonda il volto scavato. Occhi chiari e leggermente velati è un fiume in piena, anche lui attore da un paio di anni: "Recitare ti fa dimenticare di essere dentro. Ti dà vita. Il buonismo della tv mi fa schifo. Dovrebbe essere più come il teatro, più immediata, spontanea, com’era una volta". Tanto livore non ne impedisce il consumo massiccio. "La guardo anche 10 ore al giorno. Adoro il calcio. Adoro Totti". È tranchant: ne viene fuori un’Italia di vizi privati e pubbliche virtù. "La vorrei più vicina al teatro, che pur essendo finzione è più vicino alla realtà vera". Ma non disprezza tutto. Per esempio, inaugura ogni mattina in cella in compagnia di Monica Maggioni "brava e bella, è un bel modo per iniziare".

 

 

Poi c’è la musica

 

Ma le 24 ore scandite una per una tra le sbarre lasciano spazio anche ad altri sogni. Per esempio attraverso la musica, che coinvolge soprattutto i detenuti più giovani. Come afferma Gianluca Matera, 30 anni, da appena 3 mesi dietro le sbarre. "Ascolto molta musica, soprattutto Claudio Baglioni. La tv la guardo poco, i programmi che mi piacevano li hanno chiusi. Per esempio gli Invisibili di Marco Berry, che descrive la vita vera delle persona in mezzo alla strada". Salva Porta a Porta di Bruno Vespa e Anno Zero di Michele Santoro. "Mi piace il loro realismo".

La radio resta però il suo mezzo preferito. È diretta, spiega, fa parlare di più le persone, "anche noi carcerati, di cui non ha paura…". Qui ha anche imparato a divorare libri. "Di Ken Follet ho letto quasi tutto". E distende i nervi costruendo modellini di barche. Anche di lusso. "Mi tengono impegnata la mente. E non penso…". Un "calcio" ai cattivi pensieri Già, non pensare. Un formidabile antidoto al pensiero è sempre stato usato dai governanti utilizzando i giochi. Mai come dietro le sbarre poter attingere all’immaginario sportivo è sinonimo di sopravvivenza. Come testimonia Oreste Staguaglia, appena venticinquenne, qui da 4 mesi. Studia alla scuola di geometra del carcere. Per lui l’agonismo attivo e passivo è quasi una ragione di vita.

"Ma ormai il calcio in tv è diventato inguardabile, osserva. Su Rai 2 al posto delle partite la domenica pomeriggio mettono in scena insulsi balletti. Preferisco Italia Uno, il programma Direttissima, dove almeno si vedono tutti i retroscena. E non disdegno i discorsi di Biscardi". Se c’è un posto in Italia dove l’ascesa di Sky è oltremodo sgradita è da queste parti. "La tv a pagamento ci ha derubati di una delle poche gioie che avevamo". Gianfranco è inviperito: "È stata come un’amputazione, la negazione di una valvola di sfogo".

Però la Rai almeno si è aggiudicata i diritti di Champions League, ribattiamo noi. "Rompe il silenzio Luigi Remicco 48 anni, napoletano, da 7 a Volterra: "Almeno un tempo con Rete 4 avevamo accesso a tutte le partite di Champions, ora solo una sintesi che è un’altra cosa. Anche se Paola Ferrari è brava". Imparare a vivere Vivere. Per alcuni la permanenza dietro le sbarre insegna paradossalmente proprio quello. "Due anni fa non sapevo neanche parlare, né iniziare un discorso, oggi sono migliorato tantissimo grazie alla scuola" dice Luigi. Un’isola felice? Calogero, che è qui dal ‘99 è di penitenziari ne ha girati parecchi commenta: "In questo carcere c’è maggiore umanità e maggiore interesse da parte della direzione alla riabilitazione dei detenuti".

Il dibattito si fa poi serrato quando si tocca la parola gossip in tv. Esplode la platea. Se ne portavoce Enrico Molone, una quarantina d’anni, da tre a Volterra, robusto, piccoli occhiali da vista con montatura coloro oro che ornano gli occhi celesti: "Da certe trasmissioni viene fuori un’Italia fatta di bulletti. Ho una figlia di 10 anni e mi dà fastidio pensare che guardi certe trasmissioni del pomeriggio…". Più o meno in sintonia Giampiero Ghirotti anni 45 circa, capelli chiari ondulati, occhi chiari, da 2 anni e 6 mesi in carcere, lavora in sartoria dove taglia i vestiti per il teatro. Lui si difende dal mezzo televisivo scrivendo la notte. La giudica diabolica. "Tende ad amplificare il tarlo, quel che c’è di negativo nell’uomo". Per tutti i presenti tv e giornali hanno la colpa di aver alimentato ingiustamente il partito anti indulto. Come ribadisce Massimo La Spina, 32 anni, di Reggio Calabria, fisico tarchiato voce decisa, qui da 4 anni e 7 mesi: "Dopo 16 anni hanno fatto l’indulto grazie a magistrati e direttori di carceri.

Ma l’informazione televisiva si è accanita violentemente contro di noi". Informazione e indulto Rincara la dose Domenico Vitale, 50 anni di Catanzaro fisico longilineo, qui da 5 anni, parla velocemente, con voce bassa: "La tv non ha spiegato che è uscito solo chi era alla fine della pena. Doveva dare più informazioni. Quello che emerge è una nazione di cartoni animati". Un tema che da sorella benevola trasforma la televisione in un pericoloso anestetico, come dice Gennaro Bonomo, 50 anni, a Volterra da soli 4 mesi. "le tragedie riguardano sempre qualcun altro: è tutto una grande fiction!" La conversazione volge al termine. Restano 10 irriducibili.

Tra questi Bruno Fruzzetti da Lucca, 55 anni da 6 a Volterra, le mani protette da guanti in pile gialli, si abbandona ai ricordi: "Ero un viaggiatore. Sono stato in Senegal, Kenia, Thailandia, Brasile… Con Licia Colò continuo idealmente questi viaggi e così passa la nostalgia". Come quando l’Italia vinse i Mondiali. "Abbiamo fatto casino anche noi", dice Oreste. E chiude: "la contentezza è di tutti, anche di noi detenuti". Abbiamo parlato per tre ore ma sono volate. Usciamo travolti dalle loro manifestazioni di affetto. Prima di entrare, un funzionario ci aveva ammonito: "non dimenticate chi avrete davanti…" Aveva ragione, ma non è stato facile.

Pena di morte: si muove anche il ministro Mastella

 

Agi, 3 gennaio 2007

 

Il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ha intenzione di porre, da subito, all’attenzione dell’Unione europea l’importante questione della moratoria alla pena di morte. L’occasione sarà il prossimo incontro dei Ministri europei della Giustizia che si terrà il 15 e 16 gennaio a Dresda. A darne notizia è una nota dello stesso Ministero.

Il Guardasigilli, che nei giorni scorsi aveva invitato Marco Pannella a sospendere lo sciopero della fame e della sete, aveva infatti anche sottolineato l’importanza dell’impegno del Premier Romano Prodi nel chiedere all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di porre all’ordine del giorno l’argomento della sospensione della pena capitale.

Romania: ingresso nell’Ue; da ex detenuti un possibile rischio

 

Avvenire, 3 gennaio 2007

 

"Anche la Romania ha le carceri piene, come le aveva l’Italia. E mano a mano che i detenuti verranno liberati, potranno arrivare in Italia. Ecco la nostra paura". Lo confessa padre Justinian Deac, parroco ortodosso a Udine, città in cui lavora come panettiere, quando non si occupa dell’attività pastorale, che ha per centro la chiesa di San Basilio, messa a disposizione dall’arcidiocesi.

 

Perché coltiva questo timore?

"Perché i connazionali malintenzionati rischiano di venire qui e compromettere il buon nome della comunità romena, che si sta dando da fare per testimoniare che la loro integrazione è efficace".

 

Da due giorni lei non è più un extracomunitario. Si sente più cittadino italiano?

"Mi sento un romeno a cui è stata riconsegnata la sua dignità, quella che avevamo un secolo fa. Non si dimentichi, tra l’altro, che vennero in Romania numerosi friulani a fare gli scalpellini piuttosto che i boscaioli ed i muratori".

 

A parte i malavitosi, lei teme l’invasione di connazionali?

"No, perché non ci sarà. Ritengo che fin dai prossimi giorni aumenteranno gli ingressi soprattutto di assistenti domestiche ed infermieri. In un prossimo futuro anche di ricercatori. Si tratta di persone che hanno voglia d’integrarsi. Non solo, di darsi anche un ruolo sociale ed economico. Già dimostrano di essere attivi e di non pesare sulla società italiana".

 

Ed i rom?

"Mi dispiace dirlo. Tanti di loro (per fortuna non tutti) non si vogliono inserire in Romania, immaginarsi se raggiungendo l’Italia lo fanno qui. Ecco, questo sarà un problema; anche dal punto di vista legislativo. Non potranno più essere i Comuni, tante volte da soli, ad affrontare il problema. Ci dovrà essere una legislazione nazionale. Neppure i rom in arrivo, comunque, sono così numerosi come si vuol far credere in questi giorni".

 

Qual sarà l’aspetto più positivo dell’immigrazione romena?

Aspetto positivo per l’Italia, s’intende: qui a Udine, dove vive in città una comunità di 700 romeni, la maggior parte non ha nemmeno 40 anni ed ha tanta voglia di fare. Sono giovani famiglie, con due, tre figli. Quindi daranno un grosso contributo alla vostra situazione demografica che è di crisi"

Guantanamo: rapporto Fbi denuncia abusi sui detenuti

 

Ansa, 3 gennaio 2007

 

Ventisei agenti dell’Fbi hanno assistito ad abusi su detenuti nella base statunitense di Guantanamo, a Cuba. Lo rivelano documenti dell’Fbi ottenuti e diffusi dall’Aclu, organizzazione per i diritti civili negli Usa, nell’ambito di una causa intentata contro l’ex capo del Pentagono Donald Rumsfeld per conto di ex detenuti che sostengono di essere stati maltrattati. A una domanda specifica sulle presunte violenze, 26 agenti su 493 hanno risposto affermativamente.

Venezuela: battaglia tra bande rivali in carcere, 16 morti

 

Ansa, 3 gennaio 2007

 

È di 16 morti e 13 feriti il bilancio di uno scontro tra bande rivali nel carcere di Uribana, nello Stato venezuelano di Lara. La situazione, ha assicurato il ministero dell’Interno, è adesso sotto controllo. Le vittime sono contate solo tra i detenuti e non tra gli agenti di custodia. I disordini sono ricorrenti nelle carceri venezuelane, dove numerosi detenuti attendono mesi prima di potersi presentare di fronte ai tribunali. Il governo di Caracas ha in programma una riforma del sistema carcerario.

 

Precedente Home Su Successiva