Rassegna stampa 8 febbraio

 

Reggio Calabria: detenuto di 20 anni si suicida con il gas

 

Quotidiano di Calabria, 8 febbraio 2007

 

Suicidio nelle carceri di via San Pietro. Nel pomeriggio di martedì un detenuto della casa circondariale reggina si è tolto la vita inalando del gas. A compire il drammatico gesto è stato un ventenne di origini campane. Dalla prima ricostruzione dei fatti sembrerebbe che il giovane, avrebbe utilizzato il tubo di alimentazione di un fornellino da cucina che, comunemente, i detenuti utilizzano nelle proprie celle per prepararsi il pranzo quando non si recano alla mensa dell’istituto di pena. Inutili sono stati i tentativi di soccorso degli agenti della polizia penitenziaria e dagli altri detenuti. Il giovane è stato immediatamente trasportato con un’ambulanza della Confraternita della Misericordia.

 

Mail ricevuta da Ristretti Orizzonti

 

Io lo conoscevo, si chiamava Angelo, ed aveva iniziato un percorso di recupero per tossicodipendenti presso una comunità terapeutica di Reggio Calabria, purtroppo il giudice ha deciso di rimandarlo in carcere invece di fargli continuare il suo percorso, così dopo un giorno di carcere Angelo si è tolto la vita... aveva 20 anni.

 

A.C.

Napoli: all’Opg muore un detenuto marocchino di 35 anni

 

Antigone Napoli, 8 febbraio 2007

 

Un internato di 35 anni, D.H., di origini marocchine, è morto nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. La morte è avvenuta il 29 gennaio scorso, per arresto cardiocircolatorio, ma si è appresa solo in queste ore. "Siamo preoccupati - ha dichiarato Dario Stefano Dell’Aquila, presidente dell’Associazione Antigone Napoli - dal progressivo deteriorarsi delle condizioni di vita degli internati negli Opg.

Solo pochi mesi fa nell’Opg di Aversa si sono verificati due suicidi. Bisogna arrivare presto ad un disegno di legge per la chiusura e il superamento degli Opg. Nell’attesa, è necessario uno sforzo immediato per migliorare le condizioni di vita degli internati e avviare programmi di dimissioni protette"

 

Associazione Antigone Napoli

Arezzo: due overdose in comunità; un morto e uno gravissimo

 

Toscana News, 8 febbraio 2007

 

 

Stupisce la morte di un uomo per overdose avvenuta nella comunità di recupero per tossicodipendenti di Betania, a Talla nell’aretino. Un altro ospite della struttura versa in gravissime condizioni, sempre in seguito a overdose da sostanze stupefacenti.

La vittima aveva 40 anni ed è deceduto in uno dei locali della comunità; l’altra persona, anch’egli di 40 anni, è stato subito trattato con Narcan, intubato e trasferito nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Bibbiena. I carabinieri stanno ora indagando per capire come la droga possa essere entrata in una struttura che ha come compito proprio il recupero dei tossicodipendenti e a cui la stessa magistratura affida soggetti, magari detenuti, che per ragioni di salute devono essere trattati in comunità e non in carcere.

Giustizia: approvato art. 1 progetto legge su garante detenuti

 

Apcom, 8 febbraio 2007

 

La Camera ha approvato l’articolo 1 della proposta di legge che istituisce la figura del Garante dei detenuti e la Commissione nazionale per i diritti umani. Il voto è arrivato dopo una lunga discussione procedurale sul sub-emendamento della commissione Affari costituzionali che riguarda le indennità dei membri della commissione. L’esame del resto del provvedimento è stato sospeso.

Il primo articolo della Pdl riguarda la composizione della Commissione per la tutela dei diritti umani, all’interno della quale si costituisce l’ufficio del Garante per i detenuti.

L’organismo, secondo la modifica passata ieri con la maggioranza battuta in Aula, si compone di 4 membri più il Presidente, anziché otto. Il sub-ementamento della Commissione approvato oggi, relativo alla loro indennità, prevede che sia seguita la stessa formula usata per determinare l’indennità dei parlamentari. Le indennità non dovrebbero quindi superare i 10 mila euro all’anno. L’esame del testo riprenderà martedì, nei tempi che deciderà oggi la Conferenza dei capigruppo.

Giustizia: intervista a Olga D’Antona; perché Sofri a iniziativa Ds?

 

Aprile on-line, 8 febbraio 2007

 

La deputata della Quercia, vedova del giuslavorista ucciso dalle Br, critica la presenza dell’ex leader di Lotta Continua alla presentazione della mozione Fassino, ieri al teatro Capranica di Roma. Ne abbiamo parlato con lei

Alla presentazione della mozione stilata da Piero Fassino per il Quarto Congresso Nazionale, ieri al teatro Capranica di Roma, era presente fra gli invitati anche Adriano Sofri.

L’ex leader dell’organizzazione Lotta Continua, accusato e condannato a 22 anni di carcere come mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, ucciso nel 1972 di fronte alla sua abitazione di Milano, è intervenuto nel corso dell’iniziativa per rilanciare il suo personale impegno a sostegno della nascita della nuova formazione. La sua presenza, accanto allo stato maggiore del partito, a fianco del segretario e del presidente Massimo D’Alema, ha però sollevato una certa perplessità in Olga D’Antona, deputata dei Ds, che l’ha definita un "vulnus inflitto alla magistratura". Proprio con lei abbiamo discusso dell’opportunità di quell’invito e della vicenda Sofri.

 

Olga, cos’è che ti ha spinta a sollevare dubbi sulla partecipazione di Sofri al Capranica, ieri, in occasione della presentazione della mozione Fassino?

Quando si scelgono dei personaggi, che assumono visibilità durante una iniziativa politica, in questo caso durante la presentazione della mozione del segretario, si deve ponderare e valutare in base a quello che essi rappresentano. Mi chiedo e chiedo ai colleghi: perché fra i tanti intellettuali italiani si è scelto proprio Adriano Sofri? Premetto che non ho nulla di personale contro Sofri e non ho mai espresso parere contrario alla concessione della grazia per motivi umanitari e di salute, così come prevede la Corte Costituzionale. Però questo è un Paese che ha una storia e che ha un passato, perciò non si può far finta che non sia successo niente. Se questa storia e questo passato hanno un valore, allora non si può dimenticare che la magistratura ha emesso una sentenza di colpevolezza, e che Adriano Sofri non ha finito di scontare la sua pena né è stato assolto. Per questo vorrei che qualcuno dei dirigenti del mio partito mi spiegasse qual è il valore simbolico che sottende la scelta di aver invitato Sofri alla presentazione della mozione di maggioranza.

 

Se ti arrivasse la risposta che Sofri è un intellettuale stimato, attivo sul piano giornalistico e del dibattito politico di questo Paese, e che si è speso favorevolmente alla nascita del Pd, saresti persuasa? Ti convincerebbe come spiegazione?

Mi sembrerebbe poco e debole, perché Sofri non è l’unico intellettuale capace di rivestire questo ruolo. Ci deve essere una spiegazione simbolica, ci deve essere stato il tentativo di inviare un messaggio. Si ritiene forse che Sofri sia stato giudicato ingiustamente? In un Paese democratico vorrei ci fosse rispetto per le istituzioni, in primo luogo la magistratura; un rispetto che non può essere invocato solo nel caso di Cesare Previti. E soprattutto mi aspetto anche che, se si ritiene che Sofri sia innocente, si proceda a chiedere la riapertura del processo e che venga scagionato. Ma se così non è, delle due l’una: o lui finisce di scontare la sua pena, e allora a quel punto ha diritto pieno ad essere riammesso nella società, oppure non si può invitarlo con tanta leggerezza ad iniziative partitiche di tale importanza come quella di ieri.

 

In passato, più volte, la politica si è interrogata sul tema del reinserimento di quanti hanno avuto trascorsi in organizzazioni terroristiche e magari un passato giudiziario di condanna alle spalle. Anche e soprattutto per quel che riguarda il loro ruolo nelle istituzioni del Paese: il caso di Sergio D’Elia può valere per tutti. Quale è la tua posizione?

Io ho difeso Sergio D’Elia, ho incontrato diversi brigatisti e ho visitato e visito tuttora le carceri: non sono una persona incapace di comprendere le ragioni dell’altro. Personalmente, non solo auspico, ma mi impegno anche per sanare una situazione che c’è in questo Paese e che riguarda una pagina oscura della sua storia; lo faccio nel tentativo di distendere un clima spesso tesissimo e avvelenato. Ma questo si può fare solo attraverso la ricerca della verità, non facendo finta di niente. In questo caso con Sofri si è fatto finta di niente.

 

Nell’affrontare il caso Sofri, dal punto di vista giudiziario però, non si può non riconoscere che l’iter del processo ha visto quantomeno delle anomalie. Partendo dalla testimonianza - ritenuta fondamentale ai fini della condanna - di Leonardo Marino (ex affiliato di Lc auto-dichiaratosi esecutore materiale dell’omicidio del commissario, ndr), che ha indicato in Sofri il mandante dell’assassinio di Calabresi, ma che più volte si è dimostrata incongrua e contraddittoria; per finire alle opposte sentenze dei vari gradi di giudizio, con le Sezioni Unite della Cassazione che nel 1992 hanno annullato le condanne e un processo di Appello che ha assolto gli imputati, fino alla condanna definitiva nel 1997: tutto lascia piuttosto attoniti. Per non parlare del fatto che durante il processo di revisione, a Venezia nel 2000, è stata dimostrata la fallacia della testimonianza di Marino...

Nel caso specifico non voglio entrare né voglio sindacare il giudizio della magistratura perché rispetto le istituzioni. Come cittadina e come rappresentante politico, soprattutto se di un partito di governo, ho l’obbligo di rispettare il lavoro e le decisioni della magistratura. Se ho elementi validi per riaprire un processo posso chiederne una revisione, ma se non li ho devo rispettare quello che un’istituzione autonoma e indipendente come la magistratura esprime.

Giustizia: "caso Divina"; se la dignità è considerata un lusso

 

Galileo, 8 febbraio 2007

 

"I detenuti delle carceri italiane sono dei privilegiati". Ad azzardare l’audace giudizio è stato il senatore leghista Sergio Divina, che in un’interrogazione parlamentare, lo scorso 1 febbraio, ha denunciato l’atmosfera di vera pacchia che si respira nelle nostre patrie galere, per l’occasione nuovamente definite "alberghi a quattro stelle". Il clima d’austerity imposto dal governo a tutti i cittadini onesti stona troppo, dice il senatore, con il lusso dello stile di vita carcerario e con il ricco pacchetto di favori concesso ai detenuti. A che si riferisce? Ecco alcuni "optional" fatti passare furtivamente attraverso le sbarre e finiti nel mirino del senatore: servizi igienici con acqua calda, docce, bidet (solo per le donne); servizi di barbiere e di parrucchiere; servizio di lavanderia; tre pasti regolari al giorno (quattro per i minorenni); assistenza sanitaria completa; asili nido per i bambini delle detenute e altro ancora. Insomma un vero e proprio eldorado.

Ammesso anche che si tratti di privilegi, e non di basilari norme di civiltà, i provvedimenti in questione, che le carceri avrebbero dovuto adottare entro il 2005, così come previsto dall’ultimo regolamento penitenziario (decreto 230/2000), sono rimasti per la maggior parte disattesi, come denunciato da Galileo allo scadere dei tempi previsti per l’adeguamento (Patrie galere fuorilegge).

In realtà, in molte prigioni l’acqua calda resta davvero un privilegio, insieme a molti altri diritti negati. Primo tra tutti, quello di un’infanzia serena per i figli dei detenuti. In Italia sono circa 3.400 i bambini che hanno la mamma in carcere, mentre 70 mila quelli con un padre detenuto. A costoro è dedicata la "Carta dei bambini che hanno un genitore in carcere", un vademecum per operatori penitenziari, legislatori e personale volontario, presentato a Milano lo scorso 3 febbraio dalle associazioni di volontariato Bambinisenzasbarre, A Roma Insieme, Comunità Sant’Egidio, Donne Fuori, Ristretti Orizzonti, Antigone.

"La carta riconosce per la prima volta i figli dei detenuti come un gruppo vulnerabile che ha bisogno di sostegno e attenzioni" dice Lia Sacerdote di Bambinisenzasbarre "e stabilisce il diritto per i bambini di conoscere la verità sulle sorti dei loro genitori". Tra i propositi della Carta anche quello di rendere più accoglienti i locali destinati all’incontro con i genitori.

Oltre a quelli che varcano periodicamente la soglia del carcere, vi sono alcuni bambini destinati a trascorrere una parte della loro vita dietro le sbarre. Sono quei 44 "baby detenuti" con meno di tre anni, che non hanno potuto beneficiare della "legge Finocchiaro" (L. 40, 2001), pensata per evitare il carcere alle mamme con figli piccoli. L’insuccesso parziale della normativa dipende dalle condizioni previste per l’assegnazione delle madri a misure alternative di detenzione: ossia che non vi sia un "concreto pericolo della commissione di delitti". Un requisito difficile da valutare oggettivamente, dicono i promotori di un disegno di legge attualmente in discussione alla Camera dei Deputati, che vorrebbero eliminare quella clausola per dare finalmente a tutte le mamme con figli piccoli (minori di dieci anni) la possibilità di trascorrere il periodo di pena o di custodia cautelare in strutture alternative, come le case famiglia. La prima del genere verrà inaugurata a Milano alla fine del mese, anche in assenza della legge.

Tra i benefit criticati da Divina non compare il diritto del detenuto a passare un po’ di tempo in intimità con il proprio partner. E non perché questa concessione sia ritenuta meno disdicevole, ma perché a tutt’oggi non è prevista alcuna possibilità concreta di coltivare una vita affettiva all’interno del carcere. Al di là di una proposta di legge, presentata lo scorso maggio, che prevede tra le altre cose una maggiore privacy durante i colloqui e un ampliamento dei "permessi di necessità", finora concessi solo in caso di morte o malattia gravissima di un parente, nulla si è mosso in questa direzione.

Si allontana anche la speranza dell’istituzione di un Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti, propria quando sembrava di essere ad un passo dall’approvazione della proposta di legge, firmata da Graziella Mascia (Prc), intervistata in proposito da Galileo (Giustizia anno zero). Con il recente rinvio in Commissione Affari Costituzionali infatti la nuova figura istituzionale, ha subito dei cambiamenti: dal garante dei detenuti si è passati ad una più ampia "Authority dei diritti umani", prevista dalla Dichiarazione Onu di Parigi del 1993. Con il rischio però, dicono Antigone e Amnesty International, di allungare troppo i tempi per l’approvazione.

Infine, e a chiamarlo privilegio si fa davvero fatica, diventa sempre più a rischio anche il diritto alla salute. Il taglio di 13 milioni di euro previsto dalla Finanziaria 2007 alla sanità carceraria ha spinto qualche giorno fa Francesco Ceraudo alle dimissioni dalla presidenza dell’Amapi (Associazione dei Medici dell’Amministrazione Penitenziaria italiana): "Mi sono dimesso perché sono impotente di fronte all’indifferenza di Parlamento e Governo e al caos che ci sarà nelle carceri" ha dichiarato. Un caos che si protrae da tempo, dovuto anche al mancato trasferimento delle competenze al Servizio Sanitario Nazionale e che impedisce ai detenuti di avere prestazioni mediche di qualità.

Giustizia: Maisto attacca la Bossi-Fini e la legge sulle droghe

 

Redattore Sociale, 8 febbraio 2007

 

Dove va la giustizia italiana? Qual è il ruolo dei giudici? Come è cambiato (se è cambiato) l’approccio ai problemi con l’arrivo del nuovo Governo? Come deve porsi il giudice di fronte ad alcune leggi recentemente emanate? Può rivendicare un "antico" esercizio alla discrezionalità o deve invece piegarsi a un rigurgito di assoluta "neutralità"?. Sono questi alcuni dei temi che Franco Maisto offre al dibattito che si aprirà in seno all’XI Congresso nazionale di Magistratura Democratica, in corso di svolgimento da oggi a domenica prossima a Roma.

Maisto, attualmente Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Milano, anticipa a Redattore Sociale alcuni passi del suo intervento. Passi che pongono sul tavolo le questioni più scottanti per il sistema giudiziario e politico del nostro Paese. Si nota, dalle parole di Maisto, un certo disorientamento per una tendenza in atto all’interno di Magistratura Democratica che, ribadisce, deve fare i conti anche con un "decremento elettorale".

Lo scenario politico non aiuta. Tanto che, per dirla con Maisto, "bisogna prendere atto che gli esiti non sono granché: a poco meno di un anno dalla vittoria elettorale, solo una sospensione parziale della riforma Castelli e l’indulto, variamente accolto dalla magistratura".

Non meno problemi crea il discorso dell’identità del magistrato. Per Maisto vi sono "preoccupanti visioni della penalità", con Magistratura Democratica che appare tentata dal tema della certezza della pena. E la discrezionalità del giudice? "Ridimensionare la discrezionalità cosa vuol dire? Mi sembra che voglia dire dimenticare gli esordi di MD, nei quali era proprio attraverso l’esercizio della discrezionalità che s’interveniva sulla grande eterogeneità dei fatti e sulle disuguaglianze delle persone, lanciando un’ interpretazione che forzava le rigidità della vecchia normativa penale - afferma -. Tutte le flessibilità prodotte attraverso le modifiche legislative dagli ultimi anni sessanta in poi, operative nelle sentenze, sono anche il frutto di questo percorso precedente. Dico cose ovvie - continua il procuratore generale -, ma l’attacco al giudice neutrale è uno dei cavalli di battaglia di quell’epoca per MD e credo si sia trattato di una battaglia vinta, perché il sospetto sulla neutralità penetrò in tutta la magistratura. Da tempo scorgiamo il nascere di una neo-neutralità che posta al cospetto di una riforma penale, cercherà di rendere meno esposto il ruolo del giudice: specie in questo momento in cui maggiori vincoli decisionali possono essere una merce di scambio con le maggiori garanzie di indipendenza, giustamente pretese per contrastare la riforma Castelli".

Il tema si collega direttamente all’atteggiamento da tenere di fronte ad alcune tra le leggi più contestate da ampi ranghi della sinistra. Quello che Maisto definisce "l’equivoco tra l’affermazione della legalità e l’estremo rispetto applicativo di leggi sicuramente incostituzionali, inique e razziste: direi incostituzionali anche oltre il giudizio di incostituzionalità. Abbiamo esempi di sinistra- che vivono "legalitariamente" l’accanimento contro tossicodipendenti e migranti (…).

Si è utilizzata la legge Fini per colpire l’attività di centri sociali impegnati nella politica di riduzione del danno e contro il proibizionismo. E non ho notizia di ricorsi alla Corte Costituzionale per invocare interventi doverosi (…). In effetti, tolleranza zero è la base ideologica della legge Fini-Giovanardi. L’approvazione di quella legge,in un mix di tragedia e di commedia, è avvenuta con una ferita istituzionale grave: è stata inserita in un decreto legge, sulle Olimpiadi e con due voti di fiducia, senza discussione parlamentare, è stata votata.

Si è fatto fuori il referendum del ‘93 che aveva inciso sulla Iervolino-Vassalli e si è creato un mostro penale attraverso l’equiparazione di droghe leggere e pesanti in una unica tabella; si è inventato lo spaccio presunto; si sono rese le pene più pesanti per i recidivi grazie all’effetto combinato della Cirielli; si codifica una detenzione pseudo terapeutica. Livio Pepino ha parlato di ‘scempio etico e giuridico’ ed ha messo in guardia che dal sospetto spacciatore si possa passare al sospetto delinquente,al delinquente virtuale. Sandro Margara ed io abbiamo scritto e partecipato alla campagna per contestare questa legge di stampo etico,ma devo confessare che nel suo complesso, MD non si è spesa come era accaduto in passato su questo tema che stravolge i principi del diritto. Non si è battuta, come avviene in modo ammirevole,sull’altro nodo scottante dell’immigrazione". Maisto propone allora "la costituzione di un Osservatorio sugli effetti devastanti di questa legge e sull’applicazione da parte dei tribunali. Sarà un contributo per rilanciare la battaglia per la cancellazione di un’autentica legge- vergogna".

"Si è tutti d’accordo allora sull’abolizione delle leggi Fini-Giovanardi,Bossi-Fini e…sulla Cirielli?", chiede Maisto. Che aggiunge: "Le incertezze e le esitazioni della politica non hanno qualche atteggiamento analogo anche in MD? Soprattutto c’è o no la resistenza ostinata attraverso le eccezioni costituzionali? Il binomio della rinata legalità-sicurezza e la conseguente guerra contro la microcriminalità quanto è popolare o impopolare in MD? C’è un nuovo termine spregiativo in giro: perdonismo. MD partecipa al disprezzo?".

Ultimo punto, interessante. È lo stesso Maisto a inserirlo: "In questi anni sono aumentati i luoghi della costrizione,della negazione della cittadinanza". Costrizione a diversi livelli, tanto che il magistrato cita i Cpt, gli ospedali psichiatrici, gli istituti di cura per anziani, ecc…

Ma è sul carcere che spende le parole maggiori. Partendo da una considerazione: "Si diffonde,in altri termini,un minimalismo,una zona grigia che rasenta e lambisce,quasi inconsapevolmente,la convivenza con l’illegalità,come disinteresse per la dinamica attuazione della nostra Costituzione anche nel carcere. Quasi che le energie e l’entusiasmo per un progetto riformista si fossero già consumate con l’approvazione dell’indulto. Prima il sovraffollamento era l’alibi per implodere le leggi,ora,orfani del sovraffollamento,c’è un inspiegabile disorientamento,come se mancassero le leggi da attuare. Oggi,a 10 mesi di vita del nuovo governo,come nella medesima situazione del precedente governo,abbiamo il dovere di chiedere l’attuazione delle leggi penitenziarie vigenti e il superamento di quelle in odio alla Costituzione". Insomma, per Maisto "trionfa l’ubriacatura da indulto" e il rischio è quello di perdere il filo del discorso.

Il tutto mentre rimangono le problematiche di fondo. "Questo famoso carcere riabilitativo ha i suoi sostenitori anche in MD, o si pensa che sia un’idea peregrina e irrealizzabile?", si chiede polemicamente Maisto. Che aggiunge: "C’è la consapevolezza della composizione della popolazione del carcere e che il problema non è quello dei 41bis,e che la sopravalutazione di questo problema porta a privilegiare solo i problemi della sicurezza e ad ignorare gli altri? Gli Istituti penali per i minorenni, per il degrado delle condizioni fino alla riduzione del vitto e per fattori esogeni legati all’amplificazione di politiche sicuritarie, sono tornati alla materialità del carcere minorile in cui gli specialisti rilevano la realizzazione progressiva di un processo di deumanizzazione degli adolescenti. Quante questioni si porta dietro il carcere? E quanto interessano?".

Imperia: detenuto ucraino tenta il suicidio tagliandosi le vene

 

Secolo XIX, 8 febbraio 2007

 

Roman Antonov, l’omicida di Vasia, da poche settimane detenuto nella casa circondariale di Imperia, ha cercato di togliersi la vita ieri in serata. Il giovane è stato trovato dagli agenti della polizia penitenziaria, intervenuti tempestivamente su segnalazione di altri detenuti. Era in stato di particolare depressione e semisvenuto nella sua cella con le vene delle braccia tagliuzzate. È stato subito soccorso e trasferito in infermeria. Le sue condizioni non sono apparse particolarmente gravi. Una volta medicato è stato visitato dal medico che, ritenendo comunque l’uomo in uno stato psichico preoccupante, ha preferito disporne il trasporto in ospedale. Ora si trova rinchiuso in una stanza del reparto di psichiatria. È sorvegliato da ben tre agenti di polizia.

"Non ha mai dato segni di squilibrio in queste poche settimane - hanno dichiarato gli agenti dei polizia del penitenziario - forse si è trattato di un tentativo per attirare l’attenzione".

Roman Antonov è stato trasportato dal carcere di Valle Armea di Sanremo a Imperia per essere interrogato dal magistrato che ha condotto e sta per concludere le indagini sull’omicidio, Filippo Maffeo. Sembra certo che il russo, al di là del suo ostentato tentativo di apparire vittima di un complotto, sia da ritenersi l’esecutore dell’omicidio di un giovane ucraino, assassinato per simulare la sua morte e far riscuotere alla moglie un cospicuo premio assicurativo.

Como: Rosa e Olindo ricevono anche molte lettere di consenso

 

Ansa, 8 febbraio 2007

 

Ricevono lettere, tante lettere, molte anche di approvazione e di consenso per quel che hanno fatto, i coniugi Rosa Bazzi e Olindo Romano, in carcere da 30 giorni per la strage di Erba dell’11 dicembre. Lo ha confermato il loro legale, Pietro Troiano, che proprio oggi ha presentato un’istanza per chiedere un colloquio tra i suoi assistiti e alcuni psichiatri. Ad un mese dal loro arresto e a quasi due dal massacro, marito e moglie non si sono discostati molto dalle versioni e dalle motivazioni date subito dopo il fermo.

"Nessuno può immaginare che vita di inferno eravamo costretti a subire - hanno continuato a ripetere - Se siamo arrivati a quel punto vuol dire che eravamo davvero esasperati". Spiegazioni che, mette subito avanti il legale, non giustificano nulla, ma potrebbero aiutare a capire come è nato uno dei più terribili fatti di cronaca degli ultimi anni. La sera dell’11 dicembre a Erba in una casa di corte elegantemente ristrutturata, Rosa e Olindo, 42 e 45 anni, sposati da quasi venti, massacrarono a colpi di coltello e di bastoni 4 persone.

Erano Raffaella Castagna, 30 anni e il figlio Youssef di 2, che abitavano insieme al marito Azouz Marzouk al piano di sopra quello della coppia. Sotto i loro colpi finirono anche la mamma di lei, Paola Galli, 60 anni, moglie del noto, stimato e cattolicissimo industriale del mobile e del design, Carlo Castagna e la vicina di casa Valeria Cherubini, 56, che si trovò a passare per caso. Il marito di quest’ultima, Mario Frigerio, si salvò per un caso: aveva un difetto alla vena giugulare e la coltellata non fu mortale. In un primo momento venne sospettato della strage il marito di Raffaella, tunisino ventiseienne che invece da giorni era in Tunisia.

Per un mese si susseguirono le ipotesi più diverse, dal regolamento di conti alla vendetta trasversale. Ma intanto gli inquirenti avevano già messo gli occhi sui vicini di casa e aspettavano solo le prove giuste. Da 30 giorni quindi Rosa e Olindo, sono nel carcere del Bassone di Como. Tra di loro sono riusciti a vedersi già un paio di volte. "Si mancano molto - ha detto l’avvocato - anche se non è vero che erano morbosamente attaccati, anzi conducevano una discreta vita sociale con molti amici". Alcuni di questi hanno chiesto al legale di poterli andare a trovare. Sono spariti invece tutti i parenti, la vecchia mamma di lei e i fratelli di lui, che dal primo momento hanno evitato qualunque rapporto. In carcere pare siano dei detenuti che non creano alcun problema. Lei guarda la televisione, stira, trascorre molto tempo e pensare e riflettere. Lui legge molto. Ha chiesto tutti i libri di Oriana Fallaci.

Roma: a Regina Coeli prosegue sciopero dei medici convenzionati

 

Ansa, 8 febbraio 2007

 

Per il terzo giorno incrociano le braccia i sanitari convenzionati con il carcere: non ricevono soldi da oltre 6 mesi. In agitazione anche i 25 infermieri. Il Garante dei detenuti: "Situazione difficile"

Roma, 8 febbraio 2007 - Potrebbe scoppiare presto l’emergenza sanitaria nel carcere di Regina Coeli. Da martedì, infatti, i medici penitenziari convenzionati della struttura sono in sciopero per protestare contro il ritardo di oltre 6 mesi nella corresponsione delle parcelle dovute. Assieme ai medici sono in stato di agitazione anche i 25 infermieri della cooperativa che lavora nel carcere (che garantiscono oltre il 50% dell’assistenza sanitaria) perché anche loro non percepiscono dallo scorso mese di agosto gli stipendi.

Da tre giorni, dunque, i medici specialisti sono presenti in carcere per le urgenze. Garantite solo le consulenze psichiatriche, infettivologiche e la fisioterapia. All’interno dell’istituto sono stati bloccati anche gli interventi chirurgici e chiusa la sala operatoria. L’ultima sessione di interventi prevista è stata effettuata martedì pomeriggio. "Una situazione - ha detto il Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni - di estrema difficoltà soprattutto se si considera il fatto che il carcere di Regina Coeli è uno dei Centri Diagnostici e Terapeutici nazionali, con detenuti qui trasferiti da tutta Italia e in attesa di visite o interventi anche di una certa entità da mesi".

Lo scorso dicembre Marroni aveva denunciato all’opinione pubblica e alle autorità la circostanza che le ragionerie di diverse carceri del Lazio non avevano fondi sufficienti e per questo medici, infermieri e il resto del personale sanitario che opera in convenzione in carcere era rimasto senza stipendio. Per svolgere il lavoro in carcere i medici guadagnano 21,15 euro l’ora, gli infermieri 16. "A dicembre sollecitai il nuovo Provveditore del Lazio a trovare urgentemente una soluzione - ha commentato Marroni - Visto che un altro mese è passato invano, auspico un immediato e non più differibile intervento per pagare le spettanze arretrate agli operatori sanitari ed evitare, al tempo stesso, ulteriori difficoltà al sistema penitenziario del Lazio".

Padova: i detenuti trasferiti nella nuova casa circondariale

 

Il Gazzettino, 8 febbraio 2007

 

L’umanizzazione del carcere passa per la nuova casa circondariale. In queste ore si sta concludendo il trasloco dalla vecchia alla nuova sede, attigua alla prima ma decisamente più bella, curata e accogliente. Spazi meglio organizzati, soluzioni igienicamente accettabili, una più attenta attenzione all’uomo e ai suoi bisogni primari: la nuova sistemazione spazza anni di polemiche per quell’edificio fatiscente, ora prossimo alla ristrutturazione. Costruita con una concezione arcaica dei diritti dei detenuti in attesa di giudizio, la casa circondariale è sempre stata considerata quanto di più lontano si possa immaginare come biglietto da visita di una società attenta ai diritti delle persone.

Salutata a più riprese come una "struttura inqualificabile per un paese civile", dove erano ammassati stabilmente 250 detenuti (con punte frequenti di 300 persone) in luogo della capienza stabilita nella autorizzazione iniziale (92 posti + 6 di isolamento), viene sostituita (pare in modo definitivo) da nuovi locali con un netto miglioramento della qualità della vita (sale climatizzate, nuova infermeria, aula informatica, biblioteca, spazi per l’attività ludica). Ma, secondo la Cgil, non ancora ottimale.

"La nuova struttura è decisamente piccola, molto più dell’attuale, e per quanto si possa lavorare su funzionalità e razionalità al fine di ottimizzare gli spazi e le funzioni da svolgere la situazione è difficile per il benessere sia degli ospiti sia degli operatori di polizia penitenziaria. Abbiamo visitato - spiega Ilario Simonaggio, segretario generale della Cgil Padova - i due piani che compongono le celle dei detenuti. Abbiamo contato in una cella standard di 20 metri quadrati, compreso lo spazio per il bagno attiguo, la presenza di tre file di tre letti a castello per un totale di nove posti letto. Nelle altre celle la situazione era lievemente migliore con 7 letti. Siamo convinti che bisogna assumere provvedimenti tempestivi, che almeno garantiscano alcune condizioni di sollievo sociale, nell’attesa di una verifica successiva all’attivazione dell’istituto".

Simonaggio sostiene che il fondo nazionale per l’ammodernamento delle strutture carcerarie deve essere garantito nelle risorse indispensabili ad un efficace piano di ristrutturazione degli istituti. "Non ci convince l’equazione che a fronte della riduzione di 15.000 detenuti a seguito dell’indulto, sia possibile programmare analogo risparmio sui costi. Bisogna riconsiderare l’intero sistema di funzionamento e gestione in situazioni ordinarie, consci che è improponibile la riduzione degli ingressi notturni e il continuo trasferimento dei detenuti in altri carceri del Veneto come regolarmente fatto in questi mesi".

Latina: sovraffollamento da record, serve un nuovo carcere

 

Il Tempo, 8 febbraio 2007

 

Non si arresta il processo di sovraffollamento della Casa Circondariale di Latina. I detenuti avrebbero raggiunto ormai una quota record. "Ad oggi ne possiamo registrare 130 - ha dichiarato il direttore del carcere latinense, Claudio Piccari - una situazione che va peggiorando sempre di più. La nostra struttura ha una capienza regolamentare di 5 detenuti, prima dell’indulto ve ne erano 125, poi con il varo del provvedimento di clemenza si è risaliti fino a quota 105".

Il progetto di un nuovo carcere sembra essere stato "accantonato". Con il nuovo Governo tutto si è fermato. L’idea del sindaco Zaccheo di trasferire la Casa Circondariale fuori dalla città non ha trovato sostegni sufficienti, ma l’ipotesi non è affatto tramontata. Nei giorni scorsi sono intervenuti alcuni esponenti politici che hanno sottolineato con urgenza la necessità di traslocare il carcere. Bruno Creo (An), presidente della commissione consiliare "attività produttive", ha presentato già da diverse settimane una mozione sull’emergenza carcere, ma ad oggi mai discussa.

Per oggi è previsto un nuovo blitz del candidato a sindaco dell’Unione, Maurizio Mansutti, che accompagnato dal consigliere regionale Claudio Moscardelli, visiterà la Casa Circondariale di via Aspromonte. Il dibattito sul trasferimento è aperto. "Sono del parere che sia necessario costruire strutture carcerarie con 500 detenuti, magari aumentando di almeno un terzo il personale" ha dichiarato il dottor Piccari, che pochi mesi fa auspicò un ampliamento dell’organico nella misura di 45 unità. Nel frattempo è stato nominato il nuovo comandante della polizia penitenziaria del carcere. Si tratta di Egidio Giranna, che ha assunto l’incarico dalla metà di dicembre. Proprio gli agenti vivono uno stato di elevato disagio per le condizioni igienico-sanitarie della struttura. Il sindacato autonomo di polizia penitenziaria ha denunciato a più riprese la necessità di rimpinguare l’organico, ridottosi lo scorso anno di oltre 20 unità.

Treviso: la vergogna del carcere minorile, il peggiore d’Italia

 

L’Espresso, 8 febbraio 2007

 

A Treviso spazi angusti, rari strumenti e recupero sociale impossibile Treviso. Struttura inadeguata, non idonea, vergognosa. Così è stato definito da più parti l’Istituto penale minorile di Treviso. Unico nel Triveneto, è ricavato da un’ala del carcere di Santa Bona. Nato per detenuti adulti, quindi, e non per i 17 minorenni che attualmente ospita: le celle sono strette, gli spazi per le attività sono a dir poco angusti. E la palestra, che funge da sala polivalente, è stata dichiarata inagibile. Don Luigi Ciotti lo aveva definito "il peggior carcere minorile d’Italia". Dal 1982 l’Ipm vive l’ossimoro tra l’alta qualità professionale del personale che ci lavora e l’inadeguatezza della struttura.

Nel 2005, in occasione della sua ultima visita, don Ciotti disse: "Non esiste struttura più inadeguata di questa. È una vergogna. Non per le persone che vi lavorano, ma per la sede asfittica, ristretta, attigua all’istituto penale riservato agli adulti". L’istituto, uno dei 18 in Italia, è inglobato nella casa circondariale di via Santa Bona Nuova. Da questa si distingue solo per il colore delle mura esterne: arancioni, rispetto all’azzurro del carcere. Colore recente. Per cancellare, almeno, il grigiore che lo faceva apparire ancor più fatiscente. Già Livio Ferrari, presidente della Conferenza nazionale Volontariato e giustizia, aveva detto: "Mancano gli spazi per attuare un percorso di recupero rieducativo".

Ma bisogna vedere con i propri occhi lo squallore di questa realtà per capire. Non tanto quello che c’è quanto ciò che manca. Un vetro a specchio separa la guardiola dal mondo esterno. Qui, c’è una minuscola cella, quella per la prima accoglienza: una sorta di limbo in cui i ragazzi trascorrono fino a 48 ore, in attesa della convalida del fermo. Il corridoio conduce a un cortile interno. Mura e filo spinato lo separano da quello del carcere per gli adulti. Al secondo piano della struttura, le inferriate da cui penzolano un paio di scarpe, dei calzini blu, una maglietta bagnata. Sulla sinistra, una casa costruita tre anni fa, sede della dirigenza. Tutto bene o quasi, ma l’apparenza inganna. Una volta entrati, si attraversa un breve corridoio. L’intonaco nuovo di fuori stride con i muri scrostati all’interno. Dietro una porta un ragazzo è a colloquio con un familiare. Si inizia a rendersi conto della promiscuità cui sono costretti i detenuti. Che sono qui spesso per trascorrere un breve periodo che dovrebbe essere riabilitativo, preludio al loro reinserimento lavorativo. Ma al piano terra, così come nel resto dell’istituto, non c’è traccia di laboratori professionali presenti invece negli altri 17 Ipm d’Italia. L’unico corso attivato è quello di computer grafica, destinato a saltare. Ci sono solo dei piccoli uffici e l’infermeria. Tra il personale, le carenze di organico sono evidenti. Salite due rampe di scale dal poggiolo in legno scrostato, si accede alla zona delle celle.

Tre le singole, strette e buie, altrettante quelle in cui possono essere ospitate fino a quattro persone. Infine, una da tre. In ognuna, lo stretto indispensabile: i letti, un bagnetto e un televisore. Qui sono costretti a convivere i ragazzi arrestati per semplici furti con quelli definiti pericolosi, con quelli per intendersi che alle spalle hanno anche omicidi. Ma non è questo il punto, il punto sta nel fatto che le denunce dei volontari, dei sacerdoti, perfino dei rappresentanti del Parlamento e del Governo ammettono che lo Stato ha rinunciato al recupero di questi giovani, perché in uno spazio simile non si può realizzare. Questi ragazzi non hanno un posto per imparare un lavoro, per scambiare esperienze con i loro coetanei di fuori, per apprendere una vita normale.

Servono aule, spazi sportivi, laboratori di grafica, di officina, di tecnologia, di computer, di agricoltura, di educazione alla vita. Oggi il Minorile ospita 17 giovani rassegnati, tra i 14 e i 18 anni (con proroga fino ai 21). Di fronte alle celle, due aule di venti metri quadri: in una, quella che a stento può essere definita una scuola, nell’altra solo tre pc. All’interno delle celle, qualcuno sonnecchia. Altro non può fare. Condizione destinata ad acuirsi: pare che il finanziamento per il corso di computer grafica non sarà confermato.

Facendo saltare Equal, progetto che offriva ai ragazzi due borse di studio. I detenuti sono per lo più stranieri: maghrebini, rumeni, albanesi, spesso senza famiglia alle spalle. Qui per motivi disparati: spaccio, prostituzione, furti, omicidio. La giornata inizia alle 8, sveglia e pulizia della cella.

Alle 8.40, colazione in mensa. Dalle 9, le poche attività che i locali permettono di realizzare (scuola, corsi di alfabetizzazione, pc). Alle 12.30 il pranzo. Dalle 14 altre attività e, per alcuni, lo studio. Alle 19, la cena. Preambolo della chiusura a chiave delle celle, alle 20. Un tran tran inutile che non porta da nessuna parte. Dal piano terra si accede poi a un triangolo di terra delimitato da mura e filo spinato: il giardino. Anche qui, nessuna traccia di laboratori.

C’è solo una sorta di palestra, fredda e poco accogliente. Da tempo dichiarata inagibile, funge da sala polivalente, nel senso che ospita quasi tutte le attività. Solo il lunedì i ragazzi usufruiscono del campo da calcio. La buona volontà del personale non manca, ma non basta, come dice Maria Catalano, che dal 1992 opera all’interno: "Il rischio vero è di perdere anche la dignità".

Parma: lavoro e casa, ecco la mia nuova vita dopo l’indulto

 

La Gazzetta di Parma, 8 febbraio 2007

 

Ahmed fa l’aiuto cuoco e vive in un alloggio della Caritas: "Il mio sogno? Una famiglia" Francesca Lombardi II Dice che in Italia il carcere è più simile a un albergo. E che, tutto sommato, per chi viene dai Paesi poveri è quasi una passeg­giata: magari se lavori e spedisci in famiglia cento euro al mese, neanche se ne accorgono, che sei dietro le sbarre. Certo, la libertà non fa schifo a nessuno: ma quando questa vuol dire vivere senza un tetto sotto il quale dormire o senza un lavoro, allora tanto vale provare con una rapina.

Se funziona, sei a posto per un po’, altrimenti torni dentro. Ahmed, figlio 46enne dell’indulto parmigiano, parla del provvedimento che l’ha fatto uscire dal carcere lo scorso 20 agosto, due anni prima del previsto. Prova a entrare nella testa degli ex detenuti recidivi e cerca di spiegare il perché dell’aumento di furti e rapine negli ultimi mesi.

"Alcuni la delinquenza ce l’hanno nel sangue - dice - e la loro vita ormai è in carcere. Se li metti fuori non capiscono più niente: magari sono anche soli e non riescono a trovare lavoro, così fanno qualcosa per tornare dentro". Ma Ahmed, che è un nome di fantasia, dice di far parte della seconda categoria. Di quelli che hanno già sbagliato una volta e che non vogliono ripetere l’errore. Che guardano il loro futuro con fiducia e che sognano di poter lavorare a Parma, avere una casa e anche una fa­miglia.

Dei 235 fuori da via Burla solo 38 hanno chiesto aiuto Dal carcere di via Burla sono usciti in 235. Ma solo 38 hanno chiesto aiuto, e solo 7 l’hanno fatto oltre la fase di emergenza. Meno del 3%. Dei detenuti che sono stati scarcerati grazie all’indulto, la macchina assistenziale messa in moto dal Comune all’inizio dello scorso agosto continua a funzionare per pochi. Attualmente le persone che risultano essere in borsa lavoro, cioè che lavorano grazie a un contributo economico dell’assessorato ai Servizi sociali, sono cinque.

Lazio: corso di psicologia per operatori penitenziari di Rebibbia

 

Asca, 8 febbraio 2007

 

"È iniziato il corso di formazione psicologica per gli operatori penitenziari di Rebibbia, che abbiamo promosso in collaborazione con la facoltà di Psicologia 2 dell’Università La Sapienza di Roma". Ad annunciare l’avvio del corso, rivolto agli agenti di Polizia penitenziaria, educatori carcerari, assistenti sociali e agli altri soggetti professionali che lavorano all’interno degli Istituti penali di Rebibbia, è l’Assessore agli Affari Istituzionali, Regino Brachetti.

Il corso, finanziato dalla Regione Lazio, punta a fornire agli operatori la preparazione adeguata per affrontare ambienti e situazioni di particolare delicatezza, sotto ogni punto di vista. "Si tratta della prima esperienza del genere - spiega l’Assessore Brachetti - per il momento riservata, in maniera sperimentale, al complesso di Rebibbia, il più grande del Lazio.

Siamo quindi intenzionati ad estenderla, anche in base ai risultati che questa darà, a Regina Coeli e alle altre carceri presenti sul territorio regionale". In particolare il corso, realizzato in accordo con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e con l’Istituto Superiore di Studi penitenziari, tratta gli aspetti legati ai problemi derivanti dalla forte presenza nelle carceri di immigrati extracomunitari e dal sovraffollamento, due delle emergenze più gravi con le quali gli operatori devono confrontarsi quotidianamente. "Attraverso questo corso - ha concluso Brachetti - intendiamo dare un aiuto concreto agli operatori carcerari. Le oggettive condizioni di precarietà in cui si trovano i detenuti, infatti, fanno spesso passare in secondo piano i gravi problemi con i quali si confronta ogni giorno chi nel carcere ci lavora".

Droghe: settimo giorno digiuno a staffetta per riforma legge

 

Ansa, 8 febbraio 2007

 

Molte le adesioni al digiuno a staffetta, avviato da Franco Corleone il 2 febbraio scorso, per sollecitare il Parlamento affinché proceda immediatamente all’incardinamento della proposta di legge Boato sul tema delle droghe e delle tossicodipendenze (A.C. n. 34), e alla nomina dei relatori nelle due Commissioni congiunte alla Camera, Giustizia e Affari Sociali.

Ieri, 7 febbraio, sesto giorno del digiuno a staffetta, hanno digiunato: Riccardo De Facci, Milano, CNCA (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza); Susanna Ronconi, Torino, Forum Droghe; Andrea Boraschi, Roma, A Buon Diritto (Associazione per le libertà); Pietro Bellantone, Genova, capogruppo Verdi (Circoscrizione I Centro Est). E sono già decine le persone che hanno fatto pervenire la propria adesione, e che si alterneranno nei prossimi giorni in questa iniziativa di pressione e di dialogo.

Oggi, Venerdì 9 febbraio inizieranno il digiuno: Gianluca Borghi, Bologna, consigliere Regione Emilia Romagna e Cecilia D’Elia, Roma, consigliera Provincia di Roma. La proposta Boato è stata presentata alla Camera dei Deputati all’inizio della legislatura ed è stata assegnata in sede congiunta alla Commissione Giustizia e alla Commissione Affari Sociali il 20 settembre 2006. Da allora però è rimasta chiusa in un cassetto.

La proposta, che è in linea con il programma dell’Unione sul tema, ha raccolto le firme di parlamentari di tutto il centro-sinistra e sta tuttora raccogliendo numerose adesioni tra i parlamentari. Il 23 gennaio scorso si è tenuta a Roma, presso la sala stampa della Camera, una conferenza stampa alla quale hanno partecipato vari parlamentari firmatari della proposta - tra cui Marco Boato, Carlo Leoni, Ruggero Ruggeri, Daniele Farina, Cinzia Dato, Tana De Zulueta - ed altrettanti esponenti della società civile e delle associazioni, operatori pubblici, consumatori ed altri soggetti che hanno dato vita in questi anni al movimento per l’abrogazione della legge Fini-Giovanardi e per la riforma della politica delle droghe.

In quella sede associazioni e operatori presenti avevano chiesto la decisione dell’incardinamento della proposta Boato con la nomina dei relatori e tutte le procedure per garantire un esame approfondito del testo ed una discussione nel Parlamento e nel Paese, entro una settimana. Qualora nessun segnale fosse giunto, si sarebbe dato vita a un movimento di protesta. E così è stato. Per i promotori, l’incardinamento della legge e la nomina dei relatori è un obiettivo minimo, ma in difesa della possibilità di discussione e dibattito per le decisioni che il Parlamento deve assumere. Informazioni e adesioni: digiuno@fuoriluogo.it

 

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