Rassegna stampa 26 febbraio

 

L’indulto ed il diritto di tutti

di Andrea Boraschi e Luigi Manconi

 

L’Unità, 26 febbraio 2007

 

Qualche giorno addietro il ministero della Giustizia ha reso noti alcuni dati relativi agli effetti dell’indulto. Più precisamente, sono state divulgate alcune statistiche che illustrano il tasso di reingresso in carcere tra la popolazione beneficiaria del provvedimento d’indulto. Quei dati, per una volta, hanno goduto di buona attenzione da parte del mondo dell’informazione.

Dopo mesi di ostracismo, spesso pregiudizievole, ancor più spesso poco documentato, quel provvedimento comincia a essere analizzato nella sua "materialità". Ci si trova costretti, finalmente, a discutere nel merito dei suoi effetti. Basti sottolineare che, a sei mesi di distanza dall’entrata in vigore di quel condono penale, il tasso di recidiva, tra chi ne ha beneficiato (11,1%), è sensibilmente più basso rispetto al tasso registrato ordinariamente tra la popolazione che esce dal carcere in virtù del fine pena (68,45% secondo le stime più recenti); il numero di denunce all’autorità giudiziaria nel periodo luglio-dicembre 2006, confrontato con il medesimo arco temporale del 2005, mostra un incremento assai contenuto (1.308.113 nel 2005, 1.310.888 nel 2006), non proporzionale alla messa in libertà di circa 24.000 detenuti; i dati relativi alle tipologie di reato che determinano la recidiva rimandano a illeciti di scarsa gravità (gli episodi criminali di maggiore gravità, dunque, sono assai pochi); infine, un raffronto tra gli effetti del precedente indulto, risalente al 1990, e quelli dell’ultimo ci dice che allora, a distanza di un anno dalla liberazione di circa 10.000 persone la popolazione era aumentata di altrettante unità: oggi, a distanza di sei mesi, si registra un incremento di sole 980. Questi i dati.

Non meritano ulteriori commenti, dimostrano da soli come quei danni irreparabili alla sicurezza e all’ordine sociale preventivati dai più come conseguenza del provvedimento, sono ben lontani dall’essersi verificati. Ci interessa, piuttosto, tornare a parlare del senso di questa normativa, affrontandone il valore politico più ampio, più profondo. Nell’idea dei molti che hanno contestato l’indulto, lo Stato, nella sua funzione di erogazione di una sanzione penale, assolve a un ruolo repressivo-pedagogico in cui afferma il suo primato sui diritti individuali della persona. Non contano, per costoro, le condizioni di espiazione della pena, dunque le fragorose violazioni di leggi e garanzie a tutela di chi è recluso: non conta il fatto che le condizioni di sovraffollamento dei nostri istituti costringessero alla promiscuità, producessero malattia, impedissero qualsivoglia politica di recupero (dunque riproducessero delinquenza). No.

Conta, assai più, che lo Stato tenga fede alla sua missione moralizzatrice. E, in effetti, l’indulto è stato giudicato da molti come un provvedimento diseducativo, nella misura in cui induce a credere che chi ha sbagliato, in questo paese, non paga mai; dunque è libero di continuare a sbagliare (conseguenza che, alla luce dei dati illustrati, non appare così ovvia). Da qui, da questo spunto, si può partire per un ragionamento di più ampio respiro.

Le manifestazioni della declinazione pedagogico-paternalistica dello stato sono molte: e vanno dalla politica sulle droghe a quella in materia di libertà terapeutica; e interessano questioni della vita di ognuno, dalle scelte educative e sessuali alla conoscenza delle condizioni sanitarie e territoriali del proprio luogo di vita, dalla consapevolezza della qualità di ciò che mangiamo e beviamo alla perfetta trasparenza del processo democratico, senza la quale l’opzione politica dei cittadini risulta indebolita e svilita.

Sono, queste ed altre, questioni molto distanti tra loro e che, pure, vedono frequentemente prevalere il primato del "pubblico" sul "privato", del "bene collettivo" sui diritti della persona. Ma si tratta di una contrapposizione, questa tra la sfera collettiva e quella individuale, fallace e regressiva, che può essere ribaltata e quindi risolta attraverso la formulazione di un assunto alternativo: i diritti individuali della persona come condizione prima ed essenziale delle garanzie sociali e collettive.

Attenzione: non si tratta di una bizzarria postmoderna, tanto meno dell’ennesima "deriva liberaleggiante". Valga, in tal senso, l’esempio della Costituzione francese del 1793, che definiva le "garanzie sociali" di una comunità politica come risultato del dovere di tutti di rendere effettivo il diritto di ognuno, legando indissolubilmente diritti individuali e politica collettiva. Per riprendere con forza questa concezione, l’attenzione va concentrata su soggetti e contenuti dei diritti. E qui l’innovazione deve essere radicale: soggetti non sono soltanto i cittadini, ma ognuno, indipendentemente da nascita, sangue, cultura, cittadinanza.

Qui la cultura della sinistra deve riscoprire un universalismo dimenticato: e valorizzare quei diritti che comportano il massimo di inclusività, cioè quei diritti di cui il singolo non può isolatamente godere se contemporaneamente non ne godono tutti gli altri. Garantirli significa assicurare la base di un’uguaglianza complessa e di una libertà matura, che consentano a ognuno di esprimersi e di scegliere ulteriormente la propria dimensione di vita.

In questa cornice possiamo rileggere il significato dell’indulto: un provvedimento rivolto, in misura preponderante, a persone che provengono da strati disagiati, da fasce povere ed emarginate della popolazione; perché il carcere, negli ultimi lustri, è andato trasformandosi in un sistema vieppiù classista, in una macchina di rimozione del prodotto delle dinamiche di impoverimento ed esclusione attive nel corpo sociale. L’indulto è stato solo un primo, parziale e ineludibile passo verso la tutela dei diritti individuali dei soggetti reclusi.

Diritti che non possono essere ignorati, sviliti, disattesi ulteriormente. Pena, in primis, la sicurezza di ciascuno di noi. Ecco, allora, che la tutela di queste figure (dei detenuti come di altre), la loro inclusione all’interno di un sistema di diritti di cittadinanza che si fa più ampio, complesso e articolato, può ottenersi solo a partire dalla difesa intransigente dell’autonomia individuale.

Non vogliamo dire - oramai sarà chiaro - che i diritti individuali possano ignorare o fare a meno delle garanzie sociali e delle tutele collettive; piuttosto, che queste ultime, in società complesse e segmentate come le nostre, vanno costituite, anch’esse, a partire dalla sfera dei diritti individuali. Dall’individuale al collettivo; e non viceversa, come è stato nel corso di duecento anni di storia del movimento operaio.

Diritti dei detenuti, un momento storico per riaffermarli

 

Il Carcere Possibile Onlus, 26 febbraio 2007

 

I diritti dei detenuti, un momento storico per riaffermarli dopo il recente indulto (emanato per migliorare le condizioni detentive o per tagliare le spese nel sistema penitenziario ?).

L’ultimo libro di Federico Stella, "La Giustizia e le ingiustizie" (Il Mulino - 2006) ribadisce il principio che le teorie della giustizia sembrano costruite per mondi ideali ed ipotetici, se non del tutto fittizi. Le norme in materia di detenzione, sono uno dei tanti esempi di tale affermazione, in quanto, scritte da decenni, trovano rara applicazione. Coloro che dovrebbero beneficiare di quanto in esse stabilito, i detenuti, sono considerati evidentemente soggetti che non meritano alcuna attenzione, nemmeno che venga, per loro, applicata la legge.

Né l’opinione pubblica, che è costantemente allarmata per la diffusa illegalità con cui è costretta a convivere, si preoccupa del mancato rispetto delle regole all’interno delle carceri ed in particolare del principio costituzionale della rieducazione e del reinserimento sociale, strettamente, invece, collegato alla finalità di prevenzione, che mira ad evitare, che il condannato ritornato in libertà commetta nuovi reati

I detenuti, siano essi in attesa di giudizio - quindi presunti innocenti - siano essi stati condannati a pena definitiva, non sono considerati degni di tutela. Non hanno rispettato la legge. Lo Stato, dunque, fa altrettanto con loro. Si scrivono regole con riferimento ai principi costituzionali, ben sapendo che esse non saranno rispettate, perché alcun finanziamento viene disposto.

L’Italia ha un Ordinamento ed un Regolamento Penitenziario che possono essere considerati un valido strumento per il rispetto della dignità della persona-detenuta. La loro parziale applicazione rende ancora più mortificante la vita dietro le sbarre e delude coloro che, pur liberi, continuano a credere che la Legge vada sempre e comunque applicata.

La punizione per chi ha sbagliato deve consistere esclusivamente nella privazione della libertà (pena estrema, dolorosa e devastante), ma la dignità, la psiche, gli affetti, la salute, la speranza, devono continuare a vivere nell’essere umano, che non deve essere trasformato in bestia, ma deve continuare a meritare rispetto, a vedere tutelata la sua dignità, condizione necessaria affinché egli possa "vivere" e, forse, migliorare.

La pena deve essere certa ed è importante che tale principio sia rispettato, affinché si nutra fiducia nella giustizia. Ma divenuta "certa" essa deve essere anche "giusta", cioè scontata con il rispetto delle norme in materia.

Leggere gli articoli dell’Ordinamento (L. 26 luglio 1975, n. 354 - emanato 32 anni fa) e del Regolamento (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 - in vigore da circa 7 anni) Penitenziario sul "trattamento" all’interno degli Istituti e confrontarli con la realtà, è raccapricciante. Mai violazione di legge è stata così eclatante, così certa e da tutti conosciuta per tantissimi anni, senza un intervento concreto di chi avrebbe il dovere d’intervenire.

L’igiene non è considerato un bene primario. Circa il 90% dei detenuti non ha doccia nella propria cella. Sono effettuati dei turni, che in alcuni Istituti sono settimanali. Circa il 70% non ha acqua calda in cella, mentre circa il 60% delle detenute non ha il bidet (fonte Antigone 2005). Il bagno nelle celle, a volte, non ha separazione ed è composto da water e lavabo. La maggior parte dei detenuti cucina e pranza in cella, lavando e preparando gli alimenti nello stesso angusto spazio che serve da bagno. Gli alimenti vengono accatastati nelle stesse celle.

I rapporti con la famiglia, sono soggetti a limitazioni che rendono disagevoli le relazioni tra gli internati e coloro che vengono a trovarli, alimentando un allontanamento fisico ed a volte affettivo. In più della metà degli Istituti non sono consentiti colloqui in spazi all’aria aperta. La maggior parte dei colloqui (uno a settimana) avviene in enormi stanzoni, dove i detenuti parlano, o meglio urlano, ai familiari - posti dall’altro lato di un tavolo - i loro affetti e le loro esigenze, per un tempo che è di circa un’ora. La riservatezza è garantita dall’enorme frastuono.

Il settore sanitario penitenziario subisce continui tagli ai finanziamenti. I medici penitenziari, lo scorso mese di gennaio hanno protestato davanti al carcere di Bologna contro la Finanziaria "che ha messo in ginocchio l’assistenza sanitaria ai detenuti". Nel 2007 per le cure ai detenuti sono previsti 13 milioni di euro in meno a livello nazionale. Un taglio di quasi il 15% rispetto al 2006 (fonte "La Repubblica" del 13 gennaio 2007). Gli spazi pro-capite dovrebbero essere pari a 9 metri quadrati, ma i detenuti "vivono", quasi sempre, "ristretti", senza alcuna possibilità di poter effettuare movimenti significativi, in celle sovraffollate, con un’ora d’aria la mattina ed una il pomeriggio. Circostanza che genera evidenti patologie ed aggrava quelle esistenti. In alcune celle non è possibile accendere le luci dall’interno, in quanto gli interruttori sono situati solo all’esterno. La luce naturale, a volte, non è sufficiente in quanto vi sono schermature alle finestre. Nel 2005, sono stati 57 i detenuti che si sono tolti la vita. I suicidi nel carcere di Napoli-Secondigliano, sono stati 11, in meno di sei mesi (fonte Antigone).

Il Dott. Sebastiano Ardita - responsabile della Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dap - dichiarando che "siamo consapevoli di versare in una situazione di grave, perdurante, quanto involontaria ed inevitabile divergenza dalle regole, per il fatto di non essere nella materiale possibilità di garantire a causa del sovraffollamento, quanto previsto dalle normative vigenti e dal recente regolamento penitenziario", a proposito della salute dei detenuti, ha affermato che "non è solo un problema politico e neanche solo una questione tecnica o medico legale. È molto di più. È il luogo privilegiato per valutare le politiche sociali di uno Stato. È una questione di politica criminale. È il banco di prova della pena costituzionalmente intesa" (fonte Ansa 1° marzo 2006).

Ma quali gli strumenti che il "cittadino-detenuto" ha per chiedere che vengano rispettati i suoi diritti? L’art. 35 dell’Ordinamento Penitenziario e l’art. 75 del Regolamento prevedono il "Diritto di Reclamo". Il detenuto può rivolgere istanze orali o scritte, anche in busta chiusa, al Direttore dell’Istituto, al Direttore del Dap, al Ministero di Giustizia, al Magistrato di Sorveglianza, alle Autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto, al Presidente della Giunta Regionale, al Capo dello Stato.

L’art. 35 (diritto di reclamo) e l’art. 69 (Funzioni e provvedimenti del Magistrato di Sorveglianza) sono stati dalla Corte Costituzionale, con sentenza dell’ 8-11 febbraio 1999, n° 26, dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale.

Scrive la Corte Costituzionale: "L’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzialmente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti…..La restrizione della libertà personale, secondo la Costituzione vigente, non comporta dunque affatto una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’autorità preposta alla sua esecuzione…

Al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi ad un Giudice in un procedimento di natura giurisdizionale…Da tutto questo si trae che il reclamo di detenuti o internati, ancorché volto al Magistrato, non si distingue da una semplice doglianza, in assenza di alcun potere dell’interessato di agire in un procedimento che ne consegua. Ciò che si presenta, senza necessità di alcun’altra considerazione, contrario alla garanzia che la Costituzione prevede nel caso della violazione dei diritti… Pertanto, fondata essendo la questione di costituzionalità relativamente al difetto di garanzia giurisdizionale… non resta che dichiarare l’incostituzionalità della omissione e contestualmente chiamare il legislatore all’esercizio della funzione normativa che ad esso compete, in attuazione dei principi della Costituzione".

A tutt’oggi - dopo 8 anni - la questione non è stata ancora affrontata ed il principio di umanizzazione della pena e del suo fine rieducativo, continua a restare senza un’effettiva tutela. Difficilmente potrà realizzarsi, se non trova uno strumento giurisdizionale di controllo che ne assicuri l’effettiva realizzazione.

L’impianto previsto dalle norme in vigore, infatti, così come evidenziato dalla Corte Costituzionale, non garantisce la doverosa censura che dovrebbe essere mossa alle attuali condizioni di vivibilità nelle carceri.

La Magistratura di Sorveglianza che dovrebbe esercitare "la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti" (art. 69, 2° comma), ed "approva, con decreto, il programma di trattamento di cui al terzo comma dell’art. 13, ovvero se ravvisa in esso elementi che costituiscono violazione dei diritti del condannato o dell’internato, lo restituisce, con osservazioni, al fine di una nuova formazione; approva, con decreto, il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno. Impartisce, inoltre, nel corso del trattamento, disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati o degli internati" (art. 69, 5° comma), in realtà decide sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità, solo in occasione della trattazione delle misure alternative e non ha, di fatto, un potere d’incidenza diretta e comunque significativo sul trattamento penitenziario.

In una situazione di evidente ed innegabile degrado, c’è da chiedersi se l’emanazione del recente indulto ha, in qualche modo, migliorato, le condizioni di vivibilità negli Istituti di Pena.

I media sono stati solerti ad informare sugli effetti del provvedimento "fuori le mura", caricando l’indulto di valenze negative, che vanno ben al di là della sua portata. Il provvedimento di clemenza è stato indicato, con titoli ad effetto, quale causa di una criminalità violenta, in realtà sempre esistita, ignorando del tutto se, a fronte di tante scarcerazioni, vi sia stato un reale e concreto beneficio nelle carceri.

Negli Istituti napoletani la situazione non è mutata. Nel femminile di Pozzuoli, dopo l’indulto è stato chiuso un reparto e le detenute continuano a vivere come prima: 11, o 10, o 9 in una cella di pochi metri quadri, per 22 ore al giorno, con un unico stanzino per i bisogni corporali, che funge anche da cucina. A Poggioreale, prima dell’indulto vi era 1 educatore ogni 400 detenuti. Dopo l’indulto la proporzione è di 1 educatore ogni 200 detenuti. L’impossibilità di operare resta del tutto identica. Secondigliano, ha già di nuovo raggiunto, la capienza regolamentare (1.028 presenze) e si avvia verso il sovraffollamento.

La chiusura di reparti dopo l’indulto (senza per altro che in tali spazi venissero effettuati lavori), non è stata eseguita solo a Pozzuoli, ma anche a Padova (fonte Antigone, 20 ottobre 2006) e Venezia (fonte Antigone, 23 ottobre 2006). La polizia penitenziaria, con lo sfollamento e la chiusura dei reparti, ha potuto diminuire i turni di lavoro. È necessario allora riflettere sulle altre, e non dette, ragioni che hanno giustificato l’emanazione dell’indulto: la possibilità di tagliare le spese e ridurre le ore del personale.

Benefici ve ne sono stati solo per chi ha riacquistato la libertà, ma i benefici reali per la popolazione detenuta sembrano davvero pochi. I detenuti continuano ad essere privati dei loro diritti e non si intravede - dopo 7 mesi dal provvedimento di clemenza - una politica giudiziaria che possa modificare questa situazione ed evitare un nuovo intollerabile sovraffollamento.

L’indulto, invece, può rappresentare un’occasione unica per modificare il sistema, con urgenti riforme del sistema penale e di quello penitenziario.

Fino ad ora non ci sono i presupposti perché avvenga un cambiamento in un settore giustizia dove non vi è il necessario per celebrare i processi, i detenuti sono l’ultima preoccupazione per i politici, i Magistrati e, purtroppo, per la stessa opinione pubblica.

Sono urgenti:

l’immediato intervento legislativo per una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale, secondo quanto disposto, ormai da 8 anni dalla Corte Costituzionale;

la modifica immediata di alcune sanzioni (tipologia e quantità) nel Codice Penale;

la riforma della legge ex-Cirielli sulla recidiva;

la riforma della Legge Fini-Giovanardi sulle droghe;

la riforma della Legge Bossi-Fini;

il miglioramento del servizio sanitario penitenziario;

gli interventi strutturali negli Istituti esistenti;

la costruzione di nuovi spazi pensati a misura d’uomo;

l’aumento del personale amministrativo;

l’incremento di educatori e psicologi;

l’applicazione concreta della legge Smuraglia del 2000,

l’esclusione dal circuito carcerario dei bambini figli di madri detenute;

l’istituzione di centri di accoglienza per le pene alternative degli extra-comunitari;

l’istituzione a livello nazionale della figura del "Garante dei diritti dei detenuti".

La battaglia da combattere è soprattutto culturale, ma è necessario far comprendere all’opinione pubblica che una vera opera di prevenzione del crimine non può prescindere da una nuova visione del sistema carcerario e che il rispetto dei diritti civili, passa anche attraverso il rispetto delle persone detenute.

 

Il Carcere Possibile Onlus

(documento approvato dal Consiglio Direttivo del 13 febbraio 2007)

 

Camera Penale di Napoli - Il Carcere Possibile Onlus

Napoli - Palazzo di Giustizia - Piazzale Cenni, Centro Dir.le

Sede operativa: Napoli - Via S. Lucia n. 123 - Tel. 081.7640964 - 081.764565

Mail: info@ilcarcerepossibileonlus.it - c.f. 95080820632

Medicina penitenziaria: comunicato stampa ministro Mastella

 

www.giustizia.it, 26 febbraio 2007

 

Le richieste degli operatori sanitari degli istituti penitenziari sono al centro dell’attenzione del ministro della Giustizia, Clemente Mastella, consapevole che la salute è un diritto fondamentale da tutelare e da garantire a chiunque. Un diritto dal quale non può essere escluso nessuno, nemmeno i detenuti, che se malati e privi di cure, si troverebbero a vivere una sofferenza resa ancora più drammatica dalla condizione in cui si trovano.

Proprio per questo il Guardasigilli ha dato disposizioni affinché vi sia una ripartizione dei fondi di funzionamento che consentirà di fare fronte alla lamentata riduzione degli stanziamenti previsti nella Finanziaria. Sono stati così recuperati interamente 12 milioni e cinquecentomila euro unitamente ad un surplus da utilizzarsi per gli adeguamenti contrattuali.

Napoli: tribunale; muore un detenuto, poi le bambine in gabbia

 

Il Carcere Possibile Onlus, 26 febbraio 2007

 

Sulla presenza di due bambine nella gabbia di un’aula della Corte di Appello e sulla morte di un detenuto in Tribunale.

Nel Palazzo di Giustizia di Napoli, in questi ultimi giorni, si sono verificati due episodi gravissimi che hanno interessato detenuti che attendevano la celebrazione del processo in cui erano imputati. I fatti sono ormai noti. Un detenuto è morto in aula per infarto ed una detenuta è stata tradotta in aula e lasciata all’interno della gabbia unitamente alle sue bambine.

La foto delle piccole imprigionate è stata pubblicata su tutti i quotidiani e ripresa dai telegiornali anche nazionali. La vergogna per quanto accaduto ha spinto il Ministro della Giustizia ad inviare immediatamente gli Ispettori del Ministero per verificare eventuali responsabilità. Gli addetti ai lavori si sono dichiarati tutti indignati e non hanno saputo fornire alcuna spiegazione dell’increscioso episodio.

C’è da chiedersi se quella detenuta con le sue figlie, oltre ad essere rinchiusa in una gabbia in un’aula della Corte di Appello, sia stata tradotta dalla Casa Circondariale al Palazzo di Giustizia con i mezzi ordinari, cioè con il furgone blindato della Polizia Penitenziaria. Se le piccole abbiano anche"viaggiato in gabbia" ed una volta giunte alla meta, siano state ristrette con la madre ed altre detenute nelle celle di sicurezza del Tribunale, in attesa (per quanto tempo?) che fossero portate in aula per il processo.

L’opinione pubblica è stata giustamente colpita da quella foto straziante, che denuncia non solo quel momento d’inciviltà, ma probabilmente anche una serie di ulteriori offese all’età delle due bambine. Gli Ispettori faranno senz’altro luce su quanto avvenuto e ci auguriamo tengano conto anche dell’altro episodio, perché non deve essere considerata "cosa ordinaria" la morte per infarto di un detenuto in un’aula del Tribunale.

È necessario accendere i riflettori sulle celle di sicurezza all’interno del Tribunale, dove i detenuti passano molte ore in attesa che vengano portati in aula per la celebrazione del loro processo. Luoghi dove non è consentito l’accesso agli Avvocati, ma che i detenuti descrivono come insopportabili, tanto è vero che la rinuncia a comparire in aula, restando in carcere, è spesso motivata dall’esigenza di evitare il permanere nelle celle del Palazzo di Giustizia. Si racconta di una stanza in cui vengono rinchiusi gli imputati, con pochissimo spazio, senza possibilità di sedersi, con temperature in eccesso, caldo o freddo a seconda della stagione. Queste condizioni possono essere fatali per chi ha un fisico già provato, determinando aggravamenti che possono condurre alla morte.

Ci auguriamo che gli Ispettori vogliano, nell’esaminare la vicenda delle due bambine, verificare anche le condizioni di vivibilità delle celle di sicurezza del Palazzo di Giustizia di Napoli.

 

Il Carcere Possibile Onlus

Il Presidente, Avv. Riccardo Polidoro

 

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Napoli: "S.O.S. Detenuti", nasce Servizio contro le ingiustizie

 

Il Carcere Possibile Onlus, 26 febbraio 2007

 

Che cos’è "S.O.S. detenuti"? È un servizio che la nostra Associazione vuole fornire come ulteriore contributo per affrontare l’emergenza che, nonostante il recente provvedimento d’indulto, continua ad affliggere gli Istituti di Pena.

"Il Carcere Possibile Onlus" ha istituito un gruppo di lavoro di propri associati, (5 componenti che saranno rinnovati ogni sei mesi) pronto ad ascoltare la voce di coloro che ritengono di subire, o sono a conoscenza che altri subiscano, trattamenti non conformi ai principi costituzionali ed alle norme del Regolamento Penitenziario.

Sarà possibile rivolgersi all’Onlus con lettera firmata, che dia la possibilità di risalire al mittente, garantendo ove richiesto l’anonimato, in quanto, dopo la verifica dell’attendibilità di quanto esposto, l’iniziativa sarà fatta propria dall’Associazione.

Chiunque potrà scrivere: il detenuto, l’avvocato, il magistrato, il personale dell’amministrazione penitenziaria, il parente della persona ristretta. Le modalità d’invio potranno essere a mezzo posta, all’indirizzo "Camera Penale di Napoli - "Il Carcere possibile Onlus" - Nuovo Palazzo di Giustizia, Piazzale Cenni - Napoli" oppure via mail all’indirizzo info@ilcarcerepossibileonlus.it.

Le richieste relative a problemi processuali e/o strettamente legate all’attività professionale del difensore - di fiducia o di ufficio - saranno immediatamente archiviate, perché di competenza esclusiva di quest’ultimo ed assolutamente estranee all’iniziativa.

Il servizio "S.O.S. detenuti", ricevuta la lettera, se riterrà di non doverla archiviare perché attinente al trattamento del detenuto ed alla tutela dei suoi diritti, ne verificherà l’attendibilità, contatterà il difensore di fiducia o di ufficio ed informerà il Consiglio Direttivo. Sarà aperta una fase istruttoria di accertamento dei fatti, alla quale parteciperà il difensore, dopo la quale verranno avanzate le eventuali richieste alle Autorità competenti e/o informate quelle con potere d’intervento.

Nella difficile vivibilità delle nostre carceri, il servizio non ha lo scopo di formulare atti d’accusa, ma solo di raccogliere informazioni, contribuire ad evidenziare i problemi e sollecitare la loro possibile soluzione.

 

Camera Penale di Napoli - Il Carcere Possibile Onlus

Napoli - Palazzo di Giustizia - Piazzale Cenni, Centro Dir.le

Sede operativa: Napoli - Via S. Lucia n. 123 - Tel. 081.7640964 - 081.764565

Mail: info@ilcarcerepossibileonlus.it - c.f. 95080820632

Roma: la scrittura creativa in carcere, esperienze a confronto

 

Ansa, 26 febbraio 2007

 

"La scrittura creativa in carcere: esperienze a confronto": è questo il titolo del convegno organizzato dal garante dei diritti dei detenuti del Comune di Roma, Gianfranco Spadaccia che si terrà martedì 27 febbraio 2006 alle ore 9,30 a Rebibbia.

In carcere la scrittura è praticata, in forme diverse, molto più di quanto non si pensi: non solo nella forma di mezzo di comunicazione personale (lettere, diari, poesie…) o a scopo funzionale (domandine, istanze, relazioni per processi…), ma anche nella forma di attività organizzata (laboratori, redazione di giornali, per rappresentazioni teatrali…).

Il convegno ha l’obiettivo di valorizzare ed estendere le esperienze già esistenti, al fine di riconoscere alla scrittura un ruolo fondamentale per lo sviluppo della persona, per il reinserimento sociale e per il recupero del detenuto spesso sottoposto ad un costante stress.

Il meeting nasce dall’esperienza dei laboratori di scrittura creativa effettuati negli scorsi mesi nella Casa Circondariale di Rebibbia e ricercherà i punti di contatto con esperienze analoghe, svoltesi in atri istituti penitenziari, che avevano come oggetto la scrittura autobiografica, la sceneggiatura, la redazione di giornali e di riviste di istituto.

All’appuntamento saranno presenti tra gli altri Daniela Monteforte, Assessore alla Scuola della Provincia di Roma, Maria Coscia, Assessore alle Politiche Educative e Scolastiche del Comune di Roma, il Direttore Generale Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio Bruno Pagnani, Luigi Manconi, Sottosegretario alla Giustizia e Mariangela Bastico, Viceministro della Pubblica Istruzione.

L’incontro che si concluderà poi con una tavola rotonda e che vedrà protagonisti gli scrittori Edoardo Albinati, Enzo Fileno Barabba, Dacia Mariani e Giampiero Rigosi, sarà l’occasione sia per mettere a confronto le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona il laboratorio, sia per esporre pubblicamente le opere realizzate durante il corso. L’educazione, scolastica e non, svolge infatti un ruolo fondamentale per il reinserimento sociale e per il recupero del detenuto spesso sottoposto ad un constante stress.

Una realtà importante, dunque, quella della scrittura creativa nelle carceri, perché insieme ad altre attività può stimolare la creatività e l’immaginazione, costituendo per molti detenuti un’apertura verso un mondo di libertà interiore e di ricostruzione del sé che aiuta a salvare la propria integrità di essere. Il corso, che si tiene ogni mercoledì mattina, è partito con esattezza il 15 novembre 2006 e si concluderà nel giugno prossimo. I partecipanti sono una decina, di cui buona parte extracomunitari.

Una vera e propria boccata d’ossigeno e un ottimo esercizio per lo spirito che consente attraverso l’uso della fantasia di viaggiare molto più veloci di quanto possiamo fare con qualsiasi veicolo.

Ascoli Piceno: progetto "Una mattina in carcere" per studenti

 

Corriere Adriatico, 26 febbraio 2007

 

Le porte del carcere si apriranno mercoledì 28 febbraio per un gruppo di studenti delle quinte classi dell’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri (corso geometri) e della 5E del Liceo Scientifico impegnati nel progetto "Una mattina in carcere".

Il progetto, molto innovativo, è rivolto agli studenti delle Scuole superiori, allo scopo di non far sentire il carcere così lontano dalla nostra realtà e considerare chi è "dentro", prima di tutto una persona con i suoi diritti.

Inoltre vuole perseguire l’obiettivo di una crescente integrazione della Casa Circondariale di Ascoli Piceno nel territorio e nel contesto sociale in modo da favorire la condivisione da parte della collettività, del concetto di sicurezza sociale da perseguire anche tramite il reinserimento sociale del detenuto.

"L’incontro - commenta l’assessore alla Pubblica Istruzione, Gianni Silvestri - permetterà ai ragazzi di conoscere un mondo particolare, quello del carcere. Potranno ascoltare e fare domande ai responsabili dell’Istituto di Pena, guidato dalla dott.ssa Lucia Di Feliciantonio, grazie alla quale è stato possibile concretizzare questo interessante progetto che lo scorso anno ha avuto l’adesione del Liceo della Comunicazione".

La visita sarà articolata in due momenti. Il primo consisterà in un incontro con gli operatori che spiegheranno tutte le attività, i compiti e i ruoli all’interno del carcere mentre l’altro momento sarà riservato alla visita ad alcuni ambienti.

"Nei giorni scorsi - ha proseguito l’assessore Silvestri - abbiamo ricevuto la richiesta anche della 4G, 4A e 4A del Liceo Socio-psico-pedagogico "Stabili - Trebbiani", interessati a prendere parte a questo progetto che, vorrei ricordare, si integra e si completa con "Un’ora d’aria colori", riservato alle classi dell’infanzia e delle elementari e finalizzato ad una maggiore integrazione con quei bambini che hanno parenti detenuti. E va sottolineato come questo momento di integrazione abbia dato degli ottimi risultati. Infatti, grazie all’altruismo dei nostri ragazzi, anche quest’anno, nei giorni precedenti il Natale, abbiamo potuto raccogliere e donare ai figli di detenuti, giocattoli e materiale scolastico.

Firenze: l’anima e la musica nel carcere di Solliccianino

 

Toscana In, 26 febbraio 2007

 

Un pomeriggio coinvolgente ed emozionante a Solliccianino grazie allo spettacolo gospel del coro bolognese Rhythm ‘n Sound Chorus.

Avrei potuto iniziare il mio articolo con il classico e formale "Oggi si è tenuto presso la Casa Circondariale Mario Gozzini di Firenze, uno spettacolo gospel del Coro bolognese Rhythm ‘n Sound Chorus, in esclusiva per i detenuti". E invece no. No, perché non si può raccontare lo show di oggi pomeriggio con troppi formalismi. E non si può raccontare un pomeriggio passato dentro ad un carcere come se si facesse la cronaca del derby Fiorentina- Empoli. Perché lo spettacolo che si è tenuto a Solliccianino e che ha allietato i detenuti è stato una piccola lezione di vita, di reciprocità, di amicizia. È stato un momento nel quale la musica è riuscita ad unire le anime, a far esplodere sorrisi, battiti di mani, a regalare emozioni.

Il tutto grazie anche agli artisti bolognesi diretti dal musicista Riccardo Galassi, capaci di coinvolgere ed emozionare la quarantina di persone detenute presenti. Ed è stato lo stesso Galassi, visibilmente emozionato, data la calorosissima accoglienza dei "ragazzi" di Solliccianino, a ringraziare il "suo" pubblico particolare di questo pomeriggio fiorentino - " Per noi artisti ciò che conta per davvero, quando cantiamo è sentire che il pubblico per il quale ci esibiamo risponde trasmettendoci affetto, partecipazione, energia. Ed è quello che è successo qui oggi, grazie a voi."

Tre parole e parte una vera e propria ovazione, tra l’altro meritatissima, per il Maestro Galassi. Poi ripartono i cori, voci che si rincorrono a sorrisi, a battiti di mani e di piedi, alle melodie degli artisti bolognesi che si uniscono al sottofondo delle voci del pubblico. Sguardi d’intesa tra i detenuti di Solliccianino, le operatrici, gli artisti. E lo spettacolo continua. In tutti i sensi. Perché il gospel non è una novità per la casa circondariale a custodia attenuata. Un’esperienza che si è verificata alcuni anni fa per i giovani detenuti e detenute nella casa circondariale di Empoli dove i reclusi hanno potuto seguire corsi di gospel. Un’occasione di incontro, di confronto, di socializzazione. Un’esperienza sicuramente positiva che verrà ripetuta grazie all’apporto ed al sostegno economico di CNA Impresa Donna Toscana,che lavora insieme al Carcere per attuare programmi e progetti di reinserimento sociale per i detenuti accomunati dalla problematica della tossicodipendenza.

Iniziative importanti, come è stato importante quest’oggi aprire le porte di Solliccianino, aprire le porte di un "mondo" nel "mondo", troppo spesso ignorato, troppo spesso sconosciuto.

Non è semplice entrare in un carcere ed uscirne senza pensare, senza riflettere. Si entra, i tuoi occhi incontrano quelli di altre persone, che sono lì perché nella vita hanno commesso un errore. Sguardi che non puoi cancellare. Ma non solo. Perché entri e vedi anche gli occhi dei ragazzi che si incrociano complici e sorridenti con quelli delle operatrici ed è lì che capisci quanto sia importante creare situazioni di rieducazione, di coesione, di confronto e soprattutto di dialogo per riuscire a lavorare per il recupero completo delle persone detenute e per preparare loro il terreno per il "rientro" nella società. E quella di oggi è davvero stata una lezione di solidarietà, di amicizia, coinvolgente e appassionante che si è chiusa con un messaggio che il Maestro Galassi ha voluto lanciare alle persone di Solliccianino, un messaggio che ha fatto da preludio all’ultimo coro dei Rhythm ‘n Sound Chorus - " l’amicizia è uno dei sentimenti più importanti nella vita, sottolinea Galassi e il nostro ultimo coro, che vi dedico parla proprio di questo grande valore - Quando tu avrai bisogno di noi, noi saremo qui". Ripartono i cori, i battiti di mani e tutti in piedi a cantare. Per un pomeriggio che anche attraverso la musica ha saputo insegnare qualcosa. A tutti noi.

Polizia Penitenziaria: in carceri possibili conversioni all’Islam

 

Il Gazzettino, 26 febbraio 2007

 

"Le celle delle nostre galere per i fondamentalisti islamici possono diventare un luogo di potenziali conversioni religiose". Lo afferma Filomeno Porcelluzzi, vicesegretario provinciale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Secondo il sindacato le tensioni tra islamici e cristiani potrebbero avere ripercussioni anche nelle carceri.

"Per molti diseredati - dice Porcelluzzi - può risultare atto di emenda abbracciare un nuovo credo e avviare una via per la costruzione di una nuova identità sociale. In questo modo attribuendo al nuovo credo la capacità di riconoscere un valore a tutto ciò che la società di provenienza sanziona. Ogni diseredato ben indottrinato può facilmente autoassolversi per il proprio essere deviante per il solo fatto di vedersi riconosciuto un ruolo all’interno della nuova società in cui entra abbracciando il credo di Allah".

Il Sappe fa anche un esempio. "È accaduto in passato: un pregiudicato siciliano, convertitosi all’Islam in carcere dov’era detenuto per reati minori, fece esplodere due bombole di gas nel metrò di Milano e ad Agrigento". Secondo il sindacato i nostri istituti di pena ospitano una popolazione extracomunitaria estremamente vasta e rabbiosa. "Di pochi di questi detenuti - aggiunge Porcelluzzi - conosciamo i reali collegamenti con l’esterno: non solo, ma questi soggetti fanno della comune situazione un valido strumento di pregiudicazione verso i soggetti più deboli. Per un musulmano è più importante la religione della nazionalità". Su questo argomento si chiede all’amministrazione penitenziaria di dare gli strumenti tecnico-cognitivi alla Polizia penitenziaria al fine di incrementare la propria professionalità.

Libri: i volontari "in carcere, scomodi" sono oltre 7.000

 

Redattore Sociale, 26 febbraio 2007

 

Operano per favorire il reinserimento e l’integrazione nella società. Parla il giornalista Livio Ferrari che alla loro attività ha dedicato un libro: "La formazione, un elemento fondamentale".

Sono scomodi in carcere. Scomodi per le istituzioni, ma scomodi anche per i detenuti. Sono tanti, oltre settemila in tutta Italia. Sono i volontari che operano nelle carceri, che giorno dopo giorno lavorano là dove normalmente la gente ha paura di entrare, dove la libertà non è concessa. Operano per favorire il reinserimento e per portare avanti progetti mirati all’integrazione nella società. Tra di loro c’è anche una persona che si dedica al mondo del carcere da oltre 20 anni. È Livio Ferrari, autore del libro "In carcere…scomodi", dato alle stampe dall’editore Franco Angeli. Giornalista, Ferrari è il fondatore e direttore dell’associazione di volontariato Centro Francescano di Ascolto di Rovigo, è stato presidente nazionale del Seac, è fondatore e direttore responsabile della rivista Seac Notizie, è il fondatore della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia di cui è stato anche il presidente.

"Mi sembrava doveroso scrivere qualcosa visto l’impegno di tanti anni - spiega l’autore -. Considero questo libro uno strumento di formazione per tutti i volontari, tra queste pagine ho inserito molte delle esperienze vissute". Un’occasione dunque per tirare le somme, per fare delle considerazioni utili a tutti coloro che vogliano operare nell’ambiente o anche solo avvicinarsi a una realtà sentita sempre molto lontana, un tabù.

 

Quali sono le difficoltà principali del fare volontariato in carcere?

"Tutte le difficoltà non possono essere categorizzate e riassunte con semplicità, perché la situazione cambia a seconda dei luoghi, delle circostanze, non si può banalizzare. Un dato di fatto oggettivo, però, è che dal 1989 a oggi il volontariato ha fatto passi molto importanti. La formazione, ad esempio, è diventato un elemento fondamentale. Sono state fatte, con il tempo, grosse conquiste, ci sono stati riconosciuti degli spazi d’azione, siamo stati accettati in luoghi in cui inizialmente sembravamo poco capaci o impiccioni. Ora, ad esempio, facciamo parte dei Got, gruppi di osservazione trattamentale".

 

Che caratteristiche deve avere un bravo volontario?

"Sicuramente una buona formazione. Deve fare i conti con la dignità di una persona, che non va mai messa in secondo piano né dimenticata. Ecco perché il titolo del mio libro: "scomodi", lo siamo un po’ per tutti, non solo per le istituzioni ma anche per i detenuti, perché tante volte siamo sentiti come una sorta di coscienza, e talvolta può essere difficile per loro".

 

Il rapporto con i detenuti, certo, ma anche quello con la popolazione è un banco di prova per il volontario in carcere.

"La gente perlopiù non conosce il carcere, c’è una mancanza di conoscenza diffusa e molte notizie che vengono diffuse aumentano la paura e la distanza da questa realtà. Il messaggio è che dobbiamo guardare a chi ha commesso un reato come a una persona. La società deve capire che fare un errore è umano, non può essere stigmatizzato ma corretto. C’è una mancanza di capacità di perdono, nella gente e nella politica c’è l’idea che il carcere sia solo vendicativo perché non rieduca e quindi sembra fallimentare di per sé".

 

C’è voglia di riscatto da parte dei detenuti?

"La recidività scende se i detenuti possono usare la condanna in modo positivo, con progetti di reinserimento. I progetti esterni dimostrano di dare buoni frutti: una persona ricomincia a scoprire pian piano la libertà".

 

E le relazioni dell’associazionismo con gli enti locali?

"Con loro il rapporto è buono, ma il carcere è sempre residuale, non c’è un grande investimento. A livello nazionale abbiamo i protocolli con il ministero della Giustizia, ma non abbiamo molta forza per imporci". Il volume è acquistabile nelle librerie a 16 euro o richiedendolo alla Franco Angeli Editore di Milano - gestioni & partecipazioni, viale Monza,106 - 20127 Milano, mail vendite@francoangeli.it - fax 02.26141958.

Libri: Armida, si può morire anche dall’altra parte delle sbarre

 

Cose di Giustizia, 26 febbraio 2007

 

Il carcere non è un luogo di pena solo per chi viene condannato, ma anche per chi ci lavora. Come vivono fra quelle mura gli operatori che ogni giorno vi si rinchiudono per servire lo Stato? Gli agenti di custodia a cui tocca non solo sorvegliare i detenuti, controllandoli in modo da sedare risse e prevenire rivolte ed evasioni, ma anche vigilare sull’incolumità e lo stato di salute di persone che magari si sono macchiate di crimini orrendi? Come riesce a ottenere il rispetto per sé e delle regole chi ha che fare con persone che non hanno più niente da perdere?

Come tiene a bada la paura chi sfida ogni giorno i boss onnipotenti della malavita organizzata negando loro favori e privilegi? Cosa pensano gli agenti del carcere di Como mentre sono impegnati a salvaguardare l’incolumità di Olindo e Angela Rosa Bazzi, i "mostri" di Erba?

Mi ha sempre incuriosito la scelta di lavorare fra le mura di un carcere. Incoscienza o sfida? Gioco di potere o voglia mettersi a confronto con il proprio personalissimo lato oscuro?

Oggi non ho voglia di raccontare uno dei tanti fatti di ordinaria ferocia che hanno insanguinato il weekend appena trascorso. Alla lunga anche i delitti annoiano. E l’overdose ne sminuisce la gravità e la pericolosità sociale. No, quello che per una volta vorrei fare è spostare, per qualche istante, l’attenzione dalla pura cronaca e dai suoi protagonisti per indirizzarla altrove. Per esempio, verso coloro che con quegli stessi protagonisti hanno liberamente scelto di convivere.

Parlo degli agenti di polizia penitenziaria, impropriamente chiamati secondini. Parlo degli educatori e dei volontari che ogni giorno entrano fra quelle mura grondanti paura, disagio, sofferenza, privazione e perché no? anche rimorso. E parlo dei direttori delle carceri sulle cui spalle grava per intero la responsabilità dei detenuti e di chi con loro deve coabitare senza altra colpa che quella di aver scelto di servire lo Stato.

L’idea di riflettere un momento sulla quotidianità di chi, fra mille scelte possibili, ha optato per il carcere mi è venuta leggendo un libro straordinario: Miserere: vita e morte di una servitrice dello Stato, di Maria Cristina Zagaria, giovane cronista di giudiziaria di Repubblica.

Non si tratta, una volta tanto, di un’opera di fantasia anche se, grazie alla magica penna dell’autrice, si legge e si gusta come un romanzo. Miserere non è un’invocazione in latino, ma il nome vero di Armida Miserere, direttrice di carceri di massima sicurezza, i luoghi di lavoro più malsani e pericolosi che ci siano per il corpo e per la mente. E questo libro è la sua biografia.

Armida è una donna straordinaria. Un impasto di durezza e di vulnerabilità, di dolcezza appassionata e di inflessibile caparbietà e Zagaria riesce a tratteggiarne la personalità come se invece che parole avesse a disposizione i colori e i pennelli dei maestri impressionisti: qua un frammento di luce, là un angolo d’ombra...

Laureata in criminologia, Armida Miserere ha iniziato a 28 anni la carriera dirigendo il carcere di Parma. Un impatto tutto sommato "morbido" con l’universo penitenziale, perché subito dopo nel suo curriculum sono entrati il supercarcere di Opera, quello di Voghera, l’Ucciardone di Palermo, dove i boss mafiosi del 416 bis, quelli che hanno stappato in cella bottiglie di champagne per festeggiare le stragi di Falcone e Borsellino, l’hanno soprannominata "fimmina bestia".

E infine il penitenziario di Pianosa, dove consumano interminabili giornate i mafiosi a regime 41 bis. E il carcere di Sulmona in cui il 19 aprile 2003 Armida, ormai in piena collisione con se stessa, decise di farla finita sparandosi un colpo in testa.

Una vita senza sconti, segnata da paure e minacce, da solitudine e ostilità. Ma soprattutto da un dolore che non si è mai placato: la lacerazione per la perdita del compagno Umberto Mormile, l’educatore del carcere di Opera fatto assassinare nel 1990 da un gruppo di camorristi ai quali aveva negato i permessi a pagamento. Fantasmi privati, paure, minacce di morte: il libro di Maria Cristina Zagaria raschia a fondo la vita di Armida, mettendo a nudo le tante smagliature del nostro sistema carcerario, troppo spietato con chi è debole e troppo permissivo con chi può corrompere e intimidire. Per chi vuole andare una volta tanto oltre la cronaca: Miserere: vita e morte di una servitrice dello Stato, di Maria Cristina Zagaria. Dario Flaccovio Editore.

Droghe: distribuzione controllata; seguire l’esempio britannico

di Donatella Poretti (Deputata della Rosa nel Pugno)

 

Notiziario Aduc, 26 febbraio 2007

 

Ancora un buon esempio di buona politica dal premier britannico Tony Blair: esiste un fenomeno, quello dei tossicodipendenti più irriducibili; esiste un problema, quello della sicurezza dei cittadini messa a repentaglio da scippi e furti; esiste una politica pragmatica che cerca di ridurre il danno e di trovare soluzioni possibili senza lanciarsi in crociate ideologiche ed inconcludenti.

È con questo spirito che occorrerebbe condividere la proposta di passare attraverso la mutua eroina ai tossicodipendenti recidivi da altre terapie. Costo stimato per eroinomane: 18 mila euro; una cifra conveniente rispetto al risparmio per indagini di polizia, tribunali e prigioni per il comportamento delittuoso che avrebbe messo in atto per procurarsi l’eroina. Ulteriore vantaggio più sicurezza per i cittadini, così che il Governo britannico potrà tener fede alla promessa di ridurre la quantità di crimini del 20% entro il 2008.

L’Italia continua imperterrita nei proclami e nelle denunce dei problemi irrisolti. Mentre, infatti, Berlusconi denuncia che Roma è la capitale della droga, viene da chiedersi se è per attaccare il sindaco Veltroni, o se si è accorto del fenomeno droga solo ora o anche quando era presidente del Consiglio.

La decisione presa dal Governo britannico, condivisa dalla Polizia locale, è una buona scelta che potrebbe incontrare consensi sia nella maggioranza che nell’opposizione. Del resto la sperimentazione per la distribuzione controllata di eroina è già stata avviata con successo in Svizzera, Olanda e Spagna, e suggerita anche dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze.

Somministrare eroina a chi non riesce con percorsi alternativi come il metadone, non significa gettare la spugna, ma tentare ancora un intervento e un possibile aggancio quantomeno sanitario, oltre che una scelta di sicurezza per i cittadini.

Gran Bretagna: contro delinquenza Governo distribuirà l'eroina

 

Notiziario Aduc, 26 febbraio 2007

 

Vogliamo meno furti, meno rapine, meno scippi? Il modo c’è: si fornisce eroina gratis ai drogati. Così non commettono più crimini per pagarsi la tossicodipendenza. Il governo Blair sembra prepararsi ad adottare questa nuova strategia, secondo rivelazioni del domenicale "Independent on Sunday". Il ministero degli Interni ha segnalato di essere sostanzialmente d’accordo e sviscera tutta la problematica del complesso rapporto droga-delinquenza in un rapporto top secret di un centinaio di pagine.

La nuova strategia basata sulla distribuzione gratuita dell’eroina a cura del National Health Service (così si chiama la mutua del Regno Unito) dovrebbe essere adottata su scala nazionale a partire dell’anno prossimo, dopo che nei prossimi mesi si tireranno definitivamente le somme su promettenti esperimenti-pilota in corso a Londra, Brighton e nel nord-est dell’Inghilterra.

Il rapporto top secret del ministero degli Interni parla chiaro: il governo potrà tener fede alla promessa di ridurre i crimini del 20% entro il 2008 soltanto se si andrà ad un forte calo dei reati commessi dai drogati.

L’eroina iniettabile (e forse anche il crack da fumare) sarà ad ogni modo elargita soltanto ai tossicodipendenti "hardcore", quelli che non si riesce proprio a disintossicare nemmeno con il metadone e che rubano, scippano, rapinano a tutto spiano pur di finanziarsi il vizio. Il costo per la mutua dovrebbe essere di circa 18.000 euro all’anno per drogato, una somma conveniente se si calcolano i risparmi per le indagini di polizia, i tribunali, la prigione.

L’opportunità di passare la micidiale droga pesante ai tossicodipendenti è stata pubblicamente caldeggiata nelle ultime settimane da Ken Jones, presidente dell’Associazione dei Capi della Polizia. A suo giudizio è ora di tentare un approccio più realistico e pragmatico alla piaga.

"I drogati possono diventare molto violenti e incontrollabili quando vanno a caccia di soldi per soddisfare il bisogno di sostanze stupefacenti. Dobbiamo perciò trovare un approccio vincente al problema. Rendere l’eroina un farmaco prescrivibile dalla mutua potrebbe essere davvero la soluzione".

Nel lancio di questa strategia potenzialmente controversa (già sperimentata con successo dalla Svizzera, a quanto dicono al ministero dell’Interno britannico) il governo laburista di Tony Blair non dovrebbe andare incontro a grossi problemi politici: David Cameron, leader dell’opposizione conservatrice, ha in gioventù sperimentato con la marijuana e ha già indicato che vede di buon occhio l’idea di tener buoni i drogati più irrecuperabili con l’eroina somministrata gratuitamente dalla mutua.

Il rapporto top secret del ministero degli Interni contiene altri punti lontani dalla vulgata corrente. Sottolinea ad esempio che sequestri di grosse quantità di eroina da parte della polizia possono avere un impatto controproducente e peggiorare la situazione sotto il profilo dell’ordine pubblico: spingono infatti verso l’alto il prezzo della droga al dettaglio e inducono i tossicodipendenti "ad azioni criminali più disperate e più pericolose".

 

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