Rassegna stampa 13 dicembre

 

Giustizia: il Governo "blinda" il decreto sulla sicurezza

di Donatella Stasio

 

Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2007

 

Il Governo blinda il decreto espulsioni; conferma che la norma anti-omofobia sarà corretta con il decreto "mille proroghe" di fine anno e si impegna a chiedere la corsia preferenziale, alla Camera, per l’esame della proposta di legge su stalking (molestie ripetute) e omofobia, che secondo il presidente della commissione Giustizia Pino Pisicchio sarà approvata "prima di Natale".

È questo il percorso indicato ieri dal ministro per i Rapporti con il Parlamento, Vannino Chiti, durante la seduta congiunta delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera. Per ora, la fiducia non è in agenda e Chiti non ne ha parlato. Ma il Governo non ci penserebbe due volte a chiederla, ha detto il ministro ai giornalisti, "se fosse necessario per convertire in legge il decreto". Dipenderà dall’eventuale ostruzionismo dell’opposizione.

Nella maggioranza non dovrebbero esserci più problemi: il percorso indicato da Chiti soddisfa infatti la sinistra dell’Unione e l’Udeur, che ieri hanno ritirato gli emendamenti (di segno opposto) alla norma anti-omofobia. Il che mette al sicuro il decreto espulsioni e rilancia la Pdl su stalking e omofobia, con grande soddisfazione del ministro per le Pari opportunità, Barbara Pollastrini.

Ma lo scontro sulla punibilità delle discriminazioni legate agli orientamenti sessuali potrebbe riaccendersi se, in commissione Giustizia, non si dovesse trovare un accordo tra Udeur e Pd. Per scongiurarlo, il Governo sta lavorando a una mediazione: limitare la punibilità solo a chi "incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza" per motivi "fondati sull’orientamento sessuale".

Che è poi quanto si legge nel Ddl Mastella n. 1694, presentato (di concerto con la Pollastrini) a luglio 2007 e ora all’esame del Senato. Per l’Udeur sarebbe difficile dire no, perché questa soluzione è persino più soft di quella prevista dal Ddl Mastella, che prevede la punibilità anche di chi "diffonde idee" o "incita" a commettere atti di discriminazione sessuale. Una previsione che per il ministro dell’Interno Giuliano Amato non è in linea con la legislazione europea e rischia di interferire con la libertà di opinione.

Resta da sciogliere il nodo "tecnico" di come correggere l’errore della norma anti-omofobia contenuta nel Dl espulsioni, per evitare che, con la sua entrata in vigore anche solo per 5 minuti, sia cancellata la punibilità oggi prevista per le discriminazioni razziali e religiose e siano, quindi, messi a rischio i processi in corso.

Una strada l’ha indicata il presidente della commissione Affari costituzionali, Luciano Violante, e il Governo la considera "praticabile": dovrebbe essere varato subito un decreto legge tampone, che riproduce le norme vigenti, ma con degli inasprimenti di pena (ininfluenti sui processi in corso); l’entrata in vigore della norma anti-omofobia, quindi, non creerebbe più alcun vuoto normativo e potrebbe essere corretta senza problemi, a fine anno, dal Dl "mille proroghe". A quel punto, il Governo potrebbe anche decidere di lasciar decadere il Dl-tampone. Un po’ contorto, ma efficace.

Giustizia: nasce sito internet contro la pena dell’ergastolo

 

Ansa, 13 dicembre 2007

 

In coincidenza con l’inizio dello sciopero della fame degli ergastolani italiani (dicembre 2007), volto a sensibilizzare le coscienze civili e le Autorità politiche in ordine alla necessità di abolire la pena dell’ergastolo dal codice penale italiano è stata realizzata a Catania una iniziativa-osservatorio sul sito web www.noergastolo.it.

Lo scopo è quello di aprire un dibattito socio-giuridico sulla possibilità di adeguare la normativa italiana alle più evolute legislazioni europee (e non soltanto). Si dà voce ai detenuti, alle ricostruzioni storiche, ai contributi scientifici, alle proposte legislative (non trascurando né la problematicità della questione né gli eventuali dissensi) con l’intento di creare un’ intesa sovra-ideologica che ponga al centro della questione la attuazione dei principi costituzionali sanciti dall’art. 27 della Costituzione Italiana.

Sicché ogni interessato potrà disporre sia di un nuovo strumento di conoscenza nonché della possibilità di interagire con esso per proporre esperienze, proposte, contributi scientifici, giuridici, umani. Sullo sfondo del sito è consultabile (con possibilità di utilizzo individuale) un appello permanente a tutte le forze politiche, istituzionali, culturali e di coscienza affinché si inizi a promuovere in concreto il percorso abolitivo dell’ergastolo. Un sondaggio on-line sulla giustizia penale italiana completa il quadro di riferimento.

Giustizia: Bulgarelli; solidale con i detenuti contro ergastolo

 

Ansa, 13 dicembre 2007

 

"Lo sciopero della fame attuato ormai da molti giorni da centinaia di detenuti condannati all’ergastolo pone al mondo della politica un problema di coscienza e di diritto al quale va prestata la massima attenzione". Così l’algherese di adozione Mauro Bulgarelli, capogruppo di "Insieme con l’Unione" in commissione giustizia del senato e presentatore di un ddl per l’abolizione dell’ergastolo, secondo il quale "il tema dell’ergastolo, solleva una pluralità di questioni di carattere costituzionale e umanitario, già affrontate in sede di diritto comunitario, che il nostro ordinamento giudiziario non può continuare a ignorare; tra queste - continua Bulgarelli - vi è soprattutto l’incompatibilità tra l’erogazione di una pena perpetua e la finalità primaria che dovrebbe avere il trattamento penitenziario, cioè la rieducazione del condannato, prevista dall’art. 27 della costituzione.

È chiaro, infatti, che il principio rieducativo della pena, che è un architrave dello stato di diritto, viene ad essere vanificato dall’ergastolo, che non prevedendo una fine della detenzione cancella il diritto e l’aspirazione del detenuto al reinserimento sociale. Del resto, l’esperienza insegna come, in linea generale, la gravità della pena, oltre un certo limite, non abbia affatto efficacia preventiva, che è invece realmente assicurata dal restringimento delle aree di impunità e dall’efficienza e rapidità del processo. Per questo la protesta dei detenuti merita il massimo rispetto e reclama di essere affrontata dalle istituzioni -conclude il parlamentare- con la dovuta urgenza".

Giustizia: Mariani (Verdi); fuori tutti i bambini dalle carceri

 

Ansa, 13 dicembre 2007

 

"Seicento libri della collezione della signora Rosa Pompilio, ultima nipote di Ennio Flaiano, sono stati consegnati al reparto femminile della casa circondariale di Rebibbia, grazie alla donazione di Giovanna Monoscalco. All’istituto penitenziario è stato regalato anche un televisore". Lo comunica in una nota Peppe Mariani, Consigliere regionale dei Verdi e Presidente della Commissione Lavoro della Regione Lazio.

"Mi auguro che questo sia l’ultimo natale trascorso in carcere dai piccoli figli delle detenute - spiega Mariani - Questi bambini non hanno colpe ma sono costretti a vivere una vita non adatta alle loro necessità, imprigionati assieme alle loro madri, fra le sbarre. Purtroppo - continua Mariani - come evidenziano ricerche a riguardo, questi bambini una volta cresciuti, rischiano cinque volte più di altri di entrare in circuiti illeciti.

Fuori immediatamente i bambini dalle carceri: questo è quanto mi sono prefisso di realizzare, con fermezza, determinazione e caparbietà assieme alla carovana degli invisibili che ha portato e vuole portare alla luce, molte realtà di malessere e marginalità". "La politica deve fare il possibile affinché questo scempio finisca - dice Mariani - Si tratta di applicare il disegno di legge Buemi per modificare la legge Finocchiaro che prevede un vincolo per il quale una mamma con alle spalle più di una condanna penale non può usufruire del rinvio della pena o degli arresti domiciliari.

Le statistiche evidenziano che la madre detenuta appartiene a una ceto sociale molto povero e per questo è immersa in situazioni di piccola criminalità. Le nuove povertà, fenomeni in forte aumento, coinvolgono sempre più donne costrette ad arrangiarsi. La politica procede lentamente, seppure esistono esempi di progetti pilota in alcune città per migliorare le condizioni dei piccoli, i bambini continuano a vivere dietro le sbarre".

"Utilizziamo i beni confiscati alla criminalità e mettiamoli a disposizione dell’infanzia e per realizzare case di pena a custodia attenuata in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria e con la magistratura di sorveglianza - dice Mariani - Oggi abbiamo permesso che bambini in difficoltà e sofferenza, come quelli del Reparto di Oncologia Pediatrica dell’Ospedale Umberto I, solidarizzino con i bambini di Rebibbia.

I piccoli dell’Umberto I, insieme all’Associazione Amici di Marco d’Andrea che opera come volontariato attivo nel reparto di Oncologia a supporto dei bimbi e dei loro genitori, dandoci un esempio di forte sensibilità hanno inviato dolcetti ai piccolini di Rebibbia affinché festeggino il Natale". "Questa solidarietà - conclude Mariani - rafforza il mio impegno che mi porterà ad utilizzare ogni mezzo istituzionale, compreso il Tribunale di Strasburgo, per far si che questa barbarie abbia termine e che questi bambini possano avere una vita normale e soprattutto libera come è nel loro diritto".

 

Giuseppe Mariani

Presidente della Commissione Lavoro della Regione Lazio

Giustizia: le pericolose suggestioni del processo mediatico

di Glauco Giostra (Ordinario di procedura penale all'Università "La Sapienza")

 

www.radiocarcere.it, 13 dicembre 2007

 

Il rapporto tra processo penale e media è solitamente inteso nel senso di "informazione sul processo" : i mezzi di comunicazione di massa riferiscono ciò che la giustizia fa, e in tal modo la incalzano, la criticano o ne supportano l’azione.

Ma c’è anche una degenerazione di tale rapporto: dall’informazione sul processo si passa al processo celebrato sui mezzi d’informazione. Va sempre più prendendo piede, infatti, la tendenza a scimmiottare liturgie e terminologie della giustizia ordinaria, riproducendone alcune movenze, taluni meccanismi procedurali, "pantografando" una sorta d’indagine giudiziaria per presentare all’opinione pubblica i risultati di questa messa in scena: un’aula mediatica che si costituisce come foro alternativo.

In effetti, le suggestioni e le possibilità di confusione non sono poche, perché entrambe queste attività - quella del giudice ordinario e quella dell’operatore dell’informazione che allestisce la mimesi giudiziaria - tendono al medesimo fine, cioè a ricostruire un accadimento passato attraverso tracce, testimonianze, dichiarazioni, cose del presente.

Bisogna, però, cercare di tenere sempre ben distinti i due fenomeni, perché sono sostanzialmente diversissimi: il processo giurisdizionale ha un luogo deputato, il processo mediatico nessun luogo; l’uno ha un itinerario scandito, l’altro nessun ordine; l’uno un tempo (finisce con il giudicato), l’altro nessun tempo; l’uno è celebrato da un organo professionalmente attrezzato, l’altro può essere "officiato" da chiunque.

Ma vi sono anche differenze meno evidenti e più profonde. Il processo giurisdizionale seleziona i dati su cui fondare la decisione; quello mediatico raccoglie in modo bulimico ogni conoscenza che arrivi ad un microfono o ad una telecamera: non ci sono testi falsi, non ci sono domande suggestive, tutto può essere utilizzato per maturare un convincimento. Il primo, intramato di regole di esclusione, è un ecosistema chiuso; il secondo è aperto, conoscendo soltanto regole d’inclusione. Nell’uno ci sono criteri di valutazione, frutto della secolare sedimentazione delle regole di esperienza; nell’altro, invece, valgono l’intuizione, il buon senso, l’emotività.

L’uno obbedisce alla logica del probabile, l’altro a quella dell’apparenza. Nell’uno, la conoscenza è funzionale all’esercizio del potere punitivo da parte dell’organo costituzionalmente preposto; nell’altro, serve a propiziare, e spesso indurre, un convincimento collettivo sulle responsabilità di fatti penalmente rilevanti. Nell’uno, il cittadino è consegnato al giudizio dei soggetti istituzionalmente deputati ad amministrare giustizia; nell’altro, alla esecrazione della "folla" mediatica.

È innegabile, tuttavia, che, nonostante queste differenze siderali, non sempre l’osservatore riesce a distinguere i due fenomeni, e a coglierne i diversi significati, le diverse garanzie e il diverso grado di affidabilità.

Ed anzi, quando li si pone a confronto, è la dimensione formale del processo ordinario - e quindi del suo prodotto, la sentenza - a risultare spesso meno comprensibile e meno "vera". Si registra, cioè, una crescente insofferenza per la giustizia istituzionale, intessuta di regole e di limiti, a fronte del presunto accesso diretto alla verità, che sembra assicurato dall’avvicinamento di un microfono o di un obbiettivo alle fonti. Liberata da ogni forma del procedere, quella fornita dai media sembra l’unica verità immediata : una falsità che sconfina nell’ossimoro, trattandosi della verità mediata per definizione e per eccellenza.

La pericolosissima idea, sottesa a questo favor per il processo celebrato sui mezzi di informazione, è che il miglior giudice sia l’opinione pubblica. Questa idea ne evoca un’altra, non meno deleteria: il sogno della democrazia diretta, della gestione della res publica da parte dei cittadini senza l’intermediazione della rappresentanza politica.

E forse appartiene alla medesima matrice culturale anche la congettura, circolata con immeritata fortuna ancora di recente, secondo cui un imputato votato dalla maggioranza dei cittadini è innocente per definizione o comunque non processabile, perché se il popolo-giudice sceglie di farsi rappresentare da un certo soggetto evidentemente l’ha già assolto. Mentre sarebbe bene, al contrario, tenere ferma almeno una convinzione: il processo reso nell’agorà mediatica, in cui il giudice è l’opinione pubblica, ha a che fare con la giustizia quanto un potere politico, che debba rispondere soltanto al popolo e ai sondaggi, senza mediazioni e contrappesi istituzionali, ha a che fare con la democrazia: cioè nulla, assolutamente nulla.

Giustizia: in tre uccisero una suora, oggi sono tutte fuori

 

La Provincia di Sondrio, 13 dicembre 2007

 

La semilibertà per Ambra non sorprende La notizia che anche la terza assassina di suor Laura lascerà il carcere era nell’aria. Ambra, la regista del feroce omicidio di suor Maria Laura Mainetti, massacrata "nel nome di Satana" con 19 coltellate la notte del 6 giugno 2000 sta per fare un passo importante verso il ritorno in libertà.

Fra pochi giorni anche l’ultima delle tre baby killer ancora in stato di detenzione (le due complici, Milena e Veronica, sono da tempo libere), usufruirà del regime di semilibertà: volontariato di giorno, rientro in cella a Torino per la notte. Ambra ebbe la condanna maggiore, 12 anni e 4 mesi, mentre in primo grado era stata riconosciuta totalmente incapace di intendere e volere al momento del delitto e pertanto prosciolta.

Sentenza, invece, ribaltata in appello e confermata in Cassazione. Le due amiche, minorenni come Ambra quando uccisero la religiosa, attirata in un tranello all’imbocco di un sentiero con la scusa di soccorrere una giovane incinta, ebbero invece pene fra gli otto anni e gli otto anni, sei mesi e 20 giorni di reclusione.

Delle tre ragazzine, Veronica fu la prima a lasciare la cella: il 4 luglio 2004, dopo aver scontato metà della pena, fu trasferita in una comunità di Roma e le furono affidati alcuni bimbi di un nido. Poi, il 2 maggio di due anni dopo, toccò a Milena, destinata ad un centro gestito da don Antonio Mazzi, in Veneto. Ora è la volta di Ambra, la cui pena - grazie all’indulto di cui hanno beneficiato anche le altre - scadrà nel prossimo novembre.

"Era prevedibile - dice don Ambrogio Balatti, arciprete di San Lorenzo, individuato come primo bersaglio dalle assassine che poi rinunciarono preoccupate dalla sua corporatura robusta -: si sapeva, questo provvedimento era solo questione di tempo. Mi auguro che chi ha curato il suo cammino di riabilitazione abbia fatto un buon lavoro, me lo auguro per la diretta interessata". Don Ambrogio sottolinea però che dal giorno dell’omicidio nessuna delle tre si è fatta viva, neppure con due righe. Oggi, a Chiavenna, l’Istituto dell’Immacolata, di cui suor Maria Laura era la Madre Superiora, non c’è più.

Nella cittadina è rimasto un gruppetto di consorelle che offre aiuto in vari campi. "Continua ad operare la materna - ricorda l’arciprete - con il sostegno di una sorella, ma è gestita dai genitori, attraverso l’Onlus Immacolata, nel nome di Suor Laura per la quale è in corso, in Vaticano, il processo di beatificazione".

Le tre baby-killer vennero arrestate dopo tre settimane dai carabinieri del Reparto operativo di Sondrio e dal Norm di Chiavenna, coordinati dal procuratore capo, Gianfranco Avella, che mise in campo un’autentica task force per risolvere il caso. "La svolta - ricorda Avella - ci fu grazie al trucco della pubblicazione di un identikit sui giornali.

Fu pubblicata l’immagine meno somigliante di una delle presunte assassine e lei al telefono, intercettato, disse alle altre: "non mi assomiglia per niente, non potranno mai risalire a me"". "Le tre ragazzine - sottolinea Teresa Tognetti, sindaco di Chiavenna all’epoca del delitto - hanno comunque dovuto percorrere un tragitto doloroso e faticoso.

Mi auguro che il tempo trascorso da questa vicenda non sia passato invano per loro, che quel tempo sia stato utilizzato nel migliore dei modi per affrontare la vita che comunque hanno ancora davanti". I genitori di Ambra, come quelli delle altre due giovanissime, da tempo non vivono più in Valchiavenna: il papà di Ambra l’aspetta ora nella sua casa di Torino, città di cui è originario; con la moglie, è sempre stato vicino alla ragazza, attualmente iscritta al terzo anno di Giurisprudenza. "La scelta di lasciare la Valchiavenna - spiega Giampaolo Pozzoli, attuale sindaco di Chiavenna - è del tutto personale, ma non la ritengo certamente sbagliata".

 

Picozzi: "Niente più rischi". Meluzzi: "Mettetele in comunità serie"

 

Il percorso di recupero delle tre ragazze che sei anni fa hanno ucciso suor Maria Laura Mainetti non passa certo per il carcere, ma l’alternativa deve essere una struttura di recupero "seria" che ne permetta una vero reinserimento nella società. Ne è convinto il criminologo Alessandro Meluzzi, mentre Massimo Picozzi, che all’epoca fece la perizia psicologica alle tre ragazze per conto Procura, ricorda che c’era spazio per il cambiamento.

"La cosa in sé era gravissima, ha segnato loro la vita, ma le carceri penali minorili fanno un lavoro pazzesco, nonostante la mancanza di risorse. Lo spazio per il recupero c’era e io sono convinto che ora non ci sono più rischi di ulteriori comportamenti criminali da parte delle ragazze. Rispetto all’impatto con l’opinione pubblica poco ci si può fare, ma non è la certezza della pena che può essere un deterrente, proprio perché si tratta di reati anomali, e non abituali come furti o scippi.

Sono convinto che un ragazzo che commette un delitto di questo tipo, non lo farà certo perché le tre ragazze non sono più in carcere". Piuttosto, Picozzi segnala un altro problema: "Quando le tre ragazze parlarono del loro gesto, tra le motivazioni c’era la noia, volevano fare un "botto" a Chiavenna. Quello che è preoccupante, è la notizia di pochi giorni fa, a distanza di sette anni, sui ragazzi che hanno danneggiato una scuola di Tirano, anche qui per vincere la noia".

Quanto alle ipotesi di abbassare l’età della punibilità, Picozzi invita a non cadere nella "demagogia": "Oggi i ragazzi sono più intelligenti, ma emotivamente più fragili e questo, secondo me, non significa per forza che sono più maturi. Piuttosto, preoccupiamoci di fenomeni come il bullismo".

Per Alessandro Meluzzi "il perdono è un requisito fondamentale in qualunque percorso di recupero della persona, ma il perdono senza consapevolezza rischia di essere diseducativo, non solo per l’opinione pubblica o per la società, ma per loro stessi. Per questo tipo di pazienti, solo così mi viene da chiamarle, il carcere non è certo una soluzione, ma neanche una libertà data così tanto per fare.

È invece importante che siano inserite in una comunità seria, con un lavoro duro da fare, dove siano seguite con una logica educativa e con serietà. Ce ne sono molte che lavorano così, come San Patrignano o la Comunità Incontro". Da chi ha esperienza di quello che si vive nel carcere, don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, ritiene che si "debba essere contenti se queste tre ragazze hanno raggiunto un equilibrio, se gli educatori sono riusciti ad intercettare il loro pentimento e se pertanto sono riuscite a riconquistare la libertà.

La pena ha proprio questa finalità di recupero, anche perché il terribile fatto era accaduto in una età per loro di grande immaturità. Sapevo che per almeno due di loro c’era stata una forte presa di coscienze e un reale pentimento, che sono alla base del recupero della persona. Si può pensare con ottimismo che anche per la terza ragazza stia accadendo una cosa bella: ha ritrovato l’equilibrio perso per quel sommario satanismo di provincia che era stato alla base dell’omicidio".

Giustizia: Polizia Penitenziaria; sostituire l'impianto giuridico

 

Comunicato stampa, 13 dicembre 2007

 

Sostituire l’impianto giuridico lacunoso ed obsoleto che pregiudica l’operatività dei Funzionari del Corpo di Polizia Penitenziaria.

A chiederlo in una nota inviata oggi al Ministro della Giustizia Clemente Mastella ed al Capo dell’Amministrazione Penitenziaria è Mariano Salvatore, segretario nazionale dell’Associazione Funzionari della Polizia Penitenziaria Anfu, in relazione alla riunione che si terrà questa mattina al Dap con le Organizzazioni Sindacali del Corpo per esaminare uno schema di decreto ministeriale istitutivo del ruolo di "Direttore Area Sicurezza".

Spiega Salvatore: "L’Anfu riconosce il lodevole sforzo dell’amministrazione penitenziaria verso il conseguimento di obiettivi tendenti alla valorizzazione dei funzionari direttivi e conseguentemente di tutta la Polizia penitenziaria. Tuttavia, al di là delle considerazioni sui diversi aspetti trattati, per alcuni versi condivisi e per altri dissentiti, ci si sente in dovere di affermare che l’istituzione di una figura professionale attraverso un regolamento che, pur avendo una sua valenza giuridica, non si colloca tra gli atti con vigore e rilevanza di legge bensì a questi deve necessariamente uniformarsi, genererebbe esclusivamente un ulteriore stato di disordine normativo risultando assolutamente superfluo oltre che nocivo.

La categoria dei funzionari direttivi della Polizia penitenziaria ritiene assolutamente indispensabile, qualora effettivamente avvertito dall’amministrazione il disagio dei funzionari del copro come un disagio proprio, di rivedere l’intero quadro normativo ed avviare gli opportuni iter di modifiche ed integrazioni di legge che garantiscano, cosi come avvenuto per altre professionalità operanti in seno all’amministrazione, quel processo di crescita professionale definito comune ma che di fatto, ad oggi, esclude il solo personale direttivo della Polizia penitenziaria.

Lo schema di Decreto ministeriale oggi in discussione con le Organizzazioni sindacali del Corpo, pertanto, lascia presagire alla consapevolezza dell’amministrazione di dover e voler valorizzare la specialità anche del ruolo di tutta la Polizia penitenziaria mediante l’attribuzione di compiti onerosi e della necessaria autonomia ai commissari ma, pur avendo come alleato le norme che disciplinano le funzioni dei ruoli direttivi nella pubblica amministrazione di fatto deve fare i conti con un impianto giuridico, quello afferente il mondo penitenziario, lacunoso ed obsoleto rappresentato in larga misura dalla legge istitutiva del Corpo di Polizia penitenziaria dai decreti legislativi da essa delegati, dall’ordinamento penitenziario e dal suo regolamento attuativo, dalla legge istitutiva dei ruoli direttivi del Corpo e dal decreto legislativo da essa delegato ed in ultimo dal regolamento del Corpo di Polizia penitenziaria.".

Salvatore, il quale confida che "l’amministrazione vorrà tenere debitamente in conto le nostre aspettative di modifica delle norme citate" esterna "la volontà dell’Associazione dei Funzionari della Polizia Penitenziaria Anfu a voler prevedere l’inserimento di funzionari direttivi in eventuali gruppi di lavoro per la proposizione di nuovi strumenti giuridici che valorizzino la categoria".

Lettere: Cagliari è il carcere "della pazzia e della droga"

 

www.radiocarcere.it, 13 dicembre 2007

 

Rumore. Urla. Depressione e pazzia. Psicofarmaci. Droga. Vino e Valium. Bombolette di gas da sniffare. Lamette da barba per tagliarsi. Sporcizia. Puzza. Topi e scarafaggi. Malati mentali. Tossici. Malati fisici. Chi sta sulla sedia a rotelle. Chi ha l’epatite o l’aids. Chi ha la scabbia, la tubercolosi, la meningite. Ogni tanto, in una cella vedi una cinghia attaccata alle sbarre, e lì appeso uno dei tanti che non ce l’hanno fatta.

È questo il carcere Buoncammino. Il carcere di Cagliari. Io ci sono stato per 2 anni e c’è mancato poco che non impazzivo, o che non la facevo finita. Il giorno del mio arresto, mentre salivo il colle Buocammino dove sta il carcere, vedevo dai finestrini della macchina ‘sta fortezza antica e tetra. Avevo paura, ma mai avrei pensato di trovarci dentro quella gente. Il carcere di Cagliari non è solo vecchio e sovraffollato. Il Buoncammino è il carcere della pazzia, della malattia e della droga. Pochi sono i detenuti sani. Su 355 detenuti, eravamo solo ottanta a non avere problemi fisici o mentali. Difficile chiamare un posto così carcere. Difficile chiamare quella carcerazione, pena.

Dentro è diviso in due bracci. Il destro e il sinistro. Si tratta di due edifici enormi, ma dentro vuoti. Nel senso che ogni piano non è diviso dall’altro dal soffitto, ma da una rete di ferro. Per raggiungere le celle si usano scale e ballatoi sempre di ferro. Così se stai al piano terra vedi la cella del terzo piano. Casermoni grigi e caotici. Il silenzio non esiste nel carcere di Cagliari.

Quando sono arrivato al Buoncammino mi hanno messo in una cella al piano terra del braccio destro. Una catacomba. Buia, umida e sporca. Dentro due file di letti a castello a tre piani. Totale 6 detenuti. Quella cella era talmente buia che anche di giorno tenevamo la luce accesa. Lo spazio per viverci era pochissimo. Il bagno era uno sgabuzzino, con la tazza alla turca e un lavandino. Stavamo chiusi lì per tutto il giorno.

Ma c’è di più. Dentro quella cella, tetra e fredda, c’erano dei ragazzi malati. Due avevano gravissimi problemi psichici. Proprio da ricovero. Tanto che li imbottivano di psicofarmaci. Un altro era malato di cuore. E se ne stava sempre sdraiato. E poi altri due erano tossicodipendenti. Si prendevano di tutto. Quando non trovavano la droga, sniffavano pasticche di antidolorifici o le bombolette di gas che usavamo per cucinare. Per loro era abitudine bere il vino con il Valium. Un’abitudine e uno sballo a basso costo.

A pensarci ora, mi sembra un miracolo che non sono impazzito anche io, o che non mi sono buttato sulla droga, sulle pasticche o sul vino. Dopo 7 mesi mi hanno trasferito in una cella del primo piano. Stavo meglio solo perché c’era un po’ più di luce. Ma dentro il panorama umano dei detenuti era lo stesso. Uguale la cella. Uguale le malattie. È stato lì che ho capito che il carcere di Cagliari è un lazzaretto, e non un posto dove scontare una pena.

I mesi passavano e mi accorgevo che quelle urla, quello sballo aveva un suo ritmo. Una sua cadenza regolare. Si modulava a seconda della distribuzione di metadone, di vino e di psicofarmaci. Più casino prima del passaggio dell’infermiere o dello spesino. Meno casino dopo. La sera, passato l’effetto del farmaco o del vino, si ricominciava da capo.

E proprio il vino giocava un ruolo importante. L’alcol è la droga numero uno e il vino diventa merce di scambio. Ti do le sigarette e tu mi dai il vino. Infatti ogni cella può comprare solo mezzo litro di vino al giorno. E c’è chi lo accumula, per poi scambiarlo. I vecchi galeotti queste cose non le ammettono. Ma molti se ne fregano e lo fanno. Un litro di vino Tavernello equivale a un pacchetto di sigarette. E spesso uno che sta sotto psicofarmaci, e non potrebbe bere, si ubriaca ed è facile immaginare quello che succede. È un caos, continuo e terribile.

Io mi rannicchiavo sulla branda, cercando di non impazzire, mentre c’era chi si metteva a strillare. Dal piano di sopra un altro lanciava una bomboletta di gas accesa e la faceva esplodere. In un’altra cella c’era chi si tagliava le braccia e sanguinava come una fontana. Un incubo che si ripeteva tutti i giorni.

Poi per fortuna ho iniziato a lavorare. Facevo lo spesino. Lavorando ho potuto girare tutto il carcere Buoncammino e così ho visto il girone peggiore dell’inferno del carcere di Cagliari. Il centro clinico. Un manicomio e un posto per morire. Lì ci sono i detenuti malati di mente più gravi, quelli da letto di contenzione. Poveracci. E poi lì ci sono i malati terminali. Quelli destinati a morire. "Centro Clinico", lo chiamano. Ma quella è l’anticamera della morte. E infatti ci muoiono. Il "Centro" Clinico non è altro che un corridoio con le celle.

Passi davanti la cella di un ragazzo che si crede Superman e che ti chiede una sigaretta. In un’altra, c’è uno attaccato alle sbarre con la bava alla bocca. Più avanti, la cella di un uomo pelle e ossa che sta per morire. Altri tre passi, e trovi anziani o paralizzati. Gente che non ha un posto dove andare e allora li tengono lì. Stai male quando passi per quel corridoio. Una mattina di qualche mese fa, in una di quelle celle del Centro Clinico si è impiccato un ragazzo. A noi è sembrato normale. Non chiamatelo carcere. Il carcere Buoncammino di Cagliari è altro.

 

Santino, 48 anni, ex detenuto

Cagliari: si aggrava un detenuto con patologia incurabile

 

Sardegna Oggi, 13 dicembre 2007

 

Si stanno aggravando le condizioni di salute di Antonino Loddo, il detenuto cagliaritano affetto da una patologia, incurabile e progressiva che lo costringe all’immobilità, già fortemente debilitato dal prolungato sciopero della fame e della sete effettuato per essere trasferito nel Centro Clinico del carcere di Buoncammino.

La denuncia arriva dal consigliere regionale socialista Maria Grazia Caligaris (Sdi - Partito Socialista) dopo aver letto la relazione medica di Francesco Marrosu, ordinario di neurologia e direttore del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Cardiovascolari che, su richiesta dei familiari, ha visitato il paziente. Il detenuto pratica lo sciopero della fame in attesa che venga accolta la sua richiesta di poter essere trasferito e riabbracciare così la propria famiglia.

Antonino Loddo è affetto da una grave patologia e lo stato di profonda denutrizione - secondo quanto scritto nel referto del medico che lo ha visitato - è talmente grave da mettere a repentaglio la vita dell’uomo. Per questa ragione "non può continuare a rimanere in carcere e soprattutto non può tornare a Rebibbia, la Casa Circondariale cui è stato destinato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - afferma la Caligaris - sarebbe indispensabile e non ulteriormente procrastinabile un ricovero in una struttura ospedaliera plurifunzionale pubblica o privata locale dove però la prima urgenza dovrà essere rappresentata dal tamponare la situazione di gravissimo deficienza immunitaria".

Loddo è inoltre padre di un ragazzo che ha subito un trapianto di midollo osseo le cui condizioni di salute sono in una fase molto delicata. Il padre aveva chiesto ripetutamente di essere trasferito a Cagliari proprio per poter riabbracciare il figlio e stare vicino ai familiari.

In attesa che i giudici si pronuncino sulla nuova istanza presentata dal difensore Fernando Vignes, "il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - afferma il segretario della Commissione "Diritti Civili" - deve annullare il provvedimento di trasferimento e consentire ad Antonino Loddo almeno di rimanere nel centro clinico di Buoncammino e poter continuare ad avere i colloqui con il figlio e i familiari, dando così anche attuazione alla norma della legge sull’ordinamento penitenziario che prevede la territorializzazione della pena e all’ordine del giorno, approvato all’unanimità dal Consiglio regionale, sul trasferimento nell’isola dei detenuti sardi ristretti nelle carceri della Penisola".

Milano: 300 i detenuti affidati ai Servizi Sociali nel 2007

 

Redattore Sociale, 13 dicembre 2007

 

Erano 1.352 nel 2005, scesi poi a 206 a fine 2006. Pedrinazzi, direttrice dell’Uepe: "Ormai è finito l’effetto indulto". Dei diritti dei detenuti si parlerà domani a Milano.

Sono 300 i detenuti affidati in prova ai servizi sociali dall’inizio del 2007 a Milano e provincia. "Ormai è finito l’effetto indulto - spiega Antonietta Pedrinazzi, direttrice dell’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) -. Negli ultimi due mesi c’è stato un incremento notevole: in ottobre sono stati 20 e in novembre 38".

Secondo i dati dell’Uepe di Milano con l’indulto gli affidamenti in prova erano scesi in maniera drastica: nel 2005 erano stati infatti 1.352, scesi poi a 206 nel 2006 (anno dell’indulto). Negli ultimi sei mesi di quest’anno sono tornati a salire. "Il problema è che molti altri detenuti potrebbero godere di questi benefici - sottolinea Antonietta Pedrinazzi -.

Mancano però le risorse per offrire loro casa e lavoro, perché sono due condizioni indispensabili per ottenere l’affidamento e non tutti i condannati possono garantire di averli". Dei diritti dei detenuti oggi si occupano il "Garante delle persone ristrette", il difensore civico, il magistrato di sorveglianza e gli assistenti sociali. "Sarebbe però necessario fare chiarezza sulle competenze di ciascuno - aggiunge Antoniezza Pedrinazzi -.

Capita spesso che il detenuto sia rimbalzato da un ufficio all’altro e non c’è una figura istituzionale certa che possa garantirgli diritti fondamentali come quello alla casa, al lavoro, alla salute". Dei diritti dei detenuti si parlerà domani a Milano all’incontro organizzato da Caritas Ambrosiana e Uepe in via Numa Pompilio 14, dalle ore 14.30 alle 17.30.

Interverranno don Roberto Davanzo, direttore di Caritas Ambrosiana, Milena Diomede Canevini, già presidente della Commissione codice deontologico e disciplina dell’ordine nazionale degli assistenti sociali, Maurizio Ambrosini, docente di sociologia all’Università degli Studi di Milano, e Antonietta Pedrinazzi, direttrice Uepe di Milano.

Como: comune e imprese; sì a un riscatto degli ex detenuti

 

La Provincia di Como, 13 dicembre 2007

 

Se i cittadini, allarmati dal boom di furti e rapine, chiedono linea della fermezza alle forze dell’ordine, gli amministratori di Cernobbio non criminalizzano chi ha già sbagliato. Pur non sottovalutando l’emergenza sicurezza, il Comune appoggia la proposta controcorrente dell’associazione Amici del Bisbino, già condivisa da svariati enti, tra cui comuni di Moltrasio e Maslianico, la comunità montana Lario Intelvese, i gruppi di protezione civile di Moltrasio e della comunità montana, il consorzio forestale, l’Associazione piccole industrie di Como e la Croce Rossa Italiana.

Grazie alla collaborazione della casa circondariale del Bassone, per due settimane quattro detenuti hanno ripulito la carrozzabile del Bisbino, affiancati dai volontari. Per l’occasione Franco Edera, presidente dell’associazione, ha annunciato che alcune aziende della provincia comasca e l’Associazione piccole industrie si stanno interessando alle procedure per l’assunzione di ex detenuti. "Esperienze simili a quella di Cernobbio sono in corso in Val Seriana, nelle case di riposo" ha dichiarato Francesca Valenti, responsabile dell’Ufficio detenuti del provveditorato regionale.

Il sindaco Simona Saladini si è detta pronta ad aprire una tavola rotonda per concordare iniziative comuni: progetto accolto con un applauso dai detenuti. "Occorre lasciare sempre aperta una via di riscatto", ha dichiarato Valenti. Una linea di apertura incoraggiata da Rina Del Pero, volontaria nella casa circondariale di Como, da Mauro Imperiale, responsabile dell’area educativa, dai dirigenti dell’amministrazione carceraria Santoro e D’Agostino e da Marilisa Frittitta, dell’ufficio esecuzione penale. Al termine della giornata è stata persino lanciata una proposta. Il 13 aprile prossimo la Regione promuoverà la giornata del verde pulito: perché non aprirla anche ai carcerati? Sarebbe un incoraggiamento verso chi è seriamente intenzionato a cambiare.

Sicilia: i progetti di educazione alla legalità nelle scuole

 

Sette Magazine, 13 dicembre 2007

 

Educare alla legalità in una terra, l’Italia, in cui la mafia, sia essa chiamata Cosa Nostra, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita e come si voglia, è presente nel territorio e negli atteggiamenti dei singoli; proporre agli studenti di conoscere il fenomeno mafioso non per elogiare tale forma di violenza o per crearne una leggenda, bensì per far conoscere il problema e cercare insieme soluzioni per contrastarlo: questi alcuni dei fini perseguiti da numerosi progetti che si attuano nelle scuole italiane.

Fra essi il Progetto Legalità in memoria di Paolo Borsellino che si avvale della collaborazione del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Palermo, ed è realizzato in sinergia con l’Assessorato Regionale ai Beni Culturali, Ambientali e alla Pubblica Istruzione, Dipartimento Pubblica Istruzione, con l’Ufficio Scolastico Regionale, con il Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con Confindustria Sicilia e con Confindustria Caltanissetta.

Tale progetto prende il via nel 2002 dalla "volontà della Giunta distrettuale di Palermo dell’Anm di intestarsi un ruolo attivo nella promozione della Cultura alla Legalità ed alla Convivenza Civile, coinvolgendo direttamente la Società e tutti coloro che vogliono recuperare e coltivare il senso della cittadinanza e della legalità, lontano dai compromessi e dalle mortificazioni della dignità umana".

Per l’anno scolastico 2007/2008 si propone il progetto "La Costituzione del Buon esempio: fai crescere la tua Regione, l’Italia, l’Europa" col fine di "far studiare la Costituzione italiana e far conoscere lo Statuto siciliano, riflettere sui valori e i principi che sottendono al vivere civile, offrire modelli positivi, dare fiato alla fiducia, richiamare adulti e istituzioni a dare il buon esempio, affinché anche i più piccoli possano sperimentare il rispetto dei propri diritti, oltre il richiamo al proprio dovere".

Progetto adottato in molte scuole siciliane, iniziativa che non rimane isolata. Il Liceo Classico Cutelli di Catania, ad esempio, ha dato vita ad una collaborazione con il Comitato Addiopizzo della stessa città. Il Liceo Classico Umberto I di Ragusa da diversi anni propone agli studenti un progetto di legalità con tematiche varie, diversificate che vanno dagli incontri con operatori di diritto a quelli con i testimoni, dalle storie di lotta alla mafia alla visita ai luoghi simbolo del potere giudiziario, unico mezzo per il ripristino delle condizioni di giustizia. "Perseguiamo la sensibilizzazione continua e approfondita per le tematiche legate alla legalità attraverso i P.O.R., i quali seguono le direttive ministeriali da un lato e dall’altro la voglia di legalità insita negli alunni. - spiega la prof.ssa Maria Grazia Di Bartolo, coordinatore del progetto - Non solo mafia e dintorni, ma convivenza civile e rispetto dei diritti umani al fine di far maturare una consapevolezza della propria vita all’interno della legalità e soprattutto una convivenza civile nel rispetto dei diritti".

Bologna: Tita Ruggeri dà voce alle vite di 7 detenute

 

Dire, 13 dicembre 2007

 

La storia di sette donne, raccolta in carcere, che dietro le sbarre ritorna grazie alla voce di Tita Ruggeri. Domani, all’interno della Casa circondariale di Bologna, andrà in scena la lettura teatrale dei testi che compongono "La donna imperfetta", risultato di un laboratorio di scrittura creativa realizzato due anni fa, proprio alla Dozza, dalla scrittrice Marta Franceschini.

Al reading, oltre ad alcune detenute e detenuti, assisteranno anche un gruppo di studenti dell’Università di Ferrara e la presidente della Provincia di Bologna, Beatrice Draghetti. "La scelta di rappresentare in carcere questo testo - spiega l’avvocato Desi Bruno, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale - nasce dal desiderio di ri-portare le parole delle detenute nel loro luogo di origine, dalla necessità di restituire parte di quel lavoro a chi l’ha prodotto".

Un evento che va in agenda proprio mentre in città si riapre il dibattito sulla Dozza: "Il carcere è tornato a livelli inaccettabili di sovraffollamento- denuncia Bruno- con 483 posti e 1.050 detenuti". Per quanto riguarda le sezione femminile, attualmente le detenute sono 59 (30 italiane e 29 straniere). Iniziative come quella di domani, secondo Bruno, possono avere "un impatto forte per chi è detenuto, un modo per farli sentire parte della società civile".

Per Emanuela Ceresani, direttrice dell’istituto, "non si tratta di intrattenimento fine a sé stesso, perché dietro c’è un filo conduttore che vuole portare alla crescite della persona". Con l’occasione, Ceresani annuncia che dal prossimo anno anche alla Dozza partirà un progetto teatrale con Paolo Billi, simile a quello già in corso al Teatro del Pratello.

Maria Longo, magistrato di Sorveglianza, sottolinea che "i detenuti sono persone esattamente come noi e hanno le nostre stesse esigenze", quindi "se per noi è importante andare ogni tanto a teatro o ad ascoltare della musica, lo è anche per loro", indipendentemente se poi colgono o meno l’opportunità di reinserimento.

A conferma di ciò, Longo (che proprio domani saluterà i detenuti lasciando dopo sette anni l’attuale incarico) ricorda che da due anni il maestro Claudio Abbado offre la possibilità, ai detenuti che possono uscire dal carcere, di seguire gratuitamente i concerti dell’orchestra Mozart: "Pensiamo a percorsi culturali non minimi ma massimi, tenendo presente ciò che sceglieremmo anche per noi".

Ad interpretare il monologo (curandone anche la regia insieme a Corinna Rinaldi) sarà l’attrice Tita Ruggeri: "La cosa che ci ha colpito immediatamente, leggendo i testi, è quanto li abbiamo sentiti vicini a noi, pur non sapendo nulla della realtà del carcere". Al termine del reading, l’iniziativa proseguirà con un concerto di Franz Campi e della sua band (Barbara Giorgi, Ernesto Geldes, Valerio Fuiano e Monica Dardi).

"Solo il 20% dei detenuti che seguono percorsi di reinserimento - ricorda Campi - una volta usciti diventano recidivi, mentre per tutti gli altri la percentuale sale al 70%". Di conseguenza, Campi fa sua una frase di Gabriel Garcia Marquez: "Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi".

Lamezia: la speranza in uno spettacolo teatrale in carcere

 

Lamezia Web, 13 dicembre 2007

 

Imbarazzo ma anche tanta curiosità ed attenzione nei volti dei detenuti che ieri pomeriggio hanno assistito allo spettacolo "Legami" del regista lametino Francesco Pileggi. Palcoscenico d’eccezione una delle antiche stanze dell’ex convento dei Francescani riformati in cui è ubicata la casa circondariale.

In una saletta tra solide mura di pietra, archi ed affreschi sul soffitto si sono esibiti i giovani attori del laboratorio teatrale patrocinato dal Comune: il "teatro che non c’era" è entrato nel vecchio carcere di via San Francesco per portare un messaggio di speranza, per inneggiare alla legalità contro il malaffare. Un grido di libertà che lo spettacolo "Legami" ha già portato in giro per la Calabria, uscendo anche dai confini della regione. La pièce teatrale è stata rappresentata anche a Torino e Firenze dove ha riscosso grandi consensi di critica e di pubblico. La libertà e la legalità da conquistare, partendo dalla vita e dai sentimenti dei ragazzi calabresi, quelli lametini come quelli di Locri o di qualsiasi altra città della regione.

Rappresentanti arrabbiati e forse anche idealisti di quella "meglio gioventù" che è decisa a svoltare. In scena quattordici attori del laboratorio, come pubblico dodici dei ventotto detenuti della casa circondariale: tanti gli applausi fra una scena e l’altra, sorridenti ma anche pensierose le espressioni degli straordinari spettatori, tutti molto giovani ma già segnati dalla vita. La rappresentazione si è chiusa con un finale molto informale, gli stessi detenuti hanno chiesto ai giovani attori cosa avessero provato a recitare in carcere. Unanime la risposta da parte dei ragazzi, emozionati e soddisfatti di aver fatto un’esperienza molto forte. "E voi cosa avete provato quando abbiamo mandato al diavolo la mafia?", ha chiesto una ragazza agli eccezionali spettatori.

A ribattere uno dei detenuti che ha puntualizzato: "La mafia non è qualcosa che si può definire. Anche per un reato di poco conto ci si può trovare invischiati in un giro da cui poi è difficile uscire". Significativo il commento di un altro detenuto che ha invitato gli attori a non trasmettere rabbia "perché alla coscienza bisogna parlare con amore".

Allo spettacolo ha assistito il comandante Carolina De Falco insieme ad alcuni agenti ed operatori della casa circondariale. Ai detenuti ha porto il suo saluto anche il sindaco Gianni Speranza che ha definito l’iniziativa un collegamento col mondo esterno, un modo per non rompere i "legami" con la società che sta fuori e di cui anche i detenuti fanno parte. Il regista Pileggi ha evidenziato la carica emotiva, i sentimenti forti richiamati dalla rappresentazione.

Busto Arsizio: i prodotti del carcere al Mercatino di Natale

 

Varese News, 13 dicembre 2007

 

Sabato 15 e domenica 16 dicembre è prevista un’"ora d’aria" particolare, quanto meno per alcuni prodotti che sono per ora "rinchiusi" nel carcere di Busto Arsizio: alcuni manufatti realizzati dai carcerati saranno esposti e venduti ai mercatini di Natale promossi dalla città di Busto Arsizio, grazie ad un’attiva collaborazione tra l’amministrazione comunale, la direzione e l’area educativa dell’Istituto Penitenziario, i consorzi di cooperative sociali della provincia Sol.Co. Varese e Consorzio Cooperative Sociali di Cardano al Campo, Enaip Lombardia e Agenzia Formativa della provincia di Varese e l’associazione Volgiter.

In una delle casette poste nell’area del Museo del Tessile presso i giardini di via Volta, messa a disposizione del progetto "Agenti di Rete" dall’Amministrazione di Busto Arsizio, potrete trovare, per esempio, il miele che da due anni viene prodotto all’interno del carcere grazie alla partecipazione di alcuni detenuti guidati da un esperto del settore; o ancora il secondo numero del giornalino Mezzobusto, realizzato da una giovane redazione di persone che, con un lavoro assiduo, hanno dato vita a questo strumento di comunicazione, ricevendo così il primo premio al concorso "Carcere e comunicazione Guido Vergani", indetto dal Gruppo Cronisti Lombardi.

Sarà per la città e per il carcere un’ulteriore occasione di conoscenza reciproca attraverso l’acquisto di prodotti e lo scambio di informazioni e notizie di ciò che avviene nel carcere e di quello che la città può fare per il carcere. Infatti, la finalità di "Agenti di Rete" è creare quanti più possibili ponti di collegamento tra il "dentro" ed il "fuori", nei quali coinvolgere anche la comunità locale: essa può collaborare per costruire percorsi di reinserimento a favore delle persone detenute, dai quali possono nascere esperienze significative e importanti per chi ha sbagliato.

 

 

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