Rassegna stampa 16 aprile

 

Giustizia: questo è il vero "effetto indulto"

di Luigi Manconi (Sottosegretario alla Giustizia con Delega alle Carceri)

 

L’Unità, 16 aprile 2007

 

Qualcosa sta cambiando nelle carceri italiane. Partiamo da un dato di grande importanza, che pure va manovrato con cautela. Nel corso del primo trimestre del 2007 i suicidi, all’interno delle prigioni, sono stati due su una popolazione detenuta di circa 40mila unità. Nel primo trimestre del 2006, su circa 60mila detenuti, ben 15 si erano tolti la vita. Il merito di questo significativo decremento non è, evidentemente, tutto e solo dell’indulto; ma, certo, il provvedimento di clemenza ha influito - e molto - sulle condizioni generali della detenzione.

La riduzione assai rilevante del sovraffollamento ha migliorato tutti gli indicatori di vivibilità (da quelli igienico-sanitari a quelli trattamentali), con benefici per l’intera popolazione reclusa: e, dunque, ha allentato quello stretto rapporto e quella rigida correlazione tra elevata promiscuità e tasso di suicidi.

Questo, comunque, non deve indurre a limitare la vigilanza sul tragico problema dell’autolesionismo, se è vero com’è vero che - negli ultimi giorni - si sono verificati ancora due suicidi. In ogni caso, la drastica riduzione, in virtù dell’indulto, del numero dei detenuti ha rappresentato - come si è detto e ridetto - giusto la condizione preliminare, e ineludibile, per procedere nella direzione delle riforme indispensabili al nostro sistema penitenziario. E oggi, in effetti, a poco più di nove mesi dall’approvazione di quella misura, qualcosa è già cambiato, qualcosa sta cambiando e soprattutto qualcosa - molto, speriamo - dovrà cambiare.

Dopo quindici anni, il numero dei detenuti è tornato nei limiti della capienza regolamentare. La recidiva è contenuta in poco più dell’11% e ancora molto al di sotto dei suoi tassi ordinari e "fisiologici" (dal 60 al 68%), riscontrati tra coloro che arrivano al "fine pena" senza beneficiare di sconti e senza usufruire di misure alternative.

Questo significa che la gran parte delle persone scarcerate stanno "ripagando" il credito che è stato loro concesso con la liberazione anticipata. Per quanto riguarda l’attività legislativa, il governo ha già definito le proposte di modifica di due delle normative che più hanno causato il sovraffollamento penitenziario: quella sull’immigrazione e quella sull’inasprimento del trattamento penale dei recidivi. A breve, potrebbe arrivare a definizione anche una proposta organica sulle sostanze stupefacenti, che dovrebbe superare sia la "Fini-Giovanardi" che le obiezioni procedurali del Tar del Lazio.

Intanto, la Camera ha approvato in prima lettura la proposta di legge istitutiva della Commissione per i diritti umani e la tutela delle persone private della libertà. Una Commissione che, nel pieno rispetto delle prerogative giurisdizionali, si propone di ampliare gli strumenti di promozione dei diritti e, in modo particolare, la tutela delle persone private della libertà. È un primo traguardo, dopo una mobilitazione durata anni e dopo che numerose amministrazioni locali (regioni, province e comuni) hanno istituito i loro garanti, che già possono vantare un bilancio positivo.

Nel frattempo, la commissione Giustizia della Camera ha dato il via libera alla proposta di riforma della "legge Finocchiaro", che amplia la possibilità di ricorso alle misure alternative per le madri condannate a pena detentiva: e che prescrive l’istituzione di case-famiglia per coloro che non ne potessero beneficiare (e fossero costrette, quindi, a scontare la pena in carcere con i propri figli). E così, da qualche settimana, grazie all’impegno della Provincia di Milano, e degli altri enti locali, gli ultimi tre bambini, già reclusi con le madri a San Vittore, sono ora ospitati in una struttura che - attualmente - è la più lontana possibile dall’immagine (e dalla corposa e crudele materialità) di un carcere.

Anche l’Amministrazione penitenziaria sta cambiando: dopo molte polemiche, l’Ufficio ispettivo interno è tornato a occuparsi del buon andamento dell’amministrazione, piuttosto che di attività informative e di polizia giudiziaria; mentre - con il riordino imposto dalla Finanziaria - si è ripreso un lavoro di programmazione delle risorse umane e strutturali, necessarie ad assolvere efficacemente ai difficili compiti di custodia e reinserimento.

Ora, tra le molte questioni che restano da affrontare, due assumono particolare urgenza: una revisione dei circuiti penitenziari, che possa valorizzare le capacità di trattamento e di reinserimento sociale dei condannati; e - importantissimo - il completamento della riforma dell’assistenza sanitaria in carcere. Sin dal primo governo Prodi, il centrosinistra ha tracciato la strada di una riforma che trasferisca tutte le competenze al Servizio sanitario nazionale, come è giusto che sia. Così già è per l’assistenza ai tossicodipendenti e per la prevenzione: e molte regioni - in questi anni - si sono assunte oneri e responsabilità, finanziarie e operative, per potenziare l’assistenza ai detenuti. Alcune hanno già legiferato in materia, anche alla luce della riforma del titolo V della Costituzione.

Questo percorso va ora portato a pieno compimento, senza ulteriori indugi, garantendo la migliore assistenza possibile alle persone recluse nell’ambito del Servizio sanitario nazionale: senza che questo comporti la dissipazione delle competenze professionali, maturate nell’ambito della medicina penitenziaria, ma - d’altra parte - evitando ritardi e differimenti nel completamento di una riforma sacrosanta.

Qualcosa sta cambiando, dunque, nelle carceri italiane. E molto può essere ancora fatto.

Da questo punto di vista, la casa-famiglia di Milano è qualcosa di più di una soluzione razionale a un problema complesso. È un segno: piccolo, piccolissimo e quasi solo allusivo: e, tuttavia, da valorizzare perché rende concreta la possibilità che il carcere com’è oggi si riduca davvero a soluzione estrema e residuale.

Giustizia: convegno alla Camera sulla salute dei detenuti

 

Comunicato stampa, 16 aprile 2007

 

"Diritto alla salute in carcere: Ora basta - Riforma subito. Per l’immediata applicazione della legge 230/99 di riordino della medicina penitenziaria", organizzato per domani a Roma dal "Forum Nazionale per la tutela della salute dei detenuti e delle detenute". Martedì 17 aprile - Camera dei Deputati - Palazzo Marini, Sala delle Conferenze. Via del Pozzetto 158, dalle ore 9.30 alle ore 14.00.

Fare il punto sui problemi e le prospettive della sanità penitenziaria italiana e sull’applicazione del Decreto Legislativo 230/99, che regola il passaggio della medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia al servizio sanitario nazionale e alle Regioni. Sono questi gli scopi del convegno nazionale sul tema "Diritto alla salute in carcere: Ora basta - Riforma subito. Per l’immediata applicazione della legge 230/99 di riordino della medicina penitenziaria", organizzato per domani a Roma dal "Forum Nazionale per la tutela della salute dei detenuti e delle detenute". Al convegno parteciperanno, fra gli altri, il ministro della Giustizia Clemente Mastella, i presidenti delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato Pino Pisicchio e Cesare Salvi e il capo del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria Ettore Ferrara.

Nei mesi scorsi il Forum ha organizzato iniziative sull’assistenza sanitaria e psicologica ai detenuti tossicodipendenti e sulla questione degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), promuovendo un’analisi approfondita della situazione e allo stesso tempo un confronto sulle proposte per il miglioramento dell’assistenza sanitaria in carcere. Iniziative che hanno registrato un’ampia partecipazione di operatori, Enti ed Istituzioni, di cittadini e dei familiari di chi, oltre che detenuto, è malato e spesso non riceve tempestive ed adeguate cure per le sue patologie.

"Intendiamo esaminare la questione del Servizio sanitario nel suo complesso - ha detto il presidente del Forum Leda Colombini - approfondire la situazione nelle carceri e valutare lo stato del confronto fra i Ministeri interessati e le Regioni per avanzare proposte concrete che rendano fattibile una riforma fondata sui principi della Costituzione e stabilita dalla legge 230/99. È primario il ruolo delle Regioni per rimettere in moto il processo riformatore con il passaggio della medicina penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale".

Il Forum si è costituito nel 2005 con Istituzioni, Enti, Sindacati e associazioni sociali e di volontariato che sentivano l’esigenza di un punto di riferimento unitario, coordinato e propositivo, per rilanciare la battaglia per una "sanità penitenziaria" che assicuri dignità e salute, oggi drammaticamente compromesse.

Giustizia: da una ricerca della Caritas il "profilo" del detenuto

 

Redattore Sociale, 16 aprile 2007

 

Giovani, con figli a carico e con problemi lavorativi. È l’identikit di soggetti gravemente emarginati quello che emerge da una ricerca condotta nelle carceri milanesi. Straniera molto più giovani rispetto agli italiani.

Giovane, poco istruito e disoccupato. È il profilo di un soggetto gravemente emarginato, quello delle persone che corrono i maggiori rischi di finire in carcere, emerso dalla ricerca "Carcere e povertà", condotta da Caritas Ambrosiana su 1.306 questionari compilati tra febbraio e luglio 2006 da altrettanti detenuti delle carceri milanesi di Opera, San Vittore e Bollate. Il lavoro è stato presentato oggi a Milano in occasione del convegno "L’estremo rimedio. Giustizia penale e giustizia sociale oltre l’indulto". Il lavoro è stato realizzato in parte grazie al contributo economico del Comune di Milano e in parte con fondi propri della Fondazione Caritas Ambrosiana, nell’ambito del progetto "Un tetto per tutti: alternative al cielo a scacchi", finanziato dalla Regione Lombardia, dalla Fondazione Cariplo e dal Comune di Milano. Le attività e gli strumenti di indagine sono stati autorizzati dal Provveditorato Regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia.

"Il profilo che emerge dalla ricerca è quello di emarginati gravi, che non erano mai entrati in contatto con i Servizi sociali - dice Andrea Molteni, ricercatore di Caritas Ambrosiana -. La ricerca si concentra sulla situazione precedente all’indulto, evidenziando situazioni di fragilità in particolare per gli stranieri, che stanno in carcere più degli altri anche quando non hanno pene gravi, e per le donne con figli, magari separate. Bisogna fare in modo che le reti sociali facciano prevenzione".

Gioventù prigioniera - Il 57,3% di coloro che hanno compilato il questionario ha meno di quarant’anni, quasi il 40% (39,6%) ne ha meno di trentacinque e poco meno di un quarto dei detenuti (23,0% dei rispondenti) non ha ancora raggiunto i trent’anni di età. L’indagine ha quindi confermato il dato ampiamente noto sulla giovane età delle persone detenute ed ha semmai sovrastimato la quota di popolazione detenuta che ha superato i cinquanta anni di età, che comunque resta una netta minoranza nel campione di intervistati. In particolare la popolazione detenuta straniera si conferma molto più giovane rispetto a quella italiana: il 30% circa (29,3%) dei detenuti di nazionalità italiana che hanno compilato il questionario ha meno di trentacinque anni mentre tra i detenuti stranieri i giovani sono, in percentuale, quasi il doppio (58,2%). Non solo: ben il 37,5% degli stranieri ha meno di trent’anni contro il 14,9% degli italiani; il 14,4% degli stranieri ha meno di venticinque anni, i pari età tra gli italiani sono solo il 5,0% e addirittura si registra un 4,0% di detenuti stranieri che non ha neanche raggiunto i ventuno anni, mentre tra gli italiani la quota di giovani adulti è dello 0,9%.

Uno su due ha figli - Quasi la metà dei detenuti milanesi che hanno partecipato all’indagine vive una relazione di coppia: il 28,5% dichiara di essere sposato e il 18,4% convivente; il 15,6% risulta invece separato o divorziato e il 34,4% è celibe o nubile. I detenuti che hanno dichiarato di avere figli sono stati quindi complessivamente 721, pari al 57,6% dei rispondenti. Nella maggioranza dei casi i figli sono uno o due (41,6% dei rispondenti, 73,2% di chi ha figli); meno frequenti, anche se non rari, i casi di genitori detenuti con famiglie numerose. Dalle risposte raccolte presso gli istituti milanesi è possibile calcolare che i figli delle persone che hanno risposto al questionario sono almeno 1.431.

Tra le persone che hanno risposto al questionario, la percentuale delle madri risulta significativamente più numerosa di quella dei padri. Infatti tra le 721 persone detenute con figli, le donne sono 49, pari al 63,6% delle donne che hanno risposto a questa domanda.

Italiani più recidivi - Il fenomeno del reingresso in carcere interessa in misura minore i detenuti stranieri: tra la popolazione straniera reclusa prevalgono infatti coloro che si trovavano in carcere per la prima volta (55,0%), mentre rispetto agli italiani la quota di stranieri che aveva già nel proprio passato diverse esperienze di detenzione e` quasi della metà (22,4% contro 43,6%). Tra gli stranieri si riscontrano, oltre alla minore quota di detenuti già giudicati, anche una durata media della pena inflitta - e conseguentemente della pena residua - inferiore a quella registrata tra i detenuti italiani.

Stranieri più istruiti - Un quarto delle persone detenute nelle carceri milanesi che hanno risposto alla specifica domanda prevista dal questionario non ha terminato la scuola dell’obbligo e non ha alcun titolo di studio (9,4%), oppure ha la sola licenza elementare (15,9%); il 43,3% dei rispondenti ha assolto appena l’obbligo scolastico, conseguendo la licenza media inferiore. Il totale di chi ha raggiunto al massimo la licenza media inferiore sfiora quindi il 70% dei detenuti milanesi (68,6%), mentre meno di un terzo di loro (31,3%) possiede un titolo di istruzione superiore, che nel 13,6% dei casi consiste in un attestato di qualifica professionale e nel 14,0% in un diploma di scuola media superiore. Tra le persone detenute di origine straniera che hanno risposto al questionario si registra più frequentemente che tra gli italiani un livello di istruzione medio-alto: un quinto dei detenuti stranieri (19,9% contro il 10,9% degli italiani) ha infatti dichiarato di essere diplomato.

Uno su due lavorava - Soltanto la metà (51,0%) di chi ha risposto al questionario aveva al momento dell’incarcerazione un lavoro regolare; il 29,8% ha avuto in precedenza esperienze di lavoro regolare ma al momento dell’arresto non aveva un lavoro, mentre il 19,2% non ha mai avuto un lavoro regolare nella propria vita. Chi ha dichiarato che aveva un lavoro regolare al momento dell’arresto, nel 14,1% dei casi definisce come ‘regolarè un’occupazione ‘in nero’ e soltanto nel 72,1% dei casi risultava avere un’occupazione effettivamente in regola dal punto di vista giuslavoristico. In generale gli stranieri detenuti nelle carceri milanesi presentano situazioni di forte precarietà lavorativa con frequenza maggiore degli italiani: al momento dell’arresto erano più spesso disoccupati rispetto agli italiani (24,2% contro 20,0%), e molto più spesso degli italiani lavoravano "in nero" (39,9% degli stranieri e 22,5% degli italiani).

Senza dimora? - Al momento dell’arresto meno di un terzo dei detenuti milanesi (31,2%) abitava in una casa di sua proprietà o di proprietà della famiglia; il 10,6% viveva in un alloggio di edilizia popolare regolarmente assegnato, un ulteriore 25,1% aveva un regolare contratto di affitto. Complessivamente dunque il 67% delle persone che hanno risposto al questionario viveva in una condizione abitativa regolare; l’11,5% dei detenuti abitava invece in una casa in affitto senza un regolare contratto, il 2,8% occupava abusivamente un alloggio e l’8,8% era ospite di parenti, amici o conoscenti. Una percentuale cospicua - il 4,7% dei rispondenti - ha dichiarato che al momento dell’arresto non aveva una dimora fissa.

Qualcuno abitava in centri di accoglienza o in alloggi di fortuna, in hotel o pensione, in camere in affitto, in campi nomadi, in case abbandonate, in auto: si tratta di situazioni individuali, statisticamente poco significative, ma che contribuiscono a delineare una quota rilevante di persone che non avevano un’abitazione regolare ne´ adeguata. Solo il 55,2%) pensa che, al momento della scarcerazione, potrà rientrare nello stesso alloggio che occupava prima di entrare in carcere; ben il 27,7% dei rispondenti non sa dove potrà andare ad abitare mentre il restante 17,2% dichiara di avere già in mente una possibile alternativa. Per le detenute questo dato di incertezza cresce: più di un terzo delle donne che hanno risposto al questionario (37,0%, contro il 27,1% dei maschi) non sa dove andrà a vivere quando uscirà dal carcere.

Giustizia: sono sempre pochi i recidivi fra i detenuti indultati

 

Redattore Sociale, 16 aprile 2007

 

Al 31 marzo sono l’11,3% di quelli che ne hanno beneficiato, solo 0,2% in più rispetto a febbraio. Don Davanzo (Caritas Ambrosiana): "Si dimostra che le pene alternative sono valide".

Continuano ad essere pochi i detenuti usciti dal carcere con l’indulto e che commettono nuovi reati: al 31 marzo sono pari all’11,3% di quelli che ne hanno beneficiato, solo 0,2% in più rispetto al dato diffuso in febbraio dal Ministero della Giustizia relativo al periodo agosto 2006-gennaio 2007 (vedi lanci del 19/02/2007, ndr).

Sono molti di meno rispetto alla media "normale" del 68% di coloro che escono dal carcere dopo aver scontato tutta la pena prevista. "Non è vero dunque che l’indulto ha provocato un aumento dei reati - afferma Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia -. Si è trattato invece di un provvedimento che ha migliorato le condizioni di vita all’interno delle carceri". Nel primo trimestre di quest’anno i suicidi sono stati solo 2, contro i 15 dello stesso periodo del 2006. "Oggi i detenuti sono circa 40 mila, 20 mila in meno rispetto a prima dell’indulto -aggiunge il sottosegretario alla Giustizia -. Non c’è dubbio che sui suicidi incidono anche l’affollamento e le condizioni di detenzione. Il fatto che per ora siano diminuiti è un buon segno".

È più facile che in carcere si diventi delinquenti incalliti piuttosto che nuovi cittadini. "Il carcere così com’è è fallito - aggiunge Luigi Manconi - Dobbiamo rafforzare le misure alternative e destinare più risorse a quei progetti che permettono ai detenuti di uscire dal carcere e favoriscono il loro reinserimento sociale".

Di indulto si è parlato oggi a Milano al convegno organizzato da Caritas Ambrosiana dal titolo "L’estremo rimedio. Giustizia penale e giustizia sociale oltre l’indulto", durante il quale è stata presentata la ricerca sulla situazione socio-economica dei detenuti di S. Vittore, Opera e Bollate. "Il fatto che ci siano pochi recidivi fra gli indultati indica che la strada della pena non carceraria non ha nulla di velleitario -afferma don Roberto Davanzo-. Al contrario la logica punitiva della tolleranza zero rischia solo di aggravare la condizione di chi è in carcere".

In carcere finiscono e rimangono i più poveri, in particolare gli stranieri. "Da una parte c’è bisogno di un supporto al contrasto delle varie forme di povertà ed emarginazione - sottolinea Cristina De Luca, sottosegretario al ministero della Solidarietà sociale -. Dall’altro c’è bisogno di una riforma della legge dell’immigrazione che favorisca l’ingresso regolare". Dai dati della ricerca Caritas emerge che molti detenuti prima di commettere reati vivevano in una situazione difficile: mancanza di lavoro, livello di istruzione basso, problemi familiari. Persone insomma che avrebbero avuto bisogno dell’aiuto dei servizi sociali. "Ormai è chiaro che la prevenzione dei reati passa anche attraverso le politiche di Welfare - aggiunge Cristina De Luca -. In carcere c’è tutta una fascia debole di persone che con un’azione di prevenzione avrebbe potuto non cadere nella criminalità. Si tratta di mettere in campo politiche generali a favore della famiglia, del lavoro, dei giovani, delle donne e degli immigrati".

Giustizia: i salvati e i caduti dell’Italia incattivita

di Adriano Sofri

 

La Repubblica, 16 aprile 2007

 

Questo è un articolo sull’Italia incattivita. Eppure le rondini sono arrivate, e in anticipo. Non passerà molto e torneranno le famose lucciole, e saranno anche loro più precoci e indaffarate. Poi arriverà il 2008, e i trent’anni da Moro. Ristamperò anch’io il mio libro, e intanto quell’ombra implacata agita già di nuovo le cronache. Si prometteranno chissà quali rivelazioni. Il mio indice si accontenterà di aggiornare la domanda di allora: a che punto è l’Italia? Qualcuno paventò, in quel maggio del 1978, "una deformazione del volto umano dell’Italia". Successe, e il riscatto non è venuto.

Certo, il mondo intero è incattivito. Ogni luogo del mondo ha la sua data dopo la quale "niente è più stato come prima". L’Italia ha quella. Moro lo scrisse: con la mia morte l’Italia non sarà più quella di prima. Non importa quanto fosse veritiero, e quanto edulcorato e artefatto il quadretto dell’italiano brava gente. Allora svanì, e lasciò una fisionomia pronta a storcersi per la rabbia e il rancore. Cattiveria è parola da bambini, Moro prigioniero la usò ripetutamente. Non è vero che il tempo guarisca le ferite. Il tempo, lasciato a se stesso, può esacerbarle, e renderle incurabili. Benché i muri siano caduti, la lotta politica è stata ancor più recitata come una parodia dell’eterna guerra civile.

Un anno fa il centrodestra volle far passare la sconfitta per un broglio. Il centrosinistra aveva improntato il meglio della sua campagna elettorale alla promessa di una svolta negli animi, un disarmo civile, uno spirito di riconciliazione da nuovo dopoguerra. Ora la delusione è diventata un luogo fin troppo comune, ma è su quel punto che si lascia davvero misurare, dell’Italia in cagnesco.

È il succo della vicissitudine di Mastrogiacomo e dei suoi poveri compagni. È successa una disgrazia, senza colpa. Le disgrazie succedono, all’improvviso, e fanno deragliare le vite ordinarie. Si deve lasciare il corso usato delle cose e affrontare la disgrazia, ciascuno con una propria responsabilità, non fosse che l’apprensione solidale. Un inganno infame ha fatto della vita di tre persone il gioco di una banda di invasati vanitosi.

Un inganno infame ha fatto della vita di tre persone il gioco di una banda di invasati vanitosi. Tre vite destinate al mattatoio: due sono state spente, e non resta che piangerle e augurarsi che gli assassini paghino caro il loro inganno, una è stata salvata, e bisogna esserne felici, per lui e per i suoi, sentendosi dei suoi. La si vorrebbe giocare come una resa dei conti con la bava alla bocca: largamente simulata in qualche personaggio, abbastanza al corrente della propria coda di paglia e abbastanza cinico per recitare secondo copione; più vera e schiumante per tanti cittadini, sobillati o no a pensare che "avete salvato uno dei vostri".

Li guardo, questi che fanno le facce, senza alcun pregiudizio politico, perché sono stato sempre dalla parte di chi si adoperava per salvare vite rapite e minacciate, di chiunque si trattasse, persone insultate come "mercenari" o all’opposto come fiancheggiatrici del terrorismo. Ora che Berlusconi ha detto che bisogna mettere il buon nome comune al primo posto, basta solo che ci creda davvero. In una disgrazia un paese può riconoscersi e sostenersi, o rinnegarsi e maledirsi. Ma se con la vicenda afgana è così prepotente quest’ultima voglia, è per l’aria che tira.

Aria cattiva. Per questo si rievoca a ogni piè sospinto la trincea tragica del sequestro di Aldo Moro, nonostante il paragone sia così arduo. Con Moro, la superstizione della fermezza sostenne (e ripete ancora) che la strage della scorta vietava di salvare la vita a lui, a "uno di noi". Così, c’è oggi chi vorrebbe Mastrogiacomo morto in nome dei due trucidati. Ancora, qualcuno ha ricordato di aver disposto, allora, in caso di sequestro, di non essere ascoltato: un’auto-interdizione preventiva che voleva attenuare l’interdizione e il rinnegamento del Moro prigioniero.

Ma di fronte ai sequestri è bene non limitarsi a immaginarsi nei panni del sequestrato, per figurarsi invece in quelli del padre, o della sorella, o del tutore involontario del sequestrato. Questo semplice slittamento dell’immaginazione serve a spazzolar via un po’ di polverina dorata dall’amor proprio, e a torcersi le mani come può fare chi non le abbia incatenate. E anche a non contentarsi della sfida scolastica fra la legge del sangue e quella dello Stato. Giuseppe D’Avanzo ha evocato qui Antigone, con un argomento suggestivo. Anche l’ombra sorella di Antigone segue i nostri passi, e quando affiora allo scoperto vuol dire che i nostri passi si avvicinano al baratro.

Ma Antigone, nata all’amore, può rivendicare l’ultima parola quando la disgrazia sospende il corso ordinario della vita, e della stessa legge. Creonte non è il buon governante, e la ragion di Stato non è la ragione. Antigone vuole dare sepoltura al corpo del fratello ribelle. Nella vastità del Laterano gli impietriti dignitari della repubblica celebrarono le esequie senza cadavere di Aldo Moro, tumulato dai suoi nel piccolo recinto di Torrita Tiberina.

Era inevitabile che fosse così? Forse i brigatisti di allora lo avrebbero comunque assassinato: ma gli italiani avrebbero pregato in un unico funerale. Si confonde l’aspirazione decisiva - la legge è uguale per tutti - con la formula militaresca, "non guarda in faccia a nessuno". Bisogna guardare in faccia tutti: ci si accorgerà che tutti hanno una faccia, e non solo un poster elettorale, o dei polpastrelli da limare e bruciare con l’acido.

Come sono pesanti, i funerali. È appena successo di nuovo nella piazza in cui le porte della chiesa si erano chiuse al corpo di Pier Giorgio Welby. Bruttissima giornata dell’Italia incattivita. La Chiesa gerarchica ha voluto mostrarsi col gesto della Cacciata a uno che chiedeva di entrare - e che era per giunta morto, come ordini professionali e tribunali hanno certificato, senza violazione di legge. (Anche i tribunali sono incattiviti, e si troverà sempre un procuratore smanioso di riaprire la pratica).

La stessa Chiesa era stata protagonista della richiesta di clemenza, con l’appello tenace di Giovanni Paolo II, e la fede postuma che vescovi e preti gli hanno tenuto. In tutte le rilevazioni sul governo l’indulto figura al primo posto fra le ragioni di impopolarità, e del resto fu la prima delle sue decisioni importanti. Nessuna misura avrebbe più esemplarmente significato un’intenzione di ricominciamento della convivenza, nessuna avrebbe avuto un’impronta così "giubilare".

La maggioranza parlamentare inaudita che la votò non ebbe intero il coraggio della sua azione e, quando non finì senz’altro con lo scaricarsene, si trincerò dietro argomenti d’emergenza: le carceri sarebbero esplose eccetera. Gli indirizzatori d’opinione, per scandalo vero o per compiaciuto scandalismo, anteposero i compromessi che era costato il voto al suo effetto per la moltitudine di disgraziati, e annunciarono catastrofi per la sicurezza dei cittadini.

I cittadini, allarmati e incitati contro il cinismo della politica, misero l’indulto in testa alla classifica della rabbia. Una campagna ostinata fece il resto, addebitando a vanvera all’indulto i crimini più efferati, inventando carceri di nuovo riempite. Intanto, il tempo documentava che i detenuti usciti in anticipo - 23 mila nel solo agosto scorso - non avevano peggiorato l’andamento della criminalità, e che i recidivi erano meno che negli anni "normali".

Una spropositata distanza fra il fatto e, non dirò la sua percezione, che ormai è un luogo comune e un alibi, ma la sua presentazione. E questo nonostante che, non certo inavvertiti dell’impopolarità, il Presidente Napolitano, Romano Prodi e il ministro della Giustizia abbiano tenuto ferma la convinzione della bontà dell’indulto. E che la magistratura associata abbia riconosciuto che un’amnistia, irrilevante rispetto all’ulteriore svuotamento delle galere, avrebbe smaltito l’enorme arretrato di processi superflui. Ma, ha commentato Mastella, vallo a trovare chi nomini la parola amnistia con l’aria che tira.

Anche nella piazza di Welby, temo, non si trattava di un episodio: si trattava dell’aria che tira. La Chiesa che chiama a raccolta il suo reparto scelto e scava una trincea, persuasa che il medico pietoso procuri la morte delle anime dei suoi pazienti, è pronta ora a operazioni dolorose. Ho sentito un intelligente cittadino italiano e gay spiegare il proprio rimpianto per gli anni ‘60 e ‘70, nei quali, diceva, il pregiudizio della chiesa non si traduceva in un accanimento, e non impediva agli omosessuali di trovare ascolto e conforto umano nei preti, mentre oggi un’intolleranza militante rende le cose tanto più difficili e amare.

Non si può certo collegare alla durezza ecclesiastica il suicidio di un ragazzo irriso dai compagni: tuttavia si riconosce anche qui l’aria che tira. Eppure la Chiesa ha saputo tante volte custodire la carità che la vita pubblica e privata più facilmente dimenticano. Non torno a quel "partito dei vescovi e di Lotta Continua" sul quale si ironizzò troppo facilmente durante i 55 giorni di Moro. Ma la Chiesa ha fatto da argine alla più rischiosa manifestazione di risentimento e di chiusura degli italiani, quella contro gli stranieri poveri. Quanto durerà il nuovo corso?

E nel mondo laico? La stessa ispirazione di fondo del Partito Democratico era nella voglia di mettersi insieme, di mettere qualcosa in comune: magari il destino delle generazioni a venire, magari la parte dell’Italia nel grande mondo. Lo sconcerto che si è diffuso non riguarda tanto i programmi politici - i programmi politici sono tutti un po’ posticci, al momento: registrati in memoria di un passato da cui congedarsi, o al quale aggrapparsi - quanto una spinta contraria al mettersi in comune.

Una riluttanza a fraternizzare, a fare amicizia, a dirsi compagni come se fosse la prima volta. Una lite per la roba. Così l’aria che tira trascina la nostra comunità di qua e di là, sommergendo di applausi il digrignar di denti, partiti, serate televisive e blog e fermate d’autobus. Perfino nei suoi lustrini l’Italia incattivita cede alle piazze Loreto rosa. Qualcuno paventò, in quel maggio del 1978, "una deformazione del volto umano dell’Italia". Quel qualcuno era Aldo Moro.

Giustizia: allarme sicurezza o conferma delle paure sociali?

di Patrizia Trecci (Assistente Sociale del Cags)

 

Ristretti Orizzonti, 16 aprile 2007

 

Negli anni il concetto di sicurezza ha subito molte e nuove interpretazioni. In un contesto sociale dove è sempre più presente la precarietà del lavoro, della casa, etc., in una società che ha perso le sicurezze base del proprio vivere quotidiano si sono acutizzate le inquietudini. La sicurezza viene rivendicata per poterci sentire differenti da chi esprime un disagio, per non essere "contagiati" e poter continuare a vivere nella nostra indifferenza, nel nostro egoismo. Si attuano ormai modelli di sicurezza che tendono a reprimere e ad isolare. Modelli che si contrappongono al concetto di sicurezza sociale. Viviamo in una società dove prevalgono dinamiche improntate su "tolleranza zero".

Quando si parla di controllo e sicurezza delle città si parla di inserire la polizia penitenziaria all’interno degli uffici o in appositi commissariati territoriali. Questo è quanto emerge in più documenti di alcune organizzazioni sindacali e da dichiarazioni del Ministro della Giustizia. La cosa grave è che il controllo è ritenuto l’unico strumento per affrontare l’inclusione sociale e garantire la sicurezza delle città. Siamo sicuri che questa sia l’organizzazione che serve? Il Coordinamento Assistenti Sociali della Giustizia (Casg) ha discusso molto sul tema del controllo e della sicurezza non tanto per rivendicare un ruolo rispetto ad un altro ma per prendere in esame l’organizzazione che serve.

La conclusione è che non possiamo essere d’accordo sulla costituzione di commissariati di polizia penitenziaria (o inserimento della polizia penitenziaria all’interno degli Uepe) in quanto riteniamo che sul territorio oggi esistano già agenzie che effettuano un controllo generale per la prevenzione dei reati, attività che non può essere disgiunta da quella del controllo sui condannati sottoposti a misura alternativa.

Il controllo della polizia penitenziaria si andrebbe quindi a sommare a quello delle FFOO già operanti con strumenti di conoscenza e radicamento nel contesto territoriale che consentono di esercitare una reale ed efficace vigilanza e prevenzione di condotte devianti. Ad esempio i Carabinieri essendo dislocati anche nei piccoli centri urbani conoscono i luoghi di devianza, le persone ... perché fanno parte di quel territorio. Difficile è invece effettuare un controllo di polizia senza conoscere il contesto, il tessuto urbano.

Ma qualcuno ha mai provato a fare due conti? Quanto costerebbe allo Stato l’istituzione di tali "commissariati" che necessiterebbero di numerosissimi uomini e mezzi? Pensiamo ad un grosso centro urbano e al numero di persone in misura alternativa (prima dell’indulto si stimavano circa 2.000 affidati l’anno, 800 detenuti domiciliari, e in più liberi vigilati, liberi controllati): quanti poliziotti penitenziari occorrerebbero per turno (mattina, pomeriggio, notte) per poter effettuare almeno un controllo settimanale? Quante auto di servizio servirebbero per monitorare tutto il territorio?

È gravemente falso dire che oggi la polizia penitenziaria è in esubero e quindi in cerca di nuove mansioni. Questo tipo di affermazioni portano a pensare che non vi sia una programmazione organica che tenga conto di un preciso indirizzo e di una valutazione sui costi e benefici. La sensazione è che si cambino ruoli e competenze senza una precisa regola organizzativa. Si spostano persone come se fossero oggetti. Se sino ad "ieri" si diceva che gli organici della polizia penitenziaria erano carenti di personale costringendo gli agenti a fare doppi turni, straordinari, ecc, non pensate che forse oggi con un minore numero di detenuti presenti si potrebbe finalmente mettere questi operatori nella condizione di svolgere la loro attività come richiesta dalla legge (partecipare all’attività di trattamento intra-murario), dando loro la possibilità di agire la propria professionalità?

In ogni caso per calcolare l’esubero non è sufficiente fare semplicemente il rapporto tra organico di polizia penitenziaria e detenuti perché personale di polizia penitenziaria esercita funzioni di supplenza (con costi ben superiori a quelli che sarebbero, utilizzando personale civile tra l’altro) svolte al posto del personale amministrativo di supporto all’interno degli istituti penitenziari del Dap, dei provveditorati regionali, delle scuole di formazione, degli Uepe, con mansioni di segreteria, contabilità, informatica, guida automezzi. Quindi parte dell’organico considerato è impegnato in altre mansioni.

È fondamentale vengano fatte scelte razionali quali quelle di potenziare le possibilità di costruire e sostenere progetti personalizzati di effettivo recupero sociale, gli unici che possono contrastare il rischio della recidiva e avere un effetto positivo a garanzia della sicurezza dei cittadini, non servizi auto-centrati dove l’unica cosa che conta è dimostrare la complessità del lavoro attraverso la quantità e la pluralità delle professioni comprese al proprio interno organizzazioni che tendano a isolare, che si contrappongono al concetto di sicurezza sociale ma un’organizzazione che condivida la necessità di attivare risorse per migliorare veramente la realtà e la vivibilità del territorio senza rincorrere le paure sociali. Spostando quindi l’attenzione sulle problematiche originarie: criminalità, la devianza giovanile, la tossicodipendenza, l’immigrazione

Puglia: parte il Progetto "Incipit", per i fruitori dell’indulto

 

Comunicato stampa, 16 aprile 2007

 

Al via il progetto Incipit realizzato dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Puglia. Ha avuto inizio con l’assunzione dei primi otto beneficiari del provvedimento di clemenza, la fase operativa del progetto In.c.i.p.i.t. (Inclusione dei Condannati Indultati per l’Integrazione sul Territorio), finanziato dalla Cassa delle Ammende del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

Il progetto, che coinvolgerà complessivamente 25 soggetti precedentemente fruitori di una misura alternativa o detenuti, ha la finalità di offrire ai destinatari del provvedimento di indulto delle province di Bari, Brindisi e Taranto, l’opportunità concreta di svolgere, per un anno, un’esperienza di inserimento lavorativo e quindi di conseguire un’autonomia economica, proveniente da fonte lecita e tale da ridurre nel periodo successivo alla liberazione il rischio di recidiva.

Questo primo gruppo è stato assunto alle dipendenze della Cooperativa "Opera P" di Bari e svolgerà, per conto dell’Amiu di Bari, attività di manutenzione e pulizia dei canali per il deflusso delle acque piovane, al fine di prevenire il rischio degli allagamenti che possono essere causati dai fenomeni temporaleschi estivi. Per una più approfondita conoscenza delle linee guida, si allega un abstract del progetto, ma si ritiene di segnalare all’attenzione due aspetti qualificanti: l’ampiezza del tavolo di partenariato che vede coinvolti le Province di Bari e Taranto, i Comuni di Bari, Taranto, Leporano e Martina Franca, il Consorzio "Agorà", l’Amiu di Bari, la Conf-cooperative di Brindisi, la Scuola Edile di Brindisi, le Cooperative "La Mimosa", "Giovanni Paolo II", "S. Giuseppe" e "Albano Liberato".

Il percorso di selezione e preparazione dei soggetti, condotto dagli assistenti sociali e dagli educatori sulla base dei progetti di reinserimento già in corso prima della liberazione ed il successivo accompagnamento e supporto alle aziende, oltre che il sostegno ai destinatari del progetto, che sarà assicurato nel corso dell’esperienza lavorativa dagli assistenti sociali degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna. Va segnalato, infine, che il Comune di Bari si è impegnato a cofinanziare il progetto e ciò consentirà di portare a 15 il numero dei destinatari della città di Bari.

Milano: "un tetto per tutti", l'alternativa al cielo a scacchi

 

Redattore Sociale, 16 aprile 2007

 

Iniziativa nata per costruire contesti favorevoli all’esecuzione penale esterna al carcere e per intervenire rispetto ai percorsi di inserimento sociale. 50 i posti letto a disposizione.

"Un tetto per tutti: alternative al cielo a scacchi". È un progetto di Caritas Ambrosiana che nato per costruire contesti favorevoli all’esecuzione penale esterna al carcere e per intervenire rispetto ai percorsi di inserimento sociale di persone detenute, di persone sottoposte a provvedimenti cautelari o penali restrittivi della libertà personale e di persone che hanno recentemente terminato di scontare una pena detentiva.

In particolare esso opera attraverso l’offerta di accoglienza abitativa e l’attivazione di percorsi di accompagnamento sociale, in collaborazione con i servizi territoriali pubblici e del privato sociale. Il progetto dispone complessivamente di 50 posti letto in 23 appartamenti - nei comuni di Bresso, Melegnano, Milano e Peschiera Borromeo - e di 2 posti letto presso una comunità di accoglienza a Lecco.

I destinatari delle azioni sono adulti detenuti presso gli istituti penitenziari milanesi, persone residenti sul territorio milanese e detenute presso altri istituti, persone sottoposte a misure restrittive della libertà e/o misure alternative alla detenzione, ex detenuti e familiari di persone detenute presso gli istituti penitenziari milanesi. L’accoglienza è offerta a persone che non possiedono e non possono accedere ad una soluzione abitativa autonoma al momento della scarcerazione e per le quali sia ipotizzabile un percorso di accompagnamento all’autonomia economica, sociale e abitativa.

Le organizzazioni partner del progetto e direttamente coinvolte nell’erogazione del servizio sono l’Ente pubblico capofila: Comune di Milano - Settore Servizi Sociali per Adulti; per il Coordinamento la Caritas Ambrosiana; i titolari delle accoglienze: Associazione C.I.A.O. onlus; Associazione Incontro e presenza; Associazione Sesta Opera San Fedele; Consorzio Condivisione Solidarietà Carcere; Cooperativa sociale Il Bivacco Servizi; Cooperativa sociale L’Arcobaleno (Comunità "Casa Abramo"); Il Bivacco Associazione carcere e territorio. Altri enti pubblici partner: Uepe di Milano e Lodi.

Milano: la legalità e la solidarietà sono un binomio inscindibile

 

Redattore Sociale, 16 aprile 2007

 

A spiegarla è Mariolina Moioli, assessore alle Politiche sociali. "Welfare e legalità sono facce della stessa medaglia. Attraverso i servizi di solidarietà vogliamo diffondere quelle competenze di solidarietà che devono appartenere a tutti".

Legalità e solidarietà come binomio inscindibile. È questa la linea dell’amministrazione comunale milanese spiegata da Mariolina Moioli, assessore alle Politiche sociali. Invitata a intervenire oggi al Convegno Caritas su carcere e indulto (vedi lancio precedente; ndr), la Moioli ha partecipato alla tavola rotonda sul tema "Politiche territoriali di produzione della giustizia sociale". Come a dire: prevenire è meglio che curare. Le abbiamo rivolto qualche domanda su questo argomento.

Assessore Moioli, la ricerca Caritas sulla popolazione carceraria milanese presentata oggi ha evidenziato un legame stretto tra detenzione e condizioni sociali disagiate. Cosa ne pensa?

Chi è in una situazione di abbandono più facilmente diventa manovalanza per il crimine. Di conseguenza, le attività sociali di inclusione e di aiuto a chi è in difficoltà possono ridurre il tasso di criminalità. In questo senso credo che il binomio solidarietà e legalità, che sta alla base del nostro progetto di città, sia vincente.

Quali sono le misure concrete di inclusione sociale che la vostra amministrazione ha messo in campo?

Le iniziative sono molte, a cominciare da quelle che riguardano il carcere stesso e che mirano a rendere il periodo della pena un tempo utile per ricostruirsi. Si tratta di attività di formazione, di sostegno economico e personale, ma soprattutto attività lavorative che possano continuare fuori dal carcere. Penso alla cooperativa che fa il pane all’interno del penitenziario di Opera (e che fornisce anche le mense della scuola dell’obbligo gestite dalla società "Milano ristorazione"; ndr.). Oppure penso alla casa famiglia voluta da Provincia, carcere di San Vittore e Comune: lì le detenute con bambini sotto i tre anni scontano la pena in un ambiente più adatto alla crescita dei loro figli. Una maternità serena è condizione base per ricostruirsi un’esistenza fuori dal carcere.

Qual è il ruolo del welfare nella prevenzione della delinquenza?

Welfare e legalità sono due facce della stessa medaglia. Attraverso i servizi di solidarietà che noi gestiamo, direttamente o in convenzione con centinaia di cooperative e associazioni del terzo settore, vogliamo anche diffondere quelle competenze di solidarietà che devono appartenere a ciascuno di noi per costruire una cultura della convivenza civile. E questa si può realizzare nella misura in cui, nel rispetto delle regole, ci si aiuta.

La ricerca ha evidenziato anche un legame tra detenzione e bassa scolarizzazione. Quale il ruolo della scuola nell’educare alla legalità?

La scuola è il primo luogo della promozione della persona dopo la famiglia ed è anche il luogo della costruzione delle regole della convivenza. La scuola è strategica per lo sviluppo della società. Più in generale, scuola, imprese, forze dell’ordine e sistema del welfare devono collaborare per migliorare il tessuto sociale. Solidarietà e legalità possono essere valori condivisibili da tutti.

Verona: per Pasqua un permesso-premio a Pietro Maso

 

La Repubblica, 16 aprile 2007

 

Pietro Maso è uscito dal carcere di Opera a Pasqua, grazie ad un permesso premio. Il ragazzo che nel 1991, a 19 anni, a Montecchia di Crosara, in provincia di Verona, uccise il padre e la madre con altri complici per impossessarsi dei loro risparmi, ha lasciato il penitenziario milanese la mattina di sabato 7 aprile ed è rientrato la sera di lunedì 9. Lo ha rivelato "Tempi Moderni", il programma televisivo di Giorgio Mulè condotto da Irene Pivetti, in onda sabato sera su Retequattro.

Maso, oggi 35enne, ha ottenuto il permesso dal magistrato di sorveglianza di Milano. Sta scontando una condanna a 30 anni di reclusione e, come ha raccontato lui stesso in una intervista dello scorso 7 febbraio a Repubblica, potrà lasciare definitivamente il carcere nel 2015. Tempi Moderni, che ha dedicato l’intera puntata quasi interamente alla vicenda, ha ripreso i due momenti e ha parlato con Maso, che - dice una nota di Mediaset - ha trascorso il suo permesso in una comunità nei pressi di Milano.

Il provvedimento. Nel provvedimento del magistrato di sorveglianza, tra l’altro, "si dà conto di una visione opposta rispetto all’opportunità di concedere il permesso tra i diversi periti che si sono occupati di Maso. Alcuni di loro, infatti, ritengono ancora alta la possibile pericolosità sociale di Maso". I giornalisti del settimanale hanno parlato con la zia di Maso, Rosina, nel suo paese di Montecchia di Crosara, nei pressi di Verona. "L’ ho perdonato subito - dice la donna -. Se tornasse non gli chiederei niente, io lo abbraccerei e basta...".

Il rosario. Un servizio del Tg5, che ha anticipato la puntata di "Tempi Moderni", ha fatto notare che Pietro Maso, che aveva un rosario intorno al collo, aveva il volto abbronzato e il fisico irrobustito da lunghi allenamenti nella palestra del carcere. Nella comunità del milanese in cui ha trascorso i suoi tre giorni di permesso premio, Maso ha incontrato le sorelle. Quello di Pasqua, è stato sottolineato, è il secondo permesso premio. Il primo risale all’ottobre scorso.

La vicenda. Il 16 aprile 1991, a Montecchia di Crosara in Provincia di Verona, Pietro Maso, all’epoca 19 anni, denuncia di aver ritrovato, al ritorno dalla discoteca, i corpi dei genitori distesi in una pozza di sangue vicino ad una scala interna della casa. Antonio e Rosa Maso, erano stati uccisi con bastonate alla testa: in un primo tempo si era pensato al tragico esito di una rapina. Ma i carabinieri erano stati insospettiti dallo strano atteggiamento del figlio, così pronto a collaborare con gli investigatori, ma così freddo e distaccato rispetto alla tragedia avvenuta in casa.

La confessione. Dopo tre giorni di interrogatori, Pietro e i suoi tre amici, Giorgio Carbonin, Paolo Cavazza, con il diciasettenne B.D., avevano ceduto e confessato. Il gruppo aveva progettato il delitto da tempo e indossava tute da lavoro e maschere di carnevale. Il delitto era stato architettato appunto perché Maso potesse ottenere l’eredità, così da mantenere quello stile di vita eccessivo che lo aveva fatto emergere tra gli amici del paese. Dalle indagini era emerso che Pietro aveva pensato anche ad eliminare le sue due sorelle, per essere l’erede di tutte le sostanze paterne. In precedenza Maso e i suoi complici avevano già provato a uccidere i genitori del ragazzo, prima con un ordigno rudimentale fatto con due bombole di gas e poi tentando di investire mamma Rosa.

La perizia. Scalpore fece la perizia affidata dall’accusa al professor Vittorino Andreoli. Lo psichiatra, oltre a escludere che i tre fossero incapaci di intendere e volere, puntò il dito contro la società in cui il duplice delitto si inseriva. "Una società - scrisse - improntata all’apparenza, incapace di risolvere nuovi problemi, che tende solo a negare o nascondere" e "una società che è stata riempita di denaro, che è diventato il vero dio di questi luoghi e dove la scuola è diventata una perdita di tempo".

Le condanne. Maso fu condannato dai giudici di Verona, il 29 febbraio 1992, a 30 anni di reclusione; 26 anni a Carbognin e Cavazza. Tredici anni, invece, al ragazzo minorenne. In appello, Maso scrisse una lettera di pentimento, l’inizio di un ravvedimento che sarebbe proseguito in silenzio in carcere, dove avrebbe tenuto un comportamento ineccepibile (impegnandosi anche come attore in un musical, con altri detenuti). Proprio in virtù della sua condotta, ormai da diversi anni Maso ha cominciato a chiedere permessi per uscire dal carcere, sempre negati.

I permessi negati. La prima volta Maso aveva sfiorato il permesso-premio nell’autunno 2002, quando a una perizia di parte favorevole si era aggiunta una seconda perizia disposta dai giudici che aveva parzialmente modificato un altro iniziale elaborato d’ufficio invece negativo. Poi, nel luglio del 2006 si era visto negare una seconda volta la possibilità di trascorrere 12 ore fuori dal carcere dopo esserci arrivato vicinissimo.

L’intervista. Nel febbraio scorso, poi, Maso, in un’intervista a Repubblica, si diceva "una persona diversa". "Sedici anni di carcere mi hanno cambiato. Mi ero perso, ho cercato di ritrovarmi, grazie anche alla fede", spiegava. E ancora: "Ai ragazzi che mi scrivono e mi raccontano che vogliono uccidere i genitori, dico di fermarsi, di ragionare, di ricucire i rapporti". "Non ho potuto salvare me stesso - aggiungeva - almeno ci provo con gli altri. Perché quando fra cinque anni uscirò di qui, anche queste cose, forse, mi serviranno per iniziare una nuova vita".

Viterbo: l'assessore al lavoro incontra il direttore del carcere

 

Viterbo News, 16 aprile 2007

 

L’assessore alle Politiche per il Lavoro del Comune di Viterbo Giovanni Arena ha incontrato il direttore Trattamentale della Casa Circondariale di Viterbo Fabio Vanni al fine di implementare una collaborazione tra l’Istituto penitenziario ed il Centro di Orientamento al Lavoro. Il tema dell’incontro è stato quello di studiare azioni volte a favorire in ogni modo la destinazione dei detenuti al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale.

Si è anche affrontato il problema del reinserimento nella società dei detenuti che stanno completando di scontare la propria pena. A proposito è stata avanzata l’idea di realizzare percorsi di orientamento formativo e professionale al fine di valutare le capacità, conoscenze ed abilità di ogni singolo soggetto e contestualmente indirizzarlo sia in progetti di formazione professionale che in veri e propri inserimenti lavorativi.

Infatti, la Legge n. 354/75 sancisce che i detenuti possono essere assegnati al lavoro sia all’interno del carcere, dove esistono già delle realtà, che all’esterno e inoltre in virtù della Legge n. 193/2000 i datori di lavoro che assumono un detenuto hanno diritto ad agevolazioni fiscali. "Ritengo che questo incontro sia stato di notevole importanza - afferma l’assessore Arena - in quanto sono state gettate le basi per creare i presupposti necessari ad avviare questa categoria temporaneamente svantaggiata ad azioni positive nell’ambito del mercato del lavoro".

Genova: il Sappe prepara una protesta per la visita Mastella

 

Comunicato Sappe, 16 aprile 2007

 

Sarà sicuramente rumorosa l’accoglienza che i poliziotti penitenziari aderenti al Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe, il più rappresentativo della Categoria con 12mila iscritti (più di 300 quelli in servizio nel carcere di Marassi), riserveranno al Ministro della Giustizia Clemente Mastella ed al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Ettore Ferrara in occasione della loro visita nel carcere genovese della Valbisagno in programma per il prossimo sabato 28 aprile.

Sono infatti 500 i fischietti e 200 le trombe da stadio acquistati in questi giorni dai sindacalisti dei Baschi Azzurri che parteciperanno alla manifestazione. Oltre a quelli in servizio a Marassi, porteranno la loro solidarietà centinaia di poliziotti provenienti da tutta la Liguria, dal Piemonte e della Lombardia per unirsi ai colleghi di Genova nel " gridare la nostra rabbia verso una Amministrazione Penitenziaria sorda e indifferente alle gravi problematiche del Personale di Polizia di Marassi, sotto organico di circa 200 unità. Così non si può proprio più andare avanti", denuncia Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe.

Martinelli, che preannuncia la presenza tra i manifestanti del Segretario generale Sappe Donato Capece, denuncia come "da anni rappresentiamo ai vertici nazionali e regionali dell’Amministrazione penitenziaria la grave situazione della Polizia Penitenziaria di Marassi, che oltre ad essere costantemente sotto organico di più di 100 agenti rispetto a quanto prevede il Decreto ministeriale del 2001 sulle dotazioni organiche del carcere della Valbisagno, registra un’ulteriore carenza di 70 agenti, sulla carta assegnati a Marassi ma temporaneamente trasferiti in altre sedi penitenziari del Centro - Sud. E i destinatari di questi provvedimenti sono quasi sempre persone con pochi anni di servizio, mentre colleghi più anziani e con gravi problemi familiari non riescono ad ottenere un provvedimento di distacco temporaneo o un trasferimento in altre sedi penitenziarie, fattispecie per altro previste dal nostro Contratto di lavoro."

E la situazione sembra destinata ad aggravarsi ulteriormente, visto che diverse indiscrezioni quantificano in una decina gli agenti di Marassi impegnati nelle prossime elezioni amministrative nei vari Comuni d’Italia ai quali, per legge, è previsto un congedo straordinario dal servizio per l’espletamento della campagna elettorale.

Martinelli precisa che "non contestiamo affatto le assegnazioni temporanee per gravissimi motivi di carattere familiare, per assistenza di familiari disabili o per mandato elettorale, ma deve però essere altrettanto chiaro che deve essere concessa un’alternanza tra il personale, perché abbiamo colleghi con gravi situazioni familiari che non possono accedere neanche temporaneamente alla mobilità di sede". L’auspico del Sappe è che "prima del 28 aprile il ministro Mastella ci incontri e si assuma precisi impegni per potenziare l’organico dei Baschi Azzurri in servizio a Marassi". Altrimenti, fischietti, trombe e bandiere sono già pronti.

Verona: anche dopo l’indulto il carcere rimane sovraffollato

 

L’Arena di Verona, 16 aprile 2007

 

L’affollamento del carcere resta sempre un problema, indulto o no. Questo almeno a giudicare dalle parole di uno dei tanti volontari che prestano la loro opera all’interno.

"La seconda sezione è vuota e la terza invece è sovraffollata perché ci sono fino a quattro persone per cella", dice il volontario, che preferisce non venga resa nota la sua identità, "perché non viene data la possibilità ai detenuti del terzo settore di ridistribuirsi. In due per cella starebbero meglio, anche a livello psicologico", continua il volontario sottolineando che per lui l’esperienza in carcere è del tutto nuova. Ma dal carcere la risposta è chiara e forse difficile da comprendere per chi, con quell’ambiente ha avuto poco a che fare.

"Ci sono detenuti", spiegano, "che non possono stare in cella con altri, per il tipo di reato commesso, o per la specificità della loro persona. Per questo non è possibile dividere e distribuire in maniera diversa i detenuti, anche se ci stiamo dando da fare per sistemarli nel miglior modo possibile".

Fino a ieri, nella casa circondariale di Montorio erano reclusi 552 uomini e 43 donne. Il numero di ospiti regolamentare sarebbe di 497, mentre la capienza tollerabile è di 751. È necessario inoltre sottolineare che bisogna fare i conti con il numero del personale. Se i detenuti sono nella stessa sezione è più facile controllarli ed è possibile così anche permettere lo smaltimento delle ferie alla polizia penitenziaria.

Rovigo: il calcio per far scoprire ai detenuti i valori dello sport

 

Il Gazzettino, 16 aprile 2007

 

Parte domani la nona edizione del torneo "Un calcio all’indifferenza", organizzato dalla Uisp con il patrocinio di Comune e Provinciale. Quest’anno la sfida di calcio a 5 vedrà in campo otto squadre, quella dei detenuti della casa circondariale e alcune società amatoriali polesane.

Il torneo chiuderà la prima fase il 25 maggio, le semifinali saranno il 29 maggio e la finale il 31 maggio a Giacciano. "Il torneo - spiega Angelo Maffione, dirigente Uisp - nacque da una partita tra amministratori comunali e detenuti allo stadio e si è successivamente trasformato nell’appuntamento annuale con vari gruppi sportivi, Cral aziendali, enti pubblici e scuole, favorendo l’incontro con il pianeta carcere".

La manifestazione sostiene un tema sociale come sempre, questa volta mutuato dal rugby. "Dopo gli incidenti di Catania è sempre più evidente come sia importante l’educazione sul campo - prosegue Maffione - ecco perché abbiamo intitolato l’edizione "Due tempi per giocare e uno terzo tempo per comunicare". Alla fine di ogni partita squadre, arbitri e dirigenti si troveranno a cena, per scambiare quattro chiacchiere in compagnia".

"Non sarebbe male se anche le squadre nazionali seguissero questa strada - aggiunge l’assessore provinciale Tiziana Virgili - anche perché queste manifestazioni lasciano più segno di quel che si pensa. Avanzo un’ulteriore proposta: apparecchiare i tavoli con le tovagliette "Usa la testa, non buttare la vita", pensata dalla Provincia per la campagna contro gli incidenti del sabato sera".

Apprezzamenti sono arrivati dal presidente di Palazzo Celio Federico Saccardin e dal primo cittadino Fausto Merchiori. "Non è solo solidarietà verso i detenuti - ha affermato il primo - ma un momento di parità tra tutti i componenti delle squadre". "È un’iniziativa che restituisce allo sport il suo profilo fondamentale - ha chiuso il sindaco - cioè il gioco nel rispetto dell’avversario, all’interno di una sana volontà di competere".

 

Libri: Campobasso; Pino Roveredo presenta "Capriole in salita"

 

Asca, 16 aprile 2007

 

Pino Roveredo sarà ospite del sesto appuntamento di "Ti racconto un libro 2007", Laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione ideato e realizzato dall’Unione Lettori Italiani e dalla Provincia di Campobasso, con la direzione artistica di Brunella Santoli. Durante l’incontro, nel pomeriggio di lunedì 16 aprile alle ore 18.30 presso la sala conferenze della biblioteca provinciale "P. Albino", l’autore presenta la sua raccolta di racconti "Capriole in salita" edito da Bompiani Editore. Nella giornata di martedì 17 aprile alle ore 17.00, lo scrittore sarà ospite dell’Istituto carcerario di Campobasso, dove incontra i detenuti che da alcuni anni hanno costituito un vero e proprio gruppo di lettura e discussione.

L’appuntamento con Roveredo darà il via ad un più ampio progetto di promozione alla lettura e alla narrazione destinato ai detenuti delle Case di Reclusione di Campobasso e Larino. "Capriole in salita" racconta la traversata di un buio e l’uscita dal suo vortice, con una forza poetica e un’inconfondibile originalità, racconta una vita dura e violenta: la nascita da genitori sordomuti, un collegio da cui fuggire, l’alcolismo vissuto come ribellione all’insensata fatalità dell’esistenza e poi il manicomio, ultimo rifugio dei reietti ma anche ricettacolo di un dolore sordo che insegna a resistere ad ogni costo, e il carcere, universo a sé stante, più reale della realtà stessa dove non esiste più alcuna censura morale o sociale.

Ma c’è sempre la possibilità di rinascere; per Roveredo questa possibilità è rappresentata dal matrimonio con la sua Luciana che lo allontana da una lenta autodistruzione. Le violenze possono essere di molti generi e ciascuno di noi, ogni giorno, anche impercettibilmente ne può essere vittima. Io sono giunto alla letteratura da outsider, dopo aver lavorato molti anni in fabbrica, essendo passato anche attraverso esperienze difficili.

La scrittura può essere una terapia, può salvare dalla deriva della vita, dalla disperazione. Può essere un antidoto alla violenza, poiché può contribuire, quanto meno, a lenire la sofferenza. Spero che su qualcuno possa avere tale effetto anche la lettura di questi miei piccoli racconti.

… Scrivo a partire da esperienze e stati d’animo personali, privati. Quanto all’aspetto stilistico, credo di aver imparato dai miei genitori sordomuti prima l’indispensabile dei gesti e poi il superfluo della voce. E sempre da loro ho imparato a trasformare i gesti in parole, anche nella parola della scrittura. Scrivo per donare agli altri qualcosa di mio, nella speranza che possano trovarlo utile per la loro vita. (Pino Roveredo)

Claudio Magris scrive: "I suoi racconti sono veri piccoli capolavori. I personaggi di Roveredo vivono spesso ai margini della vita o nell’ombra; egli ne racconta con partecipe affetto e rispetto le violenze anche brutali e le umiliazioni subite, gli sbandamenti o le canagliate ma anche il generoso e spavaldo coraggio, le piroette e i capitomboli con cui essi cercano di sfuggire alla morsa della vita, i sogni ingenui ma potenti che li portano aldilà dei confini del reale. Questa familiarità con la debolezza e insieme con la sacralità dell’esistenza è irriverente, perché non arretra dinanzi ad alcuna anche impudica o imbarazzante miseria e non s’inchina ad alcuna solennità, ma la tira giù dal piedistallo, dando del tu o anche peggio al Padreterno e mostrando i rattoppi nei calzoni o i buchi nelle calze della vita".

Scheda autore. Pino Roveredo è nato nel 1954 a Trieste da una famiglia di artigiani. Dopo varie esperienze (e salite) di vita, ha lavorato per anni in fabbrica. Operatore di strada, scrittore e giornalista, collaboratore del "Piccolo" di Trieste, fa parte di varie organizzazioni umanitarie che operano in favore delle categorie disagiate. Tra le sue opere, Capriole in salita (1996), La città dei cancelli (1998), Schizzi di vino in brodo (2000), da cui lui stesso ha tratto una stesura teatrale rappresentata al Festival di Lodi. Con la raccolta di racconti Mandami a dire (Bompiani editore) ha vinto il Premio Campiello 2005 ma anche il Premio Predazzo, il Premio Anmil e il Premio "Il campione".

Trento: madre che uccise un figlio disabile tenta il suicidio 

 

L’Adige, 16 aprile 2007

 

L’hanno trovata ieri mattina, verso mezzogiorno, nella casa della sorella Mariangela, a Ville del Monte nel comune di Tenno, ormai priva di conoscenza e con ferite da taglio alle braccia. In pochi minuti è arrivata un’ambulanza del "118" di Arco, quindi l’elicottero: Marta Parolari, 50 anni, la madre disperata che nel 2003 uccise il figlio disabile, è stata trasferita d’urgenza nel reparto rianimazione dell’ospedale di Rovereto dove ora lotta contro la morte. Le sue condizioni infatti sono definite dai medici disperate.

Ha a quanto pare ingerito una dose eccessiva dei farmaci che usa abitualmente e poi si è gravemente ferita ai polsi. Riservata fino a ieri sera la prognosi. Anche perché bisogna vedere la reazione alle terapie intensive cui la donna, arrivata all’ospedale in stato di coma, è stata subito sottoposta. I soccorsi sono stati immediati, si spera che le sostanze ingerite dalla donna non abbiano causato danni irreversibili.

Da ieri mattina comunque familiari, parenti, tutti quelli che conoscono Marta sono ripiombati nella disperazione. Come quel 31 ottobre del 2003, quando Marta aveva soffocato con un cuscino il figlio Massimiliano, disabile da quando aveva sei mesi. Per quel terribile fatto Marta è stata condannata a 5 anni di reclusione, pena in gran parte scontata tra le mura domestiche. I giudici - accogliendo quasi tutte le richieste presentate dall’avvocato Alessandro Olivi - hanno favorito in tutti i modi il suo graduale reinserimento sociale ma soprattutto la riabilitazione dai problemi psicologici e psichiatrici.

Tanto che di fatto Marta non era più da tempo nella condizione di detenuta. Aveva anche cominciato a lavorare per il Comune di Tenno. E tra pochi giorni avrebbe cominciato il nuovo impiego in Comprensorio. Nulla dunque faceva pensare ad una improvvisa ricaduta, al riaffacciarsi nella mente della donna di incubi, di momenti di sconforto e depressione, che col tempo, col sostegno dei servizi sociali, sembravano essere stati almeno parzialmente rimossi o comunque meno aggressivi. Purtroppo solo Marta potrebbe dire con precisione quello che è successo in quella casa di Ville del Monte dove stava tentando di proseguire la strada, difficile, ancora lunga, che dal buio porta ai raggi di sole. Ma lei adesso sta combattendo un’altra dura battaglia. Per tornare a vivere. Come tutti le augurano.

 

Marta Parolari è sempre gravissima

 

Restano purtroppo stazionarie, quindi sempre gravissime, nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Rovereto, le condizioni di Marta Parolari, 50 anni, di Ville del Monte. La donna, che il 31 ottobre 2003 uccise Massimiliano, il figlio disabile, l’altra mattina, forse in un momento di disperazione, ha tentato di togliersi la vita ingerendo una dose eccessiva di farmaci e procurandosi altre ferite. Ora è sottoposta a terapie intensive.

Si teme che siano stati lesionati organi vitali. Per questo la prognosi è ancora riservata, anche se ieri mattina sarebbero stati notati dei segnali di miglioramento definiti comunque dai medici lievissimi, quasi impercettibili. Insomma, il quadro clinico indica ancora una situazione gravissima, quasi disperata. Marta è assistita dalla sorella Mariangela, che in questi anni le è sempre stata vicina, dalla mamma Nidia ed altri familiari che stanno vivendo, ancora una volta, ore di ansia.

Ieri pomeriggio in ospedale si è recato anche l’avvocato Alessandro Olivi. Il legale è sempre stato accanto a Marta. Anche dopo la sentenza di condanna (5 anni) per l’omicidio di Massimiliano, anche quando dopo che l’indulto ha praticamente cancellato ogni residuo di pena da scontare in affidamento ai servizi sociali. "Non so spiegarmi cosa sia successo - ci ha detto - so che Marta era seguita ancora dai medici di una clinica di Verona con la quale erano stati presi contatti ancora prima del processo.

Era in attesa, per quello che so, di una nuova occupazione in Comprensorio, conduceva ormai una vita autonoma in un appartamento nella stessa casa dove abita la sorella. Probabilmente non è mai uscita del tutto da una situazione di fragilità e debolezza. So che seguiva una terapia farmacologica, che aveva ancora degli alti e bassi, ma nella norma. Insomma, non c’erano, mi dicono, segnali di allarme, strani presagi.

E certo questa non ci voleva. Perché le sue condizioni sono ora gravissime e in ogni caso c’è il rischio di danni permanenti". È stata proprio la sorella Mariangela, l’altra mattina, verso mezzogiorno, a trovare Marta priva di conoscenza nel suo appartamento. Immediato l’intervento del "118" di Arco, quindi il trasferimento con l’elicottero a Rovereto. Dove ora Marta sta lottando contro la morte. Di colpo sono riaffiorati probabilmente nella sua mente incubi che sembravano quantomeno diradati, lontani. Forse ha ripensato per un attimo, fatale, a quella sera del 31 ottobre, quando con un cuscino pensò di mettere fine alle sofferenze di un figlio che in fondo amava più di se stessa. Ha pagato molto per quel momento di disperazione. Perché non c’è sconto di pena che possa cancellare per sempre certi fatti dalla mente. Anche per questo tutti le augurano di vivere. Una vita migliore.

Taranto: 13enne si uccide, forse era stata vittima di pedofilo

 

Ansa, 16 aprile 2007

 

Una ragazzina di 13 anni si è uccisa gettandosi dall’ottavo piano di una palazzina del quartiere Paolo VI di Taranto. La bambina, rivela don Di Noto fondatore dell’Associazione Onlus "Meter", era ospite di una comunità dopo presunti abusi sessuali subiti da un vicino di casa e sui quali sono in corso ancora indagini degli investigatori. Ieri sera la ragazzina era con la mamma e col papà per la giornata festiva: con loro si è recata a far visita a parenti che vivono nel Paolo VI. Ad un certo punto è andata in bagno, stanza con una finestra in alto su una parete: vi si è arrampicata e si è gettata giù. "Il suicidio di questa bambina, innocente e pura, somiglia alla cronaca di una morte annunciata, una martire della pedofilia che piangiamo con grande dolore" commenta don Di Noto.

Che lancia un appello al mondo della politica e delle istituzioni. "Ci rivolgiamo agli uomini di buona volontà del Governo e dell’opposizione- continua il prete - a Rutelli, a Fini, ad Amato affinché si capisca che questa continua emergenza deve finire insieme ad un’indulgenza verso chi commette crimini cosi orrendi". "Se ci fosse stata una rete sociale più attiva - conclude don Fortunato di Noto- forse questa bambina non si sarebbe uccisa e quello che chiediamo è che parta una campagna di prevenzione e di assistenza che sia efficace e che consenta di intervenire a sostegno di tutte quelle organizzazioni sociali capaci di garantire assistenza alle vittime".

Iran: assolti miliziani che uccisero cinque tossicodipendenti

 

Notiziario Aduc, 16 aprile 2007

 

Sono stati tutti assolti in Iran, al termine di una lunga vicenda giudiziaria, sei miliziani islamici che avevano barbaramente ucciso cinque persone ritenendole "moralmente corrotte". Ne dà notizia oggi il quotidiano riformista Etemad. La Corte suprema, che per due volte aveva annullato le condanne a morte emesse da giudici di prima istanza, ha accolto la sentenza di assoluzione del terzo giudice al quale aveva affidato il caso.

La motivazione è che gli imputati hanno ucciso convinti che le loro vittime fossero mahduroddam, letteralmente persone il cui sangue non ha alcun valore, un termine arabo della giurisprudenza islamica che sta ad indicare un individuo corrotto che può essere ucciso impunemente. All’epoca delle uccisioni, compiute a cavallo tra il 2002 e il 2003 nella provincia di Kerman, nel sud-est dell’Iran, i sei imputati avevano tra i 19 e i 22 anni. I delitti avevano scioccato l’opinione pubblica e avevano avuto ampio risalto sulla stampa.

Le vittime - tre uomini e due donne - erano state scelte perché ritenute appunto moralmente corrotte, o per l’uso e lo spaccio di stupefacenti o perché sospettate di relazioni sessuali illegali, cioè al di fuori del matrimonio. Quattro di loro erano state annegate in una buca piena d’acqua, mentre una donna era stata massacrata a colpi di pietra perché ritenuta adultera. In Iran l’omicidio è uno dei reati per i quali è prevista, e quasi sempre applicata, la pena di morte. Fra gli altri vi sono la rapina a mano armata, la violenza carnale, il traffico di droga, l’adulterio e l’apostasia. Secondo i resoconti di stampa e testimoni, dall’inizio dell’anno vi sono state nel Paese già una trentina di esecuzioni. Lo scorso anno, secondo dati di Amnesty International, erano state circa 177.

Gran Bretagna: "fallita" la lotta del Governo contro le droghe

 

Notiziario Aduc, 16 aprile 2007

 

Il governo britannico ha fallito nella sua azione di contrasto contro l’uso di sostanze stupefacenti tra i giovani. Un rapporto redatto dalla Commissione per la politica sulle droghe, anticipato oggi dall’Observer, rivela che il numero degli adolescenti che consumano cocaina e hashish è rapidamente aumentato nel corso degli ultimi 20 anni, nonostante le campagne mediatiche e le iniziative lanciate nelle scuole dalle autorità.

"La prevenzione è indicata come il principale campo di azione della politica, allo scopo di ridurre il numero di quanti si avvicinano alle droghe e di quanti ne fanno abitualmente uso -si legge nello studio- questa politica si basa sull’assunto che gli sforzi di prevenzione riducono il consumo, ma non ci sono prove concrete a dimostrazione che la prevenzione abbia tali effetti nel Regno Unito".

Gli esperti sottolineano come il fallimento di tali politiche abbia reso il Regno Unito il paese dell’Europa occidentale dove il problema del consumo di droga risulta più grave. Stando ai dati statistici allegati allo studio, nel 2005 ha fatto uso almeno una volta nella loro sua di droga il 40,4% delle persone di età compresa tra i 16 e 19 anni, il 49% di quelle tra i 20 e i 24 anni, il 51% di quelle nella fascia di età tra i 25 e 29 anni e il 45,8% di quelle tra 30 e i 34 anni. Se il consumo di hashish è diminuito negli ultimi tempi tra i giovanissimi, tuttavia continua a farne uso il 50%, mentre è aumentato quello di cocaina.

Gran Bretagna: le carceri private sono "in mano a detenuti"

 

Apcom, 16 aprile 2007

 

Secondini pagati, con versamenti sui conti correnti, per consegnare droga ai detenuti in isolamento; minacce aperte ai controllori che cercano di fare il loro dovere; telefoni cellulari a disposizione dei prigionieri. È la vita nel penitenziario di Rye Hill, un carcere gestito dai privati nel Warwickshire e non dallo Stato, raccontata e filmata da un giornalista che per cinque mesi vi ha lavorato come agente penitenziario.

Il reportage - realizzato per il programma Panorama della Bcc e per la Guardian Films - andrà in onda stasera ma le anticipazioni hanno già riacceso la polemica politica. Perché il Governo britannico ha in programma di affidare altri 4.000 "posti carcere" (la metà di quelli di nuova creazione) ai privati, e l’appalto finirà quasi sicuramente alla Global Solution Limited Società, che gestisce Rye Hill.

Rye Hill era già al centro delle cronache. Per la morte di un detenuto che avrebbe dovuto essere sorvegliato a vista in quanto a rischio suicidio: "tragedia evitabile", secondo il giudice che ha assolto quattro guardie carcerarie. E per l’omicidio in cella di un altro detenuto.

L’inchiesta giornalistica è partita da qui. Con un cronista, ex militare e dunque con il profilo adatto per essere scelto come agente penitenziario, mandato all’interno sotto copertura. Quello che ha visto sarà pubblico stasera, ma alcune anticipazioni sono clamorose.

Una su tutte - si legge nell’edizione online del Guardian -, l’offerta che gli è stata fatta dai ras di Ye Hill: consegnare droga ai reclusi del braccio B, quello di massima sicurezza, in cambio di un regolare stipendio di 1.500 sterline accreditato con versamento su conto corrente tramite la Western Union.

Il caso è già scoppiato. Il responsabile comunicazione della Gsl si è difeso, ha provato a contrattaccare (per le modalità dell’inchiesta e perche "gestire una prigione è difficile e complesso più di quanto credo riusciate a immaginare") ma ha ammesso che non tutto funziona come dovrebbe: l’ultima perquisizione nelle celle, scattata dopo una delle denunce del reporter-secondino, ha portato al sequestro di 47 telefonini. cellulari

Stati Uniti: sparatoria all’Università, 32 persone perdono la vita

 

Apcom, 16 aprile 2007

 

Due sparatorie all’interno del campus della università Virginia Tech a Blacksburg, stato della Virginia. Il bilancio, dopo ore di allarme e di panico - l’Università è tuttora isolata ed è impossibile per chiunque lasciare o anche solo muoversi all’interno dello stabile - è di almeno 32 morti e ventuno feriti. Il bilancio è stato confermato durante una conferenza stampa dal capo della polizia locale a cui si sono aggiunti reparti del Fbi. Uno degli uomini è stato arrestato. Uno è stato ucciso. La Virginia Tech, situata in un’area agricola della Virginia, ha oltre 26 mila studenti ed è rinomata per i suoi corsi scientifici.

Le sparatorie - La dinamica dei fatti è ancora molto confusa. La prima sparatoria è avvenuta intorno alle sette e trenta. Un uomo ha cominciato a sparare in uno dei dormitori del glorioso e famoso complesso della Virginia Tech University occupato da circa novecento studenti e tutti del primo anno. I primi testimoni parlano di "un uomo armato in modo pesante che ha cominciato a sparare mentre attraversava la Norris Hall", uno dei complessi dell’università.

Allarme via web - Alle sette e mezzo il campus è già in piena attività. Gli studenti stanno per raggiungere le classi e sono in giro per il complesso. Fondamentale è stato, in quel momento, raggiungere il numero più alto di studenti e raccomandare di non lasciare né stanze né le classi. L’università ha così deciso di dare l’allarme via web facendo lampeggiare l’allerta sui numerosi video sparsi nel campus. Tutte le lezioni sono state cancellate e agli studenti è stato chiesto di restare chiusi nei loro edifici e comunque lontani dalle finestre. Questa prima sparatoria, in base alle prime testimonianze, sarebbe avvenuta nella West Ambler Johnston Hall, un dormitorio per circa novecento studenti che è stato subito circondato dalle auto della polizia e da uomini dei reparti speciali. Le operazioni però sono state ostacolate dal cattivo tempo, vento e neve.

La seconda sparatoria - È quella con il bilancio più pesante. Secondo le prime ricostruzioni l’uomo armato - non è chiaro ancora se aveva un complice e se era un commando di due soggetti - ha raggiunto dopo circa tre ore e nonostante il campus fosse blindato il Dipartimento di ingegneria, la Norris Hall, distante almeno sette minuti a piedi dalla West Ambler. Qui, dicono fonti della Fox, è entrato nelle classi, cercando la fidanzata. In una classe avrebbe messo in fila gli studenti e avrebbe fatto fuoco. Una sorta di esecuzione.

Le altre stragi - Nell’agosto 2006 la Virginia Tech era stata al centro di una caccia all’uomo perché un detenuto evaso da un vicino penitenziario si era rifugiato nel campus dopo aver ucciso due poliziotti. Negli States non è stata mai dimenticata la strage del Columbine, a Denver. E solo qualche mese fa, nel settembre 2006, un sequestratore uccise una ragazza in un liceo, sempre in Colorado.

 

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