Rassegna stampa 18 agosto

 

Giustizia: Mastella; scarcerazioni, la colpa è dei predecessori

di Clemente Mastella (Ministro della Giustizia)

 

Italia Oggi, 18 agosto 2007

 

Sono rimasto davvero sorpreso nel vedere riportati su Italia Oggi, con toni di allarme, gli stessi argomenti da me utilizzati per valutare la crisi del sistema penale, e che ho posto alla base dell’adozione di provvedimenti e iniziative di mia competenza. I dati che vengono riferiti sono infatti gli esiti di uno studio che io stesso ho commissionato ai miei tecnici affinché la conoscenza della verità costituisse il presupposto delle scelte del ministro.

Volevo che fosse chiaro a tutti che, ormai da anni, l’estensione dell’area del penalmente rilevante va ben al di là della capienza dei penitenziari; che il flusso temporaneo di ingresso e uscita dalle carceri non giova alla sicurezza, ma anzi vi nuoce; e che molte sentenze di condanna ad anni di reclusione di fatto rimangono sulla carta, perché in molti casi è possibile utilizzare sanzioni alternative.

Nel corso di un convegno, nel quale io stesso ho svolto la relazione di apertura introducendo le questioni, per mia espressa volontà, sono stati riferiti i dati clamorosi sulla permanenza media in carcere dei detenuti. In quello stesso contesto, a partire da quei dati e per fare fronte a quella situazione critica da noi denunciata, sono state illustrate le proposte di un ministro che ha deciso di non rimanere inerte di fronte alla crisi della giustizia, le cui cause rimontano oramai a decenni e che non possono certo essergli addebitate.

Ho dunque inteso fare la mia parte proponendo la riforma del Codice Penale e di quello di Procedura Penale, dando un nuovo slancio alle sanzioni alternative, impegnandomi affinché la funzione della pena detentiva possa essere espletata fino in fondo, per garantire appieno la sicurezza dei cittadini, assicurando il contenimento stabile dei soggetti pericolosi.

Mi chiedo cosa dovrebbe fare un ministro per evitare critiche pretestuose. Forse rimanere a guardare da fuori la crisi della giustizia; nascondere la verità di una crisi del sistema penale ereditata da altri; costruire nuove carceri per allargarne il flusso dei frequentatori di pochi giorni, e far sì che il nuovo ordinamento giudiziario demotivi ulteriormente chi è chiamato al difficile compito di amministrare giustizia.

Assecondare lo sfascio e scaricare su altri la responsabilità è un sistema che non mi appartiene. La coscienza di un uomo politico, gentile direttore, è tutto ciò che fa la differenza nello svolgimento di un incarico di governo da cui dipende la sicurezza e la qualità della vita di una collettività. E dunque anche se sarà un ruolo scomodo continuerò nel mio impegno per cambiare la giustizia: ben vengano le critiche, se sono costi che si pagano per il bene dei cittadini. Ma un’informazione distorta non credo proprio di meritarla.

Giustizia: 120 giorni è la permanenza media nei penitenziari

 

Italia Oggi, 18 agosto 2007

 

Troppe fattispecie prevedono il carcere come sanzione. Bisogna cambiare. Altrimenti la permanenza breve di migliaia di detenuti in prigioni che diventano "scuole di criminalità" (la definizione viene dal ministero della giustizia) non sarà mai superata. Il ministro Clemente Mastella la ricetta ce l’ha già pronta: da una parte dovranno essere perseguiti solo i reati concretamente offensivi e dall’altra si riserverà la sanzione del carcere solo ai reati più gravi. Questa è anche l’ipotesi di Giuliano Pisapia, cioè del progetto di legge delega messo a punto dalla commissione presieduta dall’ex parlamentare di RC, consegnato al ministro a maggio scorso.

Sì, perché, di certo i dati sulla permanenza media in carcere messi in luce sono incontrovertibili. D’altra parte non lasciano dubbi le stesse parole del direttore generale dei detenuti e del trattamento del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Sebastiano Ardita. "Non vi è chi non veda come una tale situazione di ingresso frequente e di altrettanto rapida dimissione dal carcere sia stata generata dalla crescita esponenziale della tipizzazione dei fatti di reato, cui si è associata negli ultimi anni una esponenziale crescita dei reati commessi. Tale meccanismo di flusso opera dunque come fenomeno endemico del sistema e ha generato nell’arco di un anno un deflusso pari a più di quattro volte quello che si è determinato con l’indulto", dice Ardita.

I dati spiegano che degli 89.500 detenuti entrati nel 2005, 10 mila sono usciti con l’indulto e ben 40 mila per ragioni diverse. E più in generale, spiega la relazione del direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la permanenza in carcere non supera "frequentemente" i 90-120 giorni.

E fa impressione sapere che la permanenza media per gli imputati arrestati per il delitto di rapina amano armata è appena superiore ai 600 giorni, sommando il periodo medio trascorso in custodia cautelare e quello in esecuzione della pena. Così, continua il documento, "in un carcere che per due terzi è fatto di detenuti in attesa di giudizio e che per la restante parte è composto da condannati che trascorrono periodi brevi, non cessa mai l’emergenza: data dal pericolo di perdere la salute, dal pericolo di suicidio, dal pericolo della devianza come conseguenza della detenzione, possibile frutto del contatto con le persone sbagliate".

Per questo potrebbe venire in soccorso il progetto Pisapia, che annuncia una vera e propria rivoluzione del sistema delle sanzioni. Perora la scomparsa dell’ergastolo e poi articola le sanzioni in pecuniarie, prescrittive, interdittive e detentive, lasciando il carcere come ultima ratio. Ora il progetto è stato preso in carico dall’ufficio legislativo del ministero in vista della presentazione in consiglio dei ministri. Resta da augurare al Guardasigilli di riuscire a catalizzare intorno ad esso il necessario consenso parlamentare per portarlo in porto.

Giustizia: un sistema ormai nel caos, che stritola gli innocenti

di Stefania Craxi (Deputato di Forza Italia)

 

Il Giornale, 18 agosto 2007

 

Siamo, ormai, al paradosso sistematico. Da un lato, il magistrato che aveva messo in libertà l’assassino della prima fidanzata, si giustifica con i genitori dell’ultima vittima affermando, in sostanza, che si è obbligati a scarcerare anche questo tipo di individui dalla legislazione ipergarantista. Dall’altro, ci sono magistrati che possono tenere in galera professionisti ed esponenti politici anche per anni, prima ancora che il processo abbia inizio, quando si è in presenza di un rapporto, anche se solo ipotetico, di "intraneità" tra mafia e colletti bianchi o - meglio ancora - tra mafia e politica. Bastano indizi e ricostruzioni apodittiche.

Intraneità fra mafia e politica, dicevamo. È perfino superfluo precisare che, nella stragrande maggioranza, il processo si conclude con l’assoluzione. Ed è altrettanto superfluo ricordare che, nel frattempo, quegli uomini hanno sopportato la durezza del carcere, la gogna mediatica, ogni tipo di mortificazione psicofisica.

La domanda allora è: l’Italia è un Paese garantista o giustizialista? O, forse, il nostro ordinamento è, ormai, talmente confuso e sedimentato da rappresentare un campo dove tutto è affidato all’interpretazione estemporanea di questo o di quell’altro magistrato? Il risultato: escono dal carcere assassini conclamati e vi rimangono persone che, sia pure dopo anni, vengono riconosciute innocenti.

Il problema mette in crisi la nostra civiltà giuridica. Riprendiamo il caso di Giovanni Mercadante, deputato regionale siciliano, in carcere da quattordici mesi perché considerato "intraneo" a Cosa Nostra, praticamente in ragione della sua parentela con un boss locale. A partire da questa pregiudiziale parentela, ogni atto della sua vita privata, delle sue attività di primario ospedaliero e di uomo politico sono state sottoposte al vaglio degli inquirenti; ogni inevitabile e casuale rapporto con persone sospettabili è diventato "grave indizio"; ogni presa di posizione è stata valutata in funzione del pregiudizio iniziale.

È giusto riconoscere la sensibilità dimostrata dal Tribunale di Palermo che, accertatene ufficialmente le gravi condizioni di salute, ha deciso che Mercadante venisse trasferito agli arresti ospedalieri. A Roma, però. E pur se in forma molto più lieve, sempre di detenzione si tratta.

La Corte Suprema si è già pronunziata contro il suo arresto otto mesi or sono, pur rinviando la decisione sulla sua scarcerazione al Tribunale della Libertà di Palermo. In presenza di tutto quanto esposto, il Tribunale della Libertà continua a ritenere Mercadante soggetto intraneo.

Esempio tipico che evidenzia la schizofrenia di un sistema giudiziario in balia delle sue contraddizioni. Senza contare quello che costa ai contribuenti. La riformetta Mastella non basterà di certo a mettere le cose a posto. Sono convinta che l’argomento principale del dopo-Prodi sia proprio quello di un grande ripensamento del funzionamento del nostro sistema giudiziario.

Da un lato troppe vittime innocenti ed una magistratura invadente oltre ogni limite che un sistema democratico può consentire; dall’altro, troppo disinteresse rispetto a tutti i casi giudiziari che non fanno guadagnare audience; nel mezzo la Magistratura onesta e laboriosa, destinata a sopportare la confusione e l’incertezza del Diritto. L’Italia merita una "Giustizia giusta" e non il paradosso e la contraddizione.

Giustizia: ‘ndrangheta senza confini, lo Stato deve distruggerla

 

La Repubblica, 18 agosto 2007

 

Dice Marco Minniti che non bisogna farsi ingannare dalla povertà di quei paesi, San Luca, Platì, Africo. In quel triangolo di Aspromonte, la povertà quasi la ostentano, se ne ammantano, te la mostrano come se fosse una virtù che dovrebbe dare a intendere vite frugali, pane faticato, costumi controllati e non corrotti dall’Assoluto Denaro. È fumo negli occhi e non deve accecare. La realtà di quella Calabria e della ‘ndrangheta è un’altra.

Il viceministro - ha la delega per le polizie e il servizio segreto civile - racconta un episodio saltato fuori in una delle tante indagini con intercettazioni, cimici ambientali e tutto quanto. Una ‘ndrina ha un po’ di denaro da sistemare al sicuro.

Il bottino è cash, come sempre. Cinque milioni di euro. Chi riceve l’incarico decide di nascondere il malloppo nell’intercapedine di un muro. Il muro è umido come in una cantina. In poche settimane, la muffa "mangia" il denaro. Il ragazzo è in imbarazzo. Deve dire del pasticcio al capobastone e, se quello pensa che il denaro se l’è sgraffignato, magari gli spara all’istante. Il ragazzo ha paura.

Dice quel che deve dire, in fretta e angosciato. Si sente rispondere - e la cimice registra - "Figlio, non ti preoccupare. I soldi, come se ne sono andati, così ritorneranno...". L’affare con cui prosperano le ‘ndrine - il traffico della droga lungo le rotte colombiane e nigeriane - ha un moltiplicatore economico di 1 a 50. Nessun confronto con i profitti possibili con il commercio dell’oro, del petrolio, dell’uranio.

"Voglio dire - continua Minniti - che per comprendere la ‘ndrangheta bisogna accertarne i paradossi, non farsene confondere. I luoghi sono poveri o poverissimi; le famiglie che li abitano ricche o molto ricche o straordinariamente ricche. Vivono protette, quasi rinserrate nei legami di sangue, in un familismo inviolabile e autoreferenziale che sembra escluderle dal mondo e sono capaci di avere con il mondo le frenetiche e molteplici relazioni di una grande multinazionale. Appaiono soffocate in un spazio ristretto come i pirati sull’isola di Tortuga, ma proprio come quei pirati sanno solcare mari sconosciuti, incutere timore perché per loro la violenza è un’abitudine e la sopraffazione è una regola di vita.

L’arretratezza culturale e quell’asfissia familistica le rende protette, invulnerabili. Chi tradirebbe il padre o il fratello? Quel vincolo di sangue custodisce e nasconde, a petto di chiunque, i segreti di famiglia, le relazioni, le mire, la ricchezza; costituisce la prima risorsa per affrontare e umiliare le ambizioni degli altri, costi quel che costi anche spararsi addosso per una decina d’anni".

La terra e il sangue. Sostiene Minniti che sono i due fili da non smarrire mai se si vuole sbrogliare la matassa della ‘ndrangheta. Sulla terra che abitano pretendono di avere la sovranità. Il "pizzo" che impongono al commercio e all’impresa, la subordinazione che esigono dalle amministrazioni pubbliche, il controllo di ogni transazione legale o illegale non arricchisce, non ne hanno bisogno: devono dimostrare che solo il loro potere - e non quello statuale - può essere autorizzativo.

L’indistruttibile legame di famiglia, il sangue, è lo strumento e la forza visibile di quella pretesa. Non lo si può tagliare di netto, mai, nemmeno a volerlo. Giuseppe Sculli, il nipote di Giuseppe Morabito di Africo ‘u tiradirittu, era una promessa del calcio italiano. Nazionale dell’Under 21, cartellino della Juve. Avrebbe potuto andare lontano, per la sua strada. Ogni estate, tutto il tempo ad Africo invece e ad Africo - con le cimici che registrano - consiglia candidati al Comune; minaccia; "mette ordine" nelle discoteche. Il sangue non scolora e imprigiona con i suoi obblighi.

"È vero, dice Minniti, che non possiamo sorprenderci della strage di Duisburg, e io non se sono sorpreso infatti. Sono sorpreso della sorpresa dei nostri partner europei, le dico la verità. Mi spiego meglio. Se a Ferragosto, faccio per dire, ci fossimo trovati a Como con sei rumeni finiti con il colpo alla nuca, noi non avremmo detto: cara Romania, è un problema tuo! Ci saremmo chiesti che cosa non funziona da noi; quali sono i buchi nella rete; quali i controlli inefficienti; quali i sensori inattivi.

Lo avremmo sentito un problema nostro. Mettiamola così, perché non voglio creare polemiche, non siamo riusciti a rendere consapevoli i Paesi europei dell’infezione e, dal suo canto, l’Europa fino a quando ha incassato investimenti "puliti" delle mafie italiane si è illusa che, al denaro che non ha odore, non debba necessariamente seguire una crisi della sicurezza pubblica, come accade oggi nella Ruhr e come può accadere presto in Costa Azzurra, nel Regno Unito, in Belgio, in Olanda dove da tempo affluiscono i capitali delle nostre mafie.

Nessuno in Europa può sorprendersi perché siamo vigili e li abbiamo resi vigili. Ripeto, già nel 2001, con il nome in codice Lukas, i carabinieri del Ros compilarono con la collaborazione del Bka una mappa degli investimenti calabresi in Germania. In quella mappa, c’era anche, per dire, il ristorante "da Bruno" che è stato il teatro della strage.

Un luogo non neutro, come confido che presto dimostreranno le indagini. L’ordinamento legislativo tedesco ha impedito il prosieguo di indagini efficaci e preventive. Ora nutro la speranza che quanto è accaduto a Ferragosto possa inaugurare una nuova stagione, magari più consapevole che la minaccia mafiosa la patisce non solo il Paese che l’esporta, ma l’incuba anche chi la importa, magari qualche volta cedendo alla tentazione di chiudere gli occhi perché, si sa, pecunia non olet.

Icasticamente Duisburg ci dice che il movente, i mandanti, le vittime e gli esecutori possono essere in un angolo d’Europa e il delitto a migliaia di chilometri. Credo che si debba cogliere l’occasione di quest’indagine per inaugurare una nuova stagione del contrasto ai reati transnazionali che vedano al lavoro squadre investigative comuni e una più stretta collaborazione delle magistrature".

Anche Minniti ha le sue tentazioni, naturalmente. Sostiene che il governo fa quel che deve e può. Anzi, dice che mai nessun governo ha dato una così costante continuità al lavoro di prevenzione e repressione. Quel che il governo ha in animo di fare ora ha già un programma. Tenere sotto pressione le ‘ndrine per convincere che lo scontro tra i Vottari-Pelle e gli Strangio-Nirta è un gran cattivo affare per tutti, nella speranza che le cosche maggiori o abbandonino le ‘ndrine combattenti al loro disgraziato destino o le convincano a deporre le armi e a fare la pace, come è già accaduto in passato.

Non esclude, Minniti, che possa scoppiare una nuova guerra. È il suo timore maggiore. Troppo spregiudicati ed efficienti si sono dimostrati gli Strangio con "il colpo" di Duisburg. Curicarono il nemico, lo "coricarono", lo stesero con un’azione impensata. Ne avranno un prestigio e un potere che può persuadere le famiglie più influenti, i Morabito di Africo, i Barbaro di Platì, se richiesti, a dare una mano ai Vottari in difficoltà. Si conterebbero morti a decine, in Italia e forse fuori dell’Italia.

"Non voglio però nascondermi dietro un dito - dice Minniti - quel che facciamo non può bastare. C’è una sfida che non è ancora sufficiente. La sfida della sovranità. Lo Stato deve poter capovolgere in quelle terre la convinzione diffusa che le sue funzioni di decisione, amministrazione, fiscali, distributive, repressive, di composizione delle controversie - penso alla giustizia civile - siano sott’ordinate al potere della ‘ndrangheta.

Vogliamo ribadire costantemente, giorno dopo giorno, che quel potere appartiene in maniera esclusiva allo Stato. Dobbiamo avere l’ambizione pubblica di voler distruggere la ‘ndrangheta. Lo so che il programma è imponente, ma soltanto dandoci quest’obiettivo possiamo evitare gli equivoci e i danni che ha prodotto in passato la cultura e la strategia dell’emergenza: a un picco di violenza mafiosa, lo Stato replica con un picco di repressione. Questo metodo induce a credere che fino a quando, senza colpi di testa, senza rumore, la mafia coltiva il suo orto non sarà disturbata dallo Stato.

Il messaggio finisce per rafforzare la mafia; ne enfatizza il potere; sottostima la capacità dei poteri legittimi; deprime i tanti cittadini onesti. Che speranza possono coltivare se anche lo Stato, in fin dei conti, si acconcia a un’indecente convivenza con quella gente? Noi dobbiamo poter dire che non lavoriamo per un quieto vivere che finisce per minacciare alla radice la stessa democrazia, che non ci accontenteremo di pareggiare, che vogliamo la vittoria piena. Non soltanto il governo, ma tutta intera la politica italiana dovrebbe assumere questo pubblico impegno".

Firenze: per l’evasione indagati 6 agenti polizia penitenziaria

 

Nove da Firenze, 18 agosto 2007

 

È caccia all’uomo in provincia di Firenze nei dintorni dell’A1, pur in assenza di ulteriori segnalazioni sulla sua presenza nelle aree vicine al luogo della fuga. Ancora senza esito le ricerche del Detenuto albanese per duplice omicidio evaso durante una sosta dell’ambulanza che lo stava trasferendo dal carcere di Livorno a quello di Carinola (Caserta). Sono stati iscritti sul registro degli indagati per evasione colposa i sei agenti di polizia penitenziaria che, martedì mattina, scortavano il pericoloso 34enne Ilir Paja.

Il sen. Achille Totaro, e Alleanza Nazionale, esprimono tutta la loro solidarietà, immutata stima e gratitudine agli appartenenti alla Polizia Penitenziaria: "Agli uomini e alle donne appartenenti alla Polizia Penitenziaria - ha affermato il sen. Totaro in una nota - va la nostra incondizionata fiducia per il lavoro che quotidianamente svolgono al servizio dello Stato e a tutela dei cittadini, lavoro che, purtroppo, molto spesso non viene adeguatamente apprezzato; il nostro profondo rispetto e la nostra gratitudine va, in particolar modo, in questo caso, agli appartenenti del reparto nucleo traduzioni della Polizia Penitenziaria che adempiono ai loro compiti collocandosi in prima linea, svolgendo il loro operato in maniera degna di encomio, facendo ogni giorno migliaia di traduzioni, scortando i detenuti in permessi premio nel massimo della sicurezza e svolgendo il tutto in maniera impeccabile".

"Tra l’altro, se c’è da individuare un responsabile per quanto successo, non è certo tra gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria ma in altri apparati dello Stato".

"Purtroppo un fatto come quello verificatosi l’altro giorno con la fuga del detenuto albanese, non dovrebbe verificarsi: ma sfortunatamente è successo e mi auguro vivamente che l’evaso possa essere al più presto fermato dalle Forze dell’Ordine impegnate nell’operazione di ricerca". "Tuttavia agli uomini e alle donne che ogni giorno svolgono un lavoro del genere va tutto il nostro incondizionato sostegno e la nostra profonda gratitudine, dal momento che un episodio del genere, in ogni caso da considerarsi isolato, non può in alcun modo mettere in discussione la loro professionalità".

Droghe: Russo Spena (Rc); anche a Roma i soldi sporchi girano

 

Correre della Sera, 18 agosto 2007

 

"Quello che dice Rita Bernardini è verosimile". Giovanni Russo Spena, capogruppo dei senatori di Rifondazione comunista, è uno dei pochi esponenti politici a difendere l’esternazione della segretaria dei Radicali italiani sull’allarme camorra nel centro di Roma.

 

Condivide anche l’accenno alla lingua napoletana come indizio di camorra?

"Naturalmente ho. È una sciocchezza di cui non varrebbe neanche la pena di parlare".

 

E allora?

"E allora credo che sia sbagliato liquidare l’allarme della Bernardini soffermandosi soltanto su una battuta di dubbio gusto. Andiamo alla sostanza di quello che ha detto".

 

Cioè? Cosa condivide del suo allarme?

"Il fatto che ci sia una netta sottovalutazione di un fenomeno criminale che nelle città è in forte crescita".

 

Sottovalutazione da parte di chi? Della Procura?

"No, credo che siano in corso numerose inchieste in questo settore. Però vanno fatte funzionare meglio le leggi che permettono di controllare quanto avviene nelle maggiori metropoli".

 

Ma c’è un problema specifico a Roma?

"C’è in tutti i centri storici italiani delle grandi metropoli. Le mafie tendono a ripulire i soldi sporchi e non hanno problemi di contanti: pagano sull’unghia e rilevano vecchi esercizi, in alcuni casi anche importanti, ristrutturandoli e trasformandoli in esercizi di lusso".

 

Negozi e ristoranti?

"Basta guardare quanti negozi elegantissimi di abbigliamento non vedono mai un cliente. Come fanno a sopravvivere?".

 

Come fanno?

"Con i soldi delle mafie. Ci sono indizi chiari di queste attività nei dossier della Guardia di finanza e della Commissione antimafia, di cui ero membro nella scorsa legislatura".

 

Quindi è possibile che la camorra abbia messo le mani anche su bar e ristoranti del centro storico di Roma?

"È verosimile. Certo, non dobbiamo mica metterci a fare la caccia ai pizzaioli o sparare nel mucchio. Ogni accusa va verificata con gli strumenti di cui disponiamo".

 

Sono sufficienti questi strumenti?

"Certo. Abbiamo le leggi anti-riciclaggio più avanzate d’Europa. Dobbiamo studiare a fondo i meccanismi coni quali l’economia legale si intreccia con quella illegale. E allora si scoprirà che molti di questi esercizi sono soltanto una copertura per riciclare soldi guadagnati con l’usura e con l’estorsione".

 

 

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