Rassegna stampa 7 settembre

 

Giustizia: Mastella e la Iervolino ai ferri corti sull’indulto

 

Il Mattino, 7 settembre 2006

 

Ministro e sindaco contro, Clemente Mastella e Rosa Russo Iervolino rischiano di aprire una crisi nel centrosinistra. Al centro della questione, l’indulto che non piace alla Iervolino al punto da individuarlo come possibile epicentro della recrudescenza criminale di questi giorni.

E con il ministro che chiede le dimissioni del primo cittadino e che dati alla mano dimostra - dal suo punto di vista - come il provvedimento non abbia inciso né sulla qualità criminale né sulla quantità degli episodi. A Napoli - fanno sapere dal ministero - nel periodo 31 luglio-30 agosto del 2005 ci sono stati 4625 furti; nello stesso periodo, cioè dopo l’indulto, 4384 con un decremento del 5,84 per cento. Le rapine nel 2005 sono state 742; nel 2006, 743.

 

Allora, ministro, come stanno le cose?

"Sono sconcertanti le dichiarazioni della Iervolino: perché se io fossi ipocrita direi che l’indulto è un atto parlamentare e quindi di tutti. Ma poiché non sono ipocrita, mi prendo la mia parte di responsabilità. Se non le piaceva l’indulto perché non ha parlato prima? La verità è che lei fa facile populismo".

 

Che cosa significa?

"Chi conosce la realtà delle carte, sa che quello era un atto dovuto costituzionalmente. Un atto di comprensione umana di un fenomeno che era stato sentito da Giovanni Paolo II. Non è sfuggito alla Iervolino che fra i primi atti del cardinale di Napoli Crescenzio Sepe c’è stato quello della visita alle carceri di Napoli".

 

D’accordo, resta il fatto che sindaco e ministro della Giustizia parlano lingue diverse.

"Io mi sarei comportato in maniera diversa. Avrei detto: che cosa dobbiamo fare d’intesa con il governo? Invece, la cosa incredibile è che la Iervolino accusa me, ma per che cosa? Dimentica che a Napoli sono accaduti fatti drammatici prima dell’indulto, come l’assassinio di Ernesto Albanese o quello di Silvia Ruotolo".

 

Ma l’indulto c’entra o no rispetto a quello che accade in queste ore?

"Se fossimo in una città esemplare per tranquillità avrei detto di sì. Ma qui c’è la faida di Secondigliano, gli scippi c’erano prima e dopo l’indulto. Francamente le parole della Iervolino mi sembrano da irresponsabile. Una come lei a questo punto si dimettesse da sindaco di Napoli se non è in grado di fare il suo lavoro. È stata corretta la Moratti che ha chiamato me, ha chiamato il ministro dell’Interno Giuliano Amato per capire cosa fare. Questo è senso di responsabilità".

 

Non tocca ai Comuni la sicurezza pubblica.

"Il sindaco allora si appelli alle forze di polizia. Potrebbe anche darsi che qualcuno di questi avvenimenti sia dovuto a qualcuno che ha beneficiato del provvedimento ma nulla toglie al mio ragionamento".

 

Resta il fatto che a Napoli la gente percepisce l’indulto come fattore che ha appesantito la situazione criminale in città.

"I dati in mio possesso dicono altro, almeno per ora".

 

Napoli ha bisogno di un piano sicurezza?

"Io non prometto nulla, la Iervolino ha chiesto i poteri speciali per il traffico sono pronto a darle anche quelli di polizia".

 

Che fa provoca?

"No, faccio sul serio, così vediamo alla fine di chi sono le responsabilità. Contro di me c’è stata una istigazione a delinquere, una cosa che non avrei mai immaginato né pensato fra persone della stessa coalizione che si sono aiutate fino a pochi gironi fa. Forse aveva ragione Prodi a non fidarsi".

Napoli: il sindaco Iervolino; la legge sull’indulto non l’ho fatta io

 

Il Mattino, 7 settembre 2006

 

Un lungo applauso accoglie l’ingresso della bara di Salvatore Buglione, l’uomo di 51 anni ucciso con una coltellata a Napoli durante un tentativo di rapina nell’edicola dove aiutava la moglie, in via Pietro Castellino, nella zona collinare di Napoli.

Almeno un migliaio di persone, parenti, amici, colleghi, ma anche tanti cittadini comuni, affollano la chiesa di Santa Maria Antesaecula, che dista poche centinaia di metri dal luogo dell’efferato delitto. Un intero quartiere si è stretto intorno ai famigliari di Buglione, alla moglie Antonella, ai figli Anna e Stefano, all’anziana madre ai fratelli.

Nell’attesa del feretro - i funerali erano stati fissati per le 13 ma sono cominciati con circa 40 minuti di ritardo - è un continuo interrogarsi sull’accaduto. "È una continua strage di innocenti - dice una signora, cliente abituale dell’edicola - non è possibile che si debba morire così per mano di balordi che poi alla fine non vengono nemmeno puniti. Guardate l’indulto, guardate gli effetti che ha provocato. La morte di Salvatore ne è un esempio".

La gente chiede sicurezza, maggiori controlli, una più evidente presenza delle forze dell’ordine perché "morire così non è giusto". A dare l’ultimo saluto a Sasà, come lo chiamavano gli amici, c’è il sindaco Rosa Russo Iervolino, accompagnata da alcuni assessori - Nasti, Gambale, Terracciano, Di Mezza, il presidente del consiglio comunale Leonardo Impegno ed il suo predecessore Giovanni Squame - e tanti dipendenti comunali, perché Salvatore Buglione era impiegato nell’ufficio Patrimonio e Logistica.

Quando giunge sul sagrato, qualcuno chiede al sindaco più presenza di polizia nelle strade, altri maggiore impegno in un crescendo di grida. Secca la risposta della Iervolino: "La legge sull’indulto non l’ho fatta io" dice prima di abbracciare la figlia di Buglione, Anna, che l’accoglie sul sagrato. Le due donne si abbracciano, Iervolino sussurra frasi di conforto alla giovane e poi dice "faremo qualcosa per questa famiglia, certo che faremo qualcosa".

Ad officiare il funerale è padre Raffaele, parroco della chiesa di S. Maria di Costantinopoli, ma a benedire il feretro giunge l’arcivescovo di Napoli, card. Crescenzio Sepe che rivolge un invito a non arrendersi mai. "A Sasà - ha detto il cardinale - chiedo di insegnarci a non arrenderci mai".

Sepe ha poi auspicato "che il seme che questo sangue può far germogliare" possa portare a Napoli "nuova speranza" ed ha ribadito l’impegno della Chiesa a che "queste morti assurde non si ripetano". Infine l’appello agli assassini: "Pentitevi, uscite dalla strada della morte". Per venerdì sera, alle 19.30 è fissata una fiaccolata organizzata dall’Associazione Pietro Castellino. L’appuntamento è dinanzi all’edicola di Buglione.

Napoli: il Cardinal Sepe; continuare e credere nella giustizia

 

Ansa, 7 settembre 2006

 

Può un provvedimento come l’indulto produrre effetti negativi in una città come Napoli già alle prese con una microcriminalità agguerrita? A questa domanda l’arcivescovo di Napoli, cardinale Sepe, a margine dei funerali di Salvatore Buglione, l’edicolante napoletano 51enne ucciso per rapina lunedì sera risponde così: "quel che posso dire è che dobbiamo far sì che tutte le forze, dalle prime alle ultime, lavorino per questo bene comune che è il bene di tutti.

Allora tutto ciò che contribuisce a realizzare un bene che è per la popolazione dobbiamo farlo, mentre tutto ciò che non è bene abbiamo il dovere religioso, morale e civico di non farlo". E a chi gli chiede se la città può continuare a credere nella giustizia degli uomini risponde: "È il mio auspicio. Certamente la giustizia degli uomini deve servire affinchè giustizia sia fatta e perché ognuno si senta rassicurato da una giustizia che possa anche fortificare nella volontà di fare il bene".

Giustizia: Mura (Idv); recidivi dimostrano fallimento dell'indulto

 

Apcom, 7 settembre 2006

 

"L’indulto non è di tutti come dice il Ministro Mastella, ma solo di chi lo ha votato". Lo afferma Silvana Mura, deputata dell’Italia dei Valori. "È legge - spiega infatti la parlamentare - perché il Parlamento lo ha approvato, ma le responsabilità politiche sono di quei partiti che lo hanno voluto in questa forma. Non si parli di un atto di clemenza dovuto alla carità cristiana che, come tale, doveva aiutare i deboli ma che è stato utilizzato anche per favorire chi si è macchiato di reati finanziari". "Come avevamo anticipato - prosegue la nota - il fallimento di una simile misura è testimoniato dal grande numero di detenuti usciti grazie all’indulto e che sono già tornati a delinquere. Provvedimenti come questo danno un duro colpo alla cultura della legalità e favoriscono l’aumento della delinquenza eliminando nell’immaginario collettivo la certezza della pena. La Iervolino ha ragione - conclude Mura - perché è sotto gli occhi di tutti la recrudescenza criminale in atto in questi giorni non solo a Napoli ma in tutta Italia".

Umbria: misure urgenti per la grave situazione dei penitenziari

 

Spoleto on-line, 7 settembre 2006

 

Dopo la rocambolesca evasione di un pericoloso detenuto albanese, vicenda che ha riproposto la drammatica situazione dei penitenziari dell’Umbria, il parlamentare dell’Ulivo, Gianpiero Bocci, con una interrogazione al Governo trasferisce all’attenzione del Parlamento la grave emergenza umbra chiedendo di conoscere quali provvedimenti il Ministro competente intende adottare e quali strumenti e mezzi intende attivare: per l’adeguamento degli organici; per l’attuazione della Legge (c.d. Meduri) per la dirigenza penitenziaria con gli adempimenti previsti in materia di personale.

La grave situazione, afferma il Deputato dell’Ulivo, più volte denunciata dalle organizzazioni sindacali al Ministero della Giustizia e all’Amministrazione Penitenziaria, è al collasso. I motivi risiedono in una ragione comune al sistema penitenziario italiano, caratterizzato dall’insostenibile affollamento dei detenuti, in progressivo aumento dopo l’entrata in vigore della c.d. Legge Cirielli approvata dal Precedente Governo.

Le gravi ricadute di questa legge sul sistema penitenziario, ricorda Bocci, erano state ampiamente previste e denunciate, ma questo non ha impedito al Governo di insistere per le "note ragioni". Oggi rimangono i perversi effetti del provvedimento e la necessità di porvi rimedio. Connessa a questa ragione, spiega l’interrogante, è il problema endemico, delle carenze di personale in ogni comparto con la conseguente esigenza di integrazione degli organici (sia della polizia penitenziaria che del comparto ministeri) "il sovraffollamento e lo stato di degrado in cui versano le carceri italiane rende problematica ogni forma di convivenza sia per i detenuti, sia per chi lavora all’interno della struttura, che vede compromessa la fruizione dei propri diritti assicurata dai contratti collettivi (la mobilità di sede, la mobilità verso altre amministrazioni, le norme sulla famiglia, ecc.). Accanto a questi problemi comuni Bocci evidenzia quelli specifici dei penitenziari umbri (Perugia, Terni, Spoleto, Orvieto).

Ben prima del fattaccio dell’evasione, aggiunge il parlamentare dell’Ulivo, le organizzazioni sindacali avevano cercato di richiamare l’attenzione delle autorità competenti e dell’opinione pubblica sui gravi problemi che avrebbe creato l’apertura dell’Istituto (di Capanne) prima del suo completamento sia strutturale (l’inaugurazione da parte del Ministro Castelli è avvenuta in tutta fretta con i lavori incompleti anche sui sistemi di sicurezza elettronici antiscavalcamento ancora non funzionanti), sia di organico.

In proposito à stata rimarcata la insensata quanto ostinata decisione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di tenere in attività il centro clinico presso la vecchia struttura carceraria di Piazza Partigiani a Perugia. La carenza di personale, per Bocci, rende allo stato assolutamente improponibile l’ipotesi di apertura di ulteriori spazi detentivi quali quelli che si prefigurano per Capanne e per la C.R. di Spoleto (200 detenuti) dove sono stati quasi completati i lavori di ristrutturazione. La stessa carenza di personale, conclude Bocci, è denunciata per il carcere di Terni in una situazione di particolare attenzione anche per la presenza in questo istituto carcerario di detenuti del calibro di Provenzano.

Giustizia: studiamo delle pene che permettano di maturare

 

Giornale di Brescia, 7 settembre 2006

 

Caro direttore, le scrivo dopo avere letto la sua rubrica di venerdì 11 agosto, nella quale hanno trovato spazio due lettere molto interessanti, che mi riguardano direttamente ed a cui vorrei collegarmi con un’umile riflessione. La prima, scritta dal signor Franchini, dà il via ad una valutazione sul delicato tema dell’indulto, criticandolo apertamente per una serie di disquisizioni che non condivido pienamente (pur rispettando l’opinione di chi le ha espresse) essendo, a mio modesto parere, un po’ troppo superficiali e scontate.

La seconda, scritta dal signor Sgarro, valuta, con molta sensibilità ed intelligenza, alcune vicende "disgraziate" che hanno coinvolto giovani ragazzi avanzando preoccupazioni legittime e ponendosi oltretutto delle doverose domande sul futuro della nostra gioventù e, di conseguenza, sull’avvenire della nostra stessa società. Devo ammettere che io per primo, nonostante sia stato recentemente in carcere (fortunatamente per pochi giorni) ed abbia provato sulla mia pelle le difficili condizioni di vita a cui sono sottoposti i detenuti ormai da tanti, troppi anni, non mi trovo completamente d’accordo con questa sorta d’atto di "clemenza" che, mi è sembrato, sia stato votato da alcuni politici per interessi meramente personali e, da tutti gli altri, per far tacere la propria coscienza riguardo le evidenti mancanze presenti nell’intero sistema politico-giudiziario italiano.

Un sistema quasi sempre zelante con i più deboli e molto spesso remissivo coi potenti. Un sistema portato nel tempo al collasso ed al limite di una pericolosa crisi nervosa da scelte politiche azzardate ed insensibili (basti pensare come sono affrontati e trattati certi contesti sociali che meriterebbero un po’ d’approfondimento, di rispetto e di saggezza in più).

Un sistema sempre più oppressivo ed "efficiente" che purtroppo però non ha mai previsto valide pene alternative e, soprattutto, riabilitative (e quando anch’esse siano state avvertite, spesso sono rimaste un penoso "fardello" sulle spalle di pochi volontari che agiscono in modo esemplare ma fra l’indifferenza generale). Un sistema insicuro, in una società contorta ed alienante che confonde i nostri figli e li porta ad agire fuori della ragione.

Essendo a contatto diretto con ragazzi anche molto giovani, più di una volta ho notato in loro la necessità d’esempi palpabili e coerenti che incarnino le passioni ed i sogni tipici degli adolescenti. Passioni e speranze che, tuttavia, sempre più spesso sono deluse, deviate o, peggio ancora, troncate sul nascere, anziché essere incentivate ed incanalate nella giusta direzione. Una situazione paradossale come questa non può, alla fine, che provocare pericolosi vuoti di valori e di principi dall’effetto imprevedibile alimentando, nello stesso tempo, modelli di vita fantastici ed affascinanti, ma per lo più irraggiungibili (almeno conducendo una vita limpida ed onesta).

Certo la scuola, la famiglia, l’oratorio, le associazioni di volontariato, le attività fisiche non prettamente agonistiche, etc. sono contesti importanti e forse essenziali per trovare il giusto equilibrio; ma al giorno d’oggi non sono più sufficienti per contenere le svariate esigenze fisiche e morali (spesso legittime) dei nostri figli. Per questo molti di loro cercano ciò di cui hanno bisogno in luoghi apparentemente cupi o stoltamente dissacrati (per esempio la Curva di uno stadio).

E spesso, fortunatamente, lo trovano anche (peccato però che esista un sistema capzioso che tenda a reprimere ogni realtà anticonformista e sincera, con i risultati che tutti possono vedere), e questo succede perché, ovviamente, certi "territori maledetti" sono, al contrario di quanto si narra e pur non essendo perfetti, contenitori inesauribili di valori e sentimenti quali amicizia, rispetto, lealtà, solidarietà, passione, amore.

Quando un ragazzino commette un’azione aberrante (ed oggi purtroppo accade sempre più frequentemente), anziché sparare giudizi affrettati e crude sentenze, noi tutti dovremmo sentirci coinvolti e responsabili, proprio come scrive l’autore della seconda lettera da me citata, il signor Michele Sgarro, e come lui porci alcune fondamentali domande. Da sempre sono convinto che più di pene esemplari o di facile lassismo, la nostra società abbia (appunto!) la necessità di nuovi validi esempi (che già esistono, basta avere il coraggio di scoprirli ascoltando magari i nostri figli che, diversamente da ciò che pensiamo, sono molto dotati e sensibili) ed abbia il dovere di farsi una seria e sincera autocritica, attuando finalmente una serie d’azioni trasparenti volte a prevenire (non solo ed unicamente a reprimere!) certe situazioni "imbarazzanti" e devastanti che, in un modo o nell’altro, colpiscono tutti.

E questo avendo il coraggio simultaneamente di confrontarsi anche con quelle realtà considerate, per ignoranza o per pigrizia mentale, scomode e socialmente pericolose. Realtà che, come ho già detto, più facilmente sono foriere di modelli positivi e comunicanti, capaci alle volte di sorprendere anche i più refrattari. Solo dopo un attento ed opportuno esame di coscienza si potranno eventualmente attuare le "giuste punizioni".

Ma dovrebbero essere comunque sanzioni che permettano una reale maturazione ed una crescita responsabile, che accertino un sincero pentimento, che educhino, senza tanti moralismi ed ipocrisie, ad una vita più semplice ed onesta che segua regole comuni, che autorizzino un dignitoso reinserimento a chi ha sbagliato veramente e magari per la prima volta, che trattino con imparzialità ed attenzione anche le situazioni più marginali. In poche parole, sto parlando di "soggiorni obbligati" che non facciano patire solamente umiliazioni e situazioni discriminanti, creando un’ulteriore fossato fra mondi diversi (ma non troppo distanti), fra buoni e cattivi, fra santi e dannati, bensì che offrano una speranza anche a chi, magari, non ha mai avuto le giuste occasioni o le necessarie protezioni.

Eh sì, perché, caro signor Franchini, nel nostro Paese capita sempre più frequentemente che in galera ci vadano poveri disgraziati, onesti lavoratori padri di famiglia ed anche sfortunati innocenti, mentre i soliti… noti potenti la facciano costantemente franca. Inoltre, vorrei che si capisse in modo definitivo che chi abbandona i cani non è necessariamente un delinquente abituale, bensì, quasi sempre, una persona viziata, egoista ed insensibile (in carcere ho conosciuto solo persone che mi hanno dimostrato una dignità, una generosità e, soprattutto, una solidarietà fuori del comune). Fra l’altro, caro signor Franchini, io stesso ho adottato un cucciolo che era stato abbandonato con l’intera famiglia ai bordi di un’autostrada (per questo, sia chiaro, non voglio una medaglia). Tornando all’indulto, credo che se anche dovesse riuscire ad alleggerire momentaneamente le strutture carcerarie italiane, non possa di fatto risolvere i difetti endemici della nostra società.

Una società, quella in cui viviamo, a volte troppo intransigente, qualunquista e sempre più approssimativa. Una società abilissima a reprimere ma incapace ad educare. Una società famosa ormai per i due pesi e le due misure. Una società che considera ormai solo i ricchi ed i furbi, trasformandoli spesso in eroi.

Una società talmente insensibile da ignorare situazioni di degrado e di stato d’abbandono come quelle delle carceri italiane (non conosco altri termini per definire una piccola cella vissuta contemporaneamente ed ininterrottamente da una ventina di persone magari di cultura, etnia e mentalità completamente opposte!). Lo ripeto, non servirà a molto quest’indulto a meno che, ovviamente, a questa coraggiosa scelta non ne segua una ancor più temeraria.

Quella, in altre parole, di riformare profondamente il sistema giudiziario e carcerario "adattandolo" alle nuove e crescenti esigenze sociali (e questo non significa immunità o privilegi di sorta, dei quali godono al contrario alcune illustri autorità, le stesse persone che predicano la famosa tolleranza zero per poi eluderla sfacciatamente). Per ultimo, egregio direttore, mi permetta quindi un appello sentito e dovuto. Che si ritorni cioè ad occuparsi dei contesti giovanili in modo più significativo, sincero e disinteressato, allo scopo di realizzare validi spazi alternativi e creativi, sostenendoli moralmente evitando magari squallide speculazioni su di essi.

 

Diego Piccinelli

Immigrazione: multiculturali non si nasce

di Luigi Manconi e Andrea Boraschi

 

L’Unità, 7 settembre 2006

 

Alcuni recenti - e atroci - vicende di cronaca (innanzitutto, l’assassinio della giovane donna pakistana da parte del padre) pongono dilemmi etico-giuridici assai ardui: e incrociano una discussione certamente non nuova e non solo italiana. Aiutano, in questa discussione, le pagine culturali del Corriere della Sera, che in questi giorni vanno dedicando ampio spazio a una riflessione a più voci sul "multiculturalismo".

Giovedì scorso, un articolo di Ian Buruma discuteva dei limiti alla libertà di parola che possono derivare dalle forme di organizzazione della rappresentanza dei diversi gruppi etnici e dalla "istituzionalizzazione" delle rispettive identità: "Uno dei grandi poteri di cui si sono impadronite le organizzazioni delle varie comunità (...) è il potere sull’uso del linguaggio. Esse stabiliscono i termini in cui le loro comunità possono essere discusse dagli altri".

L’autore suggerisce, in altri termini, che talune forme di riconoscimento e di "formalizzazione" di corpi sociali distinti su base etnica o religiosa (o più genericamente culturale) possono limitare la libertà d’espressione - dunque il dibattito pubblico - qualora le identità di questi gruppi si sclerotizzino in atteggiamenti difensivi e censori, di costante allarme e vigilanza, sulle modalità della rappresentazione che di essi si offre. Sul "Corriere" del giorno precedente, un interessante contributo di Amartya Sen discute altre possibili fallacie del multiculturalismo.

L’economista indiano scrive che "la storia del multiculturalismo è un buon esempio di come un ragionamento fallace possa intrappolare la gente in nodi inestricabili, da lei stessa creati. L’importanza della libertà culturale, fondamentale per la dignità di ognuno, deve essere distinta dall’esaltazione e dalla difesa di ogni forma di eredità culturale che non tenga conto delle scelte che le persone farebbero se avessero l’opportunità di vedere le cose criticamente e conoscessero adeguatamente le altre opzioni possibili (...).

La libertà culturale pretende, in primis, l’impegno a contrastare l’adesione automatica alle tradizioni quando le persone (compresi i giovani) ritengono giusto cambiare il loro modo di vivere". Secondo Sen, i modi in cui la politica occidentale va traducendo e interpretando il paradigma multiculturale possono produrre due gravi fraintendimenti: il primo antepone il valore dell’appartenenza per nascita a una comunità etnica o religiosa alla libertà di scelta che ogni "appartenenza" dovrebbe prevedere; il secondo riconosce un ruolo eccessivo al fattore religioso quale elemento distintivo di affiliazione e associazione (privilegiato, ad esempio, rispetto a quello linguistico).

All’origine dei ragionamenti dei due autori, come di molti altri, vi è il confronto (che sovente è aspra contesa) tra chi scongiura la formula multiculturale come coesistenza conflittuale di più comunità chiuse e chi, invece, in quel paradigma legge, ancor oggi, la strada per l’integrazione degli immigrati e la convivenza di più culture in una medesima società. Il problema, in questo confronto, è che spesso il suono delle formule in discussione prende il sopravvento sul necessario pragmatismo e sull’elaborazione di politiche razionali; e si finisce, volenti o nolenti, in una contesa tra "assimilazionisti" e "multiculturalisti", che smarrisce alcuni decisivi riferimenti alla realtà.

Tra chi chiede agli immigrati di rinunciare - in cambio del diritto a ottenere un qualche benessere e una manciata di garanzie - a una porzione consistente della propria identità, e chi, forse non intenzionalmente, finisce col legittimare la coesistenza di mondi chiusi, di comunità etniche coesistenti in un medesimo territorio, ma definitivamente autonome e non comunicanti, esistono, grazie al cielo, molte posizioni intermedie.

Esse riconoscono - innanzitutto - che il fenomeno migratorio non consente soluzioni agevoli e unilaterali; e non sottovalutano il fatto che, sempre più spesso, si intrecciano e paiono confliggere libertà d’espressione e tutela dell’identità, riconoscimento della propria appartenenza a una comunità e vincolo (e retaggio e costrizione), che quella medesima appartenenza può produrre.

Ha ragione Sen, quando, dopo aver ricordato che storicamente il multiculturalismo è stato un potente strumento d’integrazione, ad esempio nel Regno Unito, scrive: "Il valore che la diversità può avere, in termini di libertà, deve dipendere proprio da come viene determinata ed affermata. Se in una famiglia conservatrice di immigrati in Inghilterra una ragazza vuole uscire con un ragazzo inglese, la sua scelta non può essere biasimata appellandosi alla libertà multiculturale.

Al contrario, il tentativo dei suoi tutori di impedirglielo (cosa che accade spesso) non è affatto un atteggiamento multiculturale, dal momento che è volto a tenere le culture separate, in quella che si potrebbe definire una "pluralità di monoculturalismi"". Ma il problema è che esiste anche la famiglia inglese, che vorrebbe impedire al proprio figlio di frequentare la ragazza straniera: e che entrambe queste forme di chiusura fanno riferimento a sistemi valoriali certamente discutibili e, tuttavia, ineludibili. La trasmissione dell’identità culturale e religiosa è un sistema complesso, di riproduzione di regole e di "rigenerazione" di tradizioni, costumi, valori. Senza questo meccanismo saremmo tutti preda della peggiore anomia.

La vera sfida, allora, sta nella ricerca costante di un compromesso tra appartenenza e apertura, che passi per il riconoscimento delle specificità culturali, senza che queste si trasformino in barriere o che violino i diritti della persona. Vuol dire, ad esempio, garantire alle donne musulmane di poter indossare il velo: ma, allo stesso tempo, bandire qualunque pratica di infibulazione e mutilazione genitale (e, più in generale, qualunque forma di sudditanza al maschio).

Non esiste un postulato da cui derivare una prassi definitiva e certa: si naviga a vista, ma con gli occhi ben aperti. E, mentre si vigila sulle forme asfittiche nelle quali può tradursi l’organizzazione di una comunità distinta per etnia o religione, ci si deve interrogare anche sui perché di quelle degenerazioni; e ci si deve chiedere quale sia, e che consistenza abbia, la tendenza di alcuni gruppi sociali alla "separazione" e alla chiusura: e quali siano le sollecitazioni che vengono loro affinché, a partire da quella medesima chiusura, non abbiano a contaminare troppo il nostro mondo. Insomma, la parola-chiave (pure essa irta di contraddizioni) è reciprocità. Come si dice, nel bene e nel male.

Immigrazione: Razzismo stop; il "muro" non produce sicurezza

 

Redattore Sociale, 7 settembre 2006

 

Clandestinità, droga, prostituzione nelle palazzine pensate per gli studenti, oggi un ghetto per immigrati. L’associazione padovana: "Spesi 200-300mila euro per un progetto che serve solo a togliere il problema dalla vista della gente".

Via Anelli. Una strada che si è fatta conoscere negli ultimi mesi per la situazione di disagio e criminalità che la connota. Una via in cui da qualche settimana sorge un muro di 80 metri di lunghezza e tre di altezza, misura estrema e temporanea per arginare il fenomeno dello spaccio e della criminalità in genere. Cercando di capire il perché di tutto questo si potrebbe rintracciare il suo inizio nella data del 26 luglio, a causa di una rissa, l’ennesima. Ma sarebbe vero solo in parte, perché la storia di via Anelli è ben più lunga. Se la ricorda bene uno dei membri fondatori dell"associazione padovana "Razzismo stop", Gianni Boetto: "Via Anelli è la confluenza di tre distinte problematiche: in primis le politiche speculative sulla casa degli anni Sessanta, quando vennero costruite sei palazzine di 270 mini appartamenti da 28 o al massimo 32 metri quadri". Nacque così il complesso Serenissima, che nelle intenzioni dei costruttori doveva essere a uso e consumo della popolazione degli studenti, sfruttando la vocazione di Padova come città universitaria. "Nel corso degli anni si iniziò a manifestare il fenomeno della prostituzione italiana e con esso il degrado. Solo negli anni Novanta arrivarono gli immigrati e gli studenti iniziarono a scomparire. Ed è a questo punto che si manifestano le altre due problematiche di via Anelli: le politiche di proibizionismo e la clandestinità". Intanto nelle palazzine la popolazione cresceva, fino a toccare le 1.000 unità, ed emergeva sempre di più il disagio, con spaccio, risse e altre azioni criminali.

"Razzismo stop" entra per la prima volta nella via padovana nel 1998, anche in quel caso dopo una rissa. "Era diventata una zona off limit, stava nascendo l’equazione immigrati = criminalità e non si pensava quasi più al fatto che in quelle palazzine ci fossero persone in carne e ossa che vivevano in condizioni di disagio - racconta Boetto - Ecco che allora noi siamo voluti entrare per conoscere, per parlare con queste persone. E abbiamo fatto una scoperta: molti avevano un regolare permesso di soggiorno e un lavoro". In seguito a questo primo contatto "Razzismo stop" diventa presenza fissa in via Anelli, prima all’interno di un container nel quale si forniva assistenza legale ai residenti, poi (dopo circa un anno) con l’acquisto di uno degli appartamenti della via, usato con la medesima funzione. "Conoscendo bene questa realtà ci siamo accorti che non era possibile avviare interventi "soft" per sanare la situazione: quello era un ghetto e andava smantellato.

Le persone non possono vivere all’interno di loculi, non c’erano le condizioni perché in quel complesso ci abitassero delle famiglie". Così "Razzismo stop" si trova davanti a un primo muro, che non è visibile ed evidente come quello edificato da poche settimane, ma forse più difficile da abbattere: la diffidenza. "Questo muro doveva essere abbattuto dall’intera città, cercando di entrare in via Anelli, di conoscere - come avevamo fatto noi questa realtà -, di comprendere che si parlava di persone e non di bestie.

Tutto questo attuato nell’ottica di riuscire, presto, a smantellare il complesso: un processo che era già stato iniziato con la chiusura delle prime tre palazzine da parte dell’amministrazione comunale. "Lo svuotamento stava funzionando - conclude Boetto - è questo l’assurdo. Dopo 10 anni di lavoro, l’abitudine alle risse, il ritrovamento di armi e altri fatti criminali vengono spesi due-trecento mila euro per un progetto che non serve a niente, se non a togliere il problema dalla vista della gente. Così si distingue: dietro il muro c’è il male, fuori il bene. Creare il muro non produce sicurezza, mettere i check point come fossimo a Gaza non serve. Padova doveva essere il simbolo dell’inserimento con il suo progetto di svuotamento, ma adesso è l’esatto opposto".

Usa: Guantanamo; la Croce Rossa visita 14 sospetti terroristi

 

Asca, 7 settembre 2006

 

La Croce Rossa internazionale avrà la possibilità di visitare 14 sospetti terroristi, tra cui l’ideatore degli attacchi alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, che gli Stati Uniti stanno per trasferire al centro di detenzione di Guantanamo.

Ieri il presidente americano George Bush aveva annunciato il trasferimento dei 14 prigionieri per degli interrogatori e oggi una portavoce della Croce Rossa ha fatto sapere di "aver avuto la conferma della possibilità di poterli incontrare a Guantanamo Bay". La Croce Rossa internazionale è stato l’unico soggetto ad aver avuto il permesso a verificare le condizioni dei detenuti a Guantanamo, sotto il riconoscimento internazionale di tutore della convenzione di Ginevra.

 

 

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