Rassegna stampa 7 ottobre

 

Giustizia: il difficile primo giorno dopo la scarcerazione

 

L’Unità, 7 ottobre 2006

 

Da una parte le celle che si svuotano, dall’altra i problemi che deve affrontare chi si ritrova in mezzo alla strada senza assistenza e aiuto. È l’altra faccia dell’indulto, ovvero quello che succede tra carceri e città dall’entrata in vigore della norma che ha fatto uscire dalle carceri italiane oltre 23mila detenuti. I dati forniti dal Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, infatti, parlano di 23.543 detenuti che hanno varcato la soglia delle carceri italiane dal primo agosto. Detenuti che, molto spesso si trovavano in condizioni di salute precarie che adesso dovranno cercare di curarsi all’esterno.

Dei 23mila fuoriusciti, 6.400 sono tossicodipendenti, 2.500 gli affetti da patologie psichiatriche, 2.700 quelli che combattono con le malattie infettive e circa 1.000 cardiopatici. Persone che, come spiegano i rappresentanti delle associazioni che si occupano di volontariato carcerario "dietro le sbarre magari non ci dovevano neppure stare". A sollevare il problema sull’assistenza sanitaria anche oltre sbarre è Giulio Stagnini presidente della Simspe (la società italiana di medicina penitenziaria) e responsabile del reparto di malattie infettive in ambito penitenziario: "Il numero dei detenuti che hanno beneficiato dell’indulto non è ancora definitivo - spiega -, i dati forniti dal Ministero della Giustizia parlano di 23.000 persone ma l’effetto si protrarrà ancora. È necessario comprendere come le Regioni e l’Amministrazione Penitenziaria stanno interagendo per dare una risposta alla domanda di salute".

Che non riguarda solamente i detenuti malati ma anche gli extracomunitari. Coloro che, non avendo permesso di soggiorno, una volta riacquistata la libertà scompaiono al controllo sanitario. "Un esempio può essere quello di Bologna - prosegue -: su 373 persone uscite dal carcere, solo 35 si sono presentate ai servizi sociali. I dati del Lazio parlano di 2230 indultati di cui 1.200 solo a Roma". Ex detenuti che spariscono per paura della legge sull’immigrazione, perché, come denunciano da tempo i rappresentanti della consulta penitenziaria del Comune di Roma "senza modifiche alla Bossi Fini è difficile poi dare aiuto a chi esce dal carcere".

Non supera invece il 3 per cento dei detenuti che hanno riconquistato la libertà il numero dei recidivi. I dati forniti dal Dap parlano, infatti di 742 arrestati in flagranza di reato, un numero considerato "irrilevante rispetto al totale". "Il dato si ferma a questa cifra - dice Fabrizio Rossetti, responsabile del settore penitenziario della Funzione pubblica della Cgil - a questo punto è necessario lavorare sul resto". Ossia sull’assistenza a chi esce dal carcere e, come precisa "per rendere le strutture detentive più vivibili".

Giustizia: Basilide, ecco il santo a cui votarsi

di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone)

 

Il Manifesto, 7 ottobre 2006

 

Eusebio di Cesarea narra che il soldato Basilide, incaricato di scortare al supplizio Potamiena - una vergine cristiana condannata a morte in quanto tenace nel difendere la sua fede - la protesse durante il percorso da coloro che volevano malmenarla. Qualche giorno dopo anche Basilide fu imprigionato e decapitato.

Basilide è il santo patrono della polizia penitenziaria alla cui festa ieri si sono recati tutti, dal ministro Mastella al presidente Napolitano. Non è però a San Basilide che si sono ispirati quei poliziotti che a Sassari nel 2000 e a Bolzaneto nel 2001 hanno usato metodi e strumenti di repressione violenta molto simili e contigui alla tortura.

San Basilide è l’icona del poliziotto umano disposto a morire per proteggere dal linciaggio e dai maltrattamenti la donna che ha in custodia. Nel nome di san Basilide bisognerebbe imporre il cambio di mestiere a chi usa la violenza immotivatamente, a chi la legittima o la copre colpevolmente. Bisognerebbe, sempre per san Basilide, indagare quale fine abbiano fatto quei poliziotti e quei funzionari condannati per le violenze di Sassari o sotto processo a Genova per i fatti di Bolzaneto. Bisognerebbe ricordare i casi di promoveatur ut removeatur, i casi di promozione senza rimozione, le carriere costruite sulle violenze, i generali, che di fatto o di diritto, con le maniere forti comandano, gli ordini che impartiscono o i mezzi che usano.

Grazie all’indulto, difeso ormai dal solo ministro Mastella, sono state liberate più di 23mila persone, fra cui Silvia Baraldini e 8 mila immigrati, riportando le galere italiane in condizioni di vivibilità. In carcere oggi ci sono più poliziotti penitenziari che detenuti. Non possono più lamentare carenze di organico. Sono circa 45 mila, mentre i detenuti sono scesi al di sotto della soglia dei 38 mila. Più di un poliziotto a persona. È una occasione storica per ripensare il loro ruolo, riconducendolo nei canali della legge e della nobile storia del loro santo ispiratore. Il Consiglio di Europa, più volte, ha ricordato come il lavoro delle polizie - tutte le polizie - deve ispirarsi a una funzione primaria di promozione dei diritti umani. Il cittadino, se provvisoriamente detenuto, deve poter avere nel poliziotto la fiducia che Potamiena aveva per il soldato Basilide.

Questa è anche stata l’ultima festa del Corpo per il capo della polizia Penitenziaria Giovanni Tinebra. Si attende la nomina del suo successore da parte del governo. Nel nome di san Basilide speriamo che il suo successore sia una persona che ritiene che la tortura sia un crimine, che lotti per contrastarla, che ridia serenità al lavoro degli operatori penitenziari, che non li metta gli uni contro gli altri, che metta al centro i diritti umani. Speriamo che alla festa dell’anno prossimo ci sia meno enfasi militare e più attenzione all’umanità, sia dei custodi che dei custoditi.

Giustizia: che ci fanno ancora tutti questi bambini in galera?

di Stefania Tallei (Comunità di Sant’Egidio)

 

www.radiocarcere.com, 7 ottobre 2006

 

Fino a prima dell’indulto nelle carceri italiane c’erano tra i 50 e i 100 bambini di età zero-tre anni. A Roma, nel carcere di Rebibbia, la concentrazione maggiore: l’inverno scorso hanno superato le 25 presenze. Le loro madri sono spesso ragazzine poco più che maggiorenni. Vivono in sezioni separate denominate "nido". Sembrano numeri esigui, che non fanno notizia. Ma si tratta di bambini in carcere. Che non conoscono un rapporto normale con il mondo circostante. La detenzione di questi bambini è una pena aggiuntiva per le madri e un’ipoteca sulla loro vita. Lo sviluppo psico-fisico è rallentato. Parlano tardi e poco rispetto agli altri bambini. Piangono molto e sorridono poco. Irrequieti, con difficoltà ad addormentarsi e con bruschi risvegli nella notte. Sono sintomi dei danni che la detenzione arreca al bambino. Danni che porterà con se nella sua vita futura. Non se ne parla mai. Proviamo a immedesimarci.

Pensiamo a un bambino che esce all’aperto per fare "l’ora d’aria", che vive con persone in divisa blu, che abita un ambiente con le sbarre alle finestre. Pensiamo a cosa vuol dire non aver mai visto bene i prati, gli animali, ma pure un normale giornalaio che vende le figurine o un supermercato dove spingere il carrello, non aver mai visto il mare o un bosco, un telefonino, non aver mai fatto una passeggiata con i propri nonni.

Pensiamo a una madre che parte assolutamente screditata e cammina in salita per esercitare un ruolo autorevole, ancora più necessario. Una madre che non ha le chiavi di casa, che non apre mai la porta e non esce mai. Che non può comprare un giocattolo, un dolce, che dipende in tutto dalle persone con la divisa blu e viene sottoposta a perquisizioni. Una madre che vede portar via il suo piccolo allo scadere dei 3 anni. C’è qualcosa contro natura e che alla fine si scarica in maniera violenta contro vite individuali e contro la società che sa immaginare solo questo.

Quando un bambino deve essere ricoverato viene portato in ospedale da un agente e lì è lasciato da solo. Con la Comunità di Sant’Egidio ci è capitato di stare vicino a bambini presi da crisi di pianto irrefrenabile, disperati, che pensano ogni momento di essere abbandonati e credono di essere colpevoli di qualcosa che non hanno fatto, causa dell’abbandono che sentono sulla pelle, nel ghiaccio affettivo. Le madri dovrebbero essere con loro, ma il permesso del giudice a volte arriva troppo tardi.

In carcere ci sono anche donne in gravidanza. Aspettano come tutte il momento del parto con ansia. Ma sono sole, senza parenti, e temono che non si faccia in tempo, al momento delle doglie, ad arrivare in ospedale. È un’angoscia diffusa. La vita dei bambini in carcere comincia così, prima di cominciare ufficialmente. Dopo il parto vengono riportate in carcere in gran fretta e se il bambino ha dei problemi resta in ospedale, da solo.

La maggior parte delle madri detenute sono giovani nomadi arrestate per piccoli furti. Anche reiterati, ma comunque non comparabili con i reati contro la persona. Talvolta sono giovanissime. Straniere con una scarsa conoscenza della lingua italiana. Straniere anche al nostro sistema penale. Conosco molte donne che non hanno i soldi per l’avvocato.

La legge n. 40 dell’8 marzo 2001 ha introdotto la possibilità che la madre condannata sconti la pena a casa coi propri figli per svolgere in modo "naturale" il ruolo di madre. Restano però ancora in carcere molte giudicabili, molte recidive.

L’8 maggio 2006 è stata presentata una proposta di legge dal titolo "Disposizioni per la tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori". Punto centrale è la realizzazione di case-famiglia protette per tutti quei casi in cui non siano possibili misure di sospensione o comunque alternative alla carcerazione, sia preventiva che definitiva. Senza sbarre e senza divise, ma senza rinunciare alla sicurezza, si mettono al centro le esigenze del piccolo per garantire un sano sviluppo, in un ambiente più idoneo e più umano: diverso dal carcere. La proposta è in corso di esame in commissione dal 13 settembre. È una scelta di civiltà necessaria. Con l’Associazione "A Roma insieme" e Leda Colombini sosteniamo con firme e con impegno pubblico la proposta di legge.

Non si chiede l’impossibile, è il minimo per una società che si scandalizza, giustamente, dei maltrattamenti ai bambini, ma non sa nemmeno di essere responsabile stabilmente di una piccola grande vergogna che colpisce bambini innocenti privati per legge del necessario fin dalla nascita. Senza colpa.

Nessuna impunità per le madri con bambino: ma l’espiazione della pena sia compatibile con il principio della rieducazione e con i diritti del bambino.

Con l’indulto molte donne sono uscite e ora, dopo due mesi a Rebibbia ci sono 7 donne con bambino. Nessuna "indultata" è rientrata. Speriamo di no, ma se dovessero rientrare cercheremo con loro di attenuare i danni per la vita dei loro bambini e per loro stesse, per l’autostima, che è un passaggio decisivo anche per smettere di delinquere. È scoprire l’acqua fresca ricordare che tutto l’impianto del nostro Ordinamento Penitenziario e dell’esecuzione penale sarebbe finalizzato alla ri-socializzazione del condannato. Cambiando una legge diventa meno lontano il giorno in cui nessun bambino crescerà in carcere.

Giustizia: Montezemolo; l’indulto è uno scandalo bipartisan

 

Apcom, 7 ottobre 2006

 

L’indulto è stato "uno scandalo". Luca Cordero di Montezemolo s’è accalorato quando ha preso l’esempio dell’indulto per definire "con sconcerto" l’unica grande intesa bipartisan che la politica ci ha scodellato in questi mesi". "L’indulto, che ha messo in libertà migliaia di delinquenti rendendo ancora più difficile la vita della gente onesta", ha detto tra fragorosi applausi il presidente degli industriali italiani nel suo intervento al convegno dei giovani di Confindustria a Capri. Uno scandalo, ha aggiunto, che alla fine "rende assolutamente condivisibile la sfiducia ed in alcuni casi anche la rabbia".

Giustizia: il nostro è un sistema penale "dal volto umano"?

 

Korazim.org, 7 ottobre 2006

 

Siamo una società delle forche o delle seconde possibilità? Bella domanda, nelle ore in cui i temi della giustizia e dell’indulto tornano al centro dell’attenzione. Discussioni animate che nascono da casi singoli dati in pasto ai media, a cominciare da quello del mostro di Foligno, Luigi Chiatti, beneficiato anche lui dei tre anni di sconto di pena previsti dall’indulto. Come era prevedibile, non sono mancate le reazioni scandalizzate dei più e di coloro che si sono interrogati sull’opportunità della scelta. Sono ragioni pienamente condivisibili perché un paese serio non può che fondarsi sulla certezza della pena, specie per i reati più gravi. A dispetto di ogni perdonismo, è necessario comunque mettersi d’accordo sul valore che viene dato alla detenzione. L’aspetto rieducativo della pena è sancito dalla legge, ma nel concreto è davvero così? E nell’opinione comune?

Solo partendo da questo nodo è possibile ragionare serenamente. Se il nostro sistema penale fosse ispirato ad intenti punitivi, indulti, sconti e misure simili non avrebbero ragione d’essere: più efficace una bella cella con sbarre chiuse a doppia mandata e chiavi buttate via. Al contrario, dato che il nostro ordinamento non esclude una possibilità di reinserimento, considerato invece un obiettivo, la riflessione deve essere ancorata all’efficacia di certe misure. Prendiamo l’indulto. Pur essendo stato presentato come gesto di clemenza, ha avuto più il carattere di misura di emergenza per risolvere il problema dell’affollamento carcerario: una realtà inaccettabile che non solo rende precarie le condizioni di vita, ma soprattutto gli interventi di recupero. Si è agito in superficie, liberando molti carcerati, spesso senza offrire percorsi alternativi e realmente efficaci. Un paradosso, quando invece il nuovo inizio di chi ha sbagliato, dovrebbe proprio partire dal carcere.

È tutto qui il cuore del problema. Nella carenza di misure alternative alla pena e di investimenti consistenti sui progetti all’interno del carcere, che come dimostrano alcune oasi felici, può proporsi già come luogo di crescita. Perché in cella molti studiano, lavorano, riflettono, scoprendo cioè che la vita può continuare ad essere vissuta. Solo una prospettiva simile ha la capacità di venire incontro a tante realtà di disagio, a cominciare da quelle dei detenuti tossicodipendenti (il 30% del totale), condannati per reati legati quasi sempre alla loro dipendenza. In questi casi, è realmente possibile definire delinquente chi ruba per procurarsi la dose giornaliera oppure è meglio parlare di persone che possono essere guidate verso un futuro diverso? Un carcere umano, una comunità, un programma alternativo alla detenzione hanno il dovere di provarci.

Perché al di là di accuse, polemiche e polveroni mediatici, la risposta ad ogni domanda è la centralità della persona, criterio che garantirebbe anche una certa flessibilità per capire in ultima istanza quale sia il bene di un detenuto. Se il carcere non è il fine, ma un mezzo di reinserimento, infatti, in certi casi potrebbe essere anche la soluzione. Come per Luigi Chiatti, su cui è lecito chiedersi: cosa farà fuori?

Lettere: tre storie di "indultati" raccolte da Radio Carcere

 

www.radiocarcere.com, 7 ottobre 2006

 

Radio Carcere ha raccolto tre storie, tra le tante, di persone che hanno beneficiato dell’indulto. Si tratta di quegli "indultati" di cui non sentirete mai parlare. Sono quegli ex detenuti, e sono tanti, che non hanno ricommesso un reato, una volta tornati liberi. Sono quelle persone ex detenute che, usciti dal carcere, cercano di rifarsi una vita in modo onesto. Sono quegli ex detenuti che pur di resistere alla delinquenza, subiscono umiliazioni, fanno lavori precari o sopravvivono in quel mondo sconosciuto di chi è senza casa e senza lavoro. Sbattuti in carcere e poi sbattuti in libertà.

 

Nicola, 30 anni Milano

Ho scontato la mia pena nel carcere San Vittore di Milano e sono uscito il 2 agosto con l’indulto. Appena fori dal carcere ho corso come un pazzo per arrivare a casa il prima possibile. Sai dopo 3 anni di carcere tornare a casa è come poter ricominciare a respirare. E almeno io avevo una casa dove andare. Tanti quella corsa non la possono fare. Escono dal carcere disorientati, così come sono entrati. Mentre uscivo da San Vittore c’era un ragazzo con me che mi diceva: "si adesso sarò libero ma che faccio? Dove vado? Che lavoro potrò fare?". Quel ragazzo si è trovato libero, senza lavoro e con più problemi di prima.

Quanto a me, dopo una settimana di vacanza a casa, è iniziata la ricerca di un lavoro e presto la libertà mi ha fatto capire una cosa: ero stato scarcerato ed avevo perso il lavoro.

Sembra incredibile ma è così. Quando ero detenuto infatti ho lavorato per due anni in carcere. Ero tra quei pochissimi fortunati che hanno lavorato nel call center della Telecom dentro a San Vittore. Un progetto bello e anche molto pubblicizzato. Una delle poche esperienze lavorative vere nelle carceri italiane. Per noi detenuti lavorare nel call center di San Vittore è stato molto importante. Era un’occasione per dare un senso alla pena e per costruirci un’alternativa quando saremo stati liberi. E non era mica facile raggiungere dalla cella il posto di lavoro. Ci mettevamo mezz’ora per fare 10 metri, tanti erano i cancelli e i controlli. A pensarci ora è quasi meglio il traffico di Milano.

Comunque è finita ed è stato solo un bel sogno. Una volta liberi, io come gli altri, abbiamo perso tutto e addio call center.

Il fatto è che hanno realizzato il call center in carcere, ma non hanno creato, almeno per quei pochi che ci lavoravano, un minimo di raccordo con il dopo carcere. Voglio dire, era tanto difficile pensare a un progetto di lavoro sia per il carcere che per la libertà? E certo non si può dire che a Milano le occasioni manchino. Tante imprese, oltre alla Telecom, hanno dei centralini. E invece nulla. Io ho chiesto informazioni al carcere di San Vittore e alla cooperativa che gestisce il call center in cui lavoravo in carcere, ma mi hanno risposto che l’indulto era arrivato all’improvviso e loro non erano pronti.

Sta di fatto che ora, mentre insisto nel cercare un lavoro in un call center, mi ritrovo per sopravvivere onestamente a fare il muratore. Tra un cantiere e un altro vado in giro, chiedo e mando richieste di lavoro. Cerco, cerco ma non trovo niente. È difficile.

La cosa importante è far capire che aiutare a trovare un lavoro per un ex detenuto significa garantire la tanto declamata sicurezza sociale. Se tu abbandoni un ex detenuto alla libertà, la recidiva, il reato, sta lì che lo aspetta.

Se ci penso mi piacerebbe mettere su un giornale un annuncio così: io che ho scontato la mia pena, io che in carcere ho lavorato per 2 anni nel call center di San Vittore, io che non voglio ricomettere un reato, cerco lavoro.

 

Ciro, 51 anni Salerno

Il 7 agosto sono uscito dal carcere Fuorni di Salerno.Senza preavviso e dopo tanti anni di galera mi sono trovato fuori dal portone del carcere. Ricordo che sono rimasto immobile, come impietrito da quella improvvisa libertà. Erano le 7 di sera, non avevo soldi, né una casa dove andare, ma solo un sacco della spazzatura come valigia.

Mi sono fatto coraggio, sono salito su un treno (senza pagare il biglietto), e mi sono diretto verso Napoli. Sono arrivato che era ormai sera e, non sapendo dove andare a dormire, mi sono attrezzato su una panchina di piazza Carlo III. Insomma in poche ore ero diventato da detenuto a barbone. Come casa non più una cella sovraffollata, ma una bella panchina in piazza. In questo modo sono iniziati i miei primi giorni di libertà. Una di quelle notti, accanto alla mia panchina, si è fermato un furgoncino del comune di Napoli. Mi hanno dato da mangiare, un pezzo di sapone e qualche sigaretta. Un’assistente sociale, che era con loro, mi ha detto di andare il giorno dopo in Comune perché mi avrebbero aiutato. Così ho fatto. E al Comune mi hanno proposto di venire a dormire nella comunità di Padre Carlo, dove ancora ora mi trovo.

Ed io sono stato fortunato. La gente non ha idea di quanti detenuti liberi con l’indulto vivono per strada e dormono per strada. A Napoli basta andare alla Stazione o a corso Meridionale per trovarli. Stanno lì ancora. Se non ci credete vi ci porto io.

Ora, anche se ho 51 anni, anche se ho sbagliato e ho pagato con la galera, mi vorrei trovare un lavoro. Vorrei guadagnare qualche soldo, in modo da togliere il disturbo da qui e lasciare il mio posto letto in comunità a ragazzi che ne hanno più bisogno di me e sono tanti.

Per questa ragione ho iniziato a cercare un lavoro. Nulla di speciale è ovvio. Un lavoro semplice purché sia onesto. Ho chiesto e continuo a chiedere di fare il barista, il garagista o l’autista. Niente. Ho fatto domanda al Comune per trovarmi un lavoro, ma purtroppo fino ad ora non ho ricevuto riposta. Il fatto è che a Napoli fare la giornata in modo disonesto è molto facile. Io lo so. Basta mettersi per strada e vendere le sigarette o un pò di droga e il gioco è fatto. Ma se questa è la mia unica alternativa, allora preferisco vivere da barbone. Certo che c’è chi, uscito dal carcere, continua a fare "guai" come si dice da noi. Ma per gli altri invece che chiedono un lavoro che speranza c’è?

 

Salvatore, 26 anni Palermo

Ho 26 anni e sono uscito dal carcere di Palermo l’11 agosto, grazie all’indulto. Sono stato in carcere 3 anni e 7 mesi. Durante questo lungo periodo di detenzione non ho mai lavorato. Restavo quasi sempre in cella come tanti altri miei compagni. Solo per qualche mese ho avuto la fortuna di fare un corso di pizzaiolo. E devo dire che ero molto felice di aver avuto l’occasione di imparare un mestiere. Mi dicevo "quando esco farò il pizzaiolo". Era una ragione per resistere in cella e per sperare in un mio futuro.

Poi un giorno, all’improvviso, mi sono trovato libero. Mi hanno chiamato e mi hanno detto che ero liberante. Un paio d’ore ed ero fuori dal portone del carcere di Palermo. Dopo più di tre anni non si può spiegare quello che si sente. Appena fuori sono andato a casa dei miei genitori, dove vive anche mia moglie. È stata una sorpresa, perché non avevo avuto neanche il tempo di avvisarli. I primi giorni di libertà sono stati bellissimi e li ho passati con mia moglie. Poi è iniziato il vero rapporto con la libertà. Ovvero trovarmi un lavoro e costruirmi un domani.

Con il mio diploma di pizzaiolo, ho iniziato a girare per i ristoranti di Palermo ed è un viaggio che faccio ancora. Tutti i giorni. Io un lavoro ancora non ce l’ho. Così ogni giorno mi alzo la mattina e inizio il mio giro per trovare lavoro.

Leggo annunci sui giornali, giro, giro, ma la strada è corta. Nel senso che torno sempre a casa solo con tanti "no".

Ogni tanto, mentre cerco il lavoro di pizzaiolo, mi capita di fare altri lavori. Scarico le cassette di frutta, faccio pulizie o altre cose del genere. Tutto questo per resistere a sopravvivere onestamente.

Ritrovare la libertà è la cosa più bella, ma guardando al futuro occorre stringere i denti e andare avanti per non ricadere nel reato. Io non sono assolutamente tentato di ricommettere un reato ma ti assicuro che è dura, veramente dura. La cosa assurda è questa: mentre sei in carcere ti tolgono la dignità per come sei trattato. Quando ti sbattono in libertà perdi la dignità perché non hai lavoro. Perché lavoro è dignità.

Come se non bastasse, dopo una giornata passata a cercare lavoro, torno a casa e sento al telegiornale l’ennesima notizia di uno che dopo l’indulto ha commesso un reato, mentre i tanti ragazzi che cercano lavoro onestamente, le loro storie, le loro difficoltà sembrano non interessare a nessuno. La gente che guarda la Tv o che legge i giornali non sa di noi. Eppure a Palermo sono tanti gli indultati che chiedono solo un’opportunità per rifarsi una vita.

Informazione: nasce "Asfalto", blog dei senza dimora di Bologna

 

Comunicato stampa, 7 ottobre 2006

 

A Bologna è nato il primo blog scritto e vissuto dalle persone in stato di disagio e senza dimora. Succede al Centro diurno di via del Porto e nella Rete gli incontri e le relazioni continuano ed azzerano le distanze.

Il gruppo che ha dato vita al primo blog di strada di Bologna esisteva già: gli allievi in borsa lavoro formazione presso il Laboratorio informatico del Centro diurno di via del Porto (che ha ispirato lo stesso indirizzo http://viadelporto.splinder.com) gestito dalle cooperative La Strada e Nuova Sanità. Ma presto questo gruppo si è allargato ad altri frequentatori del Centro, agli allievi del Laboratorio Artistico del Centro diurno e anche ad altri amici ed operatori. All’inizio si voleva dare soprattutto uno sbocco immediato alle competenze informatiche imparate al laboratorio, ma presto abbiamo capito le possibilità espressive e comunicative di Internet: questo grazie anche all’incontro con un grande amico, Stefano che da due anni vive girando sulla sua bicicletta e che tiene aggiornato il suo blog (http://alkoliker.splinder.com). Ci ha invogliato, invitato e "sfidato" a parlare di noi in uno spazio virtuale e così è stato.

Sulla prima pagina di Asfalto si può leggere, nella presentazione: "Un blog nel quale poter raccontare qualcosa di noi, che viviamo la strada e lavoriamo nei laboratori del Centro diurno. Perché un blog? Perché crediamo che ogni storia è degna di essere raccontata, soprattutto se fatto con verità ed ironia. Perché il blog è uno strumento che ci dà la possibilità di fissare ciò che invece svanisce: perché la vita è brevissima e le emozioni sfuggono! (…) In questo spazio è bandito il pregiudizio, è invece benvenuto il confronto e lo scambio di idee sui temi che più ci toccano da vicino: vita di strada, emarginazione sociale, legalità, dipendenze, lavoro… ma parleremo anche di amore, politica, amicizia e quant’altro possa saltarci in testa. Senza filtro. Vogliamo che questo blog sia un’esperienza positiva, che ci porti a costruire un ponte di comunicazione anche verso gli operatori sociali e la città tutta. Siamo troppo fuori… ma ci stiamo troppo dentro!"

Quello che siamo, che pensiamo lo si può leggere su Asfalto, ma siamo reali, non virtuali: dunque chiunque voglia incontrare il gruppo della redazione di Asfalto per domande, curiosità, aperitivo e approfondimenti vari può venire presso il laboratorio di informatica del Centro diurno, in via del Porto 15 giovedì 12 ottobre alle ore 16.00. Un occasione per incontrare la realtà della strada a pochi giorni dalla Giornata mondiale Onu di lotta alla povertà del 17 ottobre. Per motivi organizzativi è gradita la conferma della vostra partecipazione. Per questa ed altre comunicazioni potete utilizzare i seguenti contatti: viadelporto@gmail.com; 051.521704 (chiedere di Massimiliano Salvatori o Claudia Canuti).

Immigrazione: An si mobilita in difesa della "Bossi - Fini"

 

Il Tempo, 7 ottobre 2006

 

"Difendere la Bossi-Fini. Con le unghie e con i denti". Il leader di Alleanza nazionale impartisce ai suoi gli ordini per la campagna di autunno. L’altro giorno ha riunito alcuni colonnelli a Montecitorio. E li ha messi in guardia: "Occhio ragazzi che la sinistra sta cercando di affossare la nostra legge sull’immigrazione. E tenterà di farlo con un’imboscata". Cosa che è puntualmente accaduta in commissione Giustizia alla Camera, dove è in corso l’esame di una proposta di legge, predisposta dalla Rosa nel Pugno, per la tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori.

Norma innocua. Almeno all’apparenza. Leggendo il testo, tuttavia, si scopre che, all’articolo 6, è prevista la possibilità di concedere il permesso di soggiorno allo straniero anche se detenuto e senza lavoro. Purché possa esibire una promessa di assunzione. Risultato? La Bossi-Fini diverrebbe automaticamente carta straccia. La destra annuncia battaglia. Giulia Bongiorno, deputata di An (ma si potrebbe definire una deputata finiana e basta, visto che quando si candidò annunciò di farlo per stima personale nei confronti del leader), definisce la proposta della RnP un "cavallo di Troia".

Inserito in una "legge caramella, cioè una legge dal titolo apparentemente condivisibile, che non si può non votare". "Si sta tentando surrettiziamente di cambiare la Bossi-Fini premiando quegli immigrati che non lo meritano", aggiunge il collega di partito Maurizio Gasparri. Insomma, una posizione suggerita direttamente dal presidente di An. Il partito ha deciso di riappropriarsi del tema dell’immigrazione. Con energia. E senza lasciarsi scavalcare a destra dalla Lega.

Ieri, nel corso di una riunione del gruppo parlamentare sempre a Montecitorio, i deputati aennini hanno deciso la linea. Opposizione dura contro le imboscate sulla Bossi-Fini. Ostruzionismo durissimo contro la legge che prevede la cittadinanza veloce. Già a partire dal suo iter in commissione. Sabato e domenica è in programma a Roma l’assemblea nazionale del partito. Fini ha dato mandato ai suoi di predisporre un ordine del giorno. Sempre sul tema dell’immigrazione.

L’idea è questa: preparare le strutture del partito a raccogliere le cinquecentomila firma necessarie per proporre un referendum abrogativo. Ciò nel caso cui la sinistra riuscisse a modificare la Bossi-Fini, rendendola meno severa. L’ordine del giorno prevede anche una nuova formulazione del documento finiano sulla nuova destra nella parte relativa agli stranieri. "Il testo di Fini risale a luglio - spiega Gasparri - Nel frattempo il governo Prodi ha assunto decisioni discutibili. In particolare sulla cittadinanza veloce. C’è l’esigenza di aggiornarlo". Scomparirà la parte relativa al voto amministrativo agli immigrati, probabilmente. La svolta finiana meno amata dai dirigenti.

 

 

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