Rassegna stampa 23 ottobre

 

Giustizia: i dati sulle carceri e i detenuti, prima e dopo l’indulto

 

Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2006

 

Da 60.700 a 38.700 detenuti negli istituti penitenziari: ecco, in due dati, l’istantanea riguardante il "pre" e il "post" indulto. Il primo è riferito ai reclusi a fine luglio, appena prima che entrasse in vigore il provvedimento; il secondo indica la situazione aggiornata al 20 ottobre 2006. In tutto, le persone che finora hanno usufruito dell’indulto sono 24.135 (il 4,9% donne e il 95,1% uomini, il 62,2% italiani e il 37,8% stranieri). Di queste 1.245 (il 5,2% del totale) hanno già fatto ritorno il carcere. Tra i "recidivi", 34 donne e 1.211 uomini, 746 italiani e 499 stranieri.

La popolazione carceraria, ad ogni modo, è calata del 36,3% e, almeno per ora, il sovraffollamento è un ricordo. A fronte di una capienza regolamentare complessiva di circa 43.200 posti, prima dell’indulto le carceri italiane ospitavano 17.500 persone in più. Adesso si rimane di 4.500 unità sotto quella soglia.

Le regioni maggiormente interessate "dall’esodo" sono quelle più popolose. Dalle strutture della Lombardia sono uscite per indulto 3.402 persone (il 14,1% del totale dei beneficiari), al secondo posto la Campania (2.676), al terzo la Sicilia (2.530) e al quarto il Lazio (2.356). In fondo alla classifica la Valle d’Aosta (156 scarcerati, tutti uomini), preceduta da Molise (189), Basilicata (231) e Trentino Alto Adige (266). In Vallée e in Trentino Alto Adige - come in Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Piemonte e Umbria - l’indulto ha portato alla scarcerazione di una maggioranza di stranieri.

Visto dall’interno delle carceri, intanto, l’indulto raccoglie pareri favorevoli. A San Vittore si è scesi da 1.580 a 1.150 reclusi. "Un traguardo storico che non pensavamo di riuscire a raggiungere - commenta Gloria Manzelli, direttrice del penitenziario milanese -. Il risultato è un miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti (oltretutto ora è possibile sistemarli secondo le caratteristiche e la provenienza geografica) e delle condizioni di lavoro del personale. Ci sono riflessi anche sul fronte delle attività. Per esempio, è possibile seguire meglio i corsi scolastici. E una percentuale più alta di detenuti potrà partecipare ai corsi di formazione organizzati con fondi Ue".

Addirittura quasi dimezzati (da 1.600 a 870 circa) gli ospiti della casa circondariale maschile "Rebibbia nuovo complesso", a Roma. "Sull’organizzazione dei servizi - dice il direttore, Carmelo Cantone - abbiamo potuto usufruire di una forte boccata di ossigeno. Sono diminuiti, tra l’altro, gli interventi esterni, quindi le scorte risultano sufficienti e meglio organizzate. I turni di lavoro sono meno problematici e le offerte rivolte ai carcerati hanno un’efficacia maggiore. Per non parlare del fatto che prima, in stanze da tre, ne dovevamo mettere anche sei, ora al massimo sono quattro".

Laura Brancato, direttrice del "Pagliarelli" di Palermo, il carcere più grande della Sicilia, ha visto i detenuti calare da 1.300 a 700. "L’indulto - premette - è negativo dal punto di vista del trattamento di rieducazione, perché lo interrompe. Ma su chi è rimasto, e sugli operatori, ha avuto effetti positivi. Per il primo anno il personale è potuto andare in ferie senza grossi problemi. Inoltre c’è tempo per ideare e realizzare nuove iniziative".

Però il problema non è risolto in maniera definitiva. "Per ora - conclude Laura Brancato - non si registrano aumenti di rilievo della popolazione carceraria, ma l’esperienza ci fa prevedere che il numero riprenda a crescere sensibilmente. Nel giro di un paio d’anni si rischia di essere punto e a capo. Quindi si spera che questo periodo venga utilizzato per individuare strumenti che siano in grado di evitare il riproporsi dell’emergenza".

Giustizia: Manconi; dopo indulto condizioni ottimali per riforme

 

Ansa, 23 ottobre 2006

 

Grazie all’indulto si sono create "le condizioni migliori, sia materiali che relazionali, per rivedere il sistema delle sanzioni penali, così come auspicato dal capo dello Stato e dal vicepresidente del Csm". A sottolinearlo è il sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi, a margine del convegno "Difendere Abele e recuperare Caino", organizzato dal coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza. "I presupposti per una riforma complessiva ci sono perchè - sottolinea - non solo le carceri sono meno affollate, ma anche perché i rapporti interni sono meno problematici: stanno infatti meglio i detenuti, la polizia penitenziaria e gli educatori". Il sottosegretario alla Giustizia plaude al contenuto dei messaggi del presidente Napolitano e del vicepresidente del Csm Mancino, sulla necessità di rivedere le sanzioni penali e di consentire al giudice di merito (e non più soltanto al magistrato di sorveglianza) l’applicazione di misure alternative al carcere. "È un grande conforto - afferma Manconi - il fatto che la valorizzazione di un sistema sanzionatorio diverso dal carcere venga finalmente dal presidente della Repubblica (che è anche presidente del Csm) e dal vice presidente del Csm. Per chi, come me, per 30 anni ha cercato di valorizzare questo terreno è una soddisfazione vera...". Il sottosegretario Ds trova inoltre "giustissima l’indicazione di Mancino di dare alle misure non detentive altrettanta dignità rispetto a quelle detentive e di ipotizzare che le misure alternative al carcere possono essere disposte in sede di sentenza. Mi auguro - conclude - che il lavoro della commissione Pisapia sulla riforma del codice penale arrivi a queste conclusioni".

Giustizia: Flick; Caino ha pari dignità sociale di Abele

 

Ansa, 23 ottobre 2006

 

"Anche per Caino (se sconta la pena per avere ucciso Abele; e mentre la sconta) vale il principio della pari dignità sociale che l’art. 3 della Costituzione garantisce a tutti". Il vicepresidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick ripercorre i capisaldi della Carta costituzionale e della giurisprudenza della Consulta per affrontare i problemi e le contraddizioni del pianeta carcere. Intervenendo al convegno "Difendere Abele e recuperare Caino", organizzato dal coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, Flick sottolinea: "Anche il carcere è una formazione sociale nella quale, come dice l’art. 2 della Costituzione, i diritti fondamentali devono essere riconosciuti e garantiti, compatibilmente con la restrizione della libertà personale; e devono coniugarsi con i doveri (di chi è dentro e di chi sta fuori) di solidarietà sociale".

Vi sono - afferma l’ex ministro della Giustizia - "due ordini di diritti, fra loro connessi e sinergici, legati al principio personalistico che ispira la Costituzione e che impone di considerare l’uomo sempre come fine e mai come mezzo". Da un lato vi è il diritto (e il dovere) ad un percorso rieducativo assicurato dall’art. 27 della Costituzione; dall’altro vi sono dei diritti fondamentali (all’identità, alla scelta religiosa, al lavoro etc. etc.) riconosciuti da altre norme della Carta "che sono patrimonio di tutti gli uomini, anche di quelli detenuti". Per quanto riguarda il percorso rieducativo, Flick sottolinea l’importanza del passaggio progressivo dalla detenzione alle misure alternative, e l’impossibilità che il trattamento comporti "automatismi per tipo di reato e autore". La giurisprudenza della Consulta infatti ha escluso che nell’applicazione delle misure alternative siano consentiti automatismi o valutazioni astratte e generali. Il percorso rieducativo, inoltre "non può essere azzerato in toto per esigenze di sicurezza. "Non dovrebbe essere sacrificato il fatto dal sovraffollamento di un carcere che rischia sempre più di diventare discarica sociale".

Roma: detenuto morto; l’avvocato dice "l’hanno suicidato"

 

Il Tempo, 23 ottobre 2006

 

La cinta dell’accappatoio legata alle sbarre. Appeso a quella corda di fortuna, strangolato, un corpo ormai senza vita. L’hanno trovato così, Mauro Bronchi, impiegato, 39 anni, impiccato nella cella del carcere romano di Rebibbia dove, dal 4 luglio scorso, si trovava rinchiuso per l’omicidio della piccola Alice, la bimba di 5 anni della sua convivente strangolata "perché era indemoniata". Suicida, Mauro Bronchi, o forse "suicidato", dice ora il suo avvocato, Fabio Federico, che spende parole durissime nei confronti dell’amministrazione penitenziaria e ricorda l’istanza urgente indirizzata al pm Caterina Caputo di trasferire il suo assistito in un reparto dove fosse possibile "la videosorveglianza 24 ore su 24".

A scoprire il corpo di Bronchi i compagni di cella. Dei tre detenuti che condividevano con lui la prigione uno era al colloquio, gli altri erano fuori. Lasciato da solo per poco tempo, quanto ne può concedere la vita in una galera, al ritorno era già morto. Appeso alle sbarre ma, circostanza su cui l’indagine del pm Giancarlo Amato dovrà fare chiarezza, forse non del tutto sospeso per aria. Non sarebbe la prima volta che un uomo si uccide impiccandosi coi piedi per terra.

No, non sarebbe la prima volta, se la circostanza sarà poi confermata; ma ogni volta che accade un dubbio aleggia intorno al cadavere. Specie se la vittima in passato forse aveva avuto rapporti difficili coi compagni di carcere. Al punto che il sostituto Caputo aveva nei giorni scorsi aperto un fascicolo contro ignoti per le lesioni subite dall’uomo. Interrogato, Bronchi aveva detto d’essere caduto dal letto; versione ripetuta anche al criminologo Francesco Bruno, consulente che la difesa aveva nominato insieme al collega Bruno Calabrese.

"Sono caduto": così aveva spiegato i lividi e i graffi quell’uomo accusato d’aver ucciso una bimba; lui, detenuto non più in isolamento in un contesto, quello del carcere, da sempre spietato con chi tocca i bambini. Così ogni tanto misteriosamente "sveniva", il Bronchi, ed era poi ritrovato per terra con gli occhi pesti e i graffi sul viso. E poi aveva bisogno di radiografie alle mani, alla testa, al torace. Ora la morte per impiccagione, ufficialmente suicidio d’una persona instabile di mente. Che lo fosse, che fosse quanto meno seminfermo di mente, l’avevano già detto le consulenze di parte. E anzi la stessa storia di quell’atroce delitto del 4 luglio scorso aveva alzato il velo su un incubo durato troppo a lungo.

Alice, la bimba, era arrivata all’ospedale Sant’Andrea di Roma il 2 luglio ormai senza speranze, soccorsa dall’ambulanza, trovata dagli infermieri su un tavolaccio in cucina e già gravissima. Era stata l’autopsia a mostrare ai medici, e con loro ai carabinieri che indagavano, i segni di vecchie percosse e sevizie. Dalla mamma della piccola, la ventottenne Viviana Di Laura, erano arrivate le prime accuse al compagno. "Piangeva, l’ho stretta al collo", s’era difeso lui. Ma poi l’orrore era venuto fuori con gli interrogatori della Caputo e dal procuratore aggiunto della Capitale, Italo Ormanni: storie di riti misteriosi cui la creatura sarebbe stata sottoposta - a detta della Di Lauro - anche a casa di altri parenti, sospetti di abusi sessuali da parte di familiari diversi, scenari inquietanti ancora solo sfiorati dall’inchiesta iniziata dopo la morte.

Sottratta a tutto questo dalla mamma, aveva cominciato questa nuova vita con lei e il compagno di lei: Bronchi. All’inizio era andato tutto bene ma poi il tarlo della follia s’era insinuato nel ménage di quella coppia così strana. Lui, Bronchi, aveva iniziato a parlare del diavolo, a immaginare Alice posseduta, a temere che "una notte ci ucciderà". Ed era entrata in gioco la figura di un santone, erano cominciati riti contro il malocchio, pentole di sale sotto il letto, bacinelle piene d’acqua, tecniche per placare una bambina "irrefrenabile". Mauro, già giudicato seminfermo di mente nel 2001 in un procedimento di separazione dalla moglie, stringeva le mani al collo di Alice per procurarle una "leggera anossia", riuscendo così a "sedarla". Mauro legava Alice a un catino pieno di panni sporchi per "domarla". Mauro l’ultima volta ha stretto troppo, e la bambina, trovata dai medici con il corpo completamente tumefatto, alla fine è morta. Tre mesi dopo il patrigno l’ha raggiunta nello stesso modo: stringendo un cappio attorno al collo.

Cassino: commissione regionale visita l’istituto di pena

 

Il Tempo, 23 ottobre 2006

 

Domani alle ore 10 Wanda Ciaraldi, capogruppo Udeur alla Regione Lazio, (nella foto) si recherà in visita presso il carcere San Domenico di Cassino. L’iniziativa rientra nell’ambito delle attività di controllo, verifica e conoscenza della situazione di vita dei detenuti e degli operatori all’interno delle carceri. "Le attività per il miglioramento della qualità della vita nelle carceri è solo all’inizio" commenta Ciaraldi. "Sono lieta di poter visitare, con la delegazione regionale, l’istituto di pena di Cassino, la mia città, per avere modo di verificare quali siano le esigenze sia dei detenuti che degli operatori e per poter, quindi, dare loro adeguate risposte.

Nelle recenti visite all’interno degli istituti di pena di Roma, Frosinone e Paliano ho notato che nelle carceri - dice Ciaraldi - la presenza di detenuti si è letteralmente dimezzata grazie all’indulto. In questo modo si è raggiunto l’obiettivo di assicurare maggior dignità alle persone recluse che erano costrette in condizioni disumane ad abitare spazi esigui con numerosi altri carcerati. Ora si è ripristinata una situazione dignitosa per i detenuti".

Nel carcere di Cassino, dei 250 detenuti presenti, ben 177 hanno beneficiato dell’indulto e sono tornati in libertà (3 di loro sono stati di nuovo arrestati). Sono 73 quelli rimasti reclusi, di cui il 40% extracomunitari. "Ma non basta - rileva Ciaraldi - perché ora bisogna concentrare l’attenzione anche su tutto il microcosmo di operatori delle carceri. L’indulto ha dimezzato sì la popolazione carceraria, ma non ha di fatto diminuito la mole di lavoro per gli operatori interni agli istituti di detenzione: il numero dei dipendenti è sempre lo stesso, troppo esiguo per fronteggiare le molteplici e diverse esigenze di una casa circondariale".

Lazio: protocollo Garante dei detenuti - Ordine degli Psicologi

 

Ansa, 23 ottobre 2006

 

Riconoscere e garantire il diritto alla salute mentale ai detenuti attraverso atti concreti come, ad esempio, la presenza in ogni carcere del Lazio di un luogo adibito ai colloqui psicologici per preservare la riservatezza e la delicatezza dell’intervento. È questo uno degli scopi del Protocollo d’Intesa firmato tra l’Ordine degli Psicologi del Lazio e il Garante Regionali dei Diritti dei detenuti. Il Protocollo è stato siglato da Angiolo Marroni (Garante regionale dei diritti dei detenuti) e la dottoressa Marialori Zaccaria, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio.

Fra gli obiettivi operativi del Protocollo anche quello di monitorare l’organizzazione del lavoro dello psicologo per migliorare le condizioni di vita nelle carceri di detenuti e operatori attraverso una migliore realizzazione del servizio psicologico.

"La sofferenza psicologica è una delle vere priorità del carcere - ha detto il Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni - ed uno dei punti critici su cui agire con decisione. È per questo che ci siamo molto adoperati, in questi mesi, per creare in carcere una serie di attività a volte anche estemporanee ma comunque in grado di stimolare la mente dei detenuti. Solo essendo ben lucidi, infatti, si può intraprendere un cammino che può riportare a pieno titolo nella società".

"Assicurare il principio della continuità terapeutica per ciascun paziente privato della libertà personale al pari di un cittadino libero - ha detto la Presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio Marialori Zaccaria - in qualsiasi intervento di prevenzione, di cura o di riabilitazione psicologica è un punto cardine del nostro protocollo. In questa direzione saranno monitorate le ore di psicologia nelle carceri della Regione Lazio che attualmente risultano essere poche e molto frammentate, si va un minimo di 15 ore ad un massimo di 60 ore mensili per psicologo. È evidente che vanno rivisti i contratti che regolano il rapporto di lavoro fra psicologo e luoghi di detenzione, perché solo così si possono assicurare le risorse necessarie ad una corretta attività psicologica".

Nel Protocollo d’Intesa è previsto che, nell’ambito della sua azione quotidiana, il Garante e i suoi operatori segnaleranno le situazioni di disagio, sofferenza psicologica, chiusura, depressione che si incontrano nelle carceri e in particolare nei "nuovi giunti" o in quei detenuti che presentano patologie che necessitano di un sostegno alla persona non solo farmacologico.

Il Garante ha ribadito la volontà di collaborare per migliorare i servizi sanitari erogati coinvolgendo le Asl competenti e superando il sistema sanitario carcerario attuale a tutela dell’integrità psico-fisica dei detenuti.

L’Ordine degli Psicologi del Lazio si impegna a promuovere, con gli psicologi che operano nelle carceri, il principio della continuità terapeutica, dalla presa in carico del paziente al momento dell’ingresso in carcere fino alla sua uscita. Il principio della continuità terapeutica è infatti da ritenersi un presupposto fondante la "relazione" tra lo psicologo ed il paziente.

L’Ordine degli Psicologi promuoverà anche l’impegno terapeutico continuativo con visite e colloqui aderenti ai bisogni e alle specificità del detenuto e la compilazione di un diario clinico da cui risulti una sintesi del percorso terapeutico che il paziente sta seguendo oltre alla stesura di un "programma terapeutico personalizzato".

Droghe: Turco; su terapia dolore accolto l'appello dei medici

 

Ansa, 23 ottobre 2006

 

"Non penso di dover essere io quella che fa le indagini al San Raffaele. L’appello dei medici l’ho raccolto, proponendo ieri il provvedimento che incentiva la terapia del dolore". Così il Ministro della Salute Livia Turco ha commentato oggi a Milano, a margine del Congresso Nazionale del Sindacato Medici Ambulatoriali (Sumai), l’inchiesta della magistratura sulla chiusura del dipartimento di terapia del dolore nella struttura San Raffaele Ville Turro, in seguito alla quale i medici si sono rivolti in una lettera aperta allo stesso ministro. Nel provvedimento di ieri, secondo Livia Turco, la terapia del dolore è incentivata "attraverso la semplificazione dei ricettari, attraverso l’ampliamento dell’opportunità di queste pratiche, dei farmaci, di derivati della cannabis che sono sperimentati in altri Paesi", senza dimenticare "gli investimenti finanziari per gli hospice". "Mi pare che il modo giusto di rispondere all’appello dei medici - conclude il ministro - fosse quello di incentivare le terapie del dolore, non di fare indagini che non mi competono".

Droghe: Caruso (Prc); non criminalizzare uso di cannabis

 

Ansa, 23 ottobre 2006

 

"Forse è bene ricordare tanto al deputato Gianfranco Fini quanto ai partiti dell’Unione, che non solo la legge Fini-Giovanardi va abrogata immediatamente, ma vanno anche e soprattutto non criminalizzate le condotte legate al consumo della cannabis. E questo non lo dice Caruso ma il programma dell’Unione". Così, in una nota, Francesco Caruso, deputato Prc - Sinistra europea, della commissione Affari Sociali. "È passato già troppo tempo, troppi ragazzi sono finiti in questi mesi in carcere per un pezzo di fumo e rischiano 6 anni di detenzione a causa di questa legge proibizionista e criminale", sottolinea Caruso. "Sono 4 milioni i consumatori di cannabis in Italia, se Fini vuole arrestarli tutti, non basterebbero le carceri di tutto il mondo per rinchiuderli - dice l’onorevole di Rifondazione - E correrebbe il rischio di sbattere dentro tanti suoi elettori e dirigenti politici.

I quattro gatti che Fini minaccia di mobilitare per difendere la sua legge liberticida non fanno paura a nessuno. Piuttosto, il governo Prodi dovrebbe far attenzione a non tirare troppo la corda e passare subito dalle promesse elettorali ai fatti concreti". "Le decine di migliaia di persone che hanno riempito le piazze in Italia in questi anni, in occasione delle street parade antiproibizioniste e delle Million Marijuana March sono stanche di attendere - aggiunge Caruso - pronte a scendere in piazza se non ci saranno in tempi brevi segnali reali di controtendenza, a partire dalla legalizzazione della cannabis". "L’uso terapeutico della cannabis è un primo passo verso il riconoscimento della sua innocuità - conclude - la comunità scientifica e medica lo afferma da decenni, le statistiche pure. Di cannabis non è mai morto nessuno, di alcol muoiono decine di migliaia ogni anno. Ma c’è chi, come il deputato Fini, per pura propaganda politica non sa o fa finta di non sapere".

Immigrazione: Milano; un concerto per chiudere i Cpt

 

Asca, 23 ottobre 2006

 

"Dicono che i Centri di permanenza temporanea non sono carceri, chiamano i detenuti ‘ospiti’ e affermano che sono strutture "necessarie" e che non c’è nulla da nascondere. Eppure, sono coperti da segretezza più di un supercarcere. Un’omertà istituzionale che fa sì che la stragrande maggioranza dei cittadini non sappia cosa siano, cosa vi accada e quanto costino".

La denuncia è di Arci, Fiom, Rifondazione Comunista e gruppi pacifisti di Milano che hanno organizzato per sabato prossimo 28 ottobre una manifestazione-concerto a p.zza San Gerolamo, vicino al Cpt di via Corelli, per chiedere la chiusura di tutti i centri. Nell’appello di convocazione le organizzazioni denunciano che "il 75% delle risorse pubbliche spese in Italia in materia di immigrazione sono destinate a misure repressive, mentre non esistono canali di regolarizzazione, se non l’attesa dell’ennesima sanatoria, dichiarata o mascherata".

Le organizzazioni rendono noto di aver chiesto al Prefetto di Milano di rendere pubblici tutti i dati relativi al Cpt di via Corelli, ricevendo però un diniego totale di fonte ministeriale". Per questo ritengono che "sia inaccettabile continuare a negare la trasparenza e pretendere poi di assumere decisioni politiche sulla base di una presunta "necessita"‘. Invitiamo quindi le organizzazioni sociali, i movimenti, le forze politiche, i cittadini e le cittadine a partecipare alla mobilitazione presso il Cpt di via Corelli.

Gran Bretagna: troppi detenuti, si pensa alle navi-carcere

 

Ansa, 23 ottobre 2006

 

Il problema del sovraffollamento della carceri nel Paese può essere risolto in maniera originale, almeno secondo il governo di Sua Maestà britannica. Il ministro degli Interni John Reid starebbe infatti valutando l’utilizzo di navi-prigione. Qualcosa che riporta alla mente le galere, imbarcazioni sinonimo di "carcere" ai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia, nel XVI secolo.

Secondo media locali, Reid avrebbe già lanciato una campagna per la fornitura di navi in grado di ospitare fino a 800 detenuti. L’iniziativa, destinata a creare non poche polemiche, è volta a risolvere una situazione di emergenza creatasi in Inghilterra e in Galles, dove la popolazione carceraria si è avvicinata al tetto delle 80mila unità.

 

 

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