Rassegna stampa 20 marzo

 

Viterbo: detenuto di 41 anni si suicida impiccandosi a sbarre

 

Apcom, 20 marzo 2006

 

Si è suicidato impiccandosi alle sbarre della cella con un lenzuolo fatto a strisce mentre, nel parlatorio, i fratelli lo aspettavano per un colloquio. È finita così, sabato scorso, nel carcere circondariale Mammagialla di Viterbo, la vita del detenuto in attesa di giudizio Raffaele Montella.

A quanto risulta al Garante Regionale del Lazio dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni, l’uomo, 41 anni di origine campana, era in carcere per rapina e altri reati contro il patrimonio ed era stato trasferito a Viterbo lo scorso 5 marzo, proveniente dal carcere di Civitavecchia.

"Ci è stato raccontato che Raffaele era un uomo psicologicamente in difficoltà - ha detto il Garante - prostrato da gravi problemi familiari e in particolare nel rapporto con la moglie. A questo quadro, inoltre, occorre aggiungere la circostanza che l’uomo era appena arrivato a Viterbo dal carcere di Civitavecchia, struttura carceraria - ha spiegato Marroni - notoriamente ad alto rischio per quanto riguarda il rispetto dei diritti dei detenuti".

Secondo Angelo Marroni quella di Raffaele Montella "è l’ennesima dimostrazione che, all’interno delle carceri, i detenuti psicologicamente provati sono abbandonati a se stessi. Questa è un’altra vita persa inutilmente". "È ora che chi può fare qualcosa - ha concluso il Garante dei detenuti - si renda conta che in carcere esseri umani che comunque fanno parte di questa società stanno pagando un prezzo troppo alto".

Varese: collaboratore di giustizia muore in cella, indagini in corso

 

Il Giorno, 20 marzo 2006

 

Sarà aperta un’inchiesta da parte della Procura di Busto Arsizio (Varese) per far luce sulla morte di Cosimo Cirfeta, un ex appartenente alla Sacra corona unita (la criminalità organizzata pugliese) rinvenuto cadavere nella sua cella del carcere Bustocco, dove era rinchiuso da circa un anno. L’uomo dopo parecchi anni di militanza nell’organizzazione malavitosa si era pentito, permettendo agli inquirenti di raggiungere importanti risultati investigativi. Sulla vicenda anche il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria avvierà un’indagine. Pochi i particolari certi: sembra che avesse chiesto di poter disporre di un fornelletto a gas, di quelli usati dai campeggiatori ed escursionisti, per prepararsi del caffè subito dopo l’ora d’aria. In realtà lo avrebbe utilizzato per inalarsi il gas dalla bomboletta. Da chiarire se il suo sia stato un gesto deliberato per togliersi la vita, oppure un fatale incidente. In molti casi i detenuti utilizzano questo sistema in sostituzione di sostanze stupefacenti.

 

Cirfeta non s’è suicidato, voleva testimoniare…

 

È stata eseguita oggi pomeriggio, all’ospedale di Busto Arsizio, l’autopsia sul corpo di Cosimo Cirfeta, il boss della Sacra Corona Unita, morto venerdì sera nel carcere di Busto Arsizio dove era rinchiuso. Il medico legale Massimo Levratti non ha riscontrato ecchimosi o traumi e si è riservato 30 giorni per presentare al sostituto procuratore Cristiana Roveda la relazione, dovendo attendere l’esito degli esami tossicologici. Cosimo Cirfeta - secondo i primi rilievi - è morto annusando il gas della bomboletta del fornelletto usato per preparare il caffè.

Un’abitudine diffusa fra i detenuti, ma che stavolta è costata la vita al collaboratore di giustizia che aveva testimoniato nel processo di Palermo a favore del senatore Marcello Dell’Utri, sostenendo che alcuni pentiti si erano messi d’accordo per accusare il parlamentare di rapporti con la mafia. I legali che assistevano Cirfeta, gli avvocati Alfredo Biondi e Pasquale Tonani, sostengono che il loro assistito non può essersi suicidato in quanto, proprio il giorno prima, aveva scritto ai difensori dicendo che voleva testimoniare al processo di Palermo "il che contrasta - dice l’onorevole Alfredo Biondi - con qualsiasi volontà suicida".

Giustizia: i 30 anni delle misure alternative alla detenzione...

Intervista a Riccardo Turrini Vita (Direttore Ufficio Esecuzione Penale Esterna del Dap)

 

Famiglia Cristiana, 20 marzo 2006

 

Affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà e detenzione domiciliare aiutano il recupero dei condannati. Parola del direttore dell’Ufficio competente.

"Il ceto politico sa che ormai non si può prescindere dalle misure alternative al carcere, per un’esigenza di fatto (lo Stato non può carcerare centinaia di migliaia di persone) e per una sensibilità culturale che porta a pensare che molti comportamenti possono essere puniti senza affliggere pesantemente il bene della libertà, e magari con più efficacia. Ne ha meno consapevolezza l’opinione pubblica, che vede la cosa soprattutto in termini di umanità, avendo coscienza che in molte carceri si sta male".

Evviva! Ecco come si sfata il luogo comune secondo cui i governanti vedono sempre peggio dei governati. È il momento giusto per notarlo, perché le misure alternative al carcere furono introdotte giusto 30 anni fa, con la riforma dell’ordinamento penitenziale portata dalla legge n. 354 del 1975. E Riccardo Turrini Vita, magistrato da 19 anni, dal 1994 al ministero della Giustizia e dal giugno 2002 direttore generale dell’Ufficio dell’esecuzione penale esterna, è la persona giusta per farcelo notare. Anche perché, ricorda lui, "sono stato nominato e confermato dal ministro Castelli in questa direzione generale ch’era stata creata su un’intuizione del precedente ministro Fassino". Come a dire che sull’utilità delle pene alternative l’accordo è più che bipartisan.

"Insomma, non è certo un caso", conferma Turrini Vita, "se dal 1975 le pene alternative sono sempre aumentate di numero e, dopo il 1986 e soprattutto il 1998, sono cresciuti i loro termini di riferimento, ovvero la quantità di pena che può essere espiata non in carcere ma fuori. Alla fine del 2004 erano 45.000 coloro che, durante quell’anno, erano stati in esecuzione penale esterna (e 35.000 a fine 2005, ndr.): dati assai consistenti se si considera che nello stesso momento c’erano condannate in carcere 35.000 persone. È dunque importante sapere che già in questo momento, in Italia, la più parte delle pene viene eseguita con misure alternative: il che dimostra che esse hanno un buon effetto, sia come strumento di sanzione sia come strumento di controllo sociale, quindi anche in termini di prevenzione. È un risultato positivo, soprattutto se pensiamo che in Italia il sistema è nato, all’inizio, come post-detentivo, cioè in sostituzione di una parte finale della pena, e si è poi trasformato in una pena eseguita in modo diverso ma fin dall’inizio per tutte le pene fino ai tre anni o fino ai due, secondo i casi".

 

Pochi mesi fa, dopo un iter durato qualche anno, è passata in Parlamento la modifica all’articolo 72 della legge del 1975, che trasforma i C.S.S.A. (Centri di servizio sociale per adulti) in U.E.P.E. (Uffici di esecuzione penale esterna) e amplia le loro funzioni. La riforma ha destato polemiche. Qualcuno, anche sul fronte del volontariato, ha detto che in questo modo diminuiva il recupero e cresceva il controllo…

"Bisogna capirsi: ogni attività umana svolta nell’interesse della comunità ha bisogno di momenti di controllo. Si controlla come insegnano i professori o come vengono riparate le fognature, a maggior ragione bisogna verificare come viene eseguita una pena che, in linea di principio, è la detenzione e poi viene offerta alla collaborazione del condannato come misura alternativa. La pena alternativa non viene data dal giudice cosiddetto "della cognizione", cioè quello che condanna. È un altro giudice, quello di sorveglianza, che valuta se si può avere una pena diversa dal carcere. Quindi c’è per forza un problema collegato alla necessità del controllo. Che può essere semplicemente di fatto (verifica se la persona sta in un certo posto) o invece di percorso, per vedere se la persona acquisisce uno stile di vita conforme alla legge e supera le difficoltà che prima aveva nel mantenerlo. Questo è il lavoro dell’assistente sociale, il che è ben chiaro nella formula della pena, che è appunto affidamento in prova al servizio sociale".

 

Se permette una sintesi un po’ brutale: alternativa fin che si vuole, ma sempre una pena è. Giusto?

"È una pena, è un’alternativa, ma soprattutto è efficace, cioè aiuta la persona, proprio perché c’è anche un elemento di controllo. Le polemiche cui lei si riferiva, quelle legate alla modifica dell’articolo 72, sono state a volte strumentali. Se si legge il nuovo testo, si vede che gli Uffici hanno acquisito la professionalità del servizio sociale e in più la competenza di scrivere i programmi di trattamento dei condannati, cosa che finora non era mai stata prevista dal legislatore. Aggiungo soltanto un’ultima cosa: da quando mi sono inserito in questa struttura, gli assistenti sociali sono raddoppiati".

 

È chiaro che le pene alternative fuori dal carcere presuppongono per il condannato una casa, un posto di lavoro, insomma, un minimo di accoglienza da parte della società. Qual è la risposta che incontrate?

"Varia molto da località a località e dipende da diversi fattori. Dalla situazione socioeconomica, per esempio: è chiaro che tutto si complica nelle zone dove l’emergenza lavoro si fa più sentire. O dalla presenza di una rete più o meno forte di organizzazioni di volontariato, che fanno da ponte tra condannato e società. Storicamente il volontariato è molto più presente in carcere che nell’esecuzione penale esterna. Ma partecipa comunque, anche se in maniera indiretta, quando agevola le persone nella ricerca di casa e lavoro, mettendole quindi nella condizione perché gli uffici possano dare parere favorevole alla concessione di una misura alternativa".

Giustizia: le storie di due detenuti affidati ai servizi sociali...

 

Famiglia Cristiana, 20 marzo 2006

 

Lei ha passato dentro meno anni di quelli della condanna. Lui, da libero, è in difficoltà col lavoro, ma spera di farcela.

 

Maria (il nome è di fantasia) ricorda con difficoltà quel delitto che, 12 anni fa, la condusse in galera: omicidio preterintenzionale nel corso di una rapina. Allora aveva appena vent’anni e un bambino di un anno. "È un capitolo chiuso", dice, "è stata un’esperienza terribile e non ne voglio più sapere niente, anche se, purtroppo, mi torna spesso davanti".

Per lei, arresti domiciliari e poi condanna definitiva: otto anni di reclusione. Ma di questi otto anni Maria ne ha scontati in carcere molti di meno: la sua condizione di madre e la giovane età, oltre alla sua buona condotta, le hanno garantito una serie di benefici di legge, a partire dalla liberazione anticipata, i permessi premio, la detenzione domiciliare e, infine, l’affidamento in prova al servizio sociale per gli adulti di L’Aquila (che dal 2005, in base alla legge 154, si chiama Ufficio di esecuzione penale esterna). "Quando usufruivo dei permessi premio sfruttavo quel tempo per lavorare e stare con mio figlio". Così, dal 1999 al 2002 Maria ha scontato gli ultimi tre anni di pena fuori dal carcere, in affidamento con il lavoro: "Sono stata assunta dalla lavanderia per la quale avevo già lavorato durante la detenzione domiciliare. Il proprietario mi disse che a lui non interessava la mia condizione di detenuta. Gli importava che io svolgessi bene la mia mansione. È stato molto disponibile con me, e, quando sono stata nella condizione di ottenere il beneficio dell’affidamento con il lavoro, ha presentato la richiesta per assumermi".

 

Qualcuno su cui contare sempre

 

Durante i tre anni di affidamento, Maria è stata costantemente seguita e aiutata dagli operatori del servizio sociale, di cui conserva un ottimo ricordo: "A parte gli incontri periodici, mettevo gli operatori al corrente di tutto quello che mi succedeva, ero sempre in contatto con loro, per me erano un punto di appoggio. Sono stata seguita benissimo e quando incontravo qualche difficoltà mi rivolgevo a loro. Sapevo che potevo contare su di loro anche solo per un consiglio. La pena alternativa è molto positiva, ma dipende sempre dalle singole persone. A me ha fatto bene perché avevo tutto l’interesse a riscattarmi. Il reinserimento sociale fatto da soli non è semplice, perché tutti ti chiudono le porte in faccia". Oggi, Maria è una donna e una mamma di 33 anni serena, responsabile e matura, vive in Abruzzo, nel paese d’origine, ha un lavoro. Il passato non si cancella, ma lei ha imparato a conviverci. L’affidamento al servizio sociale le ha dato la possibilità di passare dal carcere alla libertà con gradualità e senza traumi, di stare vicina a suo figlio, di reinserirsi piano piano nella società grazie a un lavoro che l’ha valorizzata, che le ha dato fiducia in sé stessa. "Forse, oggi sono più diffidente rispetto al passato. Ma ho una vita stabile, mi sento appagata. Ho un figlio di 11 anni al quale pensare e che mi dà tante soddisfazioni. E dalla vita non chiedo niente di più".

 

Francesco (il nome è fittizio) è stato condannato nel 1989 a 22 anni di reclusione per omicidio. Ma dal carcere è uscito molto prima. Da meno di un anno (agosto 2005) è un uomo libero. "Dopo quattro anni e mezzo di reclusione mi hanno concesso i permessi premio per buona condotta. Durante la detenzione mi sono sposato con la donna che già frequentavo prima di commettere il reato. Nel 1999 sono entrato in regime di semilibertà". Dal 2003, Francesco ha fruito dell’affidamento in prova al servizio sociale, anche lui presso l’Ufficio di esecuzione penale esterna di L’Aquila, lavorando per due anni per una ditta edile come carpentiere. "Ero libero tutto il giorno, avevo solo l’obbligo di uscire di casa la mattina alle 6 per andare a lavorare e di rientrare la sera alle 22. La responsabilità era mia. Se avessi infranto quest’obbligo, l’errore sarebbe stato mio e la pena alternativa sarebbe stata interrotta". Oggi, Francesco ha 44 anni, vive in Abruzzo con sua moglie e le loro due bambine, una di sette e una di nove anni, nate durante la sua detenzione, grazie ai permessi premio ottenuti. "Devo tantissimo a mia moglie, una donna straordinaria, che mi è stata sempre vicina, non mi ha mai abbandonato". Sua moglie è casalinga. Francesco continua a lavorare come carpentiere, o almeno ci prova, perché ora, in stato di libertà, incontra molti più ostacoli e complicazioni di quando era in affidamento. "Quando sono tornato in libertà ho continuato a lavorare per la stessa azienda di prima, ma questa poi è fallita. Così, oggi mi trovo a lavorare in nero, senza contributi, senza sicurezze. Mi arrangio come posso. Certo, mi pagano di meno e ho più rischi".

Oggi, che è un uomo libero, Francesco continua a mantenere un rapporto costante con il centro di servizio sociale: "La dottoressa che mi ha seguito mi telefona spesso, si informa sulla mia famiglia, sul lavoro, mi raccomanda di comportarmi bene, perché devono passare ancora degli anni prima di ottenere la riabilitazione. Ma loro ormai non hanno più potere e giurisdizione su di me, non possono fare nulla". E aggiunge: "L’affidamento al servizio sociale è stato utile per me. E lo è stato anche per la mia famiglia, perché gli assistenti sociali si preoccupavano pure di mia moglie e delle mie figlie, le seguivano e le tutelavano".

 

Le difficoltà arrivano "dopo"

 

Ma la libertà, ora, per Francesco è una condizione molto difficile da gestire. L’affidamento rappresentava un punto di riferimento e una garanzia di sicurezza, un luogo protetto che, attraverso una legislazione specifica, garantiva una condizione di normalità e regolarità lavorativa. "Finché sono stato seguito dal servizio sociale tutto andava bene. Le assistenti mi trattavano con attenzione, combattevano per me, per i miei diritti, sulla base delle leggi esistenti. Una volta fuori, va tutto male. È difficile trovare lavoro, ti creano problemi per il tuo passato. Forse era molto meglio prima, quando ero un detenuto. Una volta finito l’affidamento, nessuno nel tessuto sociale pensa più a te, nessuno ti guarda più in faccia. Durante l’affidamento, quando scontavo ancora la pena, ero rispettato per quello che ero e tutelato. Ora tutto è cambiato".

Giustizia: sul sovraffollamento nelle carceri, di Luigi Morsello

(Ispettore Generale dell’Amministrazione Penitenziaria in pensione)

 

Agenda Lodi, 20 marzo 2006

 

Stupisce che sia stata data da tutti gli organi di informazione una notizia giudicata allarmante, fino al punto di affermare che i detenuti nelle carceri italiane non sono mai stati prima d’ora così tanti. Ciò è accaduto "in limine" del convegno "La salute in carcere: parliamone senza censure".

A dire il vero, ancor prima di oggi l’allarme era emerso sulla stampa nazionale, senza raccogliere eco alcuno e per diverso tempo. Già ad ottobre dell’anno scorso (cfr. Diritto & Giustizia, 4.10.2005) tale allarme veniva raccolto da chi scrive (Presenti: 60.000.Un numero insignificante?). L’argomento veniva ripreso nella rivista cartacea settimanale (Diritto e Giustizia, 22 ottobre 2005, n. 38). Erano già allora 60.000. Oggi sono 59.523 (un dato assurdamente preciso, considerato il turn-over quotidiano di scarcerati ed arrestati: a S. Vittore entrano ed escono centinaia di detenuti al giorno, con saldi raramente attivi. La tendenza non si è modificata, ma non è un buon segnale.

Subito dopo l’approvazione della "ex-Cirielli" il Ministro della giustizia prendeva, improvvisamente, coscienza del problema (La Repubblica, 30.11.2005, pag. 3), fatto del quale si dava conto (Diritto & Giustizia, 8.12.2005) con un titolo emblematico e provocatorio (E bisognerà ricorrere al genio Militare per attrezzare carceri provvisorie).

Se il grido di allarme lanciato al convegno fosse peggiorativo rispetto a quanto già si sapeva qualche mese addietro, allora il titolo non suonerebbe poi così tanto provocatorio. Il dato del sovraffollamento è ancora stabile, ma quanto tempo resterà stabile?

Certo è che si tornava sull’argomento (Diritto & Giustizia, 16.12.2005), titolando "Il sovraffollamento nelle carceri", per commentare la notizia di stampa (La Repubblica, 16.12.2005, pag. 23) di una iniziativa dell’Unione di legge di concessione di amnistia ed indulto.

Intanto il Ministro Castelli annunciava "urbi et orbi" la propria ricetta al problema del sovraffollamento: l’appalto della costruzione di quattro nuove carceri in Sardegna (La Repubblica, 24.1.2005). La notizia, di per sé ottima, veniva probabilmente strumentalizzata a fini prettamente elettorali. Infatti, tutti sanno che per realizzare un carcere occorrono, se va tutto bene, dai quattro ai sei anni. Tempi biblici, che non sono cambiati nei cinque anni di governo del Ministro leghista, il quale non indicava, prudentemente, un rimedio attuale, che oggi tornerebbe molto comodo, salvo a voler prendere in seria considerazione l’ipotesi - provocatoria - del ricorso al Genio militare.

E come avrebbe potuto? Una seria politica dell’esecuzione penale non si improvvisa. Occorrono programmi di medio e lungo termine. Occorrono snellimenti delle procedure d’appalto. Occorrono irrobustimenti delle procedure di controllo della esecuzione degli appalti. Occorrono finanziamenti, per la provvista di risorse, infrastrutture. Occorrevano progetti di carceri più razionali, studi di tendenza: non sarebbe stato difficile prevedere la curva tendenziale di crescita dell’aumento delle presenze di detenuti nelle carceri. Insomma, occorreva migliorare il sistema giustizia e, sopratutto, la volontà politica per farlo.

È di tutta evidenza che quando il problema ti aggredisce è già troppo tardi. Quando ciò accade, sono possibili solo provvedimenti immediati. L’unico provvedimento possibile nell’immediato, era ed è una legge di concessione di amnistia ed indulto, con una maggioranza semplice per l’indulto ed una qualificata per l’amnistia. Quindi, occorre una volontà politica, chiamata, con un brutto neologismo, "bipartisan" (povera lingua italiana).

E qui il discorso si complicava. Come dimostrano le vicende del timido, timidissimo tentativo in tal senso dell’Unione, anche se si tratta di timidezza più che giustificata, considerata la dirompente inarrestabile ed inimitabile novità dell’importazione dagli U.S.A. dei metodi far politica e, soprattutto, campagna elettorale di Forza Italia (Alexander Stille - Citizen Berlusconi - Vita e imprese – Garzanti 2006, pagg. 1-21). Infatti, la Camera bocciava il pur modesto Ddl di amnistia ed indulto (Diritto & Giustizia, 14.1.2006).

A margine di quanto precede si inserisce il convegno, al quale va riconosciuto il pregio di avere ufficializzato il problema del sovraffollamento, sottolineandolo in atti e resoconti, di modo che sarà anche questa una priorità del nuovo esecutivo, fra le tante che dovranno essere affrontate, prima che si facciano sentire gli effetti della c.d. "Ex-Cirielli" (Diritto e Giustizia, 14 gennaio 2006, n. 2), una legge fatta male, come dimostra la circostanza della modifica di alcune sue norme dopo appena 25 giorni dalla sua entrata in vigore (Diritto&Giustizia, 12.1.2006), con un aumento stimato (Associazione Antigone) in 20.000 detenuti in un solo anno, che è appena iniziato. Poi si entrerà nella paranoia più totale: è già successo, appena trent’anni fa. Allora chi scrive c’era, oggi è felice di non esserci più.

Verona: "Carcere e scuola", per far conoscere una realtà diversa

 

L’Arena di Verona, 20 marzo 2006

 

Visitare il carcere, liberamente. Entrare in contatto con una realtà chiusa e rendersi conto che ci si trova in un luogo dove manca la libertà, quella libertà che forse noi diamo, sbagliando e lo sappiamo, per scontata. Espiare una pena inflitta per una colpa, un reato, può essere il momento in cui si comprende l’errore e si fanno proprie le regole della società.

Se è così, e noi dobbiamo strenuamente continuare a sperare sia così, il percorso del detenuto ha come punto d’arrivo, come meta, il totale reinserimento nel tessuto sociale, perché questo è il vero scopo della pena detentiva. Ma sono le modalità di strutturazione del percorso che creano difficoltà, perché il detenuto non deve essere lasciato a se stesso, perché è difficile istruire al riadattamento sociale in un posto che per definizione ti isola, che ti mette un cancello davanti, che ti trattiene, ti rinchiude. Perché in carcere si è fuori dai normali contesti sociali e l’interazione è possibile solo con pochi: risulterebbe impossibile educare alla società dove, in realtà, non c’è società, o è un surrogato di essa. Il problema di chi lavora in carcere è proprio questo, non possiamo nasconderlo.

Allora devono partire iniziative, contatti, si devono formare delle persone professioniste, esperte. Bisogna istruire, insegnare un lavoro per il futuro, capire le soggettività in gioco, le diverse culture di partenza; e chi sta all’esterno può fare molto. E l’esterno prende le sembianze di uno studente che cerca di portar via il pallone a chi ha magari visto in faccia la morte.

Capirà che il detenuto è come lui, forse solo un po’ più vecchio e più sfortunato, e che il carcere non è un luogo lontano, ma è nella nostra società, è parte di noi. Il significato del progetto "Carcere e Scuola 2006", che per circa tre mesi vedrà coinvolte 57 scuole di Verona e provincia con incontri di calcio e pallavolo nel carcere di Montorio, sta tutto qui, e non è poco. Un progetto che è stato possibile grazie all’impegno concreto e continuativo dell’ideatore Maurizio Ruzzenenti e alla passione di Achille Coltro, supportati da professionisti, docenti ed educatori e dal fondamentale sostegno del Direttore della casa circondariale di Montorio Salvatore Erminio e del commissario Stefano Fulgenzi. "Carcere e scuola" significa coinvolgere le scuole in un impegno costante e continuativo, ma non per vedere il detenuto come fosse l’animale di uno zoo, bensì per essere curiosi di calarsi in una realtà di cui facciamo tutti parte. E le scuole, da parte loro, devono far capire ai propri giovani le conseguenze delle azioni sbagliate e, al contempo, aiutare a farli comprendere che chi ha sbagliato non può pagare per tutta la vita, ma gli deve essere concesso il diritto di provare a rimediare. "Acta non verba", fatti non parole, è il principale intento di un progetto ormai quasi ventennale: azioni concrete tese a rendere migliori e più consapevoli due realtà, la scuola e il carcere, apparentemente opposte, ma appartenenti alla stessa, prismatica società. È quindi un impegno che deve essere recepito e portato avanti non solo dalle istituzioni (carcerarie, amministrative e governative) e dai cittadini, ma anche dai media, locali e nazionali, nel loro ruolo comunicativo principale di formazione della sensibilità dei cittadini, soprattutto dei più giovani, nei confronti del carcere e di chi nel carcere vive.

Milano: una "casa senza sbarre" per le mamme detenute

 

Il Giorno, 20 marzo 2006

 

Nascerà a Milano, forse già in autunno, la prima casa per tutte le detenute madri della Lombardia. Un progetto pilota, il primo in Italia, su cui si sta lavorando già da anni. Sono otto i bambini sotto i tre anni che vivono dietro le sbarre in Lombardia. Quattro piccoli sono detenuti con le mamme nel carcere milanese di San Vittore, gli altri quattro sono ospitati nel carcere di Como.

Una situazione difficile che incide sulla loro vita. La loro nuova casa sarà una struttura collocata in un contesto civile, appositamente adeguata per l’accoglienza di mamme e bambini, che pur dotata della presenza del sistema di sorveglianza coordinato dalla Polizia Penitenziaria, sarà organizzata come una comunità e prevederà la presenza di figure educative per la facilitare le relazione interpersonali e affettive.

Potrebbero essere eliminate le sbarre, sostituendole con sistemi di sicurezza sofisticati ma ugualmente efficaci. Sarà così garantita ai piccoli ospiti fino ai tre anni, attraverso l’assessorato all’Infanzia del Comune di Milano, l’accompagnamento e l’utilizzo dei servizi educativi territoriali esterni per la prima infanzia (Nidi, Tempo per la Famiglia) e le quotidiane uscite nel quartiere.

Il Ministero dell’Istruzione favorirà l’accesso ai programmi di educazione rivolti alle mamme per ripristinare rapporti normali con i genitori. Il progetto verrà presentato mercoledì alle 11 nella sala convegno di San Vittore alla presenza del ministro della Giustizia Roberto Castelli, del ministro per l’Istruzione Letizia Moratti, del presidente della Lombardia Roberto Formigoni, del sindaco Gabriele Albertini e del presidente della Provincia Filippo Penati.

I piccoli sono costretti a rimanere con le loro mamme dietro le sbarre nel periodo più delicato della loro crescita - spiega una nota del Provveditorato Regionale alle carceri per la Lombardia - da zero a tre anni quando, cioè, inizia a formarsi il primo sostrato della personalità. Avrebbero bisogno di gioco, di esperienze, di essere stimolati da varietà di impulsi e conoscenze e invece devono adattarsi alle logiche di divieto proprie dell’istituzione totale, la monotonia dei tempi e dei ritmi carcerari, il dolore della reclusione:le conseguenze psicologiche ed evolutive di una simile condizione che segnerà negativamente la loro esistenza sono facilmente intuibili.

La struttura, che dovrà essere ristrutturata per essere adeguata alle esigenze del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si trova in viale Piceno ed è stata messa a disposizione dalla Provincia, proprietaria dell’immobile. Un apposito Gruppo di lavoro interistituzionale composto dai rappresentanti di tutte le istituzioni impegnate nell’iniziativa, sta elaborando le linee operative di un progetto educativo che indirizzi e programmi questa sperimentazione.

 

Milano: niente più bambini in carcere con le mamme...

 

Redattore Sociale, 20 marzo 2006

 

La provincia di Milano mette a disposizione una struttura. L’assessore Corso annuncia: "Finanziamenti alla cooperative di tipo B fino a 200mila euro". Niente più bambini in carcere le mamme. Lo ha annunciato oggi Francesca Corso, Assessore della Provincia di Milano agli Affari generali, tutela dei consumatori, bilancio sociale con delega all’integrazione delle persone detenute, intervenendo al convegno "Made in jail. Il lavoro dentro, cooperative sociali in carcere" organizzato nell’ambito di "Fa la cosa giusta".

La provincia metterà a disposizione delle mamme con bambini fino a tre anni una struttura che potrà ospitare i piccoli che si trovano attualmente nel carcere milanese. Già a Pasqua una decina di donne detenute e i loro bambini, minori di tre anni, saranno ospiti della casa-famiglia in viale Piceno, messa a disposizione dalla Provincia insieme al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, al Tribunale di sorveglianza e alla direzione del carcere. Il progetto sarà presentato il prossimo 22 marzo a San Vittore.

E non è la sola buona notizia della mattinata. L’assessore Corso ha infatti annunciato la costituzione di un gruppo di lavoro che studierà la possibilità di modificare la legge 381 in modo da ampliare la possibilità di finanziamento per le cooperative di tipo B dagli attuali 20mila euro a 200mila euro. Una boccata di ossigeno che potrà garantire la continuità dei progetti avviati dalle associazioni.

Alghero: carcerazione deve essere anche costruzione del futuro

 

Alghero Notizie, 20 marzo 2006

 

L’Assessore alla Pubblica Istruzione e Cultura del Comune di Alghero, Antonello Muroni, in rappresentanza dell’Amministrazione Comunale, ha incontrato presso la Casa Circondariale di Alghero i detenuti partecipanti al progetto di ristorazione, organizzato dall’Istituto Alberghiero di Alghero.

Erano presenti il Comandante della Polizia Penitenziaria, l’Ispettore Superiore Ignazio Olla, il dott. Giampaolo Cassitta, Direttore dell’Area Educativa – Pedagogica della Casa Circondariale, le prof.sse Sanna e Scala, rappresentanti rispettivamente la funzione strumentale per il coordinamento della sezione carceraria e il corpo docente I.P.S.A.R., corso di economia aziendale dell’istituto succitato. La visita dell’Assessore, nonché Vice Sindaco, Muroni, ha fatto seguito alla firma di un importante protocollo d’intesa stipulato tra i diversi organismi promotori del progetto di cui sopra, ovvero: il Centro Territoriale per la Formazione Permanente degli Adulti, l’Istituto Professionale Alberghiero, l’Assessorato alla P.I. e Cultura del Comune di Alghero e l’Area Pedagogica della Casa Circondariale di Alghero .

Contemporaneamente, l’Istituto Alberghiero sta portando avanti il progetto di Educazione alla legalità - "La scuola incontra il carcere". Ed il Vice Sindaco ha ritenuto opportuno porre particolare rilievo alla formazione dei detenuti in carcere, nonché alla loro esperienza lavorativa che gli stessi compiono in diversi settori, esortandoli a porsi in modo maggiormente propositivo nei confronti dell’attività svolta.

Il 21 marzo "Giornata della legalità" è stata istituita per non dimenticare la memoria, l’impegno posto in essere dai cittadini contro le mafie "per ricordare tutte le vittime innocenti della criminalità organizzata". È un giorno importante nel quale l’Amministrazione Comunale ha deciso di incontrare nuovamente i detenuti ed "ascoltare le loro richieste e proposte", in modo da trovare, insieme, soluzioni idonee a rendere il periodo trascorso in carcere non solo come un periodo di riflessione, ma anche di "costruzione del loro futuro" per il loro reinserimento nella vita sociale, una volta usciti da quella realtà.

Ciò avviene attraverso l’insegnamento di professioni diverse, con la realizzazione di laboratori di falegnameria o di manufatti elettrici (le luminarie, per es.), coordinati dalla Cooperativa di giovani "Apriti Sesamo". In tale occasione verranno consegnati alle classi partecipanti al corso due personal computer, per la loro attività didattica. Un altro esempio è dato dalla biblioteca del carcere, inserita nel neonato sistema bibliotecario urbano, con un fondo di circa 10.000 libri. Quest’ultima potrà essere messa in rete con tutte le altre biblioteche del territorio, permettendo allo stesso, che ne potrà in tal modo usufruire, di dare un particolare contributo al percorso di reinserimento del detenuto nella quotidianità.

L’impegno preso dall’Amministrazione Comunale con la stipulazione del Protocollo d’Intesa succitato, ha l’obiettivo di "dare ancora fiducia" ai detenuti, ai quali il carcere ha insegnato che una possibilità di "rinascere", nel senso letterale del termine, è possibile. Quando tale risultato viene ottenuto, con l’effettivo reinserimento, sociale ed umano a tutti gli effetti, dell’"ex", ormai, detenuto, nella vita quotidiana, potremmo ritenerci noi tutti, come società civile, soddisfatti del nostro operato.

Torino: la garante per i diritti dei detenuti audita in Comune

 

Comunicato stampa, 20 marzo 2006

 

Giovedì 16 marzo la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino è stata audita dalla IV Commissione Consiliare Sanità e Servizi Sociali del Comune. Due i temi affrontati: "Tutela della salute in carcere" e "Punto della situazione dell’attività della Garante". La Garante ha relazionato relativamente ai seguenti punti:

Amministrazione comunale e "sistema carcere"; azioni proposte e prodotte dalla Città nel corso del 2005 a favore delle persone ristrette;

La Garante dei diritti delle persone private della libertà personale: attività svolta nel primo anno di insediamento e consolidamento del ruolo;

Ufficio della Garante; funzioni e compiti.

A seguito della IV Commissione Consiliare la Garante e il Sindaco della Città di Torino Sergio Chiamparino hanno visitato la Casa Circondariale "Lorusso e Cotugno" con il Direttore, dott. Pietro Buffa.

La Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino incontra mediamente 120 detenuti al mese, essenzialmente del carcere Lorusso e Cotugno delle Vallette, che ne ospita in totale 1.380 (circa 140 le donne). Ne accoglie le richieste, i disagi, le problematiche personali e cerca di indirizzarli presso i servizi competenti che possono affrontare le questioni poste. All’interno di un carcere le persone continuano a mantenere dei diritti, come ad esempio la tutela della salute. Il problema principale oggi è soprattutto quello di arginare la tossicodipendenza e la sieropositività.

Ma anche l’esigenza di cure dentaria è molto sentita. Il Garante, istituito dal Comune di Torino nel marzo dello scorso anno, partecipa alle riunioni mensili insieme agli assistenti sociali, gli psicologi, gli agenti e la direzione dell’istituto, presso il carcere delle Vallette. In questo incontro si discutono le questioni generali della vita in carcere (iniziative culturali gestite dagli enti pubblici, aspetti medici e psicologici e soluzioni lavorative) e i casi specifici dei detenuti. Parallelamente si sviluppa anche un continuo confronto e collaborazione tra la figura del Garante e le associazioni di volontariato attive all’interno del carcere.

Associazione Papillon: una battaglia di civiltà dei detenuti…

 

Comunicato stampa, 20 marzo 2006

 

Alla vigilia di una grande manifestazione che vuole ribadire un NO di popolo alle guerre di rapina (anche quando vengono denominate "umanitarie") e un sostegno convinto alle lotte di liberazione nazionale e per l’autodeterminazione dei popoli, ci permettiamo di intervenire pubblicamente per parlare di Giustizia e di carcere, ricordando a tutte le anime che riempiranno domani le strade di Roma che esiste un indiscutibile legame tra l’affermarsi di un clima e di una cultura di guerra e lo stravolgimento progressivo di tutte le forme del Diritto.

Se ci si libera dall’ideologismo che accompagna tanta parte della politica ufficiale, è possibile accorgersi come le risposte guerrafondaie alla rideterminazione del peso specifico di ognuna delle diverse aree del mercato mondiale siano ovunque accompagnate e sostenute da una classica "blindatura" degli Stati che oltre alla riscrittura sanguinaria del Diritto Internazionale non si fanno certo scrupolo di smantellare in ogni paese il Diritto Costituzionale, il Diritto Penale, il Diritto del Lavoro, i più importanti Diritti Civili e via via fino al Diritto Penitenziario. E non c’è bisogno di essere comunisti per capire a quale classe appartengono in prevalenza quelle decine di milioni di Cittadini che in ogni paese subiscono le conseguenze di questa regressione generale.

Questa è la principale ragione per cui noi detenuti consideriamo la nostra ormai decennale battaglia di civiltà per l’amnistia, l’indulto e le riforme come una componente, piccola ma significativa, di quel vasto movimento composto da realtà di lotta dei lavoratori, dei precari, dei senza tetto, degli emarginati, delle donne, dei migranti e degli studenti che si oppongono sia alla guerra che allo stravolgimento generale del Diritto.

Certo nessuno può illudersi che una tendenza reazionaria così vasta e profonda può essere fermata nei singoli paesi vincendo particolari battaglie su questo o quel terreno (sia esso quello della scala mobile o quello dell’aborto, dei pacs o della Legge 30) ma non di meno la resistenza che essa incontra è una condizione necessaria per quell’auspicabile rovesciamento parziale dei rapporti di forza che in Italia avrà un importante banco di prova nelle elezioni del 9 aprile. Liberarsi di un governo che è stato reazionario sotto ogni profilo, è il passaggio fondamentale per dare slancio e vigore a queste variegate forme di resistenza popolare, permettendogli così di prepararsi ad affrontare e vincere anche gli attacchi che presumibilmente gli arriveranno in futuro da quelle forze del centro sinistra che sembrano fare a gara per rispolverare quanto di peggio ci ha lasciato in eredità il vecchio "regime democristiano".

Noi detenuti non intendiamo quindi rinunciare alla nostra battaglia di civiltà e preannunciamo fin d’ora che come sempre, anche dopo il 9 aprile, non faremo sconti a nessuno. Qualunque sia lo schieramento vincente alle elezioni, intendiamo presentargli da subito le nostre richieste fondamentali e lo faremo attraverso una pacifica e variegata mobilitazione interna ed esterna alle galere che dovrebbe iniziare negli ultimi dieci giorni di maggio e accompagnare il sessantesimo anniversario della Repubblica.

A tutte le realtà che domani saranno a Roma, così come a tutti i candidati del centro sinistra, e in particolare a quelli della sinistra di classe, chiediamo di esserci vicini in questa comune lotta per l’amnistia, l’indulto e le riforme del nostro sistema penale e penitenziario, organizzando con noi una manifestazione di massa che in quei giorni di maggio porti davanti e dentro la Camera dei Deputati la voce di quelle donne e di quegli uomini che da dentro le galere dicono NO allo Stato Penale e chiedono il rispetto dei loro Diritti e della loro Dignità.

 

Vittorio Antonini, coordinatore dell’associazione Papillon

Iraq: gli Usa rilasciano 350 prigionieri, in carcere altri 14 mila

 

Vita, 20 marzo 2006

 

Sarebbero in tutto 14mila i prigionieri nei centri di detenzione Usa in Iraq. Oltre 350 prigionieri sono stati rilasciati dalle forze Usa in Iraq, secondo quanto comunicato dai militari americani. La loro scarcerazione è conseguenza di quanto deciso dalla commissione quadripartita (nella quale sono rappresentati la Forza multinazionale e i ministeri iracheni di giustizia, interno e diritti umani), incaricata di esaminare il fascicolo riguardante ogni detenuto.

Il comunicato non precisa se i detenuti siano stati rilasciati solo a Baghdad o anche nel resto dell’Iraq. Secondo fonti indipendenti, sono 14mila i prigionieri dei centri di detenzione Usa in Iraq: 8.000 a Camp Bucca, nel sud; 4.500 ad Abu Ghraib, vicino a Baghdad; 1.300 a Fort Suze, nel nord curdo, ed un centinaio a Camp Cropper, nei pressi dell’aeroporto di Baghdad. Ieri il New York Times aveva denunciato gli abusi perpetrati da militari Usa nella struttura penitenziaria di Camp Nama, vicino a Baghdad. Nella Black room, parte di una struttura di detenzione temporanea situata vicino all’aeroporto internazionale di Baghdad e gestita dalla Task force 6-26, i prigionieri venivano portati prima di finire ad Abu Ghraib. "La realtà - commenta una fonte anonima del Pentagono, citata dal giornale - è che lì non c’erano regole".

 

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