Intervista a Francesco Maisto

 

Carceri: è possibile costruire un sistema più umano?

Intervista a Francesco Maisto (Magistrato)

 

Vita, 20 giugno 2006

 

Amnistia e indulto: oggi sembrano le uniche soluzioni per risolvere il dramma delle nostre carceri. Ma non è così. La cosa più importante e anche più semplice è quella di armonizzare e mettere in pratica la normativa già vigente. Lo dice un magistrato, Francesco Maisto, che auspica la clemenza, ma non crede molto sui suoi effetti. E che però si dice ottimista: "Vedo la volontà di consentire l’ingresso di nuove energie nel circolo vizioso ed auto referenziale del carcere. Iniziamo utilizzando in pieno le misure alternative. Sono più efficaci delle misure emergenziali".

Che starebbero altrove se, in questi anni, la nostra Costituzione non fosse stata tradita e ferita sostituendo alla promessa di solidarietà le parole d’ordine della tolleranza zero. Si sono confusi i principi costituzionali, nella loro globalità, con parole d’ordine estranee alla nostra cultura europea. E così ci troviamo con un sistema, anzi un a-sistema sanzionatorio, completamente disintegrato: si dice a Napoli "addò coglie, coglie" per indicare l’irrazionalità di un intervento costoso, rigido, non educativo. Ma non tutto è perduto, come conferma David Garland della New York University: un sistema "altro"è possibile! Se dobbiamo sperare che un altro mondo è possibile, come anche di recente e autorevolmente è stato ribadito dall’attuale ministro degli Interni, allora sarà possibile pure un diverso sistema sanzionatorio. Ma prima dobbiamo "organizzare la speranza", come suol dire Alessandro Margara. Un giovane vescovo e profondo teologo della mia terra, don Bruno Forte, riflettendo sul Principio Speranza di Ernst Bloch dice che "pensare nella speranza non è solo pensare la speranza, ma restare desti nel sogno, anticipando l’avvenire e costruendolo..."

Sono 61.392 i reclusi nei 207 penitenziari italiani. La capienza sarebbe di 46mila posti. Il 36% dei detenuti è in attesa di giudizio. Il 29,8 è in attesa di appello. In 15 istituti il sovraffollamento è superiore al 200%. L’idea di un’amnistia per alleggerire questa tragica situazione venne lanciata da Giovanni Paolo II nel discorso in Parlamento durante il Giubileo del 2000. L’idea è sempre rimasta nel cassetto: è stata rilanciata poi da Marco Pannella che a Natale 2005 ha proposto una convocazione straordinaria della Camera per discutere di amnistia e indulto. Dei 207 deputati proponenti se ne sono presentati 93.

Francesco Maisto, magistrato da sempre favorevole a un provvedimento di clemenza, morde il freno: "Si faccia pure, ma non aspettatevi che sia il salvagente per tenere in vita un sistema che fa acqua da tutte le parti". "Ci vuole un prima e ci vuole un dopo", altrimenti sarebbe fatica sprecata. In questo colloquio con Vita il sostituto procuratore generale di Milano traccia i confini del "carcere possibile" e li affida alla nuova maggioranza certo che "questa può davvero essere la volta buona".

 

Partiamo da indulto e amnistia. Dopo la grazia a Bompressi e la riapertura del fascicolo Sofri, sembra che si stiano aprendo spiragli per un provvedimento di clemenza. È davvero questa la prima cosa da fare?

Posso solo dire cosa auspicherei per dare al sistema carcerario una connotazione conforme ai valori della nostra Costituzione. Il tema è quello dell’ambito di operatività della potestà punitiva dello Stato e degli strumenti di remissione della pena. Amnistia e indulto certamente, ma da soli non servirebbero a molto. È necessario qualcosa prima e qualcosa dopo. Per riuscirci, il primo grande passo, precedente ai progetti e ai programmi, è restituire la speranza a tutto il mondo del carcere e dintorni: detenuti, ma anche assistenti sociali, educatori, volontari, agenti, direttori e magistrati. Tutto questo è un "mondo prigioniero" che è stato preparato, anche moralmente, nell’Anno della Riconciliazione e che ancora attende con pazienza e responsabilità i frutti dell’invocazione di Papa Giovanni Paolo II. Gran parte di questo mondo è il mondo degli esclusi, dei precari, dei senza fissa dimora, del disagio mentale, dei giovani tossici e dei migranti non criminali: insomma, i due terzi dei circa 61mila detenuti.

 

In concreto che cosa significa?

Ma dico già cose concrete. Operato un ragionevole ed utile ridimensionamento della popolazione carceraria per effetto di amnistia, indulto e modifiche delle leggi Bossi-Fini e Fini-Giovanardi, per evitare gli stessi, inutili e costosi rientri in carcere, bisogna lavorare all’attuazione di un progetto di riforma del carcere e dell’area penale esterna. Per due anni abbiamo contribuito alla formulazione del progetto Margara e dialogato, confrontandoci sul progetto, nelle carceri con educatori, polizia penitenziaria, assistenti sociali, cappellani e volontari. Il progetto, presentato lo scorso novembre con le firme di esponenti di tutto il centrosinistra, da Rifondazione ai Dl, è stato ripresentato il primo giorno di apertura del nuovo Parlamento.

Si tratta di un provvedimento che armonizza la legislazione già esistente, ma che il governo di centrodestra ha deliberatamente e completamente disatteso. Un esempio su tutti: il decreto legislativo 230 che prevede il passaggio del servizio sanitario penitenziario al servizio sanitario nazionale. Inchiostro sprecato. Per cinque anni tutto questo è finito nel limbo: oggi per molti detenuti mancano addirittura i farmaci fondamentali. Lo stesso è accaduto per la salute mentale, per le regole sulle ispezioni corporali, per l’incompatibilità dei bambini col carcere e per il Regolamento penitenziario emanato nel 2000 dal presidente Ciampi. Il progetto Margara ha il merito di coordinare tutta questa normativa, che però già esiste e potrebbe essere applicata senza alcun passaggio parlamentare. Poi ci sono le innovazioni relative alla tutela dei diritti, al rilancio delle misure alternative, alla riforma organizzativa-centrale e periferica del Dap, alla Magistratura di sorveglianza, al Progetto nazionale di reintegrazione sociale. Ma ripeto: a monte si deve lavorare per liquidare l’idea della persona come essere chiuso e statico per aprirci alla dimensione effettiva della speranza.

 

A ben guardare, però, dall’interno delle carceri le proteste non hanno mai raggiunto le vette di 15 o 20 anni fa. Come se lo spiega?

Ho vissuto fino in fondo il dramma di quel periodo e ricordo bene le rivolte carcerarie. Ha presente la macchina del tempo di Leonardo Da Vinci? Allo stesso modo il carcere è una macchina che deve necessariamente funzionare in ogni condizione di tempo e di spazio. A differenza di un albergo o di una clinica, non si può permettere il lusso di esporre il cartello "tutto esaurito". Anche se è evidente che questo va contro ogni regola fisica sulla impenetrabilità dei corpi. Venendo alla sua domanda, credo che ci siano due risposte. In questi anni all’interno delle carceri, sotto diversi profili, l’ordine è stato: "Arrangiatevi, però non voglio grane". Questo clima ha generato l’irrigidimento di tutto il sistema, l’incremento dei tassi di autolesionismo e il ricatto dei rigetti di liberazioni anticipate. Andrebbe poi verificato quale sia il grado reale di trasparenza dei nostri istituti. Credo che rispetto a quando facevo il magistrato di sorveglianza, nel pur tumultuoso e doloroso decennio 1980/1990, il rapporto fra car-cere e informazione sia stato decisamente turbato.

 

Un suo collega magistrato, Livio Pepino, sostiene che il mito sicuritario appartiene sia alla destra che alla sinistra. Perché dovremmo aver più fiducia in questo governo rispetto al precedente?

Perché il programma, promettendo dialogo, solidarietà e responsabilità, quindi felicità (e non sbornie), non coltiva il mito sicuritario come "instrumentum regni", come "asso pigliatutto" (per usare una metafora del professor Pavarini), nella visione dell’homo tecnologicus, ma, come ha insegnato il cardinal Martini (basta leggere il suo Sulla giustizia), s’impegna per la sicurezza come diritto sociale. Vedo la volontà di consentire l’ingresso di nuove energie nel circolo vizioso e autoreferenziale del carcere. Il programma, per esempio, parla esplicitamente dei giovani. Nel nostro contesto questo significa "prendere per le corna" la questione dei giovani - adulti detenuti. I detenuti fra i 19 e i 25, disoccupati e abili al lavoro non possono condividere lo stesso circuito con gli imprenditori del crimine. Io dico: almeno ai giovani cominciamo a dare una speranza facendo vedere in concreto che il crimine non paga. Penso ad istituti in cui i giovani adulti abbiano a disposizione, stabilmente e tutti, corsi di formazione intensivi finalizzati a un collegato lavoro esterno collettivo. Si tratta, allora, di interventi collettivi relativi a gruppi omogenei di detenuti. Penso a Case territoriali di reinserimento, da istituire in ogni regione, per la realizzazione di lavori socialmente utili nei loro territori, in un contesto penitenziario meno rigido, da gestire in modo comunitario con la partecipazione del privato sociale.

 

Proporre nuove leggi non rischia di essere un esercizio intellettuale?

Già oggi la condizione degli istituti è lontana da quella prevista dalle norme in vigore... Maisto: Invece abbiamo bisogno di legalità, di leggi sempre più piene di Costituzione ed uguali per tutti. Però, per incidere sulla vita reale bisogna innanzitutto ridurre il sovraffollamento. Ossia attuare quegli strumenti del progetto che non sono temporanei o emergenziali. Primo step: utilizzare a pieno regime le misure alternative, nel quadro di una strategia diversificata di contrasto della criminalità, secondo una storica Raccomandazione delle Nazioni Unite, e inoltre, in modo nuovo, come "meticciamento" con altre misure orientate al sinallagma: tempo carcerario - lavoro.

 

In questo senso qualche responsabilità ce l’hanno proprio i magistrati di sorveglianza. Non crede? Vengo da quel manipolo di eroi che "scom-mette"ogni giorno sull’uomo e la legalità. La magistratura di sorveglianza va messa nelle condizioni di lavorare bene, con efficacia e in modo efficiente, senza lo spauracchio di procedimenti disciplinari. Se riusciremo a inserire i magistrati in una rete di consenso comunitario, allora avremo fatto davvero un passo in avanti nella legalità per il bene delle nostre città.

 

Si è parlato anche di una gestione privata degli istituti. La Croce rossa e prima ancora don Mazzi hanno avanzato candidature in questo senso. Come le valuta?

Le esperienze straniere e la ricerca scientifica in materia ci dicono che la privatizzazione tout court significa fare del sistema carcerario, materializzazione della potestà punitiva che appartiene allo Stato, un business. Come ha dimostrato Nils Christie, criminologo dell’università di Oslo, siffatto carcere avrà sempre bisogno di incrementare la sua utenza e quindi il numero di detenuti. E lo farà attraverso un’attività di lobbying sul potere politico.

Altro che soluzione del problema del sovraffollamento. Al contrario, ritengo che il punto di equilibrio stia in una gestione statale permeabile al privato - sociale, in modo che il sistema possa funzionare dentro la legge, ma fuori dal mercato. Non possiamo confondere il titolo III (Rapporti economici) della Costituzione coi titoli I (Rapporti civili) e II (Rapporti etico-sociali). Sempre bisogna aver cura della persona, dentro e fuori il carcere. Si cresce con la partecipazione, la solidarietà e l’inclusione.

 

Francesco Maisto

 

Napoletano, classe 1946, Francesco Maisto si è laureato in Giurisprudenza con una specializzazione in criminologia clinica. È stato giudice istruttore nella sua città e poi distaccato presso il Dap (Dipartimento polizia penitenziaria). Attualmente è sostituto procuratore generale presso la Procura generale di Milano. Dal luglio del 2005 è membro della commissione studio del Csm sulla pena e sulle sue alternative. A lui si deve il Protocollo d’intesa Stato - Regione Lombardia firmato dall’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto (Pdci) e dal governatore Roberto Formigoni (FI) che a tutt’oggi costituisce uno dei documenti più all’avanguardia in tema di diritti dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria.

 

Intervista di Stefano Arduini

Hanno detto

 

Giovanni Paolo II

 

Al centro di questo Giubileo c’è Cristo, il detenuto. Al tempo stesso c’è Cristo il legislatore. Egli è colui che stabilisce la Legge, la proclama e la consolida. Tuttavia non lo fa con prepotenza, ma con mitezza. Cura ciò che è malato, rafforza ciò che è spezzato. Là dove arde ancora una tenue fiammella di bontà, egli la ravviva con il soffio del suo amore. Proclama con forza la giustizia, ma cura le ferite con il balsamo della misericordia. Roma, 9 luglio 2000

 

Giuliano Pisapia

 

Fino ad ora quasi tutte le forze politiche sia di centrodestra che di centrosinistra, non hanno avuto la volontà e il coraggio di dare una risposta concreta a una situazione carceraria di cui il nostro paese dovrebbe solo vergognarsi: e ciò solo per meschini calcoli elettoralistici. Roma, 18 gennaio 2004

 

Carlo Azeglio Ciampi

 

Le misure alternative sono strumenti irrinunciabili per chi, dopo anni passati in carcere, vede premiata la sua condotta e vuole cominciare a proiettarsi nel suo nuovo futuro. Spoleto, 24 ottobre 2004

 

Adriano Sofri

 

Che l’amore e il sesso siano vietati, con un peculiare accanimento terapeutico, ai detenuti e che la questione sia ancora poco meno che innominabile (se non sotto copertura: affettività), è una misura esemplare della miseria e dell’ipocrisia della vita pubblica. Communitas, febbraio 2006

 

 

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