Rassegna stampa 26 giugno

 

Amnistia: un Comitato e un "appello per la legalità"

 

Comitato per l’Amnistia, 26 giugno 2006

 

Noi sottoscritti, riteniamo necessaria, urgente, non più procrastinabile la calendarizzazione parlamentare di un provvedimento di amnistia, per interrompere la flagranza di reati contro la costituzione e il diritto internazionale di cui milioni di cittadini italiani sono vittime a causa della crisi strutturale della giustizia e del sistema penitenziario.

Facciamo nostri gli obiettivi e le proposte del grande satyagraha per la legalità, perché riteniamo che soltanto attraverso la concessione di un’amnistia ampia e generalizzata, che riduca ad almeno 5 milioni i 10 milioni di processi pendenti, si possa ripristinare quel minimo di legalità costituzionale senza la quale è del tutto velleitario e inconsistente qualsiasi tentativo di riforma strutturale.

L’Italia è il quinto Stato per il numero di ricorsi dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo ed è il primo in termini di condanne, la quasi totalità per violazione del diritto fondamentale, costituzionalmente garantito, ad una ragionevole durata del processo.

Il 30 novembre scorso il Consiglio d’Europa ha denunciato che "i ritardi della giustizia in Italia sono causa di numerose violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sin dal 1980", ritardi che "costituiscono un pericolo effettivo per il rispetto dello stato di diritto in Italia".

Sono 10 milioni i processi in attesa di giudizio la cui durata media (8 anni per i processi civili, 5 per quelli penali) aumenta di anno in anno. Secondo le stime del rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Alvaro Gil-Robles, il 30% della popolazione italiana è coinvolta in un procedimento giudiziario.

Dal 2000 al 2005 più di 1 milione di processi sono stati annullati per prescrizione a causa della loro eccessiva durata. Una vera e propria amnistia strisciante, destinata ad ampliarsi grazie all’approvazione della legge ex Cirielli.

Ma se molti sono i reati che vengono prescritti, assai di più sono quelli neppure perseguiti: nel 2005 i delitti denunciati sono stati 2.855.372, tra cui circa un milione e mezzo di furti, la quasi totalità dei quali resta impunita per essere rimasti ignoti gli autori. Da questi dati emerge che il sistema attuale di contrasto alla criminalità nel nostro paese, bene che vada, riguarda oggi solo il 10 o 20 per cento dei reati.

La crisi della giustizia delineata da questi numeri rappresenta la più grave questione sociale del nostro Paese, perché colpisce direttamente decine di milioni di persone vittime della lentezza dei processi e di reati che restano impuniti, e perché mina alle fondamenta il principio stesso di legalità e certezza del diritto.

In questo contesto, il carcere diviene sempre più uno strumento di perpetuazione dell’ingiustizia, specchio della condizione di emarginazione di interi ceti sociali, piuttosto che della certezza del diritto nel suo aspetto punitivo. Vi vengono reclusi soprattutto gli individui meno in grado di utilizzare la paralisi del sistema giudiziario a proprio vantaggio, attraverso ad esempio l’istituto della prescrizione, o gli autori di reati legati a grandi fenomeni sociali che lo Stato aggrava con leggi inadeguate a risolverli.

Nelle carceri italiane sono reclusi 60 mila detenuti, contro una capienza regolamentare di 43 mila. In queste condizioni, diventano impossibili le attività tese al recupero del detenuto e viene meno anche il dettato costituzionale secondo il quale "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Non a caso, il tasso di recidiva per gli imputati che scontano la pena in carcere è molte volte più alto di quello di chi usufruisce di pene alternative. In queste condizioni il carcere produce crimine invece che colpirlo. È ora di cominciare a dare risposta con un provvedimento straordinario di buon governo alla straordinarietà di questa crisi sociale e istituzionale del nostro paese.

Occorre varare la più straordinaria, forte, ampia, decisa e rapida delle amnistie che la Repubblica italiana abbia avuto dalla sua nascita per poter immediatamente ridurre di almeno un terzo il carico processuale della Amministrazione della Giustizia perché essa possa, liberata da processi meno gravi, proficuamente impegnarsi a concludere quelli più gravi.

È necessario un indulto che possa sgravare di un terzo il carico umano che soffre in tutte le sue componenti - i detenuti, il personale amministrativo e di custodia - la condizione disastrosa delle prigioni. Nessuna giustizia e nessuna certezza della pena possono essere assicurate se uno Stato per primo non rispetta la propria legalità ed è impossibilitato a garantire la certezza del diritto.

 

Comitato per l'Amnistia

 

Don Antonio Mazzi; Mario Marazziti (Portavoce Comunità di Sant’Egidio); Sergio D’Elia (Segretario Nessuno tocchi Caino); Don Andrea Gallo (Comunità San Benedetto al Porto); Stefano Anastasia (Conferenza nazionale volontariato e giustizia); Rita Bernardini (Tesoriera Radicali Italiani); Lillo Di Mauro (Presidente Consulta Penitenziaria Cittadina); Patrizio Gonnella (Presidente Antigone); Fabrizio Rossetti (responsabile settore penitenziario Funzione pubblica-Cgil); Irene Testa (Segretaria Associazione "Il detenuto ignoto"); Leo Beneduci (Segretario Generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria - Osapp); Don Sandro Spriano (Cappellano di Rebibbia); Sergio Segio (Gruppo Abele, Direttore di SocietàInformazione); Don Salvatore Lo Bue (Fondatore Casa dei Giovani); Luigi Nieri (assessore della Regione Lazio); Angiolo Marroni (Garante dei detenuti del Lazio)

Amnistia: Bertinotti; atto clemenza assolutamente indispensabile

 

Adnkronos, 26 giugno 2006

 

"La mia opinione, da larghissimo periodo, è che per ragioni di civiltà giuridica, rispetto alla condizione di chi vive nelle carceri, un atto di clemenza è assolutamente indispensabile". Fausto Bertinotti ha risposto così a chi gli chiedeva dell’amnistia a margine dell’inaugurazione della biblioteca messa insieme dall’Associazione Papillon a Casale di Ponte Nona a Roma. "Questa di oggi è un’esperienza che va oltre, rispetto a un atto su cui il Parlamento ha autonomia", ha proseguito il presidente della Camera riferendosi all’iniziativa alle porte di Roma che è stata realizzata da detenuti ed ex detenuti.

A chi gli chiedeva se l’amnistia possa arrivare nel corso di questa legislatura, Bertinotti ha risposto: "Io l’ho sempre detto, sono per questa possibilità". Parlando, poi, alla cerimonia di inaugurazione della struttura, il presidente della Camera ha spiegato che "quando parliamo di amnistia parliamo della possibilità di moltiplicare le energie, liberandole per fare quello che altrimenti non sarebbe possibile". Secondo Bertinotti, "bisogna dare seguito a questa apertura, investendo per il futuro, in modo che non sia solo un elemento di liberazione dalla pena aggiuntiva del carcere".

Perugia: il Centro Clinico Penitenziario sequestrato dai Nas

 

Ansa, 26 giugno 2006

 

Il centro clinico del carcere di Perugia, ospitato nella storica struttura di piazza Partigiani, è stato sottoposto a sequestro oggi dai carabinieri del Nas nell’ambito di accertamenti disposti dalla Procura della Repubblica del capoluogo umbro. Sull’indagine viene mantenuto un riserbo assoluto. La decisione sarebbe stata presa dopo la morte di un detenuto, avvenuto sembra nel corso di un intervento chirurgico. Nello stesso centro clinico una detenuta si è suicidata negli ultimi giorni. Una ventina di detenuti ricoverati nel centro clinico verrebbero ora trasferiti in un’altra struttura. Sembra quella di Regina Coeli a Roma. Nel luglio dell’anno scorso è stata inaugurata la nuova casa di reclusione di Capanne dove sono stati trasferiti i detenuti. Il centro clinico è però rimasto nella vecchia struttura di piazza Partigiani. L’11 giugno scorso un detenuto albanese era evaso proprio dal nuovo carcere di Capanne dopo aver scavalcato un muro e due recinzioni. Episodio sul quale sono in corso una indagine penale (per la quale ieri sono state eseguite ordinanze di custodia cautelare nei confronti di due italiani già detenuti accusati di aver agevolato l’evasione) e una amministrativa interna del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

 

Medicine scadute e un detenuto morto

 

Abuso di ufficio ed omissione di atti di ufficio: è questa l’accusa mossa dal Pm. Dario Razzi sostituto procuratore della repubblica di Perugia che ha fatto sequestrare dai carabinieri del Nas, il centro clinico del vecchio carcere di Piazza Partigiani del capoluogo. A seguito del provvedimento, i 12 detenuti (anche donne, poiché la struttura è divisa tra femminile e maschile) sono stati trasferiti in altri carceri con centro medico adeguato. Il Pm si è avvalso di due consulenti della università Cattolica di Roma che ieri hanno fatto un primo controllo mentre un altro è previsto per la prossima settimana.

Nella struttura sanitaria erano stati rinvenuti farmaci e materiale sanitario (kit chirurgici) scaduti, materiale affidato in custodia alla Direzione sanitaria del centro, ma due giorni fa distrutto. L’indagine aveva preso il via due anni fa, dopo la morte di un detenuto straniero che era stato sottoposto ad intervento chirurgico di emorroidi, eseguito da un chirurgo esterno e convenzionato. Le condizioni del detenuto però peggiorarono tanto che sopravvennero delle complicanze a seguito delle quali l’uomo morì, dimostrando in pratica - secondo l’accusa - le carenze dell’assistenza notturna. Dagli accertamenti di quel fatto, sono emersi inadeguatezze sia igieniche che strutturali con materiale sanitario scaduto che ha portato al sequestro del centro.

Per quella inchiesta, coperta dal massimo riserbo, sono indagate due persone, mentre per gli abusi d’ufficio e di omissione di atti (distruzione di materiale sottoposto a custodia) il PM Razzi non ha ancora assunto iniziative. Una dettagliata relazione è stata disposta per il ministero di Grazia e Giustizia, relazione che verrà integrata dopo le consulenze degli esperti del PM che torneranno nel vetusto carcere perugino di Piazza Partigiani (dove una detenuta si è suicidata poco tempo fa) visto che a luglio del 2005 era stata inaugurata la nuova struttura a Capanne, con un centro clinico solo in minima parte operativo. È da questo carcere che è fuggito una decina di giorni fa, di domenica, un albanese che è riuscito a scavalcare ben 3 recinti facendo perdere le proprie tracce. Questa fuga ha innescato una serie di problematiche sulla sicurezza del nuovo carcere e sulle carenze di personale di sorveglianza con prese di posizione dei sindacati e stato di agitazione della polizia penitenziaria proclamato da Cgil-Cisl-Uil. Una venticinquina di agenti, sono infatti impegnati nei servizi presso il centro clinico di Piazza Partigiani, centro ora sequestrato.

 

Centro Clinico Carcerario di Perugia unico in Umbria

 

È l’unico centro clinico carcerario operante in Umbria quello di Perugia sottoposto a sequestro per disposizione della procura. Si trova all’interno dello storico edificio di piazza Partigiani, nel centro storico del capoluogo umbro, che fino all’anno scorso ospitava il carcere ora trasferito nella nuova struttura di Capanne. All’interno di quest’ultima è prevista anche un’area sanitaria in un’apposita palazzina ma i lavori già progettati non sono stati ancora avviati. Il centro clinico di piazza Partigiani ospitava otto donne e sei uomini che vengono ora trasferiti in altre carceri appositamente attrezzati. Dispone di una sala operatoria, ma anche di apparecchiature per la radiologia e gli esami gastroscopici. Vi lavorano una ventina di operatori della polizia penitenziaria oltre a medici convenzionati. Le celle sono attrezzate come stanze di degenza ma chiuse da porte blindate e con sbarre. Per quanto riguarda le altre carceri umbre, quelle di Spoleto e Terni, dove si trovano detenuti sottoposti al 41 bis, dispongono di aree loro dedicate all’interno degli ospedali civili. Strutture comunque gestite direttamente dalle Asl.

Lettere: Alessandria; notizie dal "carcere lager" di San Michele

 

www.anarcotico.net, 26 giugno 2006

 

Noi, detenuti sottoposti a regime E.I.V., nel carcere di San Michele, viviamo in una situazione detentiva particolare. Da quando è stata istituita questa sezione, circa un anno e mezzo, le condizioni in cui ci troviamo sono quelle dell’isolamento. Non abbiamo nessuna possibilità di effettuare attività sportive, ricreative, culturali. Non ci è permesso frequentare né la biblioteca, né la scuola. Le ore d’aria (4 al giorno) si svolgono in un cubicolo di cemento di dimensioni offensive per la nostra dignità personale. Venticinque metri quadrati sono lo spazio che abbiamo a disposizione. Questo quadrato di cemento è circondato da mura altissime, che non ci permettono di vedere neanche il sole. I colloqui con i familiari, gli amici, le compagne sono possibili soltanto il lunedì, circostanza assurda se si pensa che è un giorno lavorativo, e tutte le persone internate qua hanno gli affetti, i propri cari distanti centinaia di chilometri.

Siamo in cinque in questa sezione, due sottoposti ad isolamento diurno da vari mesi, e inoltre c’è un ragazzo somalo in sciopero della fame da venti giorni, in segno di protesta per questo regime, ingiustificato, a cui siamo sottoposti da sempre. La volontà di annullamento dell’individuo, di oppressione, di sopruso è palese. Le responsabilità vanno ricercate, senza ombra di dubbio, nel volere della direzione del carcere. Con questa nostra lettera vorremmo rompere l’isolamento che ci circonda. Per questo facciamo affidamento a voi, e a tutti quelli che considerano il carcere l’espressione più schifosa e vigliacca di questa società assassina.

Auspichiamo che le nostre condizioni vengano rese pubbliche, e che ci sia informazione e sostegno, secondo le modalità che ognuno ritiene più opportune. Queste nostre rivendicazioni possono apparire parziali, riformiste, ma è sicuro che per noi hanno un valore molto diverso. Per noi il carcere non è da riformare, da rendere più umano ma da abbattere. Difatti piccole "vittorie" come avere libero accesso a tutte le attività sportive, culturali, etc. non cambieranno questo posto, che resterà sempre un lager punitivo. Ma il nostro quotidiano viverci subirà, significativamente, un cambiamento in positivo. Niente di più, niente di meno.

 

Ciise Maxanied, Bonamici Giuseppe, Faro Antonino

Giustizia: Roma; stilata una "Carta dei diritti del detenuto"

 

Redattore Sociale, 26 giugno 2006

 

Una "Carta dei diritti del detenuto" da proporre all’adozione della legislatura italiana e, in prospettiva, come base di specifiche convenzioni internazionali ha avuto stesura al termine della giornata di studio "Diritti dietro le sbarre", tenuta per iniziativa della Law (Legal Aid Worldwide) all’interno del carcere romano di Rebibbia, con la partecipazione dei detenuti. Law è un’associazione di operatori e cultori del diritto - in maggioranza giovani - costituitasi di recente per promuovere e per rendere effettiva la tutela giurisdizionale dei Diritti dell’uomo. Mentre la discussione pubblica sulle carceri si concentra, senza esiti efficaci, su macroquestioni generali, dal sovraffollamento al ricorrente dibattito sull’amnistia, dalla sicurezza all’edilizia carceraria, dal confronto a Rebibbia, al quale hanno partecipato decine di detenuti, è emerso una sorta di irrinunciabile "punto di vista elettivo" a partire proprio dai diritti fondamentali dell’uomo che non possono essere negati o vanificati dalla condizione di detenzione, come ha sottolineato la presidente della Law, l’avvocato Laura Guercio.

Il riunirsi e confrontarsi all’interno di Rebibbia - i convegnisti hanno condiviso, tra l’altro, il pasto dei detenuti - da un lato ha mostrato la volontà della Law di calarsi nel vissuto quotidiano di quanti di tali diritti irrinunciabili sono portatori, e dall’altro è sfociato in un confronto reale con persone che sono e devono essere non solo oggetto di discussione e di attenzione o magari di doverosa premura, ma anche e soprattutto soggetti propositivi e consapevoli di un’azione rivendicativa di parametri minimi di civiltà.

La Carta recepisce punti quali l’effettiva separazione tra detenuti in attesa di giudizio e condannati; l’obbligo dell’amministrazione a rimuove gli ostacoli che di fatto impediscono di usufruire del diritto alla salute; la forte affermazione che la detenzione possa essere inflitta e scontata solo nel pieno rispetto delle differenza di età, di genere e di vulnerabilità del detenuto, soprattutto per quanto riguarda i minori, gli anziani, le donne, i malati psichici o fisici, le persone soggette a dipendenza. Inoltre la Carta sostiene che, in democrazie avanzate e in Stati impegnati concretamente nella tutela dei diritti dell’uomo, retribuzione del crimine e rieducazione vadano considerate in un rapporto dialettico finalizzato al reinserimento sociale. Ciò implica ovviamente che la detenzione non possa essere a vita.

Un punto cruciale sollevato dalla Carta è quello di prevedere e realizzare il diritto-dovere alla formazione e all’aggiornamento del personale penitenziario sulla tutela dei diritti dell’uomo e la richiesta che sia prevista dall’ordinamento l’istituzione di un soggetto terzo rispetto all’amministrazione penitenziaria, un garante con adeguati poteri, cioè una figura che attualmente non esiste a livello nazionale e che è stata istituti, oltre che in diversi comuni, nella sola Regione Lazio, un ruolo attualmente ricoperto da Angiolo Marroni, che ha partecipato all’incontro a Rebibbia.

La Carta prevede infine la tutela dei rapporti familiari dei detenuti e, altresì, il diritto dei conviventi alla tutela della loro relazione con il detenuto. Più in generale, si afferma che la persona umana conserva pienamente anche nella condizione di detenzione il suo diritto inalienabile alla manifestazione della propria personalità, nell’affettività come nell’espressione del pensiero, nella pratica religiosa come nell’attività lavorativa, e si sottolinea come per non lasciare tali diritti confinati al loro mero riconoscimento teorico, sia compito dell’amministrazione garantire standard accettabili per il loro esercizio.

Con i detenuti si sono confrontati, oltre al direttore della Casa circondariale di Rebibbia, Carmelo Cantoni, i magistrati Sebastiano Ardita, Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento Dap, Simonetta Matone, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Roma, Alfonso Sabella, giudice del Tribunale Penale di Roma, che non hanno fatto mancare toni anche di aspra polemica, professionisti come Giulio Starnini, Presidente della Simpse, l’associazione dei medici che prestano servizio nelle carceri e come Paolo Iorio, Presidente di Avocats sans frontièrs-Italia, rappresentanti di importanti organizzazione del volontariato e della società civile, come Alessandro Caradossi, della Comunità di Sant’Egidio, e come Stéphane Mikala, del Segretariato di Londra di Amnesty International.

Lazio: modifiche a legge regionale su reinserimento detenuti

 

Asca, 26 giugno 2006

 

"Abbiamo ridefinito i criteri di accesso al finanziamento per i servizi di risocializzazione dei detenuti adeguandoli alle nuove normative". A dirlo Alessandra Mandarelli, assessore alle Politiche sociali della Regione Lazio, al termine della riunione dell’esecutivo regionale riguardo all’approvazione della delibera che modifica la legge regionale 12 del 2000. "La delibera - ha affermato l’assessore Mandarelli - riordina e razionalizza i finanziamenti per associazioni e cooperative sociali che si occupano di reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. Modifiche che mettono ordine e adeguano la legge regionale alle nuove normative vigenti". L’entità del contributo per quanto riguarda le cooperative sociali sarà pari a massimo 7.746 euro per detenuto o ex detenuto, occupato da almeno sei mesi precedenti la data di scadenza della presentazione della domanda; il contributo totale per tre anni non potrà superare 100 mila euro, secondo quanto prestabilisce la disposizione europea (de minimis). Per quanto riguarda le associazioni invece, il finanziamento non supererà 20.658 euro. "Un adeguamento necessario - ha spiegato l’assessore - delle normative vigenti, in linea con i criteri di razionalizzazione della spesa regionale". Le domande dovranno essere presentate entro il 30 giugno. "È quanto abbiamo potuto fare - ha concluso l’assessore Mandarelli - con la normativa vigente; ma auspichiamo che su questa materia si cominci a ragionare seriamente e in maniera condivisa anche con il contributo delle parti sociali e dei direttori degli istituti carcerari, in un quadro di programmazione condivisa".

Salerno: borse di studio per gli ex detenuti dell’Icatt

 

Vita, 26 giugno 2006

 

Percorso di orientamento, formazione informatica e un’esperienza professionale attraverso le borse lavoro di circa cinque mesi. È quanto previsto dal progetto "Stella", che verrà presentato domenica nella trasmissione "Okkupati", in onda su Rai Tre alle 13.10.

L’iniziativa è nata da un protocollo di intesa firmato anche dalla provincia di Salerno e da soggetti privati no profit, per attivare azioni per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti ed ex detenuti dell’Icatt di Eboli (Istituto a custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze). Ma il progetto non è che l’ultimo passo di un percorso iniziato una decina di anni fa, che ha portato alla messa in rete di enti quali il comune di Eboli, l’Icatt, il Ser.T., la provincia di Salerno con le varie associazioni e cooperative sociali che operano nel campo del reinserimento socio-lavorativo di soggetti svantaggiati. L’attivazione di queste borse lavoro è avvenuta presso aziende della regione Campania, individuate dal centro per l’impiego di Oliveto Citra e dal centro di orientamento professionale di Eboli. Il servizio ha lo scopo di accompagnare i partecipanti verso un inserimento lavorativo che vada oltre l’intervento previsto, in modo da favorire un rapporto di lavoro più stabile e duraturo.

Verona: poesia; il sogno di Illarian vola oltre le sbarre

 

L’Arena di Verona, 26 giugno 2006

 

È un premio letterario a mettere in evidenza le speranze e la voglia di affrontare la vita dei detenuti della casa circondariale di Montorio. La terza edizione dell’Accademia letteraria in carcere come è ormai consuetudine ha chiuso l’anno scolastico con un concorso dal titolo "Evasioni… poetiche".

La premiazione dei vincitori è avvenuta nella cappella del carcere dove per l’occasione sono convenuti politici, docenti, attori, artisti e quanti hanno contribuito nel corso dell’anno ad avviare attività di recupero ed inserimento lavorativo. Soddisfatto il direttore del penitenziario Salvatore Erminio che ha evidenziato come la cultura offra la possibilità di reinserimento sociale.

Dello stesso avviso è anche la direttrice del Ctp Carducci (Centro territoriale permanente per l’istruzione e la formazione in età adulta) Luciana Marconcini. A rappresentare il Comune erano presenti gli assessori Stefania Sartori (politiche sociali) e Maria Luisa Albrigi (istruzione) con loro anche il consigliere comunale Riccardo Milano, incaricato dall’Amministrazione di avviare un processo di dialogo con chi è costretto a vivere un periodo di detenzione.

"La nostra presenza vuole essere il chiaro segno che non siamo indifferenti alle problematiche dei detenuti", ha detto Sartori. Un mondo quello dietro le sbarre pressoché sconosciuto i cui bisogni emergono proprio dagli scritti, per lo più composti da migranti, giunti nel Bel Paese con la speranza di una vita migliore. "Il paese dei balocchi", così lo raccontano i carcerati improvvisatisi attori e che grazie all’impegno dei volontari del Gruppo teatrale Viva Opera Circus hanno messo in scena una breve rappresentazione.

Già perché il premio letterario è stato accompagnato da canti, da recite, da balli. I detenuti si sono messi in gioco quasi a dire che la stessa esistenza è un gioco fatta di bene e di male. E forse anche il pensiero di Ernesto Guidorizzi, docente all’università Cà Foscati di Venezia che si è prestato per il secondo anno consecutivo a giudicare gli scritti, che vede nella detenzione l’esasperazione della solitudine e della ricerca di se stessi, non è del tutto sbagliato: bastava guardare negli occhi quanti la libertà l’hanno persa per capire che si è persone sempre nonostante tutto.

Una manifestazione, questa, densa di emozioni a partire dalle musiche coordinate dall’Associazione Exodus che ha visto scendere in campo i musicisti Aljandro Aray, Luca Sacconi e il maestro Luciano Caselli. Canti nigeriani, arabi, albanesi hanno affascinato la platea. Occhi attenti quelli degli spettatori e forse anche meravigliati di fronte a quella che era sì una festa ma anche una rivincita di chi pur non essendo, attore, scrittore o cantante ha saputo dare il meglio di sé, proprio dinnanzi a chi forse sono i primi a giudicare la loro stessa esistenza.

I loro scritti sono stati letti da attori professionisti come Michele Ghionna del teatro stabile di Verona che ha dato il via alle premiazioni con il terzo posto di "Doppia bocciatura", un racconto di vita vera di Benzhara Abdleghani. In poche pagine si riassume il sogno di un giovane marocchino proveniente da una famiglia normale: studiare in Francia e laurearsi. La doppia bocciatura nasce proprio dal non aver superato un esame per colpa di un amore non ricambiato. Una bocciatura la sua che ha segnato un intero percorso di vita.

I componimenti poetici "Una valigia" di Ocsana Costantin e "Direzioni" di Aquila, giudicate ex equo hanno ottenuto il secondo posto. A premiare le due poetesse sono state Albrigi e Sartori. A vincere l’edizione 2006 è stato Illarian Quarri con il componimento "Partenze". In questa poesia si riassume l’idea di Guidorizzi che vede nell’ascolto intenso di qualsiasi brano "il conforto". Per Paola Tacchella, coordinatrice del progetto, questa iniziativa rimane unica nel suo genere al punto che con grande emozione spiega: "Troppo spesso ci si dimentica che dietro a chi è carcerato c’è una storia, spesso complessa e disagiata che ha determinato questo tipo di punto d’arrivo".

Un punto d’arrivo che è stato messo in evidenza con una singolare raccolta voluta dalla Mondatori Imprintign che ne ha fatto un libro che ha per titolo proprio "Evasioni…poetiche. Prosa e poesia sul tema: partenze".

Lettere: Antaui; dal carcere di Isernia al Cpt di Catanzaro

 

www.informacarcere.it

 

Eravamo in 30 la notte che dal Marocco ci siamo imbarcati per raggiungere l’Italia. Siamo arrivati in 21. Poi la spiaggia e subito la fuga, la clandestinità. Un mondo parallelo al vostro, dove è facile sbagliare e fare un reato. Così è stato per me, che a 26 anni sono entrato nel carcere di Isernia. Io marocchino e clandestino in Italia, ho pagato la mia pena, 3 anni, e ora mi trovo nel Centro di permanenza temporanea di Catanzaro. Aspetto, con tanti altri, di essere espulso.

Appena entrato nel carcere di Isernia mi hanno messo in una piccola cella. Un metro e mezzo di larghezza e due di lunghezza. Questo lo spazio a nostra disposizione. In quel buco di cella, pensata per un solo detenuto, ci stavamo in tre detenuti. Eravamo sempre chiusi. Uno sull’altro, gomito a gomito. Dormivamo su un letto a castello a tre piani, dove salivamo anche per mangiare. In quel buco di cella non c’era neanche lo spazio per un tavolino.

Dopo un po’ mi hanno trasferito in una cella più grande. Ma si sa, più spazio e più detenuti. La mia nuova cella era di circa 5 metri quadri calpestabili. Dentro 8 persone. Non c’era molta differenza tra quella cella del carcere di Isernia e la "carretta del mare" che mi ha portato in Italia. Stesso degrado, stessa disperazione. Come nella cella piccola, anche in questa più grande la vita era la stessa. Chiusi per 21 ore al giorno a fare nulla. Ho fatto tutta la mia pena in quella cella strapiena di gente. I miei compagni erano tutti extracomunitari, anche se per un certo periodo è stato con noi un ragazzo italiano. Lo hanno messo con noi perché era tossico. Non lo voleva nessuno in cella perché aveva le crisi di astinenza, che chiamiamo "la scimmia".

Noi lo abbiamo accettato, e così da 8 siamo diventati 9 in quella cella. Quel ragazzo non riceveva cure. Niente psicologi, niente metadone. Lo hanno messo in cella e basta eppure era malato. Ma d’altra parte nel carcere di Isernia non curano nessuno. In quella cella ho lasciato due miei compagni malati di diabete. Uno di loro lo vedevamo spegnersi come una candela. Già a marzo non camminava più. Noi facevamo a turno per portarlo in bagno. Una notte mi prese la mano e mi disse: "se solo avessi la forza mi impiccherei". Io non ho saputo rispondergli.

Ma il carcere di Isernia non è solo questo. C’è altro. C’è violenza, botte. Nella nostra cella la c.d. squadretta non è mai entrata. Ma tante volte, sia di giorno che di notte, abbiano sentito quei passi pesanti vicino a noi, e poi le urla di chi veniva picchiato. A quelle urla non ti abitui mai. L’effetto di quelle botte si sente in tutte le celle. Rimbomba. Spesso da noi c’erano ragazzi che piangevano sentendo quei lamenti, altri che si rannicchiavano sulla branda. Era un tormento.

La paura, quella vera, io l’ho conosciuta nel carcere di Isernia. Una paura non solo mia ma di tanti detenuti che vivono nel terrore di essere picchiati. Presto nel carcere di Isernia impari che il silenzio, lo stare zitto, è l’unico modo per sopravvivere. Io non sono mai stato picchiato solo perché non ho mai parlato con loro. Il silenzio mi ha protetto.

Noi eravamo uomini senza parola e senza diritti. Questo in carcere diventa rabbia che non si può manifestare. Molti rompono questo silenzio e si tagliano la pancia e le braccia, altri ingoiano pile elettriche o addirittura forchette. Un anno fa Rahid 22 anni marocchino, invece, si è cucito la bocca perché non aveva soldi e chiedeva di lavorare in carcere, ma nessuno gli dava retta. Così Rashid ha preso ago e filo e si è cucito le labbra. Rashid è rimasto così per una settimana solo per poter ottenere un semplice diritto. Lavorare, guadagnare pochi soldi per non perdere quel poco di dignità che ti è rimasta. Ma noi siamo uomini senza diritti. Siamo detenuti.

Il 28 maggio 2006, la notte prima del mio fine pena, pensavo che ce l’avevo fatta. "Domani esco". Ero sopravvissuto a quell’inferno. Pensavo che avrei subito raggiunto a Como la mia compagna, ci saremo sposati, finalmente. Ad aspettarmi anche un lavoro, finalmente.

Ed invece, alle due di notte mi hanno preso e portato in una cella di sicurezza della Questura di Isernia. In quella cella non avevo nulla, neanche il letto ed ho dormito per terra. Non capivo. Il giorno dopo mi hanno preso e portato nel centro di permanenza temporanea di Catanzaro. Nelle mie mani un foglio di carta con sopra scritto "Ordine di Espulsione". Così è iniziato il mio "primo giorno di libertà".

Ora sono 18 giorni che sono qui. Il CPT di Catanzaro è una casa isolata, divisa in stanzoni. Io dormo in uno di quei stanzoni, con altre 5 persone. Dal CPT non possiamo uscire. Siamo detenuti qui dentro. Con me ci sono 76 stranieri. Tutti con storie diverse ma con la stessa disperazione. Tanti di noi hanno vestiti stracciati, altri sono sporchi o malati. Siamo mischiati tra chi è appena arrivato con una barca o chi è uscito di galera.

Sopravviviamo solo perché ci danno da mangiare. Per il resto fa schifo. 5 bagni e 5 docce per 76 persone. La polizia ci sorveglia e se qualcuno prova a scappare sono cavoli suoi. Non c’è nessuno che ci dia ascolto. Se per caso uno di noi avesse diritto a rimanere in Italia non saprebbe a chi dirlo.

Dal carcere a un ghetto. Un ghetto per uomini persi.

 

Antaui, 29 anni

Svizzera: in carcere restano quasi solo i detenuti stranieri

 

Swiss Info, 26 giugno 2006

 

Gli stranieri che non risiedevano in Svizzera al momento della condanna rappresentano il 70-80% della popolazione carceraria. Lo rivela uno studio realizzato da un gruppo di ricercatori bernesi. Il dato si spiega in gran parte col fatto che i condannati elvetici e quelli stranieri residenti legalmente in Svizzera possono scontare la pena in un ambiente aperto e il loro numero non compare quindi nella statistica delle carceri.

Sempre più spesso gli svizzeri scontano la loro pena fuori da un istituto penitenziario, così che il loro numero dietro le sbarre diminuisce. Dal momento che per gli stranieri il pericolo di fuga è maggiore, nella maggioranza dei casi rimangono in un carcere chiuso, per poi essere in gran parte rispediti nel loro Paese d’origine al termine del periodo di detenzione.

A tali conclusioni è giunto un gruppo di ricercatori dell’Università di Berna, che ha realizzato uno studio sulla popolazione carceraria nell’ambito del programma nazionale di ricerca "Integrazione e esclusione". Le inchieste sono state effettuate dal 2003 al 2005 presso sette penitenziari elvetici.

 

Provenienza dei detenuti

 

Dall’analisi, pubblicata lunedì, risulta che i detenuti stranieri provengono da Paesi lontani e raramente da quelli confinanti. Le donne sono originarie soprattutto dall’America latina, gli uomini invece dal sud-est dell’Europa. La maggior parte di loro non possedeva un permesso di soggiorno o di dimora al momento dell’arresto.

 

Reinserzione nella società limitata

 

Il fatto di non potere uscire di prigione limiterebbe agli stranieri la possibilità di reinserirsi nella società (risocializzazione), come invece prevede la legge. "Questo divieto impedisce il reinserimento progressivo del detenuto perché non gli si dà la possibilità di libera uscita o di lavorare all’esterno del penitenziario", si afferma nello studio. "D’altro canto occorre rilevare che una reinserzione nel Paese d’origine è praticamente impossibile".

 

Misure d’integrazione

 

Per integrare il detenuto in seno alla popolazione carceraria gli sforzi sono molteplici. Si passa dalle possibilità di lavoro, alla formazione scolastica o professionale. Ma, rilevano gli studiosi bernesi, non sempre queste possibilità sono sfruttate al meglio. Si registrano infatti sovente dei problemi di comunicazione fra i detenuti. Per migliorare la situazione, i ricercatori propongono differenti soluzioni. Fra queste si annovera l’intervento di interpreti per migliorare la comprensione reciproca fra i carcerati, ma anche una maggiore partecipazione dei penitenziari nei programmi di ritorno in Patria. Infine, gli studiosi consigliano di fissare per ogni detenuto un programma di esecuzione della pena, in modo da prepararlo al meglio al suo ritorno alla vita in società.

 

 

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