Rassegna stampa 7 gennaio

 

Amnistia: giornata di "digiuno e dialogo" a favore della clemenza

 

Agenzia Radicale, 7 gennaio 2006

 

È partita alla mezzanotte del 6 gennaio una giornata di "digiuno di dialogo" dentro e fuori le carceri rivolto alla Commissione Giustizia della Camera che il 10 gennaio prossimo si riunirà per decidere sull’iter legislativo dei provvedimenti di amnistia e indulto.

L’iniziativa è stata promossa da numerose associazioni e gruppi che hanno organizzato la Marcia di Natale per l’Amnistia, tra cui la Comunità di Sant’Egidio, Exodus, Nessuno tocchi Caino, Comunità San Benedetto al Porto, Conferenza nazionale volontariato e giustizia, Radicali Italiani, Rosa nel Pugno, Antigone, Associazione "Il detenuto ignoto", Gruppo Abele, SocietàInformazione. Insieme ai leader di queste organizzazioni impegnate a difesa dei diritti dei detenuti, digiuneranno anche i responsabili dei principali sindacati di polizia penitenziaria: Osapp, Sappe e Cgil.

Oltre a Don Antonio Mazzi, Don Andrea Gallo, Mario Marazziti (portavoce Comunità di Sant’Egidio), Patrizio Gonnella (Presidente Antigone), Stefano Anastasia (Presidente Conferenza nazionale volontariato e giustizia), Don Sandro Spriano (Cappellano di Rebibbia), Don Salvatore Lo Bue (Fondatore Casa dei Giovani), Sergio Segio (Gruppo Abele, Direttore di SocietàInformazione), Sergio D’Elia (Segretario Nessuno tocchi Caino), Irene Testa (Segretaria Associazione Il detenuto ignoto), Rita Bernardini (Tesoriera di Radicali Italiani), Salvatore Ferraro (Associazione Il detenuto ignoto), Sergio Stanzani (Presidente del Partito Radicale), Ornella Favero (Direttore di Ristretti Orizzonti), Riccardo Arena (conduttore di Radio Carcere), partecipano alla giornata di digiuno anche Leo Beneduci (Segretario Generale Osapp), Fabrizio Rossetti (responsabile settore penitenziario Cgil), Donato Capece (Segretario Generale del Sappe).

Dopo la giornata di digiuno e in vista della ripresa dei lavori parlamentari, è previsto per le giornate dell’8 e del 9 gennaio, dalle 8 di mattina a mezzanotte, un Presidio permanente davanti alla Camera dei Deputati che proseguirà nella giornata del 10 gennaio, per diventare nel pomeriggio una Manifestazione che accompagni lo svolgimento dei lavori della Commissione Giustizia. Alle ore 16 del 10 gennaio, prima dell’inizio dei lavori della Commissione, il Presidente Gaetano Pecorella, incontrerà una delegazione delle associazioni promotrici dell’iniziativa. Sit-in sono previsti per la giornata del 10 gennaio anche davanti a molte carceri italiane.

Giustizia: depenalizziamo i reati minori…, di Sergio Romano

 

Panorama, 7 gennaio 2006

 

Quando l’Italia discute di amnistia, come accadde dopo la visita del Papa a Montecitorio tre anni fa e come accade in questi giorni, vorrei avere le certezze di Marco Pannella o quelle del leghista Roberto Castelli, ministro di Grazia e giustizia. Vorrei avere idee chiare, convinzioni precise ed essere serenamente schierato da una parte o dall’altra. Confesso invece di avere idee confuse e molti dubbi. Proverò a elencarli.

L’ultima amnistia risale al dicembre del 1989, quando guardasigilli era Giuliano Vassalli e presidente del Consiglio Giulio Andreotti. In Parlamento Vassalli spiegò che la recente riforma del Codice penale e soprattutto la più ampia competenza dei pretori avrebbero aumentato il carico di lavoro arretrato della magistratura. Fu questa la ragione per cui il provvedimento proposto dal governo era più generoso del precedente (1986) e prevedeva, con un certo numero di eccezioni, soprattutto nei casi di corruzione, una sanatoria per i reati puniti sino a quattro anni.

Superata qualche resistenza, l’amnistia venne approvata insieme a un indulto e fu la ventunesima della storia repubblicana. Subito dopo, tuttavia, si decise che l’Italia doveva smetterla di ricorrere a questi mezzi ogniqualvolta desiderava svuotare le carceri e ridurre il numero dei processi.

Per correggere questo vecchio vizio nazionale ed evitare di cadere in tentazione, la classe politica modificò l’articolo 79 della Costituzione e portò a due terzi il quorum dei voti necessari all’approvazione del provvedimento in Parlamento. La modifica dell’articolo 79 fu approvata con la Legge costituzionale n. 1 del 6 marzo 1992 e ha prodotto l’effetto desiderato.

Se finora non vi è stata amnistia, nonostante gli appelli di Giovanni Paolo II e le manifestazioni di Pannella, la responsabilità non è dei "giustizieri", pregiudizialmente contrari a qualsiasi provvedimento di clemenza, ma dei limiti che il Parlamento ha imposto a se stesso. Gli effetti dell’amnistia del 1989 furono questi.

Il numero dei carcerati passò da 30.680 a 26.150, ma nel 1991 i detenuti, grazie alla nuova legge sulla droga e alle misure antimafia, erano 35.485. Lo sfoltimento dell’arretrato non impedì che il numero dei processi pendenti continuasse ad aumentare. E la cancellazione dei reati per finanziamenti illeciti ai partiti politici creò una sorta di "impari condicio" che divenne evidente all’epoca di Tangentopoli.

Ne trassero un considerevole beneficio infatti i comunisti, che avevano ricevuto aiuti finanziari, direttamente o indirettamente, dall’Unione Sovietica; ma ne trassero un minore vantaggio i partiti che si erano alimentati grazie a reati di corruzione che l’amnistia non condonava.

Ecco alcune delle ragioni per cui mi chiedo se un’ennesima amnistia sia davvero il provvedimento di cui l’Italia ha bisogno. Viviamo in un’epoca di criminalità crescente e i nostri carcerati sono più di 50 mila. Ma in Gran Bretagna si aggirano sui 70 mila, mentre in Francia e in Germania superano i 60 mila. E non parlo degli Stati Uniti, un paese che ha 281 milioni di abitanti e, al 31 dicembre 2004, 2.135.901 carcerati.

Non possiamo svuotare il carcere ogniqualvolta il pendolo oscilla verso la compassione e riempirlo con l’approvazione di nuove norme (come accadrà grazie a quella parte della legge Cirielli che concerne i recidivi) non appena oscilla verso l’indignazione per un nuovo omicidio, una nuova forma di teppismo, una nuova truffa bancaria.

Occorrerebbe prendere in considerazione altre strade: la depenalizzazione dei reati minori, una radicale riforma dell’edilizia carceraria, la creazione di colonie di lavoro. E occorrerebbe fissare regole che impediscano ai magistrati di riaprire vecchie vicende come quella del suicidio del cantante Luigi Tenco. La giustizia di cui abbiamo bisogno è quella che interessa la nostra esistenza, che serve a migliorare la società in cui viviamo e che può metterci al riparo, con provvedimenti tempestivi, dalle insidie di un ladro o di un truffatore. Sulla morte di Tenco, come su altri avvenimenti controversi degli ultimi decenni, possono indagare gli storici.

Venezia: il dopo-carcere... senza denti, senza euro e senza lavoro

 

Gente Veneta, 7 gennaio 2006

 

Con un suono sordo un portone di ferro si chiude dietro le spalle, poi un altro, un altro ancora, stiamo entrando in un mondo freddo e incolore, dove le mille sfumature di Venezia, la forza vitale dell’acqua dei canali, la vivacità del labirinto delle calli e perfino il freddo pungente di questa vigilia di Natale che risveglia la vita... rimangono irrimediabilmente fuori.

Camminando lungo i corridoi umidi, sporchi e cadenti respiriamo un’aria grigia e impersonale. Poco dopo, in Chiesa, durante la messa, si riaccendono come per incanto i colori della vita e prende a danzare una ricca e vivace umanità, che mescola razze e lingue differenti. Un detenuto, accompagnato dalla fisarmonica e dalla chitarra, canta una dolce e triste canzone che racconta con ironia gli affetti lasciati fuori dal carcere. Il Patriarca ascolta e sorride di cuore.

Pochi permessi, tempi lunghi... Come creare un ponte tra qui dentro e lì fuori, che superi idealmente quei portoni di ferro che segnano una distanza spesso incolmabile e aiuti concretamente chi ha espiato la pena ad inserirsi di nuovo nella società? È il tema del colloquio che avviene dopo la messa tra gli ospiti del carcere e il Patriarca, la vigilia di Natale.

Don Antonio Biancotto, il cappellano, denuncia un nuovo clima di chiusura da parte di Istituzioni e società civile nei confronti del carcere: pochi permessi premio, poche licenze, tempi allungati per rispondere a qualunque richiesta dei detenuti, meno opportunità che favoriscono il reinserimento sociale...

Parla Luciano: "Il carcere mi ha aiutato a disintossicarmi, ma una volta uscito ho trovato solo porte chiuse. Facevo il cuoco: prima del carcere ero tanto cercato dai datori di lavoro da vagliare bene le offerte. Oggi, quando sentono che sono stato dentro, mi dicono: "Le faremo sapere" e tutto si chiude lì".

Senza denti, senza euro, senza lavoro... Parla Paolo: "Una volta libero, dopo il primo momento di euforia, mi si è aperta soltanto la strada della solitudine. Ero senza denti, senza un euro, senza lavoro...: tornare dentro è stato quasi una inevitabile conseguenza".

Tiene il filo del dialogo Enrico, quello che lo scorso anno raccontava: "La mia vita era come una trottola impazzita, fino a quando è arrivato il carcere. Il carcere non è bello, ma mi ha aiutato a fermarmi un po', a fare spazio alla mia umanità". A nome di tutti i detenuti, Enrico chiede alle Istituzioni, alla comunità ecclesiale, ai giornali... di contribuire a creare una mentalità nuova nei confronti di chi ha concluso il cammino di riabilitazione in carcere, perché l’ex detenuto possa trovare un lavoro e una casa quando ha scontato la pena: condizioni indispensabili per reinserirsi nella società. È il problema del "ponte" tra dentro e fuori, che il più delle volte non c’è.

Ma chi sta fuori resta rigido. Don Dino Pistolato, direttore della Caritas diocesana, ricorda l’impegno della Chiesa di Venezia per favorire tutte le iniziative che aiutino a costruire quel "ponte", in mezzo alla grande fatica oggi, non solo per chi esce dal carcere, ma anche per moltissimi giovani che in carcere non sono mai stati, di trovare un lavoro. "Certo - dice - non è solo un problema di Istituzioni: è indispensabile che la gente che sta fuori cambi il suo approccio con il mondo del carcere. Infatti è difficile che le Istituzioni possano fare qualcosa se, quando si sta per aprire una struttura di accoglienza per detenuti in permesso, è prima di tutto la gente del luogo ad opporsi e a protestare, come è accaduto recentemente a Campalto, al Villaggio Laguna".

Il Patriarca sottolinea che, a chi ha sbagliato, ha espiato il proprio errore e si è riscattato, devono essere date tutte le opportunità di vivere la propria umanità. Cessato il carcere, l’ex detenuto ha il diritto sacrosanto di essere accompagnato nel reinserimento sociale, e i cristiani per primi devono fare tutto quello che possono per contribuire, assieme alle Istituzioni, ai mass media, ai servizi sociali... per far crescere la cultura della dignità realistica della persona. Nessuno può essere inchiodato al proprio sbaglio.

Il tempo dell’incontro è scaduto: i portoni che si erano aperti per farci entrare, si riaprono per riportarci, è proprio il caso di dirlo, alla vita. Il contrasto tra il "dentro" e il "fuori" è così insopportabile da alimentare prepotentemente anche in noi la speranza che l’amnistia della quale si parla in queste settimane, apra quei portoni anche a molti degli ospiti del carcere che oggi abbiamo incontrato. Ma dopo, una volta usciti, di loro che sarà?

Palermo: detenuto rom protesta salendo sul tetto dell’Ucciardone

 

Agi, 7 gennaio 2006

 

Dopo circa 11 ore di protesta, Nenad Pantic, il nomade serbo di 29 anni che da questa mattina era sul tetto dell’Ucciardone di Palermo, poco fa è sceso, consegnandosi agli agenti della polizia penitenziaria. Questa mattina intorno alle 11, durante l’ora d’aria, era salito sopra il quarto piano dell’ottava sezione del penitenziario di via Enrico Albanese. Lì era arrivato scavalcando il muro che separa il cortile della settima sezione dove era rinchiuso, giungendo nell’ottava. Arrampicandosi su una grondaia, aveva raggiunto il tetto: da quel momento era iniziata una serrata trattativa con la polizia penitenziaria e con il direttore del carcere, Maurizio Veneziano, che aveva invitato Pantic a cessare la protesta, tenendosi in contatto con l’autorità giudiziaria. Il serbo, arrestato nel settembre scorso a Gela con l’accusa di essere coinvolto, insieme ad altri nomadi, in varie rapine in villa nella Sicilia orientale, compresa quella di Taormina durante la quale morì il commerciante Pancrazio Muscolino, sosteneva di essere vittima di un errore giudiziario e di essere, pertanto, innocente. Da qui l’estenuante negoziato, che si è concluso poco fa con la decisione dell’uomo di scendere dal tetto.

Padova: morire in carcere... a volte ci vuole davvero poco!

Lettera di un detenuto della Casa Circondariale di Padova

 

Il Mattino di Padova, 7 gennaio 2006

 

In dicembre è morto un ragazzo qui dentro, nella Casa circondariale di Padova, il carcere. Avrà avuto vent’anni. Si è suicidato impiccandosi, da quanto sono riuscito a capire. Lo conoscevo appena, non sapevo neanche il suo nome; però una volta mi diede del tabacco perché non avevo niente da fumare. Appena qualche giorno fa l’ho incontrato fuori dalla porta dell’infermeria e ci siamo scambiati un apatico "ciao".

Una cosa che ora so di lui è che era un ragazzo che non parlava molto; anzi, forse per niente. Probabilmente non è mai nata l’opportunità tra noi di una chiacchierata perché anch’io non mi permetto assolutamente mai di esprimere me stesso in un luogo che, atrocemente, non te lo consente. Una notte, mentre i miei compagni di cella dormivano profondamente, tutta la sezione era calata nel silenzio dopo l’incessante maledetto baccano del giorno e il rumore delle suole delle scarpe dell’agente di turno non si udiva perché probabilmente anche lui, in quel momento, si riposava... quella notte misi la testa dentro un sacchetto nero della spazzatura, infilandoci anche un fornellino di quelli da campeggio che usiamo qui con una bombola nuova di zecca... e aprii il gas!

Io giuro che c’era tutta la convinzione di cui un uomo possa essere capace in quello che stavo facendo, tanto che studiai bene i particolari affinché nessuno potesse mai accorgersene in tempo. E credetemi... studiai quel gesto maledettamente bene!

Io sono qui, oggi, a scrivere su un pezzo di carta quale fosse il modo in cui avevo deciso di morire e lo posso fare perché mi spaventai a tal punto che ad un tratto sfilai il sacchetto dalla testa, chiusi il gas, accartocciai il sacchetto tra le mani spingendolo fuori dalla finestra nel tentativo che l’odore non fosse così forte da dover essere spiegato al primo eventuale controllo; mi sedetti accanto al cesso con la schiena appoggiata al muro e piansi a lungo e così silenziosamente che, se qualcuno osasse chiedermelo e io volessi rispondere, potrei solo dirgli che nessuno mai avrebbe la capacità di creare le parole giuste per spiegare cosa stessi provando in quegli istanti. Ma quel ragazzo che è morto, lui no, lui non può scrivere, lui non può più raccontare cosa si prova quando il dolore vince l’istinto di sopravvivenza.

Assistenti sociali, medici, psicologi, psichiatri... ognuno spieghi questo con la propria versione, con la propria convinzione; ma nessuno mi convincerà mai che sappiano di cosa parlano. Versioni e convenzioni sbagliate o di comodo... o, magari più semplicemente, dettate solo dal fatto che il resto del mondo che vive deve andare avanti, con o senza la presenza di una persona che ha deciso di morire. Probabilmente solo un povero scemo come me può sentire davvero cosa provava quel ragazzo prima di morire e forse, concludere che poteva e doveva non accadere.

Qualcuno crede che quello sia stato un giorno diverso dagli altri? No! Le stesse facce, gli stessi ritmi, la stessa ignoranza e perfino le solite battute sceme per una morte che, invece, dovrebbe essere accolta come un lungo, silenzioso e interminabile messaggio.

Mi auguro seriamente che il carcere non sia la rappresentazione di ciò che è il mondo, perché sarei costretto ad arrogarmi la presunzione di sentirmi un eletto. E che ora gli indifferenti si definiscano uomini con lo stesso coraggio con il quale io, in questo momento, potrei proclamarmi Dio!

Padova: a rilento i lavori del nuovo carcere circondariale

 

Il Mattino di Padova, 7 gennaio 2006

 

Al circondariale di via Due Palazzi stanno accadendo cose strane. E clamorose. Ci si chiede anzitutto, e da più parti, a che punto siano i lavori di ristrutturazione dell’ex penitenziario femminile, poi adibito a caserma degli agenti, alzato di un piano e scelto come nuova e moderna ala carceraria in grado di rimpiazzare via-via quella vetusta. È in grado di contenere 100 reclusi. Finora però nessun detenuto è stato spostato di sede. Si aspetta un collaudo che non arriva mai.

Il motivo del ritardo sembra una barzelletta ma purtroppo è l’amara realtà: il progettista (ma chi ha approvato quel progetto?) si è "dimenticato" del passaggio-detenuti, ossia dell’"ora d’aria". Di qui la necessità di rifare in parte i lavori. Un primo passaggio è già stato per così dire abbozzato ma poi inspiegabilmente non ultimato. E in ogni caso risulta insufficiente. Ci sono ancora altri passaggi da costruire. Ma ci si è pure "scordati" del collegamento sala-detenuti e sala-colloqui con gli avvocati, nel senso che non è previsto nel progetto. Ed ancora: l’ala in costruzione risulta troppo vicina al muro di cinta e pertanto non garantisce la necessaria sicurezza. E fino allo scorso autunno erano stati lasciati nel cantiere fermo tubi Innocenti che rappresentavano una "tentazione ad evadere".

La scelta di ristrutturare l’ex carcere femminile viene vista non solo dai detenuti ma anche dagli stessi agenti di custodia come un "rattoppo alla carlona" destinato a creare ulteriori problemi. Meglio sarebbe valso, a loro dire, demolire quella vetusta struttura creando nella stessa area un "carcere tutto nuovo, con minore spesa e maggiore efficienza e sicurezza".

Invece si continua ad andare avanti (ma per quanto ancora?) con una media giornaliera di 200 detenuti, ammassati in un edificio costruito per ospitarne 85-90. Ma fino ad due mesi fa, erano addirittura 280, circa un terzo dei quali precipitosamente smistati in altre strutture penitenziarie dopo le ripetute azioni di protesta dei reclusi e lo stato di agitazione proclamato dalle guardie carcerarie del Due Palazzi. Ogni "loculo" del circondariale ospita da 4 a 6 persone. In uno, più ampio, si arriva perfino a 12. Si dorme su letti a castello e la tazza del water si trova nello stesso spazio dove cui si mangia e si dorme. Ciò rende ancora più dura e umiliante la convivenza. Il 75 per cento dei detenuti ristretti è di origini extracomunitarie, mentre i reati più gettonati riguardano spaccio di droga e reati contro il patrimonio. Frequenti sono anche crisi di astinenza e stati depressivi che degenerano sovente nell’autolesionismo. Una fabbrica di recidivi, malati nel corpo e nell’anima. Il carcere "può darsi" che non apre mai, prevede invece celle adeguate alle nuove normative di legge, con angolo-cottura e bagno con doccia.

"Segnalo la situazione di estremo degrado ambientale e di lavoro a cui sono sottoposti gli agenti del servizio a turno nella Casa Circondariale di Padova che meglio si qualificherebbe con una parola dai ricordi orripilanti, ossia lager" aveva segnalato un agente che opera in questa struttura con tanto di lettera-denuncia inviata al nostro giornale. Raccontava di lavoratori in divisa continuamente vessati, "sottoposti ad abusi e ricatti e obbligati ad operare osservando turni di lavoro stressanti anche a causa della cronica carenza di personale e dell’abbandono a cui sono sottoposti".

Per non parlare dei reclusi in attesa di giudizio che vivono come le bestie. "L’estremo affollamento, la promiscuità con varie etnie costrette a convivere in spazi angusti sono causa quotidiana di episodi autolesionistici, risse, soprusi e aggressioni agli operatori che si trovano senza la seppur minima tutela e garanzia di sicurezza" evidenziava l’agente di custodia.

A quando l’inaugurazione della nuova struttura rimaneggiata in corso d’opera? Di recente si è scoperto che le infiltrazioni d’acqua cominciano ad intaccare anche questa costruzione non ancora ultimata. È già vecchia in partenza.

Emilia-Romagna: nelle carceri sovraffollamento e suicidi in serie

 

Il Resto del Carlino, 7 gennaio 2006

 

Nelle carceri dell’Emilia-Romagna si muore per suicidio venti volte di più di quanto succede fuori. Il 2005 è stato l’anno record con nove casi: tre a Parma, due a Piacenza, due a Reggio Emilia, uno a Modena e uno a Forlì. Sono 50 le persone che dal 1997 ad oggi si sono tolte la vita nelle carceri della nostra regione (8 nel 1997, 5 nel 1998, 2 nel 1999, 5 nel 2000, 8 nel 2001, 7 nel 2002, 3 nel 2003 e 3 nel 2004), mentre è proseguito inarrestabile l’aumento delle presenze (3828 al 30 giugno 2005).

Ed è proprio il sovraffollamento la causa principale delle morti dietro le sbarre. "La situazione nelle carceri dell’Emilia-Romagna - dice presentando gli eloquenti dati, Gianluca Borghi, consigliere regionale dei Verdi e per due legislature assessore alle politiche sociali - è sempre più insostenibile. I dati che riguardano i suicidi e gli atti di autolesionismo evidenziano una realtà drammatica caratterizzata da sovraffollamento e carenza di personale".

E a Bologna è ancora peggio. A luglio l’Ausl, nel rapporto sui primi sei mesi del 2005, parla esplicitamente di "collasso dell’intera struttura carceraria". Alla Dozza sono recluse 1030 persone (di cui 555 extracomunitari) quando le strutture della casa circondariale potrebbero ospitarne solo 437. Più del 100 per cento. Non c’è spazio vitale - si legge nel rapporto -: ci sono letti a castello nelle celle singole dove stanno due o tre detenuti. Ai problemi di sovraffollamento si aggiungono quelli sanitari: quattro casi di tubercolosi, sette di scabbia, 277 tossicodipendenti, 20 positivi all’Aids, 95 affette da epatite C. Borghi, che ha già visitato le carceri di Reggio e di Bologna, è reduce da un sopralluogo anche nella casa circondariale di Parma in compagnia dell’assessore provinciale Gabriella Meo. Proprio qui si è registrato, nel 2005, il più alto numero di suicidi: 3 su 9.

"Gli operatori e i volontari che lavorano in carcere - dichiara il consigliere regionale - vivono una situazione di continua emergenza, soprattutto sanitaria, e la condizione dei detenuti è quasi sempre incompatibile con l’idea della pena rieducativa. Che dire poi del fatto che non è attivo in alcuna struttura quel "Presidio nuovi giunti", pensato invece dal Regolamento penitenziario proprio per offrire tutela ed assistenza ai detenuti appena entrati in carcere? Non mi pare un caso che proprio due dei tre detenuti suicidatisi a Parma nei mesi scorsi (ottobre e novembre) fossero appena rientrati da altri reparti di prima osservazione psichiatrica di altre strutture. Una situazione penitenziaria intollerabile: per 650 detenuti, a Parma sono disponibili 2 educatori, situazione analoga a quella di altre carceri della regione". Una situazione che difficilmente potrà migliorare. Soprattutto ora che è sfumata l’illusione dell’amnistia e che la ex Cirielli, appena approvata dal parlamento, dispiegherà tutti i suoi effetti. Esperti ed operatori sono concordi nel prevedere un ulteriore aumento della popolazione carceraria per effetto della recidiva che porterà dietro le sbarre soprattutto tossici e immigrati. "Nel frattempo - propone Borghi - oltre a sostenere come è accaduto nel 2004 con proprie risorse l’acquisto dei farmaci per i detenuti attraverso le proprie Usl, la Regione deve al più presto dotarsi della legge istitutiva della figura del "Garante regionale dei detenuti", già depositata nella competente commissione assembleare: uno strumento aggiuntivo per verificare da Piacenza a Rimini la situazione nelle strutture penitenziarie dell’Emilia-Romagna".

Immigrazione: la Consulta boccia un'altra norma della Bossi-Fini

 

Ansa, 7 gennaio 2006

 

La Corte Costituzionale interviene nuovamente con una bocciatura sulla legge Bossi-Fini. La Consulta ha infatti dichiarato illegittimo l’art. 13, comma 13 bis, della legge sull’immigrazione così come modificata nel 2002. A cadere è quella norma che ha introdotto pene più severe per il solo fatto che il clandestino rientrato illegalmente in Italia fosse stato precedentemente denunciato per il reato di reingresso nel territorio nazionale senza autorizzazione ministeriale. La decisione della Consulta è stata adottata con la sentenza n. 466 depositata oggi in cancelleria. La sentenza non avrà comunque effetti deflagranti come quelli provocati dalla bocciatura del 2004, quando la Corte decise per l’illegittimità della Bossi-Fini nel punto in cui prevedeva l’arresto e l’espulsione coatta del clandestino senza un preventivo vaglio della magistratura. La sentenza di oggi si riferisce, invece, a una norma che è già stata modificata dal decreto legge del 2004 (convertito nella legge 271) con cui il governo ha provveduto a sanare la Bossi-Fini.

La Consulta ha dato stavolta ragione al Tribunale di Gorizia che nel 2003 ha ritenuto non giustificata l’equiparazione introdotta l’anno precedente dalla ‘Bossi Finì tra la condotta dell’immigrato che rientra illegalmente nel nostro Paese violando un provvedimento di espulsione adottato dall’autorità giudiziaria (reclusione da uno a quattro anni) e quella di chi vi rientra essendo stato espulso dal prefetto (da sei mesi a un anno). Sempre il Tribunale di Gorizia ha inoltre ritenuto "irragionevole" il diverso trattamento, previsto per chi rientrava illegalmente in Italia dopo un provvedimento di espulsione, a seconda del fatto che il clandestino fosse stato o meno denunciato in precedenza. n altre parole, la sola circostanza di una precedente denuncia per reato di reingresso clandestino in Italia era in grado di trasformare in grave delitto un comportamento che altrimenti, fino a settembre 2004, costituiva un reato contravvenzionale.

Questa distinzione, oramai, non esiste più: il decreto legge che lo scorso anno ha, tra l’ altro, attribuito ai giudici di pace la competenza di convalida delle espulsioni, ha anche trasformato da contravvenzione in delitto (reclusione da uno a quattro anni) il reato di reingresso clandestino in Italia, e ha aggravato nel massimo (da quattro a cinque anni) la sanzione prevista nel caso in cui il clandestino tornato illegalmente risulti precedentemente denunciato.Queste ultime modifiche alla Bossi-Fini, tuttavia, non hanno comportato la restituzione degli atti al giudice di Gorizia che aveva sollevato la questione di legittimità. Motivo: ciò comporterebbe "un aggravamento della posizione dell’imputato", è scritto nella sentenza redatta dal giudice costituzionale Francesco Amirante.

Nel merito, la Consulta ricorda sue precedenti sentenze in cui viene ribadito che "la denuncia è un atto che nulla prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità del soggetto indicato come autore degli atti che il denunciante riferisce". "Di conseguenza - scrive la Corte - si è ritenuto che non sia possibile far derivare dalla sola denuncia conseguenze pregiudizievoli per il denunciato, in quanto essa comporta soltanto l’obbligo degli organi competenti a verificare se e quali dei fatti esposti in denuncia corrispondano alla realtà e se essi rientrino in ipotesi penalmente sanzionate, ossia ad accertare se sussistano le condizioni per l’inizio di un procedimento penale". "Il legislatore del 2002 - spiegano i giudici costituzionali - formulò la disposizione" impugnata dal Tribunale di Gorizia "con riguardo al sistema normativo all’epoca vigente, trasformando in delitto una fattispecie contravvenzionale per il solo fatto che lo straniero rientrato in Italia fosse stato denunciato per la contravvenzione di reingresso nel territorio nazionale senza autorizzazione ministeriale".

Giustizia: in Tv assistiamo ad una regressione culturale e civile…

di Glauco Giostra, professore di procedura penale all’Università "La Sapienza" di Roma

 

Radio Carcere, 7 gennaio 2006

 

Negli ultimi tempi - soprattutto con riguardo ad alcuni clamorosi fatti di cronaca - dall’informazione sul processo penale si va scivolando, spesso in modo insidiosamente inavvertito, verso il processo celebrato sui mezzi d’informazione. Sta prendendo piede, infatti, la tendenza a mimare liturgie e terminologie della giustizia ordinaria, imbastendo investigazioni giornalistiche, presentandone i risultati all’opinione pubblica, discutendone il significato probatorio in talk-show che scimmiottano il confronto giudiziario: un "foro mediatico" alternativo rispetto alla giustizia ordinaria.

Certo, entrambe queste attività -quella della giustizia ordinaria e quella della sua mimesi mediatica - tendono al medesimo fine, cioè a ricostruire un accadimento passato attraverso tracce, testimonianze, dichiarazioni, cose del presente. Sarebbe esiziale, tuttavia, non tenere sempre ben distinti i due fenomeni, perché sono sostanzialmente diversissimi: il processo ordinario ha un luogo deputato, un itinerario formalizzato e un termine (il giudicato); processo mediatico non ha nessun luogo, nessun ordine (se non quello imposto dall’ audience) e nessun tempo. L’uno è celebrato da un organo professionalmente attrezzato e istituzionalmente legittimato, l’altro può essere "officiato" da chiunque. Ma vi sono anche differenze meno evidenti e più profonde. Il processo giurisdizionale seleziona i dati su cui fondare la decisione; quello mass-mediatico raccoglie in modo bulimico ogni conoscenza arrivi ad un microfono o ad una telecamera (non ci sono testi falsi, non ci sono domande inammissibili, non ci sono prove vietate: tutto può essere utilizzato per maturare un convincimento). Il primo, intramato di regole di esclusione, è un ecosistema chiuso; il secondo invece è aperto, conoscendo soltanto regole d’inclusione. Nell’uno ci sono criteri di valutazione, frutto della secolare sedimentazione delle regole di esperienza; nell’altro, invece, valgono l’intuizione, il buon senso, l’emotività. L’uno, obbedisce alla logica del probabile; l’altro a quella dell’apparenza. Nell’uno, l’imputato è presunto innocente; nell’altro, il "personaggio" mediaticamente sospettato è presunto colpevole. Nell’uno, la conoscenza è funzionale all’esercizio del potere punitivo da parte dell’organo costituzionalmente preposto; nell’altro, serve a propiziare, e spesso indurre, un convincimento collettivo sulle responsabilità di fatti penalmente rilevanti. Nell’uno, il cittadino è consegnato al giudizio dei soggetti istituzionalmente deputati ad amministrare giustizia; nel secondo alla "folla" mediatica.

È innegabile, tuttavia, che, nonostante queste differenze siderali, non sempre la psicologia collettiva riesca a distinguere i due fenomeni, e a coglierne i diversi significati, le diverse garanzie e la diversa affidabilità. Ed anzi, quando li si pone a confronto, è la dimensione formale del processo ordinario, e quindi del suo prodotto, la sentenza, a far risultare il processo meno comprensibile e la sentenza meno "vera". Registriamo, cioè, una certa insofferenza per la giustizia istituzionale, intessuta di regole e di limiti a fronte del presunto accesso diretto e trasparente alla verità, che sembra assicurato dall’avvicinamento di un microfono o di un obbiettivo alle fonti. Liberata da ogni regola del procedere, quella fornita dai mass-media sembra, e con ciò si sconfina nell’ossimoro, l’unica verità immediata. Il passo successivo sarà verosimilmente costituito dal processo mediatico interattivo, con possibilità per il telespettatore di pronunciarsi mediante un sms per l’innocenza o la colpevolezza; e finalmente avremo la versione tecnologica della giustizia plebiscitaria di pilatesca memoria.

L’insidiosa idea, sottesa a questa preferenza per il processo reso coram populo sui mezzi di informazione, è che il miglior giudice sia l’opinione pubblica. Questa idea ne evoca un’altra: il sogno della democrazia diretta, della gestione della res pubblica da parte dei cittadini. E forse appartiene alla medesima matrice culturale anche la congettura, circolata con immeritata fortuna ancora di recente, secondo cui un imputato votato dalla maggioranza dei cittadini è innocente per definizione o comunque non processabile, perché, se il "popolo - giudice" sceglie di farsi rappresentare da un certo soggetto, significa che l’ha giudicato penalmente irresponsabile.

Ha il volto ingannevole dell’emancipazione della collettività, questa regressione culturale e civile. Non bisogna perciò stancarsi di ribadirlo: il processo reso nell’agorà mediatica, in cui il giudice è l’opinione pubblica, ha a che fare con la giustizia quanto un potere politico, che risponda soltanto ai sondaggi, ha a che fare con la democrazia; cioè nulla, assolutamente nulla.

Genova: il Cardinale Bertone; politici in ferie, addio amnistia

 

Secolo XIX, 7 gennaio 2006

 

Non sono le vetrate a intarsio di una cattedrale a spezzare i raggi del sole, ma grate d’acciaio a prova di fuga. E al posto dei chierichetti, a fare corona alla celebrazione, ci sono solo agenti di polizia penitenziaria in divisa. Una presenza garbata ma necessaria. È una chiesa di frontiera, quella scelta dal cardinale Tarcisio Bertone per la prima celebrazione della giornata dell’Epifania: la cappella della casa circondariale di Pontedecimo, il carcere femminile che da giugno ha riaperto anche la vecchia sezione maschile, al termine di lunghi lavori di ristrutturazione, accogliendo detenuti da altre carceri sovraffollate. La Spezia, Imperia, Marassi. E dall’avamposto il cardinale lancia un’accusa pesante e precisa. "La latitanza dei politici in un momento d’emergenza, dopo aver prospettato la possibilità di un provvedimento di amnistia o indulto, è deprecabile. Le ferie dei parlamentari dovevano essere interrotte per sbloccare la situazione". Chi vive in carcere, dice il cardinale, non va in vacanza. "Chiedete l’amnistia per noi...", dice una detenuta vedendo passare i rappresentanti della carta stampata e delle televisioni.

Ma la festa religiosa non conosce barriere, mura di recinzioni o sbarre. Alla messa nel carcere delle donne, oggi "anche" delle donne, sono presenti tre bambini in fasce. Uno è la statuina del presepe posta sotto l’altare, due sono in carne ed ossa, entrambe bambine, figlie di madre slava. La normativa carceraria consente alle mamme di tenere con loro in cella la prole fino al compimento del terzo anno di età. "Davanti a ogni mamma con un bambino in braccio dobbiamo pensare a Maria che stringe il piccolo Gesù, perché ogni vita è un dono di Dio, oltre che il frutto dell’amore tra due persone. Non facciamo come Erode che non ha accolto questo dono. E guardiamoci dai nuovi Erode della storia che minacciano la vita in tanti modi". Non va oltre, l’arcivescovo di Genova, perché dei "nuovi Erode" ha già detto quello che voleva dire al momento del referendum sulla procreazione assistita. In carcere i problemi sono altri. Più diretti, tangibili.

Elvissa ha 22 anni, è bosniaca, il volto ha i tratti gitani. Sembra una bambina lei stessa, ma per la sua gente è un’adulta, la vita del carcere e la maternità sono esperienze estreme, diversissime l’una dall’altra, che fanno crescere: stringe forte Moana, 5 mesi e gli occhi chiari che ridono. "Sono qui da ottobre, in attesa di giudizio - racconta Elvissa - mia figlia è nata a Bergamo, poi sono stata reclusa a San Vittore". In pochi mesi, la neonata ha girato l’Italia, vedendo sempre il cielo da dietro le sbarre. Ed è già grande Sara, un anno e 4 mesi. Come è grande sua mamma Mina, 29 anni, che viene dalla Croazia e vive per lei.

In carcere ogni parola ha un significato diverso. Così quando l’arcivescovo parla della Grazia di Dio, commentando San Paolo, è difficile non pensare a quell’altra grazia che i detenuti sognano. "Siamo qui per guardare un bambino in braccio a sua mamma", dice il cardinale Bertone, dopo la lettura del Vangelo. E gli occhi di decine di detenuti, in quel momento, guardano Moana e Sara, le due piccole recluse, le uniche che non possono sentire il peso dell’assenza di libertà. Per loro, come per ogni bambino, conta molto di più il contatto con le rispettive madri.

Da appena un mese Pontedecimo ha un cappellano per i suoi detenuti, mandato dal cardinale, dopo un periodo di vuoto, e stipendiato dell’amministrazione penitenziaria con l’impegno ad essere presente almeno tre ore ogni giorno. Ma non è un problema, lui dedica molto più tempo alla vita dietro alle sbarre. Don Mario Montaldo si appresta a compiere 78 anni, ma nel nuovo incarico mette l’energia di un ragazzo. "I preti non vanno mai in pensione - dice - e qui c’è tanto da fare. Un tempo, mi sentivo rabbrividire quando leggevo quel passo del Vangelo: benedetti voi perché ero in carcere e mi avete visitato, maledetti voi che non mi avete visitato. Io non lo avevo mai fatto, quando mai ero stato in cella? Ma ora sono qui, almeno questo potrò presentarlo davanti a Dio...".

Lazio: si lamentano i detenuti, ma soprattutto gli agenti...

 

Il Tempo, 7 gennaio 2006

 

Si lamentano i detenuti e si lamentano soprattutto gli agenti. Proprio allo scopo di sollecitare un provvedimento di clemenza e per verificare lo stato delle carceri laziali domani il capogruppo regionale del Psi Donato Robilotta e il senatore dello Sdi Gerardo Labellarte visiteranno il carcere di Rebibbia. "Ci stiamo battendo - hanno affermato Robilotta e Labellarte - per un provvedimento di clemenza che dia una soluzione all’emergenza carceraria e queste visite ispettive sono utili per un monitoraggio continuo sullo stato delle carceri del Lazio, sulle condizioni di vita dei detenuti e sulle condizioni di lavoro degli addetti alla Polizia penitenziaria". Per quanto riguarda la proposta di legge sulle carceri presentata in Regione dall’assessore Nieri e dal gruppo del Prc, in discussione in commissione lunedì prossimo, "faccio notare - ha concluso Robilotta - che può essere un testo di partenza ma c’è un grave vulnus perché non si parla mai di coloro che nelle carceri lavorano e che rappresentano l’altra metà della popolazione carceraria".

La situazione, nel Lazio, è tutt’altro che rosea. A Latina le proteste, portate avanti in sede sindacale ma anche con denunce ripetute ai mass media, vanno avanti ormai da anni. All’endemica penuria di personale fa riscontro una carenza strutturale ormai non più sottovalutabile. Tanto è vero che si fa sempre più insistente la voce secondo la quale il carcere dovrebbe essere smantellato e ricostruito (nella zona della motorizzazione civile). "Dimenticati dai politici, dimenticati dall’amministrazione - affermano i dipendenti della casa circondariale di via Aspromonte - mentre la nostra situazione lavorativa peggiora di giorno in giorno". Per quanto riguarda il super-carcere di Frosione, nonostante ci sia una struttura di accoglienza dei detenuti all’avanguardia rispetto ad altre, più volte sono state denunciate alcune carenze. In merito, nei mesi scorsi era stata annunciata la visita nel capoluogo ciociaro dell’assessore regionale Luigi Nieri. Una visita attesa per le prossime settimane.

Roma: i giovani della Margherita visitano il carcere minorile

 

Margherita on-line, 7 gennaio 2006

 

Una delegazione dei Giovani della Margherita ieri è andata in visita al carcere minorile di Roma, per comprendere meglio e valutare da vicino i problemi di questo tipo di istituti di pena.

Della delegazione hanno fatto parte Luciano Nobili, Andrea Casu, Alessandra Dardes, Valerio Pieroni, Lorenzo Calistri con Assunta, Andrea Macugliani ed Ermanno Lombardo, accompagnati dal senatore della Margherita Alessandro Battisti.

A farci da guida nel nostro percorso è stata un’educatrice dell’istituto che ha dedicato l’intera sua vita a questi ragazzi. Ci ha spiegato che una gran parte dei detenuti è costituita da stranieri. Alcuni di questi si trovano in custodia cautelare (quindi in attesa ancora del processo) perché non riescono ad accettare le misure non detentive. Infatti il minorenne straniero, una volta entrato nell’Istituto, non ne esce facilmente, e non solo per la mancanza di opportunità all’esterno, ma anche per la mancanza di riferimenti familiari che rendano possibile la concessione di misure "deflattive" prima che venga definitivamente condannato, di un permesso premio o di una misura quindi alternativa. Ed infatti è proprio per questo che i ragazzi affidati ai servizi sociali minorili sono prevalentemente degli italiani.

Oggi l’uso della detenzione nei confronti dei minori dovrebbe essere residuale, rispetto ad altri tipi di interventi penali, però - come abbiamo potuto constatare con i nostri occhi - ancora persiste in misura sproporzionata alle necessità. Tutto ciò è inaccettabile perché così, emarginandolo dalla società, interrompiamo la fase di crescita intellettuale del ragazzo perché il carcere rende difficile ad un minore di poter crescere serenamente, godendosi la propria libertà. È indispensabile però prima analizzare ed abbattere le cause che portano una ragazzo minorenne, come del resto qualunque altra persona, a delinquere.

Il pomeriggio comunque è trascorso serenamente e i ragazzi ci hanno dimostrato subito la loro gratitudine per questa visita. Ci hanno raccontato barzellette, hanno recitato poesie e abbiamo parlato tutti insieme anche di calcio. Hanno poi dimostrato di apprezzare moltissimo le magliette, i libri e i panettoni che gli abbiamo portato come regalo.

Noi Giovani della Margherita ci auguriamo che questo nostro piccolo contributo, insieme alle iniziative su questo tema che da sempre porta avanti il nostro partito, servano da stimolo per sensibilizzare di più la nostra società su questo problema. Se non si risolve questa situazione il carcere minorile continuerà ad essere sempre il primo passo verso il carcere "degli adulti" e non un occasione, invece, per una crescita matura del minorenne.

Milano: ripensare il carcere... anche sostenendo il teatro

 

Corriere della Sera, 7 gennaio 2006

 

Le carceri in questo periodo sono sotto i riflettori: sovraffollamento, servizi sanitari insufficienti, funzione rieducativa incerta. Qualcuno propone l’amnistia, altri sono contrari. E Milano non sfugge al problema. Ha tre carceri. Lo storico e famoso San Vittore e i nuovi di Bollate e Opera. La capienza regolamentare sarebbe di 2.873 persone, ma normalmente s’affolla il 50% in più. Le carceri sono parte della città. Pochi sanno, però, che la vita carceraria milanese, che dovrebbe avere tutte le connotazioni della vita sociale, si esprime anche tramite il teatro come atto sociale. Non solo come performance teatrale di serate e repliche, ma anche di attività lavorative come la gestione delle attività tecniche quali la scenografia e la falegnameria, il service audio-luci, le produzioni video, il ruolo dei macchinisti. Non teatro "amatoriale per dare lustro istituzionale", ma attività lavorativa che si confronta con la responsabilità del "giudizio positivo o negativo" e, in modo gergale, del "successo di pubblico e di critica".

Dal 1992 un’associazione (Estia, dal nome di una dea greca), in seguito trasformata in una cooperativa sociale, ha messo in scena otto spettacoli con circa 1.800 spettatori. Il tutto è avvenuto prevalentemente in carcere. Ora però bisogna pensare di rendere percepibile la qualità di quest’attività teatrale uscendo dal carcere. Per dare una ulteriore possibilità di inserimento lavorativo senza opzioni salvifiche e solo missionarie, ma con la positività di un lavoro utile per la persona che sta in carcere e che esce dal carcere per misurarsi con la virtù del lavoro e per confrontarsi con il territorio che ricerca opportunità di reinserimento lavorativo, sociale e comunitario (art. 27 della Costituzione).

Milano dovrebbe fare proprie queste iniziative creando un network di ospitalità nei propri teatri e programmare una "stagione teatrale delle carceri". Accanto ai lavori produttivi, ai lavori sociali anche il "lavoro culturale" del teatro che valorizza i "talenti" nel carcere e li "spende" nella società. A Milano il problema sociale dei detenuti e l’educazione come suo strumento è storia della città: Cesare Beccaria nel suo "Dei delitti e delle pene" (cap. 45) sottolinea l’importanza dell’educazione "nello spingere alla virtù per la facile strada del sentimento… e non colla incerta del comando perduto, che non ottiene che una simulata e momentanea obbedienza". Il saggio è del 1764: bisogna recuperare il tempo perduto.

Honduras: scontri tra bande in carcere, morti tredici detenuti

 

Ansa, 7 gennaio 2006

 

Tredici detenuti sono morti nel penitenziario nazionale dell’Honduras, nel corso di scontri tra gruppi per il controllo del carcere. Lo hanno reso noto le autorità honduregne. Il direttore delle prigioni dell’Honduras, Jaime Banegas, ha sottolineato che non si è trattato di una rivolta e che non sa spiegare come nel carcere siano entrate le armi da fuoco. Tutte le sovraffollate prigioni dell’Honduras sono piene di uomini di organizzazioni armate come la Mara Salvatrucha e la Mara-18.

 

 

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