Rassegna stampa 11 febbraio

 

Napoli: muore in carcere a 78 anni, la Procura indaga 10 persone

 

Giornale di Calabria, 11 febbraio 2006

 

Dieci persone sarebbero indagate nell’ambito dell’inchiesta aperta dalla Procura di Napoli dopo la morte nel carcere di Secondigliano, di Antonino Molé, di 78 anni, considerato il capo dell’omonima cosca di Gioia Tauro. Molé, cardiopatico e affetto da due tumori, è morto mentre era ricoverato nell’infermeria del carcere. A renderlo noto è stato il difensore di Molé, l’avv. Gregorio Cacciola, a giudizio del quale "il caso di inumano ed incivile spessore" del suo assistito "dovrà far riflettere e tanto e non solo sul povero Molé, ma su moltissimi casi simili ove il bene costituzionale della salute non può e non deve essere confuso con il peso e l’obbligo della pena giudiziaria.

Probabilmente - ha aggiunto Cacciola - l’inchiesta appena aperta, e anche con rapidità, si risolverà in una bolla di sapone, ma quanto meno nutriamo la speranza che tale caso di incivile giustizia farà da monito a tutti coloro i quali saranno chiamati a pronunciarsi sull’assistenza e cura del detenuto che dovranno quanto meno avere l’equilibrio ed il buon senso di distinguere la responsabilità dell’uomo dalla patologia che lo affligge e, per quest’ultima, assicurare che l’intervento non possa e non debba mai sconfinare nel senso disumano della condizione di recluso e della pena da espiare".

Cacciola ha quindi ripercorso la vicenda sanitaria di Molé, affetto da tempo, ha sostenuto, da cardiopatia ischemica con triplice bay pass aorto-coronarico e da vasculopatie. Molé ottenne i domiciliari nell’aprile 2003 su disposizione del Tribunale di sorveglianza di Napoli. Il 2 luglio 2004, per una trasgressione agli obblighi, il Tribunale revocò il beneficio. "Nonostante l’ulteriore aggravarsi nel tempo delle condizioni di salute - ha sostenuto Cacciola - con due neoplasie gravi nonché diverse e reiterate crisi cardiache trattate con ulteriore pace maker, a Molé sono state reiteratamente negate tutte le istanze ad ottenere finanche una detenzione ospedaliera extra muraria.

La direzione sanitaria del carcere di Secondigliano, il 20 settembre 2005 ed il 30 settembre 2005, documentava una situazione di assoluta incompatibilità carceraria, mentre 7 giorni dopo, incredibilmente, segnalava la perfetta compatibilità nonché la possibilità di cura con il ricovero ospedaliero al momento del bisogno. Per tale contraddittoria relazione, è stato presentato un esposto". "Molé - ha proseguito il difensore - veniva poi sottoposto ad un viaggio carcerario, sia pure in ambulanza, tanto negligente quanto inutile da Napoli a Messina dove veniva "posteggiato" presso il Centro clinico di Gazzi ove il dirigente sanitario sconsigliava qualunque trasporto ulteriore per gravi ragioni di salute.

La direzione sanitaria del carcere di Messina verificava la gravissima situazione patologica aggiungendo che si trattava di un caso evidente ed inconfutabile di incompatibilità con il regime carcerario. Nonostante ciò, Molé veniva ritrasferito a Secondigliano, dove moriva qualche giorno dopo, nonostante l’ennesima segnalazione al Magistrato di sorveglianza di Napoli che Molé era ormai prossimo alla morte. "Molé - ha concluso il suo difensore - non solo non è mai stato neanche ospitato da alcun centro clinico sanitario serio, in regime carcerario, non solo è stato sbattuto da un carcere all’altro contro documentati pareri sanitari, ma addirittura è stato completamente ignorato".

 

Dal Giornale di Calabria, 27 gennaio 2006

 

È morto nel carcere di Secondigliano, a Napoli, Antonino Molé, di 78 anni, considerato il capo dell’omonima cosca di Gioia Tauro della ‘ndrangheta. Molè, cardiopatico e affetto da due tumori, è morto mentre era ricoverato nell’infermeria del carcere. Un mese fa i suoi difensori, Gregorio Cacciola, di Rosarno, e Lumeno dell’Orfano, di Napoli, avevano presentato un esposto alla Procura della Repubblica del capoluogo partenopeo chiedendo l’accertamento delle responsabilità connesse alla mancata scarcerazione di Molé malgrado la gravità delle sue condizioni di salute. La Procura della Repubblica, secondo quanto hanno riferito i difensori di Molé, sulla base dell’esposto avrebbe avviato un’inchiesta. Secondo quanto si è appreso, Molé, nel maggio del 2004, aveva ottenuto gli arresti domiciliari, ma il beneficio gli era stato revocato dopo che il presunto boss aveva violato una delle prescrizioni impostegli dall’autorità giudiziaria. La cosca dei Molé, da sempre alleata con quella dei Piromalli, è uno dei gruppi storici della ‘ndrangheta, particolarmente radicata nella Piana di Gioia Tauro e con ramificazioni e alleanze nel nord Italia.

Messina: detenuto ferisce gravemente il compagno di cella

 

Tg Com, 11 febbraio 2006

 

Tragico gesto di violenza nel carcere messinese di Gazzi. Un detenuto, Giuseppe Mulè, ha ridotto in fin di vita il compagno di cella, Salvatore Caruso, perché aveva sprecato dell’acqua calda. Secondo quanto riferito da alcuni testimoni, Mulè si sarebbe infuriato e avrebbe aggredito Caruso con una stampella colpendolo sulla fronte. Soccorso e trasportato in ospedale, Caruso versa in gravi condizioni. L’intervento degli agenti di polizia penitenziaria richiamati dalle urla della vittima ha impedito che l’aggressione andasse oltre. Caruso, 67 anni, è stato soccorso e trasportato al policlinico dove è stato sottoposto ad intervento chirurgico. Le sue condizioni sono gravi. Mulè, imputato nel maxiprocesso alle cosche mafiose peloritane, è stato trasferito in isolamento su provvedimento di arresto del sostituto procuratore

Lodi: crisi in carcere, consiglieri comunali chiedono chiarezza

 

Il Cittadino, 11 febbraio 2006

 

Interrogazione urgente sulla situazione del carcere di Lodi. A presentarla, in consiglio comunale, i capigruppo della maggioranza: Mauro Paganini (Ds), Giuseppe Monforte (Margherita), Enrico Bosani (Rc), Benito Negroni (Comunisti italiani), Domenico Ossino (circolo Archinti Sdi), Piero Cavalli (verdi) e Adele Burinato (Alleanza per Lodi). I consiglieri chiedono al sindaco e alla giunta di essere adeguatamente informati sulla situazione del carcere e di promuovere un dibattito. Questo alla luce della notizia apparsa anche sui quotidiani nazionali della denuncia fatta "contro la direzione del carcere di Lodi da parte della convivente di un uomo da due anni detenuto nella struttura, che si è vista negare il colloquio precedentemente sempre autorizzato".

Sempre dalla stampa locale, dicono i firmatari "appare che il fatto, di cui è oggetto la denuncia, è solo l’ultimo di una serie di restrizioni che limitano ulteriormente i contatti tra il carcere e il mondo esterno". I firmatari ricordano anche l’interrogazione presentata al ministro della giustizia dai senatori Gianni Piatti (Ulivo) e Lamberto Grillotti (An), e la chiusura del mensile "Uomini liberi", che veniva scritto e prodotto dai detenuti e giudicato altamente innovativo a livello nazionale. Proprio uno dei fondatori del giornale, il volontario Andrea Ferrari, è stato invitato, infatti, a un grande convegno sull’informazione in carcere, promosso dall’ordine dei giornalisti e dalle scuole di giornalismo di Milano, che si svolgerà sabato prossimo alla Triennale.

Genova: Centro per Impiego nelle carceri, un'iniziativa del Comune

 

Vita, 11 febbraio 2006

 

Un centro per l’impiego nelle strutture penitenziarie per favorire il reinserimento occupazionale e sociale delle persone recluse a fine pena o durante le misure alternative alla detenzione.

Oltre a nuove intese sull’integrazione delle persone in carcere con la provincia di Milano. Sono gli obiettivi della commissione Carceri del consiglio provinciale di Genova, che oggi ha incontrato l’assessore all’Integrazione sociale per le persone in carcere della provincia di Milano, Francesca Corso. La commissione provinciale di Genova, attiva da tre anni, presieduta da Milò Bertolotto (Ds) e composta da rappresentanti di tutti gli schieramenti politici, ha definito come linee prioritarie del 2006, la formazione e il lavoro e punta a realizzare il primo centro per l’impiego in carcere, avviando le necessarie intese con l’amministrazione penitenziaria in Liguria e le direzioni delle tre case circondariali di Marassi, Pontedecimo e Chiavari, con il sostegno tecnico e di competenze delle aree formazione e politiche del lavoro della provincia.

"Stiamo lavorando - dice Bertolotto - a un progetto sperimentale di un centro per l’impiego all’interno delle strutture carcerarie. Quelli che la provincia gestisce sul territorio stanno funzionando molto bene, per far incontrare percorsi formativi e opportunità di lavoro e ci sembra fondamentale che degli stessi servizi possano fruire anche le persone ristrette all’interno delle carceri, che difficilmente riescono a conoscere tutte le possibilità loro offerte per il reinserimento. Il centro per l’impiego rappresenta, quindi, anche un sostegno importante per il loro futuro".

In questo quadro si inserisce l’incontro della commissione con Francesca Corso, che nella giunta provinciale milanese guida l’assessorato all’Integrazione sociale per le persone in carcere o ristrette nella libertà. "Coniughiamo - spiega Francesca Corso - interventi interni ed esterni alle carceri per sviluppare l’umanizzazione delle pene, la difesa dei diritti negati o violati delle persone in carcere e una cultura alternativa, capace anche di smantellare il pregiudizio sociale. Abbiamo costituito una rete interistituzionale per sviluppare i progetti, che puntano sulle politiche del lavoro e la formazione professionale e sull’affettività, con spazi all’interno delle carceri per il ricongiungimento familiare e l’esercizio della genitorialità anche in detenzione, in luoghi adeguati e protetti per genitori e bambini". "Stiamo realizzando - annuncia Corso - anche un progetto di grande rilievo e importanza sociale per far uscire le mamme con i bambini piccoli dal carcere. Insieme al Provveditorato per l’amministrazione penitenziaria stiamo realizzando una struttura comunitaria, a vigilanza attenuata, senza sbarre e molto più umana, pronta tra qualche mese".

Verona: detenuto semilibero uccide l’ex convivente

 

La Repubblica, 11 febbraio 2006

 

Un detenuto in semilibertà uccide a colpi di pistola l’ex convivente e poi rivolge l’arma verso se stesso per farla finita: adesso è ricoverato in gravi condizioni all’ospedale di Verona. L’uomo, che stava scontando una condanna per tentato omicidio nei confronti di un altra donna, aveva lasciato il carcere nel 2004.

Antonio Palazzo, di 41 anni, ha ucciso la sua ex compagna, Chiara Clivio, di 27 anni nel centro della città scaligera. Lei aveva ottenuto l’affidamento del loro figlio di 5 anni. E gli inquirenti ritengono che sia proprio questo il motivo che ha scatenato la furia omicida. Dopo avere esploso i colpi contro la donna, Palazzo si è sparato alla testa. Soccorso, è stato portato in gravi condizioni all’ospedale dove è stato operato.

Secondo una prima ricostruzione dei carabinieri, l’uomo ha atteso che l’ex convivente portasse il bambino all’asilo. Poi ha raggiunto la donna sul Lungadige Catena. Qui ha estratto la pistola e ha sparato all’ex compagna. Alla scena ha assistito una donna da una finestra, che è corsa a telefonare alle forze dell’ordine. Quando si è riaffacciata, il corpo di Chiara Clivio giaceva già a terra. In quel momento la testimone ha visto l’uomo puntarsi la pistola alla testa e premere il grilletto.

A spiegare l’omicidio come una rivalsa nei confronti dell’ex compagna c’è un elemento in particolare. È una lettera trovata nell’automobile dell’assassino parcheggiata nei pressi del luogo del delitto, con la sentenza con cui il tribunale dei minori di Venezia affidava il figlio alla madre.

I carabinieri hanno poi accertato che Antonio Palazzo, originario di Sant’Arcangelo di Potenza, aveva già tentato di uccidere una precedente fidanzata. Inoltre l’uomo era stato più volte denunciato dalla vittima per maltrattamenti in famiglia. L’uomo aveva scontato la condanna al carcere per tentato omicidio fino al 2004, quando gli era stato concesso il regime di semilibertà provvisoria con impiego ai servizi sociali di Parma.

Verona: era in permesso premio, fa vandalismi alla stazione

 

L’Arena di Verona, 11 febbraio 2006

 

Difficile stabilire che cosa sia passato nella testa di un quarantaseienne che adesso è piantonato in ospedale dopo essere stato faticosamente sedato e poi anche arrestato. Sta di fatto che D.P., originario di Napoli, ma detenuto in carcere a Bolzano, l’altro giorno era in permesso ed è venuto a Verona. Attorno all’una di notte, in stazione l’uomo è stato sentito urlare. Gli agenti in servizio alla polizia ferroviaria sono usciti al primo binario e hanno visto che l’uomo aveva divelto un dispositivo di segnalazione di alimentazione dei treni e poi si era scagliato contro le vetrate che ospitavano l’ex club Eurostar. L’uomo è poi scappato all’interno della stazione dove c’erano anche altri passeggeri e i poliziotti gli sono andati dietro con l’intento di fermarlo, anche temendo che potesse aggredire qualcuno. Fermarlo non è stato semplice, l’uomo si è scagliato anche contro gli agenti. Due hanno riportato lesioni guaribili in una settimana e un altro in 15 giorni.

Alla fine la persona è stata immobilizzata, sul posto è stata chiamata l’ambulanza. l’uomo è stato accompagnato in pronto soccorso a Borgo Trento, dove si trova tuttora ricoverato. Ma non si è stati in grado di capire da cosa dipendesse il suo stato psicofisico. Quando starà meglio dovrà affrontare un processo con l’accusa di lesioni, resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento aggravato e minaccia.

Sondrio: oggi e domani esposizione delle opere dei detenuti

 

La Provincia di Sondrio, 11 febbraio 2006

 

Apre oggi pomeriggio alle 15, a Palazzo Foppoli a Tirano, la mostra "Forbici e cartone" organizzata da Legambiente in collaborazione con la Casa circondariale di Sondrio e la Biblioteca Arcari di Tirano. Gli oggetti in mostra sono opera, infatti, di un gruppo di detenuti nel carcere di via Caimi che, nei mesi scorsi, hanno partecipato a laboratori interni di utilizzo di materiali riciclati e hanno realizzato opere interessanti a partire da cartone ondulato, stoffe e altre materie prime cosiddette "povere".

La mostra resterà aperta oggi e domani dalle 15 alle 19. Per l’inaugurazione saranno presenti a Palazzo Foppoli gli organizzatori dell’evento, che saranno a disposizione del pubblico per fornire informazioni sull’iniziativa e sugli oggetti in mostra. Questa sera, dalle 20.30 alle 22 nella Sala del camino, Legambiente, la Casa circondariale e la Biblioteca hanno organizzato anche una serata a tema, con la lettura di diversi brani sulla carcerazione che offriranno anche alcuni spunti di riflessione sulla visione della nostra società che, proprio attraverso il trattamento dei carcerati, offre un termometro dei propri valori. L’invito a visitare la mostra "Forbici e cartone" è rivolto a tutti, ma in maniera particolare a tutte le scolaresche.

Droghe: gli studenti di Bologna non smettono di "fumare"…

 

Redattore sociale, 11 febbraio 2006

 

Tre su quattro si sono fatti una canna. Uno di questi fuma tutti i giorni, o quasi. Come se non bastasse, il 30% ha usato droghe pesanti, anche se "solo" il 13% continua a farne un uso costante. E tutti, in ogni caso, credono che con la legge Fini cambierà poco o niente. Stiamo parlando di una piccola comunità di sovversivi sessantottini? Non esattamente. Stiamo parlando dei 100.000 studenti dell’università di Bologna. I numeri, infatti, vengono fuori da un’indagine condotta da "La Stefani" con 349 questionari segreti e anonimi, distribuiti in zona universitaria mercoledì 1 febbraio, fuori dalle mense, davanti alle segreterie, nei corridoi delle facoltà.

Il campione, per quanto casuale, ha incluso ragazzi di differenti corsi di studio, tutti compresi fra i 19 e i 30 anni. Ovviamente, i dati non sono perfetti dal punto di vista statistico, ma possono comunque evidenziare indicative tendenze. Per chi ha fatto un giro in via Zamboni o piazza Verdi, dove è ormai quasi impossibile non sentirsi offrire del "fumo" da uno spacciatore, sembrerà la scoperta dell’acqua calda. Molti ragazzi, riconsegnando il questionario, hanno chiesto: "Perché fate tutte queste domande retoriche?"

Sono risultati, però, che pongono degli interrogativi nel momento in cui il parlamento dà il via libera alla legge che equipara le droghe leggere a quelle pesanti e penalizza anche il semplice consumo. Perché, di fatto, tutti fumano dappertutto e nessuno intende smettere di fronte alla stretta legalitaria di Gianfranco Fini. Un vero tentativo di repressione, in questa situazione, assumerebbe quasi i connotati di una guerra civile.

Ma procediamo con ordine. Sui 349 intervistati, 270 hanno ammesso di aver provato cannabis in vita loro (77,36%). I consumatori più intensi (almeno una volta la settimana) sono 92, corrispondenti al 26,36% degli studenti. Molti di loro, piuttosto offesi, si sono lamentati della mancanza dell’opzione "una volta al giorno" e in alcuni casi l’hanno aggiunta a penna sul questionario. C’è poi una buona quantità di studenti (16%) che ha dichiarato di fumare almeno una volta al mese, mentre qualcuno (9,7%) ha sostenuto di farlo almeno una volta all’anno. Nel complesso, si può calcolare che ad aver fumato una canna negli ultimi 12 mesi siano stati oltre la metà degli studenti, un esercito di 50.000 "drogati" da "recuperare" o "reprimere", a norma di legge. Bella gatta da pelare per le forze dell’ordine, in una città dove il 95% dei ragazzi ritiene "molto" o "abbastanza" facile procurarsi "fumo". Sono piuttosto chiare, del resto, le risposte alla domanda: "Smetterai di fumare quando sarà applicata la nuova legge?": tranne 11 studenti dai buoni propositi, tutti i consumatori hanno dichiarato che cercheranno solo di stare più attenti o che non cambierà niente. Bulgara anche la percentuale di chi ritiene che ci sia "molta" o "abbastanza" differenza fra droghe leggere e altre sostanze stupefacenti. Insomma, di fronte alla dichiarazione di guerra del Governo, i passionisti della canna non battono certo in ritirata.

Piuttosto sorprendenti, infine, anche i dati emersi sull’uso delle droghe pesanti, "solo provate" dal 13,75% degli intervistati, "usate di rado" dal 9,7% e "usate abitualmente" dal 3,15. Il 2,29% ha poi dichiarato di aver smesso, mentre 13 ragazzi (3,72%) non hanno mai provato ma ne avrebbero intenzione. Come si vede, la corrispondenza fra la canna e l’uso di altre sostanze non è diretta. Ciò non significa che non esista: tutti coloro che hanno provato droghe pesanti, hanno provato droghe leggere. Fra chi ha provato droghe pesanti, poi, il 54% fuma almeno una volta la settimana. In pratica, ribaltando la correlazione, su 92 forti consumatori di cannabis, 55 hanno ceduto alla tentazione del "salto di qualità": quasi il 60%. Avrà mica ragione Fini? Nel caso, aver vinto la battaglia parlamentare non gli basterà. Dovrà combatterne un’altra molto più dura, nelle strade, nelle università, ovunque. E a Bologna lo scontro sarà fra i più aspri. (Jacopo Cecconi e Leonardo Nesti) (in collaborazione con la Scuola superiore di giornalismo "La Stefani" - Università di Bologna).

 

 

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