Caso Welby: il parere del PM

 

Caso Welby: parere della Procura di Roma

sulla richiesta di distacco del ventilatore artificiale

 

Altalex, 15 dicembre 2006

 

Piergiorgio Welby ha diritto ad interrompere il trattamento terapeutico non voluto, tuttavia non è possibile ordinare ai medici di non ripristinare la terapia, perché trattasi di una scelta discrezionale affidata al medico in merito all’utilità e alla necessità di ripristinare, in un momento successivo, la terapia, sulla base di quanto indicato nell’articolo 37 del codice deontologico il quale prevede: "In caso di malattia a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita".

Queste le conclusioni del parere espresso dalla Procura presso il Tribunale di Roma sulla richiesta del distacco del ventilatore artificiale presentata da Piergiorgio Welby, il quale è affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo per cui non esistono trattamenti sanitari in grado di arrestarne l’evoluzione.

 

Tribunale Di Roma

Procura – Parere 11 dicembre 2006

 

Al Tribunale Civile - Roma

 

Il Pubblico Ministero, nelle funzioni di cui all’art. 75 R.D. 30 Gennaio 1941 n. 12; visto l’art. 70 c.p.c., propone il presente atto di intervento

 

In fatto

 

Il sig. Piergiorgio Welby è affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, per il quale non esistono trattamenti sanitari in grado di arrestarne l’evoluzione, che gli inibisce qualsiasi movimento di tutto il corpo;

Il sig. Welby nonostante sia nel fisico, completamente immobilizzato, conserva intatte le proprie facoltà mentali, tanto che nel decorso della malattia ha ricevuto puntuali informazioni sugli sviluppi della stessa e sui trattamenti terapeutici, esprimendo una volontà consapevole sui trattamenti medesimi;

Egli quindi ha richiesto alla struttura ospedaliera ed ai medici che lo assistono di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento in atto e di ricevere assistenza nei limiti in cui ciò sia necessario per lenire le sofferenze fisiche;

In pratica ciò che il Welby ha chiesto è il distacco dal ventilatore polmonare, sotto c.d. sedazione terminale (consistente nella somministrazione del sedativo e nel contestuale distacco dell’apparecchiatura di ventilazione che ne garantisce la permanenza in vita) al fine di evitare i relativi patimenti;

La risposta della struttura ospedaliera e del medico curante è stata nel senso di non negare il diritto del Welby ad opporsi al trattamento in atto, evidenziando però che nel momento in cui il paziente fosse sedato e quindi non più in grado di decidere, scatterebbe immediatamente, in presenza del rischio vita, l’obbligo di riattaccare il ventilatore polmonare per ristabilire la respirazione; cosicché, in definitiva, il riconosciuto diritto di libertà e di consapevole determinazione in ordine al compimento o al rifiuto del compimento di qualsiasi terapia di natura medica incontrerebbe il limite invalicabile della tutela del bene-vita, non disponibile neanche dal soggetto interessato;

Il ricorrente contesta il rifiuto dei sanitari a procedere a quanto richiesto, sulla base delle seguenti argomentazioni:

a) il principio del consenso informato costituisce la base di ogni trattamento terapeutico;

b) da esso scaturisce la configurazione di un vero e proprio diritto perfetto, sancito e garantito da norme di rango costituzionale (artt. 2, 13 e 32, 2° comma, Cost.) a liberamente e consapevolmente determinarsi in ordine al rifiuto del compimento di qualsiasi attività invasiva di natura medica e, per conseguenza, al diritto di interrompere quelle terapie per le quali il consenso viene revocato;

c) il rapporto tra la libertà di disporre consapevolmente dei trattamenti terapeutici e la tutela del bene vita deve essere considerato nel quadro di una nuova prospettiva che pone in rilievo le istanze di volontà anche in settori prima impensabili, dovendo necessariamente apprezzare situazioni nuove, collegate all’evoluzione delle scienze e delle tecniche, che incidono sugli eventi naturali quali il concepimento e la morte, qualificati, per i riflessi su di essi dei progressi scientifici, quali "processi gestibili";

d) in conseguenza di ciò si chiede non tanto di opporsi agli eventi naturali bensì di potere interloquire con quei soggetti (i medici) che stanno gestendo la fase terminale della sua vita;

 

In relazione alle suddette premesse, il Welby chiede che sia accertato il suo diritto ad opporsi alla prosecuzione delle terapie mediche da lui non volute;

Alla obiezione elevata dai sanitari circa l’obbligo degli stessi di riattaccare il ventilatore polmonare quando egli, già sedato, non è più in grado di autodeterminarsi, cosicché si porrebbe per i medici l’asserito obbligo di intervenire per evitare il rischio morte, il ricorrente deduce che il suo rifiuto cosciente e volontario non riguarda situazioni future, sconosciute o inimmaginabili, ma eventi in atto con effetti prevedibili nel brevissimo tempo, non mutabili dopo la sedazione; nella sostanza, il rifiuto dei trattamenti sanitari non desiderati si esprime anche per la situazione successiva alla sedazione, che è attualizzata, ossia ben presente, nella coscienza e volontà del ricorrente; non rappresentando i successivi eventi situazioni nuove ed imprevedibili, non toccate dal libero consenso del ricorrente;

In definitiva il ricorrente postula: da un lato il diritto ad esprimere validamente il suo rifiuto alla prosecuzione del trattamento sanitario non desiderato (la terapia conseguente alla ventilazione polmonare); dall’altro la necessità di un intervento urgente del giudice che accerti tale diritto per il quale si chiede una protezione urgente, stante la prosecuzione di trattamenti sanitari invasivi non desiderati sulla propria persona; e per l’effetto chiede: che sia ordinato ai sanitari di procedere all’immediato distacco del ventilatore artificiale contestualmente ordinando loro di somministrare la terapia sedativa richiesta dallo stato della scienza e della tecnica e implicitamente inibendo agli stessi qualsiasi intervento ripristinatore della terapia interrotta.

 

In diritto

 

I provvedimenti di urgenza, essendo volti ad impedire che la futura pronuncia del giudice possa risultare pregiudicata dal tempo necessario ad ottenerla, hanno carattere strumentale rispetto al successivo giudizio di merito, che è di cognizione -del tutto autonoma- del diritto controverso. A tale riguardo si osserva che, come è noto, secondo un diffuso orientamento non sarebbe consentita, nell’ambito della tutela cautelare concessa dall’art. 700 c.p.c., tesa ad assicurare in via provvisoria l’effettività dell’eventuale futura decisione di merito, l’adozione di misure che, ove eseguite, verrebbero a provocare effetti definitivi e irreversibili (cfr. Trib. Torino 10.12.2003; Corte d’Appello Torino 29.11.100).

 

Secondo il tradizionale orientamento della dottrina (cfr. Arieta; Proto Pisani), l’attuazione di provvedimenti d’urgenza con effetti irreversibili o comunque difficilmente eliminabili è in linea di principio sempre da evitare - a meno di non voler intravedere, come detto, in tale circostanza un limite invalicabile all’emanazione degli stessi - potendosi ammettere solamente quando, all’esito di accertamenti quanto più possibile approfonditi sul fumus boni iuris e il periculum in mora, nonché di valutazioni comparative sulle conseguenze della misura cautelare, il giudice ravvisi nell’adozione di una misura urgente di questo tipo l’unico strumento idoneo e necessario a scongiurare un pregiudizio irreparabile al diritto soggettivo cautelando.

 

Nella giurisprudenza di merito - scarsa è, evidentemente, quella di legittimità - si rinvengono posizioni contrastanti (v. Pret. Genova 12.1.1989; contra Trib. Monza 21.5.1997; Trib. Roma 23.11.2000): la posizione favorevole è lucidamente argomentata da Trib. Milano 14.8.1995 (GI, 1996, I, 2, 354), secondo la quale "la risoluzione di un conflitto fra due interessi contrapposti può essere foriera di danni irreparabili; tali danni, peraltro, potrebbero conseguire anche al diniego della misura cautelare; nel conflitto fra contrapposti interessi di pari rango, la constatazione del carattere di definitività, che avrebbe il provvedimento di urgenza richiesto, non appare motivo sufficiente a giustificarne il rigetto, dovendosi ritenere che il legislatore preferisca che sia evitato un pregiudizio irreparabile ad un diritto la cui esistenza appaia probabile, anche al prezzo di provocare un danno irreversibile a un diritto che, in sede di concessione della misura cautelare, appaia invece improbabile". La Corte di cassazione, nella recente sentenza n. 4082 del 25 febbraio 2005, ha avuto modo di chiarire - sia pure al fine di escludere l’ammissibilità del ricorso di legittimità, perché il contenuto dell’ordinanza, dalla quale scaturivano effetti irreversibili, non conferiva al provvedimento natura di sentenza - che la caratteristica dell’irreversibilità "si riscontra in tutti i casi in cui, per la natura del diritto sottoposto a cautela e il carattere anticipatorio della misura cautelare, questa e in sé sufficiente per soddisfare il soggetto che l’ha richiesta (come nei casi di autorizzazione al compimento di una determinata attività)".

 

Questa flebile progressiva apertura sembra avere trovato accoglienza da parte del legislatore che, nel contesto della recente riforma del processo civile (v.D.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito , con modificazioni, alla legge 51/2006), ha inserito, nell’articolo 669 octies del c.p.c, un comma 8, secondo cui non vi è onere di instaurare il giudizio di merito, ma "ciascuna parte può instaurare il giudizio di merito", nel caso in cui siano stati emessi "provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito".

 

Da questa norma sembra potersi argomentare che il giudizio di merito, nel caso in cui siano stati emessi provvedimenti anticipatori, diviene meramente eventuale, con il che viene a cadere il principale argomento in base al quale veniva negata l’ammissibilità di misure irreversibili e, cioè, che essi avrebbero reso di fatto inutile il giudizio a cognizione piena. Ciò premesso, si evidenzia, sulla base delle suddette argomentazioni, l’ammissibilità sotto questo profilo del giudizio cautelare nei termini proposti dal ricorrente.

 

Tale giudizio presuppone però, un ulteriore scrutinio di ammissibilità collegato all’esistenza di un diritto controverso da far valere nella fase cautelare.

 

In ordine a tale punto, il ricorrente deduce una situazione formale dove -come egli stesso sembra ammettere- non vi è contestazione del diritto a manifestare il suo dissenso al trattamento terapeutico in atto. Tale diritto viene dedotto nel ricorso come dato pacificamente accettato dalla struttura sanitaria e dal medico curante. Tuttavia, nella sostanza tale diritto non viene di fatto realizzato perché viene prospettato che subito dopo il distacco del ventilatore polmonare, in adesione alla sua volontà, assumerebbe preminenza il rischio vita, che dà luogo a carico dei sanitari ad un obbligo di intervento con necessità di riprendere il trattamento precedente.

 

Con riguardo al primo profilo, non sembra che sia pertanto in discussione il divieto del medico (correlato al diritto del paziente) di porre in essere un qualsiasi trattamento medico in presenza di un documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere (art. 32 del codice di deontologia medica), e ciò vale certamente, in ragione dell’ampio contenuto del diritto del paziente, anche per il trattamento medico in atto, allorché si chiede di desistere dai conseguenti atti diagnostici e curativi, non essendo possibile, come efficacemente argomentato dal ricorrente, alcun trattamento medico contro la volontà della persona.

 

Non si ritiene, quindi, di dovere spendere ulteriori argomenti su tale aspetto, risultando oramai acquisito alla cultura giuridica il principio secondo cui l’intervento medico è legittimato dal consenso valido e consapevole espresso dal paziente, in forza degli articoli 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, che tutelano non solo il diritto alla salute, ma anche il diritto di autodeterminarsi, lasciando a ciascuno il potere di scegliere autonomamente se effettuare, o meno, un determinato trattamento sanitario.

 

La tutela cautelare d’urgenza che qui si richiede non riguarda soltanto il suddetto profilo, che -si ribadisce- non appare contestato, bensì anche -se non soprattutto- quello successivo che involge un’altra questione, ossia il trattamento sanitario di urgenza, in presenza degli effetti connessi alla cessazione della terapia, per il quale la prospettazione dell’intervento ripristinatore della terapia medesima, in termini di automaticità non appare giustificata.

 

Come è noto, il criterio di interpretazione di un diritto, nei limiti del significato della norma, deve essere nel senso che il diritto si deve interpretare secondo il principio di massima effettività. Nel caso concreto per dare la massima effettività al diritto del paziente è necessario procedere alla sedazione richiesta, altrimenti il diritto diventerebbe solo astratto e il distacco dal respiratore senza sedazione violerebbe di fatto il rispetto del principio costituzionale della dignità della persona e del diritto di autodeterminazione.

 

In relazione a tale profilo si ribadisce la fondatezza del diritto e la sussistenza delle ragioni che richiedono l’intervento del Giudice nella fase qui considerata.

 

Ebbene, il ricorrente, come già anticipato, richiede, inoltre, al Giudice, mediante lo strumento processuale qui utilizzato, di rilasciare una sorta di autorizzazione preventiva che esoneri il medico dall’obbligo di intervenire di fronte al rischio morte, dovendo comunque rispettare la volontà già espressa dal paziente che quella situazione si era configurato ed aveva volontariamente e liberamente accettato.

 

Al di là delle problematiche di vario ordine che agitano la materia, non sembra che quest’ultima situazione prospettata rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 700 c.p.c., poiché manca dell’imprescindibile requisito dell’attualità, in quanto le successive decisioni implicano valutazioni discrezionali che vanno assunte sul momento.

Difatti, da un lato, non si contesta né appare contestabile il diritto del ricorrente al rifiuto del trattamento terapeutico in atto; dall’altro, la situazione successiva a tale evento appare investire un’altra problematica, riguardante la responsabilità del medico in presenza di trattamenti di urgenza, dovendo egli valutare se sussista in concreto la necessità di salvare il paziente dal pericolo attuale di un danno grave alla persona e perciò agire anche in assenza o anche contro il consenso di questo. Nel fare ciò egli però dovrà verificare se il trattamento richiesto si pone in contrasto con la regola del divieto di accanimento terapeutico, basata sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona e prevista nel codice deontologico medico. Si tratta, infatti, di comportamento del medico espressamente disciplinato, come recita l’articolo 14: " Il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e o un miglioramento della qualità della vita".

 

Sul punto è eloquente quanto affermato dai Giudici della Corte di Appello di Milano nel decreto del 26.11.1999, riguardante sì altra situazione di fatto ma con riflessi anche sulla questione che qui si discute. In quel provvedimento si precisava infatti che: "Nell’accezione più accreditata l’accanimento terapeutico si presenta come una cura inutile, "futile", sproporzionata, non appropriata rispetto ai prevedibili risultati, che può pertanto essere interrotta, perché incompatibile con i principi costituzionali, etici e morali di rispetto, di dignità della persona umana, solidarietà. Elemento significativo di una riflessione è l’art. 37 del codice deontologico del 1998 che prevede che "in caso di compromissione dello stato di coscienza di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile".

 

Sempre la Corte di Appello di Milano in un passaggio successivo è ancora più esplicita, affermando che l’obbligo del medico alla cura costituisce un dovere che "si arresta in ipotesi di accanimento terapeutico, nell’accezione già delineata di trattamenti che non hanno la capacità di migliorare o di preservare la salute del paziente e, quindi, "futili", "non appropriati" "in quanto esterni rispetto ai confini della medicina".

 

In questi termini, appare evidente che, sotto il profilo dell’esistenza del diritto ad interrompere il trattamento terapeutico non voluto, con le modalità richieste, il ricorso è ammissibile e va accolto.

 

Per quanto riguarda, invece, la possibilità di ordinare ai medici di non ripristinare la terapia, il ricorso è inammissibile, perché trattasi di una scelta discrezionale affidata al medico, anche se di una scelta discrezionale tecnicamente vincolata, in merito all’utilità e alla necessità di ripristinare, in un momento successivo, la terapia, sulla base di quanto indicato nell’articolo 37 del codice deontologico il quale prevede: "In caso di malattia a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita".

 

Roma, 11 dicembre 2006

 

Precedente Home Su