Rassegna stampa 6 dicembre

 

Giustizia: intervista a tutto campo con il ministro Mastella

 

30 Giorni, 6 novembre 2006

 

Alla calda estate politica sta seguendo un autunno rovente, ma il ministro della Giustizia Clemente Mastella, cinquantanove anni di cui trenta passati in politica, non sembra risentirne. Anzi, iperattivo più di un industriale della Brianza, non ha finito di difendere gli effetti dell’indulto di agosto dagli attacchi di un certo fariseismo diffuso, che è entrato nell’aula di un Senato dalle maggioranze incerte con l’obiettivo di far sospendere alcune disposizioni in tema di ordinamento giudiziario contenute nella riforma del suo predecessore Castelli, ma avversate da una significativa parte del sistema giudiziario. Infatti, in un Paese che soffre da anni lo scontro tra magistratura e politica, con una giustizia sentita da tutti come inefficiente e insufficiente, Mastella ha cercato fin dall’inizio del suo mandato di far ripartire la macchina burocratica rimuovendo barricate ideologiche e veti reciproci. Non bastasse, è scoppiato il caso delle intercettazioni illegali della Telecom, sul quale il ministro della Giustizia, il 21 settembre, ha reagito con un decreto legge per distruggere le trascrizioni degli ascolti clandestini e ha affermato: "Sulla nostra democrazia si sta addensando una nube tossica, una scoria radioattiva che va fermata immediatamente".

 

Partiamo dall’indulto, il primo provvedimento di clemenza verso i carcerati della cosiddetta Seconda Repubblica. Il precedente risale al 1990. Dopo due mesi si può fare un bilancio di come è stato applicato?

L’applicazione è stata chiaramente legata alle norme che il Parlamento ha varato, che non sono state eccessivamente clementi nei confronti di coloro che avevano commesso reati gravi, come quelli legati al terrorismo o alla criminalità organizzata, ma hanno toccato una popolazione carceraria che era allo stremo. Ma il vero problema, che in pochi hanno sottolineato, è che stenta a prendere piede un atteggiamento di maggiore disponibilità nel dare una possibilità agli ex detenuti di rifarsi una vita onesta. Nel fronteggiare l’uscita dal carcere, infatti, una delle nostre preoccupazioni maggiori è stata quella che ci fossero le condizioni per le quali il detenuto potesse avere una chance. Certo, le disponibilità del nostro Ministero non sono molte, ma analogamente si sono mossi il ministro del Lavoro e gli enti locali. E dove c’è stata più sensibilità, o dove c’erano già precedentemente iniziative per aiutare i detenuti a reintegrarsi, qualche risultato positivo si è visto. Chi fa molto più di noi da questo punto di vista è il volontariato, che è attivo non soltanto nei periodi di indulto, ma da anni lavora con costanza, pazienza e dedizione infinita.

 

Ha visto delle iniziative che l’hanno particolarmente colpita?

Ce ne sono molte. Per esempio, ho visto concretamente a Padova il lavoro svolto dalla cooperativa Giotto, ma devo dire che anche in altre parti d’Italia ci sono iniziative portate avanti dal volontariato che hanno conseguito risultati di grande efficacia operativa. Per il resto, purtroppo, c’è da smaltire un pò di preconcetti. Perché tutti si lamentano dell’uscita dei detenuti dal carcere, ma pochi sanno offrire "uscite di sicurezza", come diceva Silone, alle difficoltà che incontra ogni ex detenuto nel riottenere, se mai lo abbia avuto, un minimo di cittadinanza.

 

Anche chi, in questi anni, si è più volte scandalizzato delle inumane condizioni di vita in cui versano i detenuti, si è poi stracciato le vesti quando una parte di loro è uscita dalle sovraffollate carceri italiane. Quali critiche ha trovato più farisaiche?

La cosa che più mi ha lasciato con l’amaro in bocca è vedere come una certa stampa, dal preteso rigore intellettuale, sia stata quella che maggiormente ha fatto una spoliazione dei meriti dell’indulto, attribuendo solo a me le conseguenze di un provvedimento che ha avuto il consenso di due terzi del Parlamento. Una stampa che ha coltivato un disegno a volte culturalmente un po' razzista, goffo e borghese. Un razzismo ideologico che ha il vezzo di fingersi comprensivo per i fenomeni di sofferenza altrui a patto che siano lontani, che sia semplicemente un parlarsi addosso sui mali del mondo. Quando la situazione di disagio e sofferenza ci è vicina, allora ci si irrigidisce, non si è più disponibili ad atteggiamenti di clemenza, che per me sono umani e cristiani insieme, pur senza confondere il piano religioso e quello laico istituzionale. Mi ha fatto anche specie riscontrare questo atteggiamento egoista in alcuni che sono impregnati di spirito cristiano, ma in questo caso, dovendo applicare le verità che professano a persone a loro prossime, hanno fatto un’eccezione.

 

Perché iniziare il suo mandato con l’indulto?

Provvedimenti come quello dell’indulto, o riescono a essere definiti all’inizio oppure più si va avanti nella legislatura più diventa impossibile portarli a buon fine. La storia di questi anni ci dice questo: non bastò l’emozione per la visita in Parlamento di Giovanni Paolo II a coloro che con buona volontà hanno cercato in questi anni di perseguire quest’idea di clemenza cristiana e giuridica. Tutto questo era possibile solo con la convergenza di diversi interessi. A me interessavano i carcerati, forse qualcun altro era più concentrato su problemi personali da risolvere, ma, poiché erano necessari i due terzi dei voti, va dato atto a tutte le forze politiche di aver collaborato. Ciò è poi servito ad alcuni parlamentari, e non solo a loro, per accusarmi di aver aumentato il tasso di delinquenza in alcune zone d’Italia. Eppure è evidente come nelle aree dove c’è stato qualche episodio drammaticamente spiacevole di indultati che sono tornati subito a delinquere, la situazione di degrado sociale e di tasso di criminalità prima e dopo l’indulto sia la stessa. Come a Napoli o a Palermo.

 

"L’indulto è stato un provvedimento positivo, accolto con grande soddisfazione dalla Santa Sede", ha detto il cardinale Martino, presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace: "Viene coronato il sogno di Giovanni Paolo II e anche quello di Benedetto XVI, assai sensibile alla situazione dei carcerati in tutto il mondo". Mentre ha anche annunciato che uscirà un documento che affronterà l’argomento e che "non è escluso che il Papa prima o poi visiterà un carcere". L’hanno confortata queste parole cui hanno fatto seguito anche quelle del cardinale vicario Camillo Ruini?

Sia le dichiarazioni di Martino che quelle di Ruini sono state di grande conforto per me. Una forma di solidarietà che non mi ha fatto sentire solo e mi ha permesso di superare qualche amarezza. Magari ci fosse un qualche documento vaticano che parlasse di queste cose e facesse appello alle coscienze degli uomini! E se questo fosse letto nelle carceri italiane e, al tempo stesso, in un carcere venisse a chiosarlo e a spiegarlo il santo padre Benedetto XVI, sarebbe per me un grande onore. Visitare i carcerati è una delle sette opere di misericordia corporale e rientra nei compiti del vescovo di Roma. A Regina Coeli ci sono le targhe che ricordano la visita dei predecessori di papa Ratzinger, e penso che prima o poi anche Benedetto XVI verrà per dare parole di conforto a coloro che vivono la solitudine e il dramma del carcere.

 

Per la vita delle carceri potrebbe essere importante?

Certamente sì. Anche vedendo quello che accade con l’opera paziente di tanti cappellani delle carceri che sono tramite di speranza, che danno parole di conforto, che riescono anche a essere vicini alle famiglie che sono fuori. A maggior ragione, per l’autorevolezza del Papa, sarebbe un segno un suo gesto pubblico che rammentasse la carità e la partecipazione al dolore, che è nella tradizione della Chiesa, verso il mondo dei carcerati.

Visitare i carcerati è una delle sette opere di misericordia corporale e rientra nei compiti del vescovo di Roma. A Regina Coeli ci sono le targhe che ricordano la visita dei predecessori di papa Ratzinger, e penso che prima o poi anche Benedetto XVI verrà per dare parole di conforto a coloro che vivono la solitudine e il dramma del carcere.

 

Lei è uno dei politici italiani che afferma di richiamarsi alla tradizione cattolica. Che cosa voleva dire quando ha cominciato trent’anni fa, e che cosa vuol dire oggi, essere un politico cattolico?

La persona cui devo di più per la mia crescita e per la mia decisione di fare politica è stato il mio parroco. Io sono arrivato alla politica attraverso le letture dei testi del Vaticano II e dei libri di don Milani. Creai anche un circolo di amici in cui si studiavano e discutevano i testi conciliari.

Testi che mi hanno precipitato nel solco della tradizione cattolico-democratica. Ricordo alcune figure come Suenens o Lercaro. Pensi che leggevo anche alcune cose di Ratzinger, credo pubblicate su Concilium, a cui all’epoca ero abbonato, forse l’unico nella mia provincia. Allora, come poi ebbe a dire Paolo VI, la scelta della politica era una scelta di carità, quindi un orizzonte che doveva essere capace di comprendere le ragioni degli altri, di dare speranza agli altri, non di affogarli. Quello che volevamo era rendere le istituzioni meno fredde nei confronti dei cittadini, affrontare problemi e fenomeni che erano dissacranti per la persona, e le difficoltà che attanagliavano tante zone del Mezzogiorno nelle quali sono vissuto. Oggi è diverso.

Non c’è quest’itinerario metodologico, quasi pedagogico, di attingere a una fonte. Si arriva alla politica di getto, forse per caso. E la politica è percepita quasi sempre come difesa di interessi di parte. Inoltre non vedo più scuole di formazione politica, riferimenti culturali. Io, ad esempio, studiavo filosofia e leggevo i libri di Mounier e di Maritain che venivano editi da Morcelliana: la mia generazione è cresciuta con l’umanesimo integrale di Maritain e con il personalismo di Mounier. Oggi non si intravedono nel mondo cattolico molte figure di riferimento e si attinge più al passato che al presente.

Anche le accuse di ingerenza che vengono mosse da alcuni di noi politici al presidente della Conferenza episcopale o al Papa ogni volta che intervengono su questioni che riguardano la sfera morale, sono il segno dei tempi: non si riconosce alla Chiesa quel ruolo di maestra di umanità che parla agli uomini e alle donne di buona volontà, e che lascia liberi di accettare o non accettare. Comunque, anche se non c’è più l’unità politica dei cattolici, per me una sana ispirazione cristiana maturata e vissuta nel territorio dove uno si muove e opera è un fatto di grande importanza. E spero sempre che il richiamo a quei valori permanga e ci unisca, a prescindere dalla collocazione in cui ognuno di noi si trova nel gestire il quotidiano della politica.

 

Quali figure attuali della Chiesa italiana la colpiscono di più?

Ce ne sono varie: Tettamanzi per quello che dice sui temi legati alla morale. Scola più in chiave di natura filosofica. Conosco anche Antonelli e mi è sembrato molto attento ai problemi del mondo moderno. Così come ho molta stima di Bertone, e questo suo modo di vivere col sorriso la diplomazia non è affatto male. In situazioni dove c’è un pregiudizio nei confronti dei cattolici è un tratto che può aiutare. Poi Sepe, inizialmente accolto a Napoli da qualche scetticismo, poiché si dubitava che un curiale potesse calarsi bene in una situazione difficile come quella. Invece, gli sto vedendo fare gesti pastorali bellissimi, ed è riuscito in poco tempo a richiamare l’attenzione dei credenti e dei non credenti su certi valori cui bisogna far riferimento se si vuole dare speranza alla gente in un contesto così devastato socialmente e moralmente.

 

Parliamo del suo dicastero. Come ci si trova a lavorare sulla scrivania che fu di Togliatti, e a quale guardasigilli del passato vorrebbe ispirarsi?

Togliatti è stato il primo ministro della Giustizia della Repubblica. Anche lui determinò un atto di clemenza, certo molto più famoso del nostro indulto. Fu un’amnistia che segnò il passaggio tra un regime e l’altro. Un atto di perdono che non fu un cinico colpo di spugna, ma un gesto lungimirante che evitò regolamenti di conti privati e uno stato perenne di guerra civile. Però il mio modello di riferimento è Guido Gonella. Era, come me, giornalista, non un tecnico di discipline giuridiche, ma, come ho potuto leggere nel volume dei discorsi pronunciati in Parlamento che mi ha regalato il presidente Andreotti, aveva una competenza politica e istituzionale elevatissima e un senso umano e cristiano profondo.

 

Quali sono le riforme e le problematiche cui mettere mano subito "concertando e non imponendo", come dice lei?

Alcune sere fa mi ha chiamato il procuratore capo di Napoli e mi ha detto: "Ho ritrovato la disponibilità del mio ministro". Questo mi fa molto piacere perché dà l’idea di un rapporto, il che non significa convenire su tutto quello che pensano i magistrati. Finalmente si è rotto il muro d’incomunicabilità. Ci vuole la pazienza di ascoltare anche quando magari ci sono stati alcuni eccessi da parte loro. La giustizia oggi è lentissima, labirintica, esasperata. Per questo ho proposto di ridurre a due i gradi di giudizio per le cause civili. Inoltre, dobbiamo informatizzare l’amministrazione per essere più celeri. Bisogna anche discutere delle pene alternative, l’organizzazione all’interno dell’amministrazione giudiziaria, che a volte è assente. È un’azienda atipica, speciale, specialissima, quella della giustizia. Però come tutte quante le aziende ha bisogno di un minimo di cultura organizzativa.

 

Ma le accuse di reciproca ingerenza e prevaricazione tra magistratura e politica, che hanno segnato il recente passato, a volte riemergono…

Quando l’intero corpo di magistrati, che pure ha un sistema correntizio esasperato, si trova unito e fa uno sciopero con più adesioni di quello dei metalmeccanici, vuol dire che qualcosa non è andato per il verso giusto nell’azione di governo e nella politica. Allora il problema è tener conto delle loro ragioni. Certo, solo quando esse appaiono sensate e non solo rivolte alla difesa di privilegi di corporazione. La stessa cosa vale per gli avvocati, che devono rendersi conto che occorre recepire le indicazioni dell’Unione europea e riorganizzare gli ordini professionali, le associazioni e gli studi.

 

Lei ha chiesto che non siano toccate dalla prossima finanziaria le pensioni e ha definito fuori luogo l’idea di varare ora una nuova legge sul conflitto di interessi. Due posizioni, divergenti da quelle del suo governo, che le hanno fatto guadagnare l’appellativo di "Pierino" e l’accusa di voler tenere il piede in due staffe. La sua è la prudenza tradizionale dei moderati o c’è dell’altro?

Più che di prudenza, che è una virtù cardinale, parlerei di stile. C’è uno stile di far politica che apporta un po’ di buon senso: dire che la questione del conflitto d’interessi non va esasperata significa dire che oggi è inutile creare martiri. Io sono stato tra i primi a sollevare il problema, ma oggi non abbiamo tanto bisogno di martiri mediatici quanto di lubrificare la democrazia. Sulle pensioni, mi ha fatto simpatia un giornalista del Manifesto che, avendo letto quello che dichiaravo sulla pace sociale e il welfare, mi ha fatto notare che dicevo le stesse cose quando ero ministro del Lavoro con il governo Berlusconi, dieci anni fa.

Questo perché il mio modo di far politica è lo stesso. Sono leale con la mia coalizione, ma voglio anche dire la verità. Va affrontato di certo anche il riordino previdenziale, però mi pare che oggi aggiungere altri pesi all’elettorato italiano, che dimostra qualche insofferenza, sia un errore. Tornando al conflitto di interessi, credo si possa arrivare allo stesso risultato privi di questo stress politico che è determinato dal colluttare permanentemente con gli avversari, come se si volesse cancellarli definitivamente dalla politica.

 

Cosa vuol dire allora essere un moderato? Solo una questione di stile?

Credo sia un patrimonio culturale a cui attingere e di cui restano esili tracce in filigrana: il grande patrimonio di valori della cultura cattolico-popolare e, perché no, della cultura democristiana. La moderazione è una categoria dell’operare politico, perché compito della politica è proprio moderare gli interessi che confliggono, non allinearsi con gli interessi in gioco. Non consentire a chi è più forte di andare troppo avanti e impedire che quelli che non hanno voce siano spazzati via o siano esclusi dalle istituzioni. Moderato non è sinonimo di arrendevole. Anzi, i moderati sono i più determinati, come la colomba di cui si parla nel Vangelo. Non c’è cosa più forte della colomba che al momento opportuno sa difendersi dall’altrui offesa.

Giustizia: ex ministro Guidi; uccise figlio disabile, non andava graziato

 

Redattore Sociale, 6 novembre 2006

 

"Credo che il presidente Napolitano abbia dimostrato grande sensibilità occupandosi di questo caso e di questo tema che lega disabilità e fine della vita, grande sensibilità soprattutto nei confronti di persone che vivono e hanno vissuto tante sofferenze". Così esordisce Antonio Guidi, ex ministro per la famiglia e la solidarietà sociale e oggi presidente dell’Istituto italiano di medicina sociale, intervistato da Redattore Sociale in merito alla grazia concessa dal presidente della Repubblica al dottor Salvatore Piscitello, che nel 2003 a 76 anni uccise il figlio di 39, autistico e violento, con due colpi di pistola.

"Uccidere un figlio è talmente contro natura che non può non comportare una grande tragedia - prosegue Guidi -, ci sono paure e disperazioni stratificate, terrore dell’ignoto e del futuro. A nessuno spetta giudicare. Ma non posso fermarmi alla grazia. Mi inquieta quello che dice il dottor Piscitello "ho interrotto una tragedia con una tragedia". Io credo che sia stato un atto di egoismo e non di pietas, non traducibile con "Non volevo farlo soffrire più" ma "Non volevo soffrire più. Molti tendono all’indulgenza, ma una cosa è il capo dello stato che decide una grazia dando un giudizio complessivo, altra cosa è entrare nei particolari".

Per Guidi " nessuno deve avere il potere di togliere la vita e decidere chi debba stare addolorato e chi no" e ricorda che l’azione del padre nei confronti del figlio è stata un omicidio: "Un omicidio che non è conseguenza di un gesto compulsivo, quella persona è stata uccisa con due colpi di pistola, come un cavallo. Non ci può essere omicidio per gente di serie A e di serie B, il dolore non può generare esecuzioni.

Probabilmente questo omicidio è anche una denuncia forte della carenza dei servizi e della solitudine in cui le famiglie vengono a trovarsi. Ma - con tutto il salto in avanti della legge 180 e delle sue conseguenze - credo che in certi casi gravi, di violenza, l’istituzionalizzazione sia il male minore, esistono le strutture, c’è il ricovero, invece di togliere la vita. E c’è la medicina, anche per sedare le crisi. Piscitello è medico, non poteva non sapere tutto questo".

Antonio Guidi teme che passi un "effetto handicap" che fa considerare il delitto mano importante: "Ci vuole poco ad aprire un baratro, quando si crea un’eccezione, si rischia che passi il concetto di condanna a morte. La disabilità non può essere punita con la morte. Non ci sto al fatto che un padre può uccidere un figlio, e non ci sto ad accettare che se il figlio è disabile e vale meno e provoca dolore allora può subentrare l’indulgenza.

Per l’ex ministro la scelta di pene alternative sarebbe stata la scelta migliore. Il caso in questione fa riflettere anche su un altro aspetto: "Strana la diagnostica presentata dai mezzi d’informazione, si è detto che il figlio di Piscitello era autistico, poi sordomuto… quasi si tenda a far capire che si tratta di una sub-razza".

Proprio alla luce della grazia a Piscitello, Guidi si chiede - "con molto batticuore e molto dolore" - "perché ad una persona intelligente come Welby lo stato ipocrita non dà risposte: chiede di cessare un tormento infinito, rinunciando consapevolmente alla vita, e nessuno si muove. Qualche volta bisogna rischiare anche il dissenso politico. E’ paradossale che si dia l’indulgenza e una pacca sulla spalla a chi ha eliminato un essere inconsapevole se non si dà una risposta a una persona consapevole che chiede un gesto le cui conseguenze sono su stesso, lui decide per sé non per un altro. Il dottor Piscitello era in carcere ed è stato graziato, Welby è nel carcere di se stesso, diamogli la grazia". E la legge? "Quando si parla di vita e della sua fine i giudizi devono fare un passo indietro e pure la politica. Ogni caso è a sé, e leggi generaliste non servono".

Lombardia: varato regolamento per il garante dei detenuti

 

Vita, 6 novembre 2006

 

È stato varato dal Consiglio regionale della Lombardia il regolamento che stabilisce i compiti del garante dei detenuti, che era stato approvato dalla Giunta, su proposta del presidente Roberto Formigoni. Tra i compiti del garante, il più importante è quello di assicurare che vengano erogate tutte le prestazioni inerenti i diritti dei detenuti: alla salute, al miglioramento della qualità della vita, all’istruzione, alla formazione professionale, al loro recupero e reinserimento sociale e nel lavoro. Le funzioni del garante dei detenuti sono assolte dal Difensore Civico regionale della Lombardia.

"L’istituzione del garante dei detenuti, previsto dalla legge regionale del febbraio 2005 - ha sottolineato il sottosegretario alla Presidenza della Regione, con delega ai Diritti del Cittadino e alle Pari Opportunità, Antonella Maiolo, intervenendo in Consiglio - costituisce un qualificante e utile contributo alla protezione dei diritti delle persone private della libertà personale che intendono seguire un percorso di reinserimento nella società, che è obiettivo primario della Regione in questo campo. Il garante tutela la dignità delle persone in esecuzione penale e quindi può, per esempio, visitare gli istituti di pena e verificare che i procedimenti relativi ai detenuti abbiano regolare corso e si concludano nei tempi previsti, oltre che promuovere iniziative di collaborazione, studio e confronto sui temi dei diritti umani e sull’esecuzione delle pene".

Lazio: la situazione delle carceri regionali dopo l’indulto

 

Rivist@, 6 novembre 2006

 

Nonostante l’indulto, sono rimasti i problemi strutturali delle carceri del Lazio. La Casa Circondariale di Latina può contenere massimo 96 persone, ma essendo l’unico carcere in tutta la provincia, ci sono continui ingressi, e il sovraffollamento rappresenta una costante. Attualmente, sono presenti 130 detenuti, che dormono in celle predisposte per 2 persone anche in 6. La maggior parte dei detenuti sono in carcere per reati di mafia e di camorra, mentre altri sono in isolamento per reati sessuali, compreso un prete di Latina. Delle 30 donne detenute 23 sono collegate a mafia e camorra e 7 sono brigatiste. "L’impegno della Regione Lazio è di dotare la città e la provincia di Latina di un nuovo carcere, visto che quello esistente è inadeguato, e collocato peraltro nel centro della città". Dichiara così Luisa Laurelli, presidente della commissione Sicurezza e Lotta alla criminalità della Regione, secondo la quale "occorre poi attivare corsi di formazione-lavoro, che al momento sono fermi, per i detenuti che usciranno tra pochi mesi per effetto dell’indulto".

Quanto al lavoro all’interno del carcere di Latina, si svolgono soltanto attività di manutenzione ordinaria, come il cuoco, l’addetto alla lavanderia e il barbiere, per cui sono occupati solo 26 detenuti per mancanza di fondi. Un’altra grave carenza è rappresentata dalla mancanza di personale di polizia penitenziaria, ma sono necessari anche alcuni lavori di ristrutturazione, che devono interessare prima di tutto la sala colloqui, dove sono ancora presenti i muri divisori ormai vietati per legge.

Un nuovo carcere serve anche a Paliano, in provincia di Frosinone. Si tratta, infatti, di una vecchia fortezza costruita nel 1565, utilizzata come carcere dall’800, poi abbandonata, ed infine riutilizzata negli anni ‘70 durante la stagione del terrorismo italiano. Non ci sono problemi di sovraffollamento, i detenuti sono una cinquantina, alcuni dei quali però malati di tubercolosi. I principali problemi sono legati alla sanità: per le visite specialistiche si può aspettare anche un anno, per la mancanza di una corsia preferenziale nelle Asl vicine. "La soluzione va trovata - spiega Laurelli - nella costruzione del nuovo carcere che potrebbe far fronte anche ad altre esigenze di ospitalità per detenuti di altre carceri del Lazio, dove ci sono condizioni di maggiore criticità".

Nel carcere di Cassino sono necessari, poi, interventi di ristrutturazione, in particolare, dell’infermeria che è fatiscente. E manca anche una sala d’attesa per i familiari dei detenuti. "Ma la cosa più grave - sottolinea Laurelli - è che il Comune di Cassino non ha impegnato i fondi regionali destinati ad assistere gli ex detenuti usciti dal carcere con l’indulto". Nel carcere di Cassino attualmente ci sono un centinaio di detenuti, mentre prima dell’indulto erano 250, e quelli rientrati sono solo 5. Alta è la percentuale di extracomunitari e tossicodipendenti, che sfiora il 50 per cento. Il lavoro anche qui è limitato alle attività di manutenzione ordinaria. Mentre, riguardo alla sanità gli operatori del carcere lamentano, come in altre realtà, una scarsa presenza del Ser,T., specialmente la domenica, con problemi che ricadono sulla gestione di farmaci per i tossicodipendenti. A tutti questi problemi, conclude Laurelli, "la risposta della Regione sarà complessiva su tutto il sistema delle carceri perché l’intenzione è di portare nell’Aula del Consiglio Regionale la legge sui diritti dei detenuti prima delle sessioni di fine anno sul Bilancio di previsione per il 2007".

Lombardia: 8.653 detenuti, carceri regionali già sovraffollate

 

Ansa, 6 novembre 2006

 

Nel carcere di Lodi ci sono un’ottantina di detenuti. Nei 19 istituti lombardi sono rinchiuse 8.653 persone (607 donne e 8.046 uomini) di cui 5.298 scontano una condanna definitiva. Per quanto riguarda l’assistenza ai detenuti con problemi di dipendenza, al 31 dicembre 2005 risultavano in carico presso i "Ser.T.", 3976 tossicodipendenti detenuti: 1240 per eroina, 1516 per cocaina, 105 per cannabis, 113 per altre sostanze. In 751 casi i detenuti sono in trattamento metadonico, 457 con problemi di alcoldipendenza e 845 affetti da HIV. Nelle Comunità di recupero per minorenni presenti nei distretti di Corte d’Appello lombardi sono ospitati 210 ragazzi, mentre i movimenti e le presenze di minori registrate al "Beccaria" di Milano sono state 295 di cui 226 maschi e 69 femmine con una netta prevalenza di stranieri (175 maschi e 55 femmine). I dati sono contenuti in una relazione sullo stato delle iniziative per la tutela della popolazione carceraria in Lombardia, elaborata dalla Giunta regionale.

Calabria: Nicolò (Fi) su programma per recupero carcerati

 

Asca, 6 novembre 2006

 

Il consigliere regionale di Forza Italia, Alessandro Nicolò, ha presentato un’interrogazione al Presidente del Consiglio Regionale della Calabria, Giuseppe Bova, ed indirizzata al Presidente della Giunta Regionale Agazio Loiero, in merito allo stato di attuazione del Protocollo di collaborazione del 26.06.2003 tra il Ministero della Giustizia e la Regione Calabria per conoscere gli "eventuali programmi di intervento congiunto in ambito regionale che tengano conto delle particolari specificità della realtà locale e della comunità di riferimento, nel comune obiettivo del recupero delle persone che devono espiare una pena a seguito della commissione di reati, con particolare riguardo anche alla promozione di lavorazioni interne e/o esterne agli Istituti Penitenziari".

Per il consigliere di Forza Italia, "occorre ricordare che il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona, per mezzo, anche, di un trattamento rieducativo che tenda, attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi".

Veneto: taglio a fondi per formazione-lavoro dei detenuti

 

Il Gazzettino, 6 novembre 2006

 

"Del tutto casualmente qualche giorno fa siamo venuti a conoscenza che la Regione Veneto senza preavviso alcuno - ha soppresso le attività di formazione professionale presso le carceri venete per mancanza di fondi: nientepopodimeno che 350 mila euro per 6 mila ore di attività che coinvolgevano circa 400 carcerati". Lo ha denunciato ieri Gabriele Millino, presidente della Cooperativa Rio Terà dei Pensieri.

Si tratta dei corsi professionali, iniziati nel 1976 e cioè trent’anni fa, che per alcuni mesi dell’anno impegnavano detenuti e detenute nei laboratori delle 16 carceri venete piuttosto che stare chiusi in cella (22 ore su 24).

"Per la nostra cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri - ha accusato Millino -, che da 12 anni svolge attività di formazione nelle carceri veneziane realizzando una misura alternativa alla cella per uscire dallo stato di ozio e apatia, la decisione della Regione Veneto è letale".

Dalla nascita ad oggi i detenuti/e iscritti ai corsi professionali ammontano a 1.185 (nel 2006 sono stati 211), quelli che hanno terminato detti corsi 690 (nel 2006 sono stati 105). I corsi riguardavano 11 specialità: editoria elettronica, serigrafia, pelletteria, orlatura tomaie, sartoria, falegnameria, calzoleria, orto, cosmetica, legatoria e oggettistica varia.

"L’intendimento della Cooperativa - ha ricordato Millino - è sempre stato quello di rendere possibile a più persone l’inserimento e soprattutto l’apprendimento di una metodologia che comprendeva l’imparare un mestiere, l’assumersi la responsabilità delle proprie mansioni, il rispetto delle regole e degli orari, l’accettare il senso di sacrificio e di fatica.

"L’attività - ha aggiunto Millino - non aveva solamente l’obiettivo della formazione professionale, ma anche quello di trattamento del recluso che esce dalla cella per dare un senso alla sua giornata, dialoga con persone normali, si rapporta con altri detenuti in un clima di collaborazione nello studio e nelle attività pratiche, si prepara dopo il corso ad un possibile inserimento nei laboratori di produzione della Cooperativa aspirando ad un piccolo guadagno, dato che sono assunti con i normali contratti collettivi nazionali e godono di tutti i benefici che competono".

La Cooperativa, ha affermato il presidente, comprende che la spesa pubblica deve essere contenuta ma non si può essere d’accordo sul fatto che le economie si facciano sugli ultimi degli ultimi e cioè i carcerati, senza contare il sotto utilizzo o, peggio, il non utilizzo delle attrezzature esistenti nei Laboratori. Ben altri sono gli sprechi! "Non si dimentichi mai - ha concluso Millino - che il lavoro resta lo strumento decisivo di recupero, cioè di conquista di una dignità e una responsabilità".

Ferrara: si dibatte sull’istituzione del Garante dei detenuti

 

www.estense.com, 6 novembre 2006

 

Non si giudica la qualità dei diritti, li si garantisce dopo la "tirata d’orecchie" dei Riformatori, ora tocca ai Verdi premere sulla giunta per ottenere l’istituzione del Garante per i diritti dei detenuti. "In questi mesi, più volte - affermano i Verdi -, in particolare insieme a Rifondazione Comunista, abbiamo sollecitato le amministrazioni comunali e provinciali a intraprendere un percorso, anche comune, per l’istituzione di questa figura".

Gli ambientalisti sottolineano positivamente la posizione dei radicali in merito, mentre riservano qualche critica all’assessore Maria Giovanna Cuccuru, competente per materia. L’assessore alla Sanità e ai servizi per l’integrazione aveva risposto già nei giorni scorsi alla richiesta di un garante avanzata da Zamorani, rispondendo che questa esigenza sarà soddisfatta da un "referente della qualità e della progettazione". "Certo questa può essere un figura utile - replicano i Verdi -, ma la confusione pare evidente già nel nome a meno che non si voglia la creazione di poco più di un "controllore della qualità" del servizio carcere. Ma per quel che riguarda i diritti, non si giudica la loro qualità, li si garantisce, punto e basta". I Verdi ricordano anche come il consiglio comunale e quello provinciale hanno votato relativi ordini del giorno che chiedevano di avviare il percorso vero l’istituzione del Garante dei Detenuti, richieste rimaste però disattese.

"A questo punto - concludono i verdi -, la questione è politica ed è molto semplice: si dica se c’è la volontà di dare un segnale politico forte sul rispetto dei diritti dei detenuti o meno. Ne trarremo le relative conclusioni ed eventualmente attenderemo con pazienza, insieme ad altri, che la proposta di legge per il Garante nazionale, recentemente approvata dalla competente commissione della Camera approdi in aula".

Vicenza: novemila libri, una biblioteca chiamata S. Pio X

 

Il Gazzettino, 6 novembre 2006

 

La lettura, anche dietro le sbarre, rende liberi. Potrebbe essere questo lo slogan ideale dell’iniziativa di promozione alla lettura che la Biblioteca Bertoliana in collaborazione con la sezione vicentina del Centro sportivo italiano ha messo a punto nella casa circondariale di Vicenza. Nel carcere vicentino è attiva da due anni una ricca biblioteca che da oggi si dota di altri centotrenta volumi, donati dal Csi.

È proprio nell’ottica di integrare la realtà carceraria all’interno del territorio, che si inserisce il progetto di sviluppare la biblioteca di Via della Scola. Considerata a tutti gli effetti una biblioteca cittadina, che procede nello stesso binario di tutte le altre 80 del circuito locale. "Anche qui - spiega il presidente della Bertoliana, Mario Giulianati - si svolge il servizio di interscambio bibliotecario. Un detenuto ha a disposizione la stessa quantità di volumi di un qualsiasi altro cittadino, ovvero un milione e mezzo di titoli. La nostra convenzione con la casa circondariale sta per scadere. È nostra intenzione ridiscuterla e proseguire su questa strada".

Tra i nuovi arrivi ci sono trenta titoli in lingua araba che spaziano dalla poesia alla narrativa: una risposta alla presenza, nella casa circondariale, di numerosi detenuti che parlano l’arabo. L’iniziativa è solo l’ultima in termini di tempo che il Csi ha promosso all’interno del carcere, come spiega il presidente dell’associazione, Enrico Mastella: "Operiamo dal ‘99 nella casa circondariale. Gestiamo l’attività sportiva attraverso il "Progetto Carcere". Una volta al mese entriamo per disputare partite di calcio e di pallavolo, inoltre è in atto un corso di yoga per i detenuti di alta sicurezza e per gli agenti di polizia penitenziaria. La nostra attività prevede anche gare di atletica leggera e il coinvolgimento degli studenti delle superiori che giocano a calcio e pallavolo con le squadre di detenuti. Non solo: a gennaio partirà un corso di pronto soccorso per i detenuti". Mastella spiega il senso di queste attività: "Vogliamo che questo luogo diventi parte integrante della città di Vicenza".

A gestire la biblioteca è un detenuto, M.R., un trevigiano assunto in borsa lavoro dal Comune di Vicenza, attraverso la Biblioteca Bertoliana. Quali sono i libri che vanno per la maggiore? "La narrativa e la poesia. Anche i libri per bambini con le illustrazioni sono molto richiesti. Questo perché i detenuti che hanno figli copiano i disegni nelle lettere e li spediscono ai loro bambini".

Nella biblioteca della casa circondariale sono presenti 9.400 volumi, tra narrativa, saggistica, testi giuridici e poesia. Una raccolta che deriva per la maggior parte dalle donazioni dei cittadini. Dei prestiti possono beneficiare anche i 150 dipendenti del carcere.

Sono invece 119 i detenuti che al momento stanno scontando la loro pena all’interno della casa circondariale di Vicenza. Numero che ha conosciuto una notevole riduzione dopo il provvedimento dell’indulto: "Abbiamo avuto un forte cambiamento - spiega la direttrice Irene Iannucci - Siamo passati dal sovraffollamento alla normalità. Anche la tipologia dei detenuti è cambiata. I condannati a pena definitiva non sono più presenti. Abbiamo una grande fluttuazione di persone che stanno qui magari soltanto per 48 ore". Il carcere è suddiviso in due sezioni: quella dei detenuti comuni (71 persone tra le quali molti extracomunitari) e quella dei detenuti dell’alta sicurezza (41, perlopiù italiani). Ci sono anche un collaboratore di giustizia e sei detenuti in regime di semilibertà. "Con questa iniziativa si dà un significato diverso al pianeta carcere. Purtroppo, venendo meno i detenuti con pena definitiva diventa difficile investire in progettualità, in programmi a lungo termine. Non si può far riferimento ad un nucleo stabile per le attività ricreative".

Padova: oggi incontro con la stampa nella Casa di Reclusione

 

Comunicato stampa, 6 dicembre 2006

 

Mercoledì 6 dicembre 2006 alle ore 12.30 nell’auditorium della Casa di Reclusione di Padova (via Due Palazzi, 2) il consorzio sociale Rebus, alla presenza dei detenuti e di autorità, ha illustrato il resoconto delle attività svolte con i detenuti durante il 2006: un percorso virtuoso iniziato sedici anni fa, come esempio di economia sociale e di collaborazione tra aziende profit e non profit.

Nel corso della visita guidata, alla presenza del direttore del carcere Salvatore Pirruccio, sono stati presentati i prodotti e le iniziative realizzate nel 2006. In primo luogo i presenti hanno potuto assaggiare i panettoni impastati, cotti e sfornati dai detenuti e successivamente confezionati nella "scatola Giotto" realizzata dal laboratorio di cartotecnica interno alla struttura. È stata presentata anche una nuova linea di biscotti che verrà commercializzata, come i panettoni, anche al caffè Pedrocchi di Padova, rappresentato dal direttore Federico Menetto.

Frutto di una collaborazione con la Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, rappresentata da Pierluigi Gambarotto, sono invece le prime formelle in ceramica della "Selezione Scrovegni" all’interno di un raffinato "cofanetto Giotto". "Un modo nuovo di presentare il nostro patrimonio storico e artistico", ha commentato l’assessore alla cultura del comune di Padova, Monica Balbinot, "con una componente sociale che dà un valore aggiunto".

Ottimi anche i risultati del call center, che da via Due Palazzi raccoglie parte delle prenotazioni per l’azienda Ulss 16 di Padova. "La sperimentazione ha dato risultati lusinghieri", ha commentato Daniele Donato, direttore sanitario e capo progetto, "la gestione delle prenotazioni mediche ad opera dei detenuti ha standard pari a quelli dei migliori dipendenti dell’azienda".

Al termine della mattinata è stato firmato il protocollo per lo Sportello Lavoro in carcere - un canale per ottimizzare l’inserimento lavorativo dei detenuti - tra il Consorzio sociale Rebus rappresentato dal presidente Nicola Boscoletto, il Ministero della Giustizia, con il direttore del carcere Salvatore Pirruccio, la Provincia di Padova con il dirigente Claudio Sarcona, il Comune di Padova nella persona del vicesindaco Claudio Sinigaglia. Quest’ultimo ha annunciato la costituzione di un tavolo di coordinamento sul carcere, precisando che in gennaio su questi temi si terrà al Due Palazzi un consiglio comunale aperto. Al termine, l’intervento dell’assessore regionale al Sociale Stefano Valdegamberi, per il quale le attività del consorzio Rebus sono un esempio per tutto il sistema delle carceri italiane.

Di grande rilievo le cifre presentate da Boscoletto sull’attività del consorzio. In un anno, più di 160 i colloqui conoscitivi, 90 i detenuti coinvolti in attività formative, per la precisione 70 nei corsi di cucina e pasticceria e 20 nell’annuale corso di giardinaggio. Altri 15 sono i detenuti già occupati nelle attività di ristorazione all’interno del carcere e che stanno frequentando un corso di qualificazione professionale di cucina e pasticceria

Per quanto riguarda gli inserimenti lavorativi, si parla di 95 persone all’interno del carcere, di cui attualmente in forza 67, alle quali vanno aggiunti 16 detenuti che lavorano all’esterno grazie alle misure alternative, di cui 14 attualmente in forza. Ben 21 i cosiddetti "indultati", con un problema grave per molti cittadini stranieri, che in seguito al provvedimento si sono ritrovati privi di permesso di soggiorno.

In merito all’indulto, il presidente del consorzio Rebus Boscoletto ha proposto alcuni spunti di giudizio che nascono dai dati storici e dall’esperienza diretta all’interno del carcere. "Dal ‘46 al ‘90 in Italia sono state fatte 21 amnistie e 17 indulti", ha ricordato il presidente, "in media una ogni 2,5 anni. Dal 1990 al 2006, un arco di tempo enorme, solo l’indulto di quest’anno. Parliamo quasi di un atto dovuto, peraltro approvato dall’85 per cento del Parlamento: sarebbe bene che se ne ricordasse qualcuno che oggi ne disconosce la paternità".

Secondo Boscoletto il vero problema sta nel fatto che negli ultimi due decenni non si è seminato, "non si è investito in termini di rieducazione, di lavoro per i detenuti, di formazione per il personale, di motivazione: possiamo certamente parlare di un caso di Costituzione inapplicata". Il problema è che il carcere è espressione diretta della società: "L’albero si vede dai frutti, isolando il frutto marcio non si elimina il problema". Di qui l’urgenza di investire in educazione, formazione, politiche giovanili e di recupero della devianza, senza dimenticare "un’adeguata incentivazione del personale carcerario". "Non è una questione di numeri - oggi c’è un agente ogni 1,5 detenuti - ma di motivazione, di formazione, di responsabilizzazione ma anche di remunerazione".

Dulcis in fundo, Nicola Boscoletto ha annunciato la presenza in carcere di Maria Grazia Cucinotta per lunedì prossimo 11 dicembre. L’attrice siciliana, a Padova per presenziare all’annuale "Cena di Santa Lucia", incontrerà i detenuti del Due Palazzi nel pomeriggio.

Rovigo: il bacio alla compagna nasconde una dose di eroina

 

Il Gazzettino, 6 novembre 2006

 

Una bustina di eroina "passata" attraverso quello che sembrava un semplice bacio tra una detenuta e il suo compagno che regolarmente andava a trovarla nel carcere di Rovigo, potrebbe costare cara a Paolo Schiavon, quarantaduenne di Este, accusato di spaccio di sostanze stupefacenti, con l’aggravante di averlo fatto nella casa circondariale, sotto gli occhi di guardie e secondini. Per di più, dopo la singolare consegna, la compagna dello Schiavon, la coetanea J.B., residente a Ospedaletto Euganeo, era tornata in cella nascondendo la droga nelle parti intime. Ma qui, dopo aver assunto in qualche modo l’eroina, si era sentita male.

A dare l’allarme era stata la sua compagna di prigione, che aveva allertato medico e poliziotte. La diagnosi parlava chiaro: intossicazione da sostanza stupefacente. Poco dopo lei stessa avrebbe ammesso, prima a voce e poi scrivendolo di suo pugno, che a darle la bustina era stato il compagno.La storia risale al mese di marzo del 2000 e ieri mattina è stata ripercorsa nelle aule del tribunale rodigino dove è in corso il processo a carico del quarantaduenne, difeso dall’avvocato Giorgio Zecchin. Davanti ai giudici ha testimoniato uno degli agenti di polizia penitenziaria che quel giorno si trovava in servizio e che era stato allertato dopo le colleghe donne. L’uomo, che ha risposto alle domande del pubblico ministero Sabrina Duò, ha confermato il legame tra i due e il fatto che Schiavon si recasse regolarmente a trovare la sua donna una volta la settimana. Anche il 1. marzo 2000 il colloquio tra i due c’era stato ed era durato circa un’ora. La Duò ha poi acquisito agli atti la "confessione" scritta dalla donna e riconosciuta dallo stesso agente. L’udienza è stata rinviata al prossimo 26 febbraio quando in aula sarà chiamata a testimoniare, con l’accompagnamento coattivo, proprio J.B., che finora non si è mai presentata.

Droghe: cocaina; a Firenze parte il "Programma Conoscenza"

 

Progetto Uomo, 6 novembre 2006

 

Il problema delle dipendenze patologiche è annoso e la sua risoluzione diventa sempre più difficile da comprendere. I tempi evolvono, le droghe si trasformano, le persone cambiano. Oggi, si assiste ad un incremento di stili di vita negativi di uso di sostanze che, a seconda del contesto giovanile e la moda del momento, assumono maggior interesse. Tra le varie, la cocaina emerge come elemento collante di variabili generali (ricerca degli effetti, ignoranza sulla tossicità e sulla dipendenza), difficilmente misurabili e che la rendono oggi la droga con il più alto trend di crescita.

La cocaina è una droga complessa, spesso sottovalutata ma con danni sulla persona, a livello psicofisico, a stento quantificabili, se non a lunga scadenza. Eliminare tale dipendenza ci risulta, dal lavoro svolto fino a questo momento, complesso e laborioso, così come, per impedire le ricadute, è necessario un ben congegnato protocollo terapeutico.

Il nucleo dell’attività svolta da qualsiasi programma di trattamento per le dipendenze è volto alla risoluzione della dipendenza e al cambiamento della persona. In questo contributo intendiamo spiegare concisamente il nostro punto di vista circa il cambiamento al Programma Conoscenza (trattamento per assuntori di cocaina).

Costantemente e fin dagli esordi del Programma Conoscenza abbiamo osservato un particolare e interessante fenomeno: a conclusione del trattamento, la persona ormai avviata verso la dimissione, afferma, a domande mirate, di non rendersi conto bene di come sia riuscita a raggiungere l’obiettivo della terapia, ovvero: il cambiamento.

Questo può apparire strano a chi vede come elemento di primaria importanza l’acquisizione della consapevolezza come strumento di guarigione psicologica. Dal nostro punto di vista invece e, in particolar modo, all’inizio del programma terapeutico, la consapevolezza non rappresenta il punto centrale su cui fare leva, per modificare i comportamenti disfunzionali della persona con problemi di dipendenza.

La cocaina, infatti, stimola nella persona processi automatici e vere e proprie sindromi pseudodissociative, che fanno spesso, in particolari situazioni ambientali ed interiori, abusare e ricadere nell’uso senza quasi rendersene conto.

Con questo non vogliamo mettere in secondo piano i processi cognitivi e metacognitivi. Essi sono fondamentali nella ristrutturazione individuale (Toneatto, 1999). Anzi, nel nostro percorso terapeutico essi vengono sviluppati e consolidati continuamente. Questo avviene, ma con una costante di fondo: adottare il linguaggio persuasorio come strumento principale d’intervento clinico.

Il nostro trattamento si fonda su alcuni principi fondamentali. Uno di questi afferma che la modifica e il cambiamento individuale procedono gradualmente, attraverso piccoli passi, verso l’obiettivo concordato, senza inutili forzature.

Il cambiamento avviene da sé, la persona impara attraverso l’azione e l’esperienza di aver reagito nei confronti delle molteplici situazioni in modo nuovo e diverso. Egli, a quel punto, riflette e si rende conto che ciò che riteneva impossibile o estremamente difficile si è risolto grazie alle sue capacità e competenze.

Per ottenere questo, abbiamo calibrato il protocollo di trattamento, al fine di sospingere dolcemente la persona verso la risoluzione della situazione problematica. Attraverso un processo graduale ma continuo, si conduce dapprima il sintomo, ovvero la dipendenza, verso la sua autodistruzione. Successivamente si costruisce un percorso personalizzato verso il consolidamento e lo sviluppo di nuove modalità di reazione nei confronti della realtà.

Si tratta, in sostanza, di creare, come un’artista alle prese con un grosso masso informe, un’opera compiuta. In tutto questo la persona in cerca d’aiuto è l’allievo che segue il maestro. Dopo, e in modo del tutto naturale, troverà dentro se stesso il maestro (la consapevolezza) che lo aiuterà a realizzare la trasformazione interiore auspicata.

Per raggiungere questo risultato, l’allievo dovrà dar prova di costanza e dedizione negli impegni presi, dovrà applicare ciò che ha imparato attraverso gli strumenti forniti. All’inizio compierà degli errori, ma sarà corretto affinché non li compia ancora. Quando raggiungerà i piccoli ma significativi risultati previsti, sarà premiato e motivato a incrementare maggiormente gli sforzi.

Apprendere, nel nostro programma, significa mutare di continuo la prospettiva di visione della realtà, così che da una percezione rigida e problematica si arrivi, inevitabilmente, ad una visione più flessibile e funzionale. Questo viaggio interiore, a volte duro, a volte tortuoso, porta la persona a rendersi conto del "paesaggio" che fino a quel momento non vedeva. Sarà incuriosito e arriverà a destinazione senza quasi accorgersene.

Per mutamento, quindi, intendiamo uno sviluppo continuo che non cessa mai e che da un punto d’esordio evolve verso una trasformazione che coinvolge la persona nella sua interezza. Naturalmente, per raggiungere questi obiettivi non basta volerli. Si deve utilizzare un modello di trattamento che abbia al suo interno la rigorosità ed elasticità necessaria a tale scopo. Il Programma Conoscenza utilizza una metodologia ormai consolidata da quasi quattro anni di applicazione e ricerca in questo campo (Leonardi e coll., 2006). Tutto il trattamento è definito e sviluppato nei minimi dettagli e nulla è lasciato al caso. Ogni persona viene seguita in tutte le fasi prefissate e viene adottata una logica d’intervento complessa e articolata, che comprende l’uso della comunicazione come mezzo terapeutico basilare.

Così, come inevitabilmente il cambiamento riguarda l’osservato ma anche l’osservatore (Von Foerster, 1984), l’esperienza del lavoro svolto in questi anni ci ha fatto accorgere di aver cambiato anche in noi il modo di vedere e reagire a tali problemi: da apparentemente insolubili a problemi risolvibili. In modo progressivo ci siamo anche noi a poco a poco trasformati, spontaneamente e senza quasi rendercene conto.

 

Per informazioni: Programma Conoscenza, Via dell’Anconella n. 3 - 50100 Firenze

Tel. 055.223328 - Cell. 335.7686394 - E-mail: mailto: progettoconoscenza@csfirenze.it

 

Andrea Leonardi, Paolo Fioravanti e Sonia Scavelli sono del Centro di Solidarietà di Firenze; Francesco Velicogna è dell’Institute of Constructivist Psychology, Padova

 

Per saperne di più

 

Toneatto T. (1999), Metacognition and substance use, Addictive Behaviors, Mar-Apr; 24(2): 167-74.

Von Foerster H. (1984), Obseving systems, Intersystems Publications, trad. it. Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma 1987.

Leonardi A., Fioravanti P., Scavelli S., Velicogna F., (2006), Programma Conoscenza: trattamento psicoeducativo integrato ed evoluto per problemi di cocaina. In: Serpelloni G., Macchia T., Gerra G. (a cura di), Cocaina. Manuale di aggiornamento tecnico e scientifico. Progetto START del Dipartimento Nazionale per le Politiche Antidroga, pp. 637-653

Gran Bretagna: principe Carlo incontra gruppo di ex detenuti

 

Associated Press, 6 novembre 2006

 

Il principe Carlo d’Inghilterra ha incontrato oggi un gruppo di ex detenuti nella sua residenza londinese per discutere concretamente della possibilità di evitare la reiterazione del reato una volta usciti di prigione. L’erede al trono britannico, primo in linea di successione, ha ascoltato con attenzione oggi le storie di 25 ex carcerati, uomini dai 15 ai 35 anni.

Nel giardino della Clarence House gli ex detenuti hanno descritto le difficoltà incontrate dopo la condanna per rapina, possesso di droga o rapina a mano armata. L’incontro è stato voluto dallo stesso principe Carlo, ispirato dalla lettera i un ex tossicodipendente beneficiario di un programma di recupero di 12 settimane finanziato dal "Princès Trust", un fondo che sostiene la formazione dei giovani. Accanto a Carlo oggi il ministro dell’Interno britannico John Reid, ma anche importanti funzionari e inquirenti dei centri di detenzione britannici.

 

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