Rassegna stampa 19 dicembre

 

Una cabina di regia per il reinserimento degli ex-detenuti

di Maria Teresa Figari (Presidente Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Liguria)

 

Progetto Uomo, 19 dicembre 2006

 

Il caso della Liguria testimonia come le recenti difficoltà emerse dopo l’indulto richiedano maggiore integrazione tra istituzioni e non profit. In questi ultimi mesi si è molto parlato d’indulto: a seconda dei punti di vista, lo si è presentato come una misura necessaria e improrogabile, come un fattore di allarme sicurezza per le tante persone socialmente pericolose rimesse in libertà (si pensi a Napoli) e come una ulteriore minaccia al buon funzionamento del nostro sistema giudiziario.

Forse si è riflettuto meno sul fatto che, per buona parte degli indultati, l’uscita dal carcere ha significato ritrovarsi di colpo in mezzo la strada: senza un soldo in tasca, senza un tetto, senza un lavoro, senza famiglia alle spalle; spesso senza possibilità di accedere ai servizi del territorio perché privi di documenti, e senza possibilità di rinnovarli perché senza residenza. Insomma un groviglio di criticità, talora aggravato dalla tossicodipendenza, dalla sieropositività o dal disagio psichico. Ci si è veramente interrogati su quali concrete possibilità di semplice sopravvivenza, per non parlare di reinserimento sociale potevano avere tali persone? Come evitare il meccanismo infernale della porta girevole del carcere da cui si esce e si entra in continuazione?

 

L’esigenza di una cabina di regia

 

Il fatto che la legge sull’indulto sia entrata in vigore il 31 luglio non ha certo facilitato la situazione. Nella realtà locale genovese gli enti pubblici e le istituzioni si sono fatti trovare abbastanza impreparati: non era stato previsto un piano per fronteggiare l’emergenza indulto e molti servizi istituzionali essenziali - Distretti sociali, Dipartimenti di salute mentale - erano chiusi per ferie.

Ancora una volta il volontariato e il Terzo settore si sono rivelati fondamentali e insostituibili per l’emergenza.

In particolare lo Spin (Sportello Informativo per i detenuti, operante sul territorio genovese, in cui volontari e operatori del Terzo settore affiancano gli operatori istituzionali dell’UEPE) è stato riconosciuto come l’unico attore sociale del territorio in grado di attivare prontamente e con competenza la rete territoriale e mobilitare sull’emergenza indulto le risorse pubbliche e private.

Vorrei, innanzitutto, sottolineare come l’emergenza indulto, ha dimostrato che sinergie di diversa matrice possono affrontare le emergenze in maniera positiva e potrebbero dare vita a buone prassi. Dopo il primo incontro avvenuto fra Spin-Uepe, Comune di Genova, Provincia, Regione, ai primi di agosto in piena emergenza, l’indomani dell’emanazione dell’indulto, ne sono seguiti altri nei mesi successivi. E questo è senz’altro un aspetto positivo: è nato un coordinamento, è stato fatto un piano in due fasi di intervento, i vari attori sociali si sono conosciuti, si sono scambiate informazioni. Resta però da rilevare che è mancata una cabina di regia che affrontasse in maniera decisa tutti i problemi che si sono fin dall’inizio presentati. Nella gestione del dopo indulto lo Spin, ha svolto un ruolo fondamentale e insostituibile. Ma viene da domandarci se il settore pubblico non avrebbe dovuto assumersi maggiori compiti, maggiori responsabilità, sentirsi maggiormente chiamato a promuovere iniziative di largo respiro.

Un altro punto da sottolineare è la constatazione che il nostro territorio non riesce a rispondere ai bisogni sociali delle cosiddette fasce deboli. L’emergenza indulto ha reso eclatante le gravi carenze strutturali: le abitazioni hanno costi troppo elevati, sono scarse le comunità d’accoglienza temporanea, manca soprattutto la possibilità di un inserimento lavorativo e più in generale qualsiasi tipo di sostegno a misure di opportunità per chi esce dal carcere.

È chiaro, e qui ci si riallaccia al problema della sicurezza, che il reinserimento sociale - possibile solo per chi ha una situazione alloggiativa e lavorativa sicura - è la prima misura di sicurezza: chi non ha disponibilità economiche, un appoggio famigliare rientra più facilmente nel circuito malavitoso.

Legato all’indulto ed anche al problema della sicurezza è emerso, in tutta la sua drammaticità, il problema degli immigrati. Alcuni di loro, avviati sulla via del reinserimento grazie ad un’attività lavorativa in corso durante la loro permanenza in carcere, si sono trovati ad essere clandestini con l’alternativa di un rientro forzato nel loro paese di origine o, restando in Italia in clandestinità e senza risorse economiche, di entrare nell’illegalità più assoluta.

 

Aprire il confronto tra pubblico e privato-sociale

 

Innanzitutto bisogna offrire la possibilità di stabilire un confronto fra le istituzioni pubbliche locali dei Comuni dove si trovano le carceri della Regione e le associazioni di volontariato e del Terzo settore che hanno affrontato, a seguito dell’indulto, i problemi legati alla scarcerazione, problemi che la scarcerazione repentina di tanti detenuti ha esasperato, ma che già preesistevano e continueranno ad esistere se non s’interviene. Confronto vuol dire innanzitutto scambio di informazioni da una parte e dall’altra.

Confronto vuol dire opportunità per il privato-sociale di presentare proposte d’intervento che aiutino il pubblico a rendere possibile l’attivazione effettiva di alcuni servizi indispensabili, volti a realizzare i livelli essenziali di assistenza sociale (i cosiddetti Liveas) per la soddisfazione dei diritti sociali dei cittadini secondo la legge 328 del 2000. Ci sembra importante che la voce del privato-sociale che si occupa di giustizia venga ascoltata sia nell’elaborazione dei piani di zona che, qui a Genova, del Piano regolatore Sociale.

Per realizzare questo confronto in maniera sistematica e proseguire sulla strada delle "buone prassi" di cui si parlava all’inizio, la Conferenza Regionale Volontariato Giustizia della Liguria propone di giungere alla sottoscrizione di una dichiarazione d’intenti cui aderiscano la Regione Liguria, il Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria e la Conferenza, attraverso la promozione e convocazione di un tavolo di confronto.

La storia di questi ultimi anni, relativa alle iniziative svolte a sostegno di detenuti ed ex-detenuti, mostra quanto proficue siano state tutte quelle situazioni in cui le tre componenti (Amministrazione giudiziaria, ente locale, privato-sociale) si sono incontrate e hanno lavorato insieme. Ricordo in particolare l’istituzione dello Spin suggerito dal Ministero di Giustizia, la cui nascita è stata possibile grazie a tutto il lavoro svolto in precedenza dalle forze aderenti al tavolo di lavoro "Carcere e città". Più recentemente il gruppo di lavoro formatosi presso il Provveditorato in base a un protocollo d’intesa fra la Conferenza Nazionale e il Ministero di Giustizia, cui hanno partecipato funzionari della Provincia e del Comune di Genova, ha portato ad utili accordi fra Amministrazione giudiziaria, Comune e Provincia. Il confronto su questa proposta e su quante saranno portate è aperto.

Erba: procuratore; inchiesta molto difficile, non avrà tempi brevi

 

Agi, 19 dicembre 2006

 

Un’inchiesta molto difficile e che non troverà soluzione in tempi brevi a meno di una improvvisa svolta. Non lo nasconde il procuratore capo di Como Alessandro Maria Lodolini riferendosi alle indagini sulla strage di Erba. Per trovare chi ha compiuto l’eccidio sono cinque i magistrati impegnati anche se, formalmente, il fascicolo contro ignoti è affidato al sostituto Simone Pizzotti.

A otto giorni di distanza, l’inchiesta ha pochissimi punti fermi e le ipotesi anche sul movente sono le più disparate, compresa quella passionale. Chi ha agito potrebbe aver trovato le armi direttamente nel bilocale dove è stata uccisa Raffaella Castagna, il piccolo Youssuf e la nonna del piccino Paola Galli.

Il (o i) killer dopo il massacro ha trovato il tempo di appiccare il fuoco in tre punti diversi dell’appartamento ma senza utilizzare liquidi infiammabili e probabilmente sono stati bruciati i vestiti indossati ed intrisi di sangue, comprese le scarpe. Questo giustificherebbe il fatto che non sono state trovate orme sporche di sangue neppure nel cortile della vecchia cascina ristrutturata.

Gli inquirenti, intanto, hanno ricostruito minuto per minuto le ultime ore di vita di Raffaella. Quel pomeriggio, come sua abitudine, era andata a lavorare part-time presso la comunità psichiatrica "Villa Cusi" di Magreglio. Alle 18.30 è tornata a casa prendendo il bus fino ad Asso e da lì in treno per raggiungere Erba dove in stazione, probabilmente, era attesa dalla mamma Paola. Secondo quanto racconta Henriette Holl, responsabile della comunità, "Raffaella mi ha salutata con un "ci vediamo domani" e ricordo che attorno alle 16 è venuta a chiedermi una settimana di ferie dicendomi che doveva andare in Tunisia per raggiungere il marito che laggiù aveva trovato lavoro. Fino al giorno dopo la strage, non sapevo se Azouz fosse stato in carcere".

La direttrice ricorda che negli ultimi tempi Raffaella aveva dichiarato di essersi convertita alla fede islamica "tanto che aveva chiesto di essere esonerata dall’accompagnare i nostri ospiti in chiesa e aveva mostrato un certo fastidio nell’allestimento degli addobbi natalizi".

Bollate: formazione detenuti-tecnici, accordo con azienda privata

 

Redattore Sociale, 19 dicembre 2006

 

Cinque detenuti all’opera da subito nel settore dell’alta tecnologia che saliranno a quindici entro il 2007. È un’attività d’eccellenza nel campo del lavoro recluso quella presentata questa mattina nel carcere di Milano Bollate. La società Pcdet srl ha trovato un accordo con l’Amministrazione penitenziaria per la formazione e l’occupazione di detenuti ospitati nel carcere: in un capannone di 700 metri quadri all’interno del penitenziario, su 70 postazioni diverse lavoreranno detenuti selezionati dalla società. Tre formatori esterni si preoccuperanno della loro istruzione professionale trasformandoli in mulettisti, riparatori di monitor e di computer.

L’iniziativa, presentata questa mattina dalla direttrice di Milano Bollate, Lucia Castellano, presenta almeno tre caratteristiche che la rendono "esemplare" nel campo dell’economia sociale: infatti la Pcdet srl si occupa di trattare apparecchiature elettroniche che sono giunte o stanno giungendo alla fine del loro ciclo di vita; il lavoro è quindi "ecologico" perché consiste nel far tornare come nuovi computer, stampanti ed elettrodomestici altrimenti destinati alle discariche.

Secondariamente Pcdet srl ha tra i suoi scopi statutari proprio quello di dare lavoro ai detenuti e il rapporto con il carcere di Bollate, per statuto, si profila di lungo periodo. Infine il 10% degli utili dell’attività della società verranno donati a Cura e sorriso onlus, un’associazione che fa capo all’istituto Mario Negri di Milano e che si occupa specificamente dei bambini affetti da Sindrome emolitica uretica, malattia rara che provoca insufficienza renale.

"Il carcere non è una lavatrice che magicamente ripulisce le persone che ospita -ha sostenuto Lucia Castellano, direttrice dell’istituto-. Funziona solo se è un’istituzione aperta all’esterno. Ugualmente il lavoro in carcere funziona solo se lo stile di lavoro proposto è identico a quello che si trova all’esterno. Per questo è importante che vengano dentro al carcere le aziende; e che ci impongano il loro stile di lavoro".

"I detenuti sono assunti con un contratto assimilato ai metalmeccanici - spiega Ettore Menicucci, amministratore delegato Pcdet srl - e la formazione che forniamo dà loro più possibilità di trovare un lavoro una volta usciti". Alla conferenza stampa era presente anche Danilo Falappa, presidente di Life tool technologies, società che supporta Pcdet fornendo prodotti elettronici da riparare e reinserire sul mercato. "Avrei potuto far svolgere questa attività in Cina, dove i miei prodotti sono realizzati - spiega Faloppa -, ma crediamo nell’importanza dell’iniziativa e nel suo valore di responsabilità sociale. Per questo aderiamo con entusiasmo".

Palermo: 260mila euro in due anni per il teatro-carcere

 

La Sicilia, 19 dicembre 2006

 

Via libera della Giunta comunale di Palermo a "Il teatro per la libertà dentro e fuori le mura", il progetto della compagnia teatrale formata da ex detenuti e diretta da Lollo Franco. Per il prossimo anno e per il 2008, l’associazione culturale continuerà a realizzare l’attività teatrale con gli ex detenuti, sia all’interno del carcere Pagliarelli, sia all’esterno del penitenziario, nella sede dell’associazione "Il teatro per la libertà", nel parco di Villa Pantelleria. Il costo per le casse comunali è di 260 mila euro. L’iniziativa vedrà la partecipazione di un gruppo di ex detenuti avviati dal regista all’attività teatrale.

Libri: storia di Teresilla, la suora degli "anni di piombo"

 

Quotidiano di Calabria, 19 dicembre 2006

 

"Il suo nome resterà per sempre legato al caso Moro. Ma l’opera di Teresilla, calabrese dell’ordine delle Serve di Maria Riparatrice, conosciuta come "la suora degli anni di piombo", nata a Bagaladi nel 1943, era molto più ampia. "Teresilla, infermiera professionale, al secolo Chiara Barillà, si è dedicata sin da giovanissima ai detenuti delle carceri di massima sicurezza di Pianosa, Regina Coeli e Rebibbia": così l’autrice, Annachiara Valle, presenta la figura della protagonista del volume "Teresilla, la suora degli anni di piombo", di Paoline edizioni, con la prefazione di Walter Veltroni.

Un libro per raccontare che il dono oltre il pregiudizio è possibile; per rendere nota la vita sopra le righe, di donna e di suora, di una concittadina della quale fin ora poco si è saputo, ma che è stata figura di sostegno e di mediazione tra capi di stato, tra cui Scalfaro che testimonia nel libro, politici, magistrati e vertici istituzionali, e pentiti ed ex brigatisti reclusi in varie carceri, come Fioravanti, Morucci, Faranda, Mambro e Negri, che la ricordano nel volume.

La novità editoriale a firma della giornalista cosentina tra l’altro collaboratrice di Famiglia Cristiana, Annachiara Valle, è stata presentata a Reggio sabato scorso, nell’auditorium della casa circondariale, con una cerimonia organizzata nella ricorrenza del primo anniversario della scomparsa della religiosa, alla presenza dell’autrice del volume, dei familiari della suora e di una rappresentanza di religiose dell’ordine cui ella è appartenuta.

L’incontro in ricordo della figura di suor Teresilla, tra l’altro fautrice accesa dell’indulto e dell’amnistia, esile nel fisico ma dal temperamento d’acciaio, è stato moderato dal giornalista, Tonio Licordari, e vi hanno preso parte, la direttrice delle carceri reggine Maria Carmela Longo, il vicario generale della diocesi Reggio-Bova, don Antonio Iachino, la direttrice della casa di reclusione romana di Paliano, Nadia Cersosimo, Mario Nasone dell’ufficio esecuzione penale esterna, Francesco Perrelli di Federsolidarietà, ed il sindaco di Bagaladi, Curatola, che ha annunciato per il 13 gennaio una cerimonia in ricordo, a Bagaladi. Ed a Reggio, l’amministrazione comunale, assegnerà prossimamente alla sua memoria, il San Giorgino d’oro.

"Da credente, da suora, era convinta dell’importanza e del valore del perdono, del redimersi. Ma oltre a ciò, credo che suor Teresilla fosse davvero una caparbia sostenitrice della possibilità di riscatto del genere umano, e che avesse una profonda fiducia negli uomini": scrive Walter Veltroni, nella prefazione. Maria Carmela Longo:"La ricordiamo in un penitenziario, dove ha dedicato la propria vita. Di lei si diceva "la suora dei misteri", perché custodiva nel cuore le sofferenze di chi soffriva; a noi piace ricordarla così, custode dei segreti della sofferenza altrui".

Il giornalista Tonio Licordari l’ha definita "una luce dietro le sbarre", e don Iachino ha detto: "non era una consolatrice dei carcerati ma li induceva a non fuggire dalle proprie responsabilità, ed andava a cercare Dio nei volti deturpati dalla sofferenza". Le conclusioni dell’autrice: "Ho voluto raccontare una vita vissuta a tutto tondo, i cui frutti sono ancora da scoprire".Il libro si chiude con un’auto definizione di Teresilla:"vorrei essere come un grande asciugamano in cui possa asciugarsi la faccia il povero, il peccatore, la prostituta, il carcerato". Suor Teresilla è morta a Roma investita da un’auto, la notte del 23 ottobre 2005. È sepolta a Reggio Calabria.

Bergamo: qui l’indulto ha funzionato, i recidivi sono 17 su 260

 

L’Eco di Bergamo, 19 dicembre 2006

 

A quasi cinque mesi dal provvedimento di indulto deciso dal governo (per la precisione il 31 luglio scorso), il bilancio delle conseguenze per la casa circondariale di via Gleno a Bergamo è tutto in pochi numeri: i recidivi sono diciassette in tutto, e l’affollamento del carcere è stato diminuito. In cella a fine luglio c’erano 534 detenuti (la capienza sarebbe 210); per l’indulto ne sono usciti da via Gleno 262; sono stati riarrestati in 22: di questi 17 erano appunto detenuti a Bergamo e cinque in altri istituti di pena d’Italia. "Credo che bastino questi numeri per capire che l’indulto è stato ed è un provvedimento da difendere sia per le condizioni di vita dei carcerati, sia per chi opera negli istituti", ha sottolineato don Fausto Resmini, cappellano del carcere, nella trasmissione "Indulto e giustizia ingiusta?" andata in onda su "Radio E".

Firenze: detenute-stiliste, una sfilata davanti al vescovo

 

Nove da Firenze, 19 dicembre 2006

 

Parte la musica e Ivana, trans in pellicciotto nero e tacchi di venti centimetri, sbatte subito in faccia alla platea due potenti seni nudi al silicone. In seconda fila, monsignor Maniago vescovo ausiliare di Firenze: "Sono venuto per dovere morale: l’avevo promesso a don Cuba. So cosa avrebbe detto lui: una sfilata di moda a Sollicciano? Gli è il suo posto".

Di sicuro è il posto di Alessandra, altro transessuale, petto debordante e polpacci tostissimi, che sfila tutta fasciata in bianco, e di Claudia, cappotto ghepardo, sfacciata e siliconata anche lei, la Jessica Rabbit di Sollicciano, una veterana delle passerelle, ho già sfilato a Miss Trans a Torre del Lago prima di finire qua dentro. Dentro, fuori: davanti a questo palcoscenico, nella sala cinema del carcere, la differenza sta solo nelle vite difficili sotto quelle paillette, nelle taglie di chi sfila, dalla 48 in su, e negli agenti penitenziari alla porta.

Per il resto, potrebbe essere una sfilata di moda normale, con la musica, il regista, le coreografie, le luci, le bizze per un brufolo sul mento, il trucco che si scioglie per l’emozione, le modelle che puntano il piede e fanno la giravolta come hanno visto fare alle top model in tv. "Io ci ho lavorato, con quelle famose, anche con Naomi. Un giorno qua dentro, per vedere come può essere dura la vita vera, non gli farebbe male" dice Ferdinando Grazia, il coreografo e regista di questa specie di Pitti Sollicciano.

Ventiquattro detenute che mettono in passerella molto di più di un abito lamè che loro stesse si sono cucite: il progetto di una nuova vita fuori da lì. La possibilità di un lavoro, un mestiere acquisito, una carta in più da giocare quando il cancello si chiuderà alle spalle e ci si potrà presentare sul mercato con qualcosa di meglio del niente con cui spesso si esce da un penitenziario. La sfilata, davanti al sottosegretario alla giustizia Daniela Melchiorre, è solo l’evento; il vero obiettivo è un laboratorio di moda in pianta stabile all’interno di Sollicciano.

"Ce la faremo, abbiamo già la disponibilità di molte aziende pronte a fornire tessuti e macchinari, cosa che per altro hanno già fatto in questa fase sperimentale, e la risposta delle detenute è molto positiva. All’inizio è stato difficile stimolarle, ma una volta messa in moto la molla della creatività, sono come rinate: hanno cucito vestiti, creato borse, stole, tutte donne che non l’avevano mai fatto prima" dice l’assessore provinciale alla moda Elisabetta Cianfanelli, ideatrice e motore di tutto, che ha già in mente un marchio ad hoc per i capi che saranno prodotti nel laboratorio, una sorta di "made in Sollicciano" che permetterà a chi li acquista di capire il significato sociale che c’è dietro quegli abiti, e darà modo alle detenute di avere un ritorno economico della loro attività. "Questa non è una vetrina pubblicitaria, ma la dimostrazione concreta che il reinserimento dei detenuti è possibile se si ha un progetto" insiste il direttore del carcere Oreste Cacurri.

La sfilata è stata anche l’occasione per vedere che effetto fa il Giardino degli Incontri di Michelucci, dove si è tenuto il rinfresco finale, pieno di gente: proprio come l’avrebbe voluto l’architetto che cominciò a idearlo a 94 anni e morì un mese dopo aver consegnato il progetto di massima nel ‘90.

Adesso il Giardino è finito, ma per l’inaugurazione ufficiale si dovrà aspettare ancora qualche mese. Restano da definire alcuni dettagli, però di non poco conto: manca il bar, il chiosco di giornali, lo spazio giochi per i bambini, e anche i tavolini e le sedie dove le famiglie in colloquio lungo possano anche mangiare insieme. Però intanto un po’ di vita comincia a circolare anche in mezzo a quella foresta di cemento.

Film: "L’aria salata" racconta la vita di un giovane educatore

 

Primissima, 19 dicembre 2006

 

Opera prima di Alessandro Angelini che è cresciuto alla scuola di Nanni Moretti e Mimmo Calopresti. L’aria salata, presentato in concorso a Cinema. Festa Internazionale di Roma, si è aggiudicato il Premio al Migliore Attore andato a Giorgio Colangeli.

Fabio è un giovane educatore che lavora con passione e dedizione nel percorso di reinserimento dei detenuti nella società. A volte è costretto a scontrarsi con quanti si aspettano da lui facilitazioni per ottenere permessi premio o l’agognata semilibertà. Fabio, però, non fa sconti e non deroga ai suoi principi anche se questo gli costa molto più di quanto sia disposto ad ammettere. Un giorno, un detenuto condannato per omicidio, che gli è stato mandato da un collega, si siede a colloquio con lui. È Sparti, uomo dal carattere difficile, che il carcere ha contribuito ad indurire ulteriormente. L’incontro inaspettato con quest’uomo, costringe Fabio a fare i conti con i fantasmi di un passato familiare rimosso, e a scontrarsi con la sorella Cristina che non vuole riaprire vecchie ferite che mettano a repentaglio la tranquillità della loro vita attuale.

L’idea de L’aria salata è nata dall’esperienza che Angelini ha fatto come volontario presso il carcere di Rebibbia a Roma. "Ho conosciuto molte persone, diverse per storia e atteggiamento, ma accomunate dallo stato d’animo che si crea alla chiusura dell’ultimo cancello, quando, a luci spente, prima di prendere sonno, di notte si resta soli con i propri pensieri". - ha affermato il regista - "Con i rimorsi e il dolore, con il pensiero verso i famigliari che stanno fuori e che, a modo loro, scontano anch’essi la condanna". È proprio su questo concetto che Alessandro Angelini, insieme ad Angelo Carbone, ha incentrato la sceneggiatura del film, pensando già in fase di scrittura a Giorgio Pasotti come protagonista. Quando il film è passato in concorso alla Festa del Cinema di Roma ci sono stati dieci minuti di applausi e una standing ovation.

Le critiche sui quotidiani sono quasi tutte buone. Si parla di ritorno ad una storia vera, reale, con personaggi credibili, un film che fa pensare a quel cinema italiano che ci ha reso grandi. Giorgio Colangeli, attore di teatro e televisione, è perfetto nei panni di quest’uomo, condannato al carcere a vita, vulnerabile ma arrogante, uno che non ha nessuna intenzione di sottomettersi. Per quanto riguarda Angelini, sicuramente l’apprendistato con registi come Moretti e Calopresti, e il suo lavoro come volontario in carcere hanno contribuito alla riuscita di questo mélo carcerario semplice, secco, girato con una macchina da presa sempre addosso agli attori intenta a non mollarli mai.

 

Alessandro Angelini, che ha all’attivo quattro documentari e molta esperienza come aiuto regista, è al suo primo lungometraggio. Ha vinto il Torino Film Festival nel 2000 con il documentario Ragazzi del Ghana ed ha ottenuto la menzione speciale dell’Unicef al Riff awards del 2003 con La flor mas linda de mi querer.

Droghe: percorsi guidati per non sbandare

di Marco Cafiero (Criminologo, referente della Rete tematica carcere della Fict)

 

Progetto Uomo, 19 dicembre 2006

 

Il lavoro di rete svolto dal Centro di Solidarietà di Genova per il reinserimento sociale dei detenuti con problemi di tossicodipendenza. Esiste il detenuto tossicodipendente? Si tratta di una categoria criminale? In realtà è un gruppo di soggetti eterogeneo con carriere criminali del tutto diversificate e, soprattutto, con differente rapporto con la sostanza.

A mio avviso, nel corso degli ultimi venti anni, questa figura ha assunto una sua connotazione peculiare, tanto da occupare, all’interno del contesto penitenziario, un ruolo determinato, su cui lo Stato ed il privato sociale hanno deciso di porre particolare attenzione.

Ciò è frutto della legislazione in materia di sostanze stupefacenti che, attraverso fasi più o meno repressive, ha decretato l’illiceità del consumo e la criminalizzazione di condotte di cessione.

La connotazione peculiare di tale figura, pertanto, è determinata da due fattori fondamentali: l’atteggiamento diversificato che la società nutre nei confronti del problema "tossicodipendenza"; la consapevolezza del tossicodipendente nei confronti dell’illiceità del proprio comportamento.

Da ciò nasce il rifiuto nei confronti di una sanzione restrittiva e la conseguente (e spesso strumentale) richiesta di aiuto. Per tale motivo le agenzie, pubbliche o private, operanti sul territorio si sentono in dovere di intervenire per ridurre al minimo il fattore di ulteriore emarginazione che procura la permanenza del tossicomane in carcere.

 

Attività inframuraria del Centro di Solidarietà di Genova

 

Il Centro di Solidarietà di Genova, nel corso degli anni ottanta, dopo aver affermato sul territorio genovese il "Progetto Uomo", quale filosofia sottesa all’attività di recupero dei tossicodipendenti, sentiva l’esigenza di predisporre un primo intervento all’interno degli istituti penitenziari del territorio, in modo tale da fornire a questi soggetti l’opportunità di trasformare il disagio, dovuto allo stato di restrizione, in un momento di riflessione sulla propria problematica.

Con questo obiettivo aveva modo di accedere, grazie alla collaborazione dell’Amministrazione Penitenziaria, agli istituti di Genova Marassi e Genova Pontedecimo. Senza la pretesa di imporre in tali contesti strumenti già utilizzati negli Stati Uniti e facenti capo al Daytop, cercava di trasferire nella cultura carceraria locale, la relazione di aiuto e la preparazione alla filosofia. Solo nei successivi anni novanta, si andranno affermando negli istituti italiani esperienze di tipo comunitario.

Nel contempo, a Genova, sorgevano gruppi di lavoro misti, pubblico e privato sociale, aventi lo scopo di avvicinare la città al carcere. A questa filosofia il Centro di Solidarietà aderiva con l’obiettivo di trasformare un inevitabile processo di esclusione sociale in "inclusione" di quei soggetti appartenenti a quella particolare categoria criminale prodotta dal rapporto con la sostanza.

Anche le altre realtà del privato sociale, operanti nel campo della tossicodipendenza, condividevano la necessità di entrare nell’universo penitenziario per produrre "inclusione". In questo senso si sviluppava una rete di supporto e scambio, avvalorata dalla presenza del Cssa, ora Uepe.

A livello nazionale, tutte le realtà che adottavano il Progetto Uomo, realizzavano il medesimo intervento sul proprio territorio e davano vita a momenti di scambio culturale, tecnico e metodologico per strutturare un rapporto sempre più efficace nel contesto carcerario.

La diversificazione degli interventi si esprimeva in gruppi di lavoro detti "commissioni", all’interno delle quali emergeva, comunque, la comunanza della filosofia e dell’obiettivo da raggiungere.

Parallelamente queste strutture davano vita alla Federazione Italiana Comunità Terapeutiche (Fict), che nel tempo si organizzava in modo giuridico e capillare, per condividere la metodologia e dare origine ad uno scambio culturale e scientifico in tutte le aree del recupero.

In particolare, la Commissione legale Fict, si trovava a riflettere sul cambiamento della normativa in tema di tossicodipendenza, proprio nel momento in cui veniva approvata, realizzando documenti che ancora oggi rappresentano il punto di partenza dell’intervento inframurario dei Centri della Federazione.

Il tossicodipendente e l’assuntore, occasionale o saltuario di droga, subisce la carcerazione, ossia la privazione della libertà, o perché arrestato o fermato, o perché sottoposto a custodia cautelare come indagato (quindi come imputato), o perché in esecuzione di pena detentiva come condannato, o infine perché internato in applicazione provvisoria o in esecuzione di una misura di sicurezza detentiva.

Quella categoria criminale, quindi, nasce dalla concentrazione di tossicodipendenti in carcere, il cui livello elevato ha costituito, da sempre, un serio problema per gli operatori sociali chiamati ad intervenire ed a gestire le situazioni più disperate: autolesionismo, AIDS e sindromi da astinenza. La tossicodipendenza ha rappresentato, nel tempo, un fattore di cambiamento del carcere. La massiccia presenza di tossicodipendenti in carcere ha richiesto la preparazione specifica degli operatori addetti, con particolare riguardo alla riqualificazione del personale di polizia penitenziaria. Inoltre, ha favorito la collaborazione tra gli operatori del territorio e quelli dei presidi interni. Ha consentito, altresì, la partecipazione di operatori del privato sociale ammessi a frequentare gli Istituti ai sensi dell’art. 78 dell’Ordinamento penitenziario.

Questa norma consente alla Direzione del carcere di autorizzare persone idonee all’assistenza ed all’educazione a frequentare gli istituti penitenziari allo scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti e degli internati, e al futuro reinserimento nella vita sociale.

La previsione normativa consentiva, quindi, nel corso degli anni novanta l’affiancamento di educatori del privato sociale a quelli ministeriali nell’opera di recupero, attraverso uno scambio di informazioni e strategie volte al recupero dei tossicodipendenti.

Il Centro di Solidarietà di Genova, dunque, nel corso di questo decennio poteva consolidare il proprio approccio metodologico, anche attraverso la strutturazione di rapporti con le istituzioni che non si limitavano soltanto all’ambiente penitenziario interno ma anche a quello dell’esecuzione penale esterna nonché delle Magistrature di Sorveglianza.

L’intervento, perciò, si strutturava attraverso la predisposizione di colloqui individuali con i detenuti tossicodipendenti richiedenti e segnalati dal Gruppo Osservazione e Trattamento interno all’istituto.

Il colloquio, avente lo scopo di ravvisare le prime motivazioni al cambiamento ed il reale stato tossicomanico, prevedeva (e prevede) la conoscenza della posizione giuridica rivestita dal carcerato, quale momento necessario per compiere la prima analisi della persona con la quale instaurare il rapporto di recupero e il reinserimento sociale. Ciò al fine di approntare, attraverso le opportune istanze all’Autorità Giudiziaria competente, i percorsi giuridici idonei a promuovere il trattamento terapeutico.

È evidente come sia differente la prospettazione di un percorso di recupero allorché il detenuto stia espiando un condanna divenuta definitiva o si trovi in attesa di giudizio. Nel primo caso, il ricorso alle misure alternative alla detenzione, proprio in considerazione degli ottimi rapporti intercorrenti con gli Uffici per l’esecuzione penale esterna e la magistratura di Sorveglianza, consente di progettare in modo adeguato l’intervento, in considerazione dell’effettiva pena da espiare.

Nel secondo caso, l’indeterminatezza della sanzione cui va incontro l’imputato e la necessità, da parte dell’Autorità Giudiziaria, di salvaguardare le esigenze cautelari condizionano grandemente la scelta terapeutica, in particolar modo se effettuata in un contesto carcerario e non all’interno di una struttura per l’osservazione. Con l’ingresso dei Ser.T. e la regolarizzazione di un’attività degli stessi in Carcere, la selezione avviene ora in modo sicuramente più qualitativo.

Agli inizi del 2000 si registrava un basso indice di somministrazione di trattamento metadonico, elemento indicativo di scelte terapeutiche non propriamente indirizzate alla riduzione del danno. Ciò conferma la tendenza riscontrata dal legislatore, allorché nel 2003, decideva di mettere mano alla riforma della medicina penitenziaria. Il dato non è costante sul territorio nazionale e risente delle influenze ideologiche dei vari servizi. Per cui si assiste, in modo evidente, allo scontro fra coloro i quali credono nelle politiche di riduzione del danno e altri che tendono a non utilizzare il metadone.

Il fenomeno delle nuove droghe ha rappresentato anche per il pianeta carcere un problema: ha determinato l’incremento del numero, spesso oscuro, delle presenze di tossicomani. A metà degli anni 80 si registrava un incremento dell’uso di cocaina che, pur non rappresentando una nuova droga, individua una nuova tipologia di utenza e si riflette sulla popolazione penitenziaria.

Fino dalla sua emanazione, il DPR 309/90 ha previsto la necessità che la pena detentiva nei confronti di persona condannata per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendenza debba essere scontata in istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi (art. 95 T.U. Dpr 309/90).

La normativa, per la prima volta, affrontava con serietà la presenza del detenuto in carcere. In questo modo l’intervento non era più marginale e sporadico ma, attraverso la modifica dell’assetto e dei compiti istituzionali del carcere, tale realtà aveva l’opportunità di assumere l’identità di un’istituzione volta a favorire la rieducazione del condannato, in omaggio alla concezione della pena.

La creazione di sezioni a "custodia attenuata" ha consentito al tossicodipendente, ivi ammesso, di prendere le distanze dagli altri detenuti e coscienza del fatto che la commissione del reato è avvenuta in stato di necessità psico-fisica e non per istinto criminale.

L’obiettivo del legislatore, che l’attuale riforma lascia inalterato, è il programma che partendo dalla struttura muraria utilizza l’ambiente come ambito fondamentale per la rinascita dell’identità che il soggetto aveva perso.

In questo senso il momento della detenzione può rappresentare l’inizio della fase di cambiamento all’interno del quale s’inserisce la valutazione motivazionale che consente di trasformare, per quanto possibile, l’ambiente carcerario in una struttura a carattere trattamentale, vagamente similare alle comunità terapeutiche. Parlo d’inizio perché, come cercherò di affermare, il recupero non si può esaurire all’interno dell’istituzione totale carceraria.

La spinta motivazionale di accedere a tali sezioni è molto strumentale. Il detenuto, anche quello meno motivato, trova spunto per traslocare in contesti di riguardo ove trovare attenzione alla "relazione". Costui, spesso, ritiene che tale transito possa rappresentare un passaggio obbligato e propedeutico ad un’anticipata rimessione in libertà.

Questo tipo d’esperienza sicuramente costituisce un’evoluzione dell’opera di trattamento del detenuto. L’instaurarsi della relazione, l’adozione di tecniche di tipo comunitario, la riflessione su se stessi guidata, sono elementi importanti che consentono di dare un senso al momento restrittivo. Tuttavia non sono da sottovalutare alcuni rischi tra cui quello secondo il quale il tossicodipendente sperimenta, in una situazione particolare, e non completamente volontaria, l’illusione di una relazione diversa con forti cariche affettive che non troverà nell’ambiente esterno.

La commistione tra la realtà custodiale e quella trattamentale rappresenta un motivo per cui molte Comunità Terapeutiche rifiutano la concezione, frutto dell’approvata riforma del DPR 309/90, che incoraggia l’invio, quasi obbligatorio o comunque fortemente condizionato, di imputati tossicodipendenti in strutture di recupero. Temono lo snaturamento della loro funzione: diventare sezioni a custodia attenuata extramurarie. Pur in assenza di elementi custodiali esclusivi della realtà carceraria, rischiamo di assistere alla coartazione del grado di motivazione al cambiamento che potrebbe interferire con l’intervento in maniera sensibile.

Il trattamento inframurario, per essere efficace deve superare il problema legato alla difficile integrazione tra servizi e la forte dicotomia esistente tra approccio custodiale e approccio terapeutico. Deve essere basato su un buon livello di comunicazione tra tutti gli operatori che intervengono, per evitare la frammentazione degli interventi stessi.

Per questo motivo l’attività del Centro di Solidarietà si fonda sulla stretta collaborazione con i Ser.T., che segnalano la presenza di un loro assistito, potenzialmente idoneo ad accedere al progetto extramurario. La selezione delle richieste dei detenuti da parte del Servizio che opera all’interno del carcere, lo si ripete, qualifica l’approccio dell’operatore che settimanalmente si reca nell’Istituto e valuta le priorità.

È, naturalmente, difficile pensare che la sottoposizione del richiedente ad alcuni colloqui consenta di comprendere con sufficienza il livello motivazionale, così amplificato dal setting. Tuttavia permette di instaurare una relazione, che non può definirsi contrattualità, che individua le problematiche e gli ambiti su cui intervenire. È evidente che la strumentalità della richiesta di aiuto all’ottenimento dei benefici di legge, porti alla dissimulazione delle motivazioni al cambiamento.

È ovvio che non esiste una soluzione che vada bene per tutte le realtà. Ogni situazione penitenziaria deve predisporre un modello sulla base dei parametri di cui sopra, ma soprattutto delle risorse di cui dispone e della valorizzazione dei contatti sul territorio. La riuscita del progetto si fonda, in via principale, sull’integrazione dei servizi e sull’ottimizzazione della comunicazione tra gli stessi.

Ritengo, inoltre, che non sia possibile predisporre un progetto di recupero che si effettui esclusivamente tra le mura penitenziarie e non preveda un accompagnamento fuori dal carcere, sia che si tratti di un reinserimento sociale, sia che si tratti della prosecuzione del trattamento all’esterno o con i servizi territoriali di competenza o con le realtà del privato sociale.

Queste ultime, di cui il Centro fa parte, rappresentano una risorsa importante sul territorio perché offrono l’aspetto residenziale, non solo come elemento di trattamento, ma anche come momento intermedio tra la dimissione del carcere e l’approccio con "l’esterno".

 

Intervento extramurario: "dopo il carcere"

 

La diffidenza, verso tutto ciò che è farmacologico ha portato per lunghi periodi le comunità terapeutiche a rifiutare l’utilizzo di metadone. Anche alcuni servizi pubblici hanno opposto, e oppongono, resistenza a tale strategia. Tuttavia, nel processo di riduzione del danno, è dilagata la necessità di somministrare il metadone, situazione che ha consentito di includere nel concetto di "libero da droga" gli utilizzatori di questo farmaco. Con il tempo anche le Comunità hanno dovuto adeguarsi. "Dopo il Carcere"! Superata la questione se sia utile o meno il passaggio tra le "mura" istituzionali, e avvalorato un percorso comunitario interno quale fase iniziale di un recupero dell’individuo, occorre capire cosa fare dopo!

L’intervento del Centro di Solidarietà di Genova all’interno del carcere è precipuamente rivolto ad un progetto extramurario. L’aggancio consente di predisporre, unitamente al Servizio pubblico, il piano terapeutico da realizzare in Comunità.

Il contatto con il difensore di fiducia permette di stabilire una strategia che tenga conto sia delle problematiche personali che di quelle giudiziarie. In tal guisa si sceglierà la misura che favorisce sia l’espiazione della pena sia l’intervento.

Qualora l’utente sia ristretto in forza di un provvedimento di custodia cautelare, la Comunità ritiene che il preservare le esigenze processuali connesse senza inficiare il percorso possa sfociare solo in una misura poco restrittiva. In particolare ci si rivolge preferibilmente all’obbligo di dimora, nonché a quello di presentazione periodica all’Autorità.

Gli arresti domiciliari, invece, rappresentano un’estrema ratio, che la Comunità accetta con molta riluttanza. In via principale, il grado di coartazione nei confronti dell’utente vanifica l’aspetto motivazionale depauperando la volontà di cambiamento; in via secondaria, la normativa vigente attribuisce la competenza economica, in relazione alla corresponsione della retta, al Ministero della Giustizia. Tale retta risulta sensibilmente inferiore a quella normalmente stabilita a livello regionale. In ultimo, la misura degli arresti domiciliari rallenta tutte le attività al di fuori della struttura che richiedono, di volta in volta, l’autorizzazione dell’Autorità procedente.

In ordine ai momenti di difficoltà, il soggetto sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, è molto esposto alla denuncia per evasione. L’allontanamento, anche momentaneo e di breve durata, costringe l’operatore a segnalare l’evento all’autorità deputata al controllo, con notevole aggravio della situazione giudiziaria dell’utente. Diversa la questione legata al momento dell’esecuzione della pena. Invero il Dpr 309/90, modificato recentemente, ha introdotto una serie di elementi che facilitano tale momento.

Il detenuto tossicodipendente che decide di sottoporsi al recupero, ora, chiede al Magistrato di Sorveglianza di essere ammesso in via provvisoria all’affidamento in prova terapeutico. Il Magistrato, valutata l’idoneità del progetto, dispone la misura e trasmette gli atti al Tribunale di Sorveglianza per la concessione definitiva della misura. Questa innovazione cancella quell’inutile, quanto pericoloso, periodo di sospensione dell’esecuzione penale, previsto in precedenza. Il detenuto non viene, quindi, posto in libertà completamente arbitro del suo destino, bensì continua ad espiare in modo protetto e libero la sua pena. Sicuramente la modifica premia quei soggetti che si sottoponevano al progetto nell’immediatezza, scevri dal condizionamento giudiziario; castiga, invece, chi decideva di prendersi "una vacanza".

L’intervento di recupero in Comunità su soggetti in affidamento terapeutico, costituisce una delle migliori modalità. L’ottimo rapporto "a tre" che si instaura, da sempre, tra la Magistratura di Sorveglianza, l’UEPE e la realtà di recupero, basato sulla comunicazione efficace, rapida e lungimirante, rappresenta un ottimo strumento. Quando parlo di lungimiranza mi riferisco all’attenzione che tutti i soggetti in gioco attivano nei confronti dell’individuo che, anche se con difficoltà, decide di cambiare.

Da qui nascono le ampie prescrizioni, la fiducia nel privato sociale serio ed accreditato, al quale, però, la nuova legge pone una serie di paletti comunicativi (nonché delatori) sulle inadempienze alle prescrizioni e sulla ricaduta.

Questo concetto con una valenza precisa, sotto il profilo terapeutico, ne assume una negativa per l’Autorità di controllo. L’interpretazione restrittiva di questo momento delicato, su cui la novellata normativa pone pedissequamente l’accento, inquina il contesto terapeutico all’interno del quale si evolve, anche con fisiologiche ricadute, la personalità del consumatore.

Per tale motivo si auspica che, aldilà della normativa vigente, i tre soggetti, che collaborano bene, instaurino un dialogo fortemente mediatorio che lasci spazio al dialogo ed alla progettazione con la lungimiranza cui accennavo.

Nella nostra realtà territoriale questo obiettivo è a portata di mano. Occorre mettere a punto alcune sfumature che consentiranno, in un futuro, spero prossimo, di ritoccare in modo intelligente, una legge che è frutto più di un atteggiamento reazionario che non di oculate valutazioni di politica criminale (nonché sociale).

L’atteggiamento reazionario ha portato alla chiusura ed al ricorso allo strumento carcerario come modalità di coartazione della volontà del tossicodipendente, per dirigerla in modo inevitabile verso il recupero. Probabilmente stiamo assistendo ad una sorta di legge del contrappasso che vuole il detenuto sottoposto ad una maggiore sofferenza? La visione del carcere come mera afflizione, non consente di ravvisare in quel sentire comune l’esigenza di combattere la droga come elemento di obnubilazione, sia pure non più inteso come raggiungimento di piacere.

Tale atteggiamento reazionario, infine, porta ad affermare che il tentativo di dare una soluzione al problema della tossicodipendenza in carcere richieda, quindi, sforzi di notevole entità e coordinamento di energie, che non sempre ha funzionato. La recente riforma della normativa sugli stupefacenti, pertanto, da un lato ha cercato di offrire risposte alternative, dall’altro si è arenata nel sistema sanzionatorio. Quest’ultimo, sia pure modificato in modo tale da suggerire più agevolmente percorsi di recupero, dall’altro criminalizza situazioni non sempre penalmente rilevanti. Per cui fa entrare dalla finestra ciò che vorrebbe fare uscire dalla porta delle misure alternative. Temo che il risultato non cambi.

Fortunatamente la ex legge Cirielli è stata, nell’immediatezza, neutralizzata nella parte che non consentiva al tossicodipendente recidivo di usufruire dell’affidamento terapeutico più di una volta. Questa norma, se trascurata, avrebbe avuto un effetto devastante sulla popolazione detenuta. I meccanismi di accesso alle misure, invocati dallo stralcio Giovanardi, sarebbero stati vanificati ed il risultato sarebbe stato quello di pregiudicare anche quel poco di buono che rimaneva della normativa in vigore.

 

La rete territoriale

 

Come si evidenziava all’inizio, il Centro di Solidarietà di Genova ha sempre aderito alle iniziative territoriali sulle politiche carcerarie. Nel corso degli ultimi anni abbiamo potuto assistere ad attività complesse ed efficaci che dalla mera fase riflessiva sono passate all’aspetto pratico.

Tra tutte, l’attività dello Spin, aperto presso la sede dell’Uepe, cui il Centro ha partecipato dislocando i propri operatori.

Lo Spin, sportello informativo, servizio attivo da circa sei anni, può definirsi un luogo aperto fondato sul confronto di più anime di differente appartenenza; luogo che ha saputo coniugare la matrice solidale del volontariato con la professionalità dell’impresa sociale e le competenze specifiche della funzione pubblica e dell’area penale, al fine di realizzare progetti educativi volti al benessere sociale e all’inclusione lavorativa del target. Lavoro che è partito dall’idea di trovare all’interno delle proprie responsabilità sociali piani di co-responsabilità operativa e progettuale che si rendessero efficaci e competenti sull’obiettivo del benessere, dell’inclusione lavorativa e della sicurezza sociale.

Le Associazioni che hanno aderito, fornendo educatori e personale volontario in diversa misura tale da garantire in totale la copertura dei turni settimanali, hanno consentito lo sviluppo di risultati ed esperienze avviate fin dall’inizio.

Si è formata una solida rete interna allo Spin, informandola e rendendola uno strumento di partecipazione solidale che ha portato avanti il lavoro relazionale, sull’accoglienza e l’ascolto attraverso il colloquio, utilizzando le tecniche più vicine alle capacità dei singoli volontari ed operatori. L’esperienza ha dimostrato ampiamente l’utilità delle "reti" come condivisione, scambio ed apprendimento reciproco, oltre ad azione strategica all’individuazione di soluzioni appropriate e personalizzate.

Si tratta di un lavoro suddiviso su due piani, uno operativo e l’altro ideale. Quello operativo affina, continuamente, le proprie capacità relazionali nella gestione del colloquio con fasce deboli molto differenti per stato di disagio, cultura di provenienza, tipologia di reato, provenienza familiare e sociale, oltre a saper individuare ed analizzare strategie d’intervento creative ed articolate.

Il piano dell’idealità sta mantenendo aperta la riflessione sui temi della giustizia, dell’espiazione della pena, dei percorsi attivi di recupero sociale e lavorativo, della partecipazione del pubblico in termini di sussidiarietà, di rete allargata ma ben governata. Ciò ha consentito alla rete di rappresentare la risorsa principale dell’emergenza dovuta all’indulto, dimostrando l’ottima capacità di inserimento nei nodi problematici e di reperimento di nuove soluzioni, spesso atipiche, non convenzionali ma efficaci.

Il Centro di Solidarietà ha, quindi, avuto l’opportunità di allargare i propri orizzonti d’intervento ed aprirsi ad una cultura sociale ben più ampia di quella settoriale ove agiva, attraverso il confronto con le diverse esperienze sul territorio. Questa opportunità è ulteriormente rinforzata dalla costante presenza di un rappresentante del Centro Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia.

La C.R.V.L.G., membro della omonima conferenza nazionale, è un’associazione di secondo livello operante in Regione Liguria dal 2000. Riunisce molte delle associazioni e dei gruppi di volontariato operanti nella Regione nei vari ambiti della giustizia penale: si tratta di enti di diversa matrice culturale, storia e tradizione, che mantengono la loro autonomia ma sono uniti dagli scopi stabiliti dallo statuto.

Agisce nel confronto e nel dialogo finalizzato alla promozione di politiche di giustizia nel campo della penalità. Dà vita ad una rappresentanza unitaria degli associati nei rapporti con la Regione e le altre istituzioni competenti in materia di penalità. In questi anni la Conferenza è stata protagonista di molte iniziative di tipo culturale e formativo. In particolare ha sviluppato un fecondo rapporto con la Regione Liguria, che ha portato, tra l’altro, alla pubblicazione, nell’anno 2004, della Guida per orientarsi nella vita in carcere o oltre, stampata in cinque lingue diverse e diretta ai detenuti presenti nelle carceri liguri.

Anche questo incontro di esperienze ha dato vita ad un confronto serrato sui temi della penalità, sfociato in incontri pubblici in cui gli amministratori locali ed il privato sociale hanno potuto evidenziare la necessità di interagire attraverso intese culturali e formative. L’ultimo incontro, diretto, ad interrogarsi sulle ceneri dell’indulto, in realtà si è trasformato in un’occasione per affrontare il tema delicato della dimissione dal carcere.

Con l’obiettivo di limitare al minimo il meccanismo della porta girevole, il settore pubblico ed il privato sociale hanno espresso limiti e potenzialità dell’agire in comune per quel processo di inclusione sociale, cui tutti aspiriamo.

 

La rete tematica della Fict

 

La Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche (Fict), sulla scorta delle esperienze passate, a cui accennavo, due anni fa avvertiva, ancora una volta, la necessità di dare vita ad un gruppo di studio trasversale, sui bisogni formativi dei Centri aderenti, in relazione all’esperienze maturate all’interno degli Istituti penitenziari nazionali, nonché ai rapporti intrattenuti con l’Autorità Giudiziaria.

Emergeva la voglia di mettere in rete le esperienze già avviate nei vari ambiti, di offrire una formazione gratuita agli operatori e di creare un archivio dati, da utilizzare a livello nazionale, anche per incidere in modo politicamente significativo.

La finalità sostanziale, quindi, è quella di realizzare una rete che, sulla base dei valori che legano i Centri della Fict, crei un patrimonio di conoscenze ed esperienze in grado da rappresentare una formazione costante e permanente. Si dava, quindi, vita ad un gruppo che, ancora una volta, ha dovuto fare i conti con le modifiche alla normativa in tema di stupefacenti.

Il Gruppo sta lavorando con continuità da due anni partendo, inizialmente, dal presupposto che l’intervento all’interno delle strutture penitenziarie sia imprescindibile, indipendentemente dalle modalità di realizzazione, che differenziano l’operato dei centri. Il Gruppo è costituito da una équipe integrata (tecnici ed operatori terapeutici) che porta cultura e professionalità: al fine di vincere certe resistenze riscontrate ad operare con i "carcerati" e progettare percorsi idonei.

Si è affermata, quindi, la convinzione che solo conoscendo l’aspetto delinquenziale, che caratterizza in modo più o meno incisivo i giovani carcerati, sia possibile adottare una metodologia d’intervento opportuna. Lavorare sulla connotazione criminale, infatti, in modo preciso, può costituire un ottimo punto di partenza. Si tratta, quindi, di fornire significati ad un intervento da attuare su una tipologia di "sofferenza".

A fronte del citato insorgere di una impostazione sanzionatoria di tipo anglosassone (vedi legge Cirielli) in cui è dato risalto alla paura della criminalità, indipendentemente dagli effettivi tassi della stessa, il gruppo ha avuto modo di interrogarsi sulla produzione dello sviluppo di politiche dirette a ridurre specificamente i livelli di paura. Scomparendo, quindi , la figura del delinquente come figura svantaggiata per dare spazio a quella del soggetto pericoloso per la collettività anche il tossicodipendente ( e qui la legge di riforma sulla tossicodipendenza) è rientrato in questo stereotipo. La sua pericolosità discende dalla reiterazione di comportamenti antisociali, che fino a questo momento hanno goduto di vantaggi dovuti alla propria condizione, quanto meno per quanto riguarda la possibilità di accedere a misure alternative (art. 89 e 94 T.U. Dpr 309/90)

Nel richiamare i problemi legati all’intervento su soggetti provenienti dal circuito penale, il lavoro si orienta a fornire ai Centri federati la capacità di selezionare adeguatamente le richieste dei detenuti. È fondamentale riuscire a distinguere la figura del tossicodipendente criminale, cioè quel soggetto nel quale è prioritario il rapporto con la droga e prevalente il momento della dipendenza, tanto da essere indotto alla commissione di reati dalla necessità di procurasi i soldi, da quella del criminale tossicodipendente. Quest’ultimo appartiene già al mondo della delinquenza a prescindere dall’assunzione di sostanza. Il suo delinquere non è funzionale al bisogno di procurarsi la droga.

Per quanto concerne la normativa in tema di stupefacenti la Rete tematica ha avuto l’opportunità di fornire alla Federazione un supporto tecnico-sociale, che gli permettesse di confrontarsi ed arginare gli effetti della Fini-Giovanardi. L’unico risultato tangibile è stato quello di evidenziare la dicotomia tra gli intenti del legislatore e quelli che avevano portato all’emanazione della ex Cirielli.

Tuttavia, il Gruppo della Rete ha avuto modo di elaborare alcuni passaggi fondamentali di politica criminali che se recepiti avrebbero consentito l’emanazione di una legge più adeguata.

Partendo dal presupposto che drogarsi non è un diritto, si è evidenziato che l’illiceità del concetto di consumo è il presupposto del "proibizionismo", come dato di fatto, legato all’utilizzo di sostanza stupefacente per uso non terapeutico. Anche gli ospiti delle strutture di recupero con una diagnosi di disturbo da uso di sostanze e una diagnosi psichiatrica, sono un dato di fatto. Il loro reinserimento, deve presupporre la consapevolezza della rottura del patto sociale attraverso la trasgressione della legge, delle norme e delle prescrizioni. L’orientamento astinenziale e il regolamento delle comunità di recupero coincidono, di norma con una visione "proibizionista".

Il ripristino delle Tabelle ha riportato una certa sperequazione tra sostanze ed ha ridotto fortemente la valutazione soggettiva del Magistrato creando uno spartiacque deciso tra consumo e spaccio. Questo orientamento, più o meno discutibile, discende da un criterio di ordine e sicurezza che anima la proposta di modifica.

La riformata legislazione, pur ritoccando nel minimo le pene edittali, ne ha mantenuto il rigore. L’analisi di questi 16 anni ha evidenziato come questa severità non abbia prodotto altro che una "criminalità generalizzata" che, spesso, non ha consentito di valutare i significati sottesi alle differenze dell’uso di sostanze e non ha facilitato l’intervento di recupero. La legge non ha corretto, in tal senso, l’impianto già in vigore, ma sta rischiando di irrigidire i criteri di valutazione sottraendoli ad una logica situazionale. Il concetto di illiceità coincide con l’idea di "colpire" la condizione di tossicodipendenza, ribaltando la logica che vuole portare il problema dal "penale al sociale".

Ogni valutazione, quindi, non può prescindere dall’analisi della popolazione penitenziaria che registra ancora una elevata (30%) presenza di tossicodipendenti. L’ulteriore viraggio verso il sistema penale aumenta drasticamente questa percentuale, laddove non si riescano a definire in tempo utile progetti di recupero esterno. Ad una incrementata colpevolizzazione del consumo si associa l’ampliarsi del sistema penitenziario su quello terapeutico, che porta necessariamente alla realizzazione di interventi strutturati e privatizzati all’interno degli Istituti Penitenziari, in una logica di recupero "interno":

Il comma 5 bis, dell’art. 73, che si riferisce alle ipotesi di cessione di lieve entità, ha introdotto il lavoro di pubblica utilità come alternativa alla sanzione detentiva, nei casi in cui l’imputato non possa usufruire della condizionale. Questa opportunità, con carattere riparativo nei confronti della società, assume significato solo se compresa in un complessivo programma riabilitativo che contempli l’inserimento in un progetto di recupero.

L’inserimento nelle strutture, in misura cautelare, richiede che le stesse diventino "strumento di controllo sociale" e si muovano in una dicotomia terapeutico/penale. È un fattore da sempre accettato al fine di poter offrire chance, alle persone entrate nel circuito penale. Consente di ai soggetti, la cui motivazione è troppo labile, di trovare un "pretesto" forte per pensare al proprio recupero. Con questi presupposti il Gruppo sta elaborando riflessioni ancora più approfondite che inducano il Governo a rivedere la politica repressiva sulle tossicodipendenze.

 

Il processo per direttissima e l’approccio terapeutico

 

Sulla scorta dell’esperienza maturata fin dai primi anni novanta nell’area milanese, pioniera ed esclusiva realizzatrice dell’idea per un decennio, anche la nostra realtà locale ambisce alla realizzazione di un presidio del servizio pubblico distaccato all’interno del Tribunale, ove si celebrano i procedimenti per direttissima, conseguente all’arresto in flagranza di persone tossicodipendenti.

Posto che l’esperienza carceraria è sicuramente negativa ma, soprattutto, al dettato normativo secondo il quale non può essere disposta la custodia cautelare in carcere salvo che esistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputata è una persona tossicodipendente o alcool dipendente che abbia in corso un programma di recupero nell’ambito di una struttura autorizzata e l’interruzione possa pregiudicare la disintossicazione dell’imputato, questo progetto trova spazio anche a livello nazionale.

Il Governo precedente aveva dato vita ad una sperimentazione campione denominata Dap Prima. Assomiglia all’esperienza milanese dal titolo "La cura vale la pena" da cui, evidentemente, trae spunto. È una situazione che richiede un grosso coinvolgimento del servizio pubblico e di quello privato, ma, soprattutto, una grossa sensibilizzazione della Magistratura di merito.

La realizzazione di sperimentazioni di tal fatta, richiede un’adeguata formazione degli operatori e la necessità di una idonea impostazione del lavoro terapeutico nell’area delinquenziale con opportuno recupero della frattura sociale e della consapevolizzazione del reato.

Per il privato sociale, nonché per i Centri della Federazione, si tratta dell’opportunità di incidere in modo significativo nel momento del giudizio, dal punto di vista "terapeutico", dando al tossicodipendente la possibilità di diventare protagonista attivo del cambiamento in un momento delicato, quale l’arresto.

Rappresenta un sostanziale momento di contatto tra il tossicodipendente ed il territorio, che consente di promuovere la sperimentazione di forme di connessione tra sistema penale e sistema delle risorse esterne che, uscendo dalla rigida dicotomia aiuto/controllo, restituisca all’intervento sulle tossicodipendenze la complessità che lo caratterizza.

Il momento dell’incontro/scontro tra la persona ed il sistema di controllo formale, se opportunamente gestito può, infatti, assumere significati "altri" dalla semplice logica punitiva. In questa esperienza il servizio pubblico svolge la funzione di supportare il giudice nella decisione relativa all’applicazione della misura cautelare più adeguata per favorire la continuità di interventi già in corso, o da approntare.

Il servizio, avvalendosi del Ser.T. di appartenenza, fornisce al giudice attestazione dello stato di tossicodipendenza e/o alcooldipendenza e dell’esistenza della possibilità di inserire l’arrestato in una struttura di tipo terapeutico, quanto meno per un periodo minimo di osservazione, che consentirà di valutare la strategia più opportuna senza necessariamente passare attraverso un percorso carcerario. Al giudice viene fornita l’opportunità di garantire le esigenze cautelari senza ricorrere allo strumento della carcerazione preventiva.

 

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Droghe: una risorsa chiamata Comuni

di Ramon Fresta (Coordinatore del Centro di Solidarietà di Genova)

 

Progetto Uomo, 19 dicembre 2006

 

Dal convegno "Dopo il carcere" organizzato dal Centro di Solidarietà di Genova è giunta la proposta a istituzionalizzare una rete per il reinserimento dei detenuti.

Martedì 12 dicembre il Centro di Solidarietà di Genova ha organizzato "Dopo il Carcere", un convegno al quale ha invitato esperti ed addetti ai lavori per indurre una riflessione sul tema dell’inclusione sociale per ex detenuti tossicodipendenti. La nostra tesi iniziale presupponeva che non si può delegare al binomio carcere-comunità terapeutica la soluzione di questo problema, ma è importante che si crei una solida rete formata da tutti coloro che a vario titolo sono coinvolti in questa tematica.

L’incontro è stato aperto da Enrico Costa il quale ha illustrato le motivazioni che hanno mosso il Centro a organizzare il convegno per passare ad una proposta: istituzionalizzare una rete forte che si occupi del dopo carcere, una rete che deve vedere coinvolte le Istituzioni ed il non profit e sia dotata di risorse umane e finanziarie adeguate per operare affinché si creino reali possibilità di inclusione sociale.

Dopo i ringraziamenti di rito per coloro che hanno contribuito alla riuscita della manifestazione: Banca Carige, Fondazione Garrone e Top Congress, la parola è passata alle autorità presenti . Il Presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando, ha elogiato l’iniziativa ricordando come ci sia ancora bisogno del lavoro delle Comunità terapeutiche e ha sottolineato i meriti del Centro di Solidarietà di Genova acquisiti con anni di lavoro ai massimi livelli di professionalità.

Milò Bertolotto per la Provincia e Giorgio Pescetto per il Comune di Genova hanno ricordato i compiti delle due istituzioni e sottolineato la positiva sinergia creatasi la scorsa estate in occasione del provvedimento d’indulto di luglio. Don Fully Doragrossa ha portato il saluto e la benedizione del Vescovo ricordando come la Chiesa, da sempre, sia vicina i più deboli.

Nelle relazioni che si sono susseguite sono diversi gli spunti degni di nota. Il Presidente della Fict don Mimmo Battaglia nel suo intervento ha ribadito la mission della Federazione: operare per il recupero della persona attraverso il lavoro di comunità, ha ricordato come l’uomo sia sempre più solo oggi, un individualismo che impoverisce e può essere contrastato proprio dalla riscoperta di una vita comunitaria.

L’avvocato Marco Cafiero nella sua relazione, tra l’altro, ha evidenziato come il tentativo di utilizzare il periodo di detenzione come una occasione di riscatto individuale e di recupero sociale sia apprezzabile ma presenti il rischio che l’iniziativa sia valida solo per quei pochi in grado di reggere la vita di comunità e che anche per essi, si instauri una sorta di "dipendenza da comunità terapeutica", ennesima varietà di quel generale processo di prigionizzazione delle persone. Ha illustrato ai presenti anche il lavoro dei tavoli tematici istituiti dalla Fict, tra i quali ne esiste uno proprio sulle tematiche in discussione a questo incontro.

La Dott.ssa Ducci, responsabile del Ser.T. Strutture Penitenziarie, nella sua relazione ha esposto le caratteristiche del bacino di utenza nonché le attività assistenziali erogate di primo e secondo livello. Si tratta di utenza con problematiche complesse (tossicodipendenza, aspetti delinquenziali, problematiche infettivologiche e di immigrazione ) che il Ser.T. assiste con competenze sanitarie e psico-socio-riabilitative in un contesto istituzionalmente deputato al controllo e al rispetto della norma. Ha terminato il suo interventi illustrando il progetto "la cura vale la pena", una attività già sperimentata in altre città che consiste nell’indirizzare direttamente al momento del processo per direttissima, la persona tossicodipendente verso i circuiti comunitari e non quelli penali per tentare percorsi risocializzanti in tempi più brevi.

La relazione del professor Della Casa ha illustrato l’evoluzione dell’ordinamento penitenziario italiano, varato nel 1975 per adeguare il trattamento dei detenuti alla direttiva sancita dall’art.27 comma 3° Cost., dove si proclama che la pena (in particolare, quella detentiva), oltre a rispettare il senso di umanità, deve tendere alla "rieducazione", cioè al reinserimento sociale, del condannato. Ha evidenziato le contraddizioni evidenti tra un inasprimento delle pene, specie per i tossicodipendenti, e i reali benefici di tali misure. Ha ricordato come, per correggere i guasti di questa e di altre analoghe sbandate è stato necessario ricorrere ad un intervento d’urgenza, l’indulto, un antidoto ricco, a sua volta, di intuitivi e non bénefici effetti collaterali. Con l’inizio della nuova legislatura bisognerebbe bandire gli eccessi e le urgenze, ritornare nell’alveo della normalità, che nel nostro caso significa ragionare sulla Costituzione.

Al pomeriggio i lavori sono proseguiti con una tavola rotonda moderata dal giornalista di Repubblica Raffaele Niri. I lavori sono stati seguiti da un folto ed attento pubblico che ha stipato all’inverosimile la sala, segno che l’intuizione del Centro di affrontare questo tema era corretta e il territorio ha apprezzato e condiviso la scelta.

Usa: pena di morte; troppi errori, esecuzioni sospese in Florida

 

Il Corriere della Sera, 19 dicembre 2006

 

Il governatore della Florida, Jeb Bush, ha ordinato uno stop temporaneo alle esecuzioni nello stato in attesa che si chiariscano le circostanze degli errori che hanno segnato la morte di Angel Diaz. Il detenuto ha impiegato 34 minuti a morire e secondo l’autopsia la responsabilità è stata di un’iniezione letale eseguita in modo sbagliato.

Bush ha annunciato di aver creato una commissione che riveda le procedure per le iniezioni letali e si è detto intenzionato a non firmare più un ordine di esecuzione fino a quando non ci saranno risposte. Il fratello del presidente degli Stati Uniti, però, il mese prossimo lascerà l’incarico al suo successore Charlie Crist. Il nuovo governatore si è comunque detto a sua volta turbato dal caso Diaz. Intanto un giudice federale della California che aveva dichiarato una moratoria sulle esecuzioni ha definito incostituzionale il metodo delle iniezioni letali.

Alghero: per le feste natalizie iniziative all'interno del carcere

 

Comunicato stampa, 19 dicembre 2006

 

Proseguono, all’interno del carcere di Alghero le manifestazioni in occasione delle feste natalizie: dopo la brillantissima esibizione di Maria Giovanna Cherchi avvenuta nel pomeriggio del 15 dicembre, che in oltre un’ora di canzoni è riuscita ad incantare "letteralmente" la platea dei detenuti che hanno accompagnato la giovane e bravissima cantante nelle canzoni più belle e famose del repertorio, da "No potho reposare" a duru duru con alcuni detenuti stranieri che l’hanno accompagnata sul palco ed hanno promesso di imparare il ballo sardo.

L’atmosfera che si è respirata è stata calda, accogliente, coinvolgente; il Dirigente dell’Istituto Dr. Francesco Gigante ha voluto che la serata fosse ricordata con una targa ricordo che Maria Giovanna Cherchi ha ricevuto e ha voluto leggere a tutti i presenti: Il colore di un popolo si misura dai suoni che esprime. La voce è il risultato dell’armonia che si miscela con le emozioni. A Maria Giovanna Cherchi, "unu frore chi cantada sa paghe e s’amore" che ha saputo regalare attimi di libertà e di gioia.

Grazie da parte di tutti i detenuti, dalla Polizia Penitenziaria e dal loro Comandante, dagli Operatori del trattamento e dal Dirigente dell’Istituto. I migliori auguri di un felice 2007.

Le parole, erano state composte all’interno di un quadro e di una fotografia che riportava un pezzo dei murales realizzati dai detenuti nel corso degli anni e che si possono ammirare all’interno dei portici del carcere. Lo spettacolo è durato un’ora e si è concluso con un intimistica Ave Maria ed un lungo e metaforico abbraccio di tutti i presenti ad una ragazza che ha saputo regalare delle bellissime emozioni.

Il 21 dicembre 2006, il Vescovo S.E. Giacomo Lanzetti, - che dopo alcuni giorni dal suo insediamento aveva fatto visita all’Istituto e salutato, in maniera molto informale detenuti e Operatori - celebrerà la S.S. Messa, all’interno della cappella del penitenziario. E’ previsto, intorno alle 11.00 un saluto a tutti i detenuti da parte degli assistenti volontari e, l’ormai consueto scambio di auguri tra i detenuti iscritti al corso di scuola alberghiera, i docenti, i vari Responsabili delle attività trattamentali e il Dirigente . In questa occasione i detenuti iscritti al corso di cucina, presenteranno i loro dolcetti delle feste, coadiuvati dallo staff dell’I.P.S.A.R. di Alghero che segue le quattro classi di scuola media superiore presenti nel carcere. Questo anno, inoltre, nel pomeriggio sarà presentata una sacra rappresentazione proposta dal Gruppo Amatoriale "Analfa Belfica".

Tratta dagli scritti della mistica Alexandrina Maria da Costa, si affianca alle Sacre Scritture con colori vividi. L’idea d’una Sacra Rappresentazione di questo genere nasce con il desiderio, primo fra tutti, di proporre uno spettacolo dal tema sacro a credenti e non. In che maniera? Mostrare allo spettatore che l’atto di Cristo, visto nella sua concretezza anche fisica, è prima di tutto straordinario dal punto di vista umano oltre che poi, per chi ha fede, dalla prospettiva salvifica divina, nella quale di conseguenza assume un’entità e una portata immense. La domanda non è retorica: se Cristo fosse stato soltanto un uomo, se non avesse avuto un’eccezionalità divina a farlo reggere a ciò che umanamente non può essere tollerato, come non rimanere doppiamente ammirati e commossi di fronte al suo gesto? Un gesto che già solo per questo non può essere dimenticato. Meditare su valori quali la Sofferenza e il Perdono - sottotitolo dello spettacolo che ben si sposa con le emozioni all’interno di un penitenziario - significa prendere coscienza del valore universale della vita umana. Questo è uno spettacolo dedicato a chi crede e a chi vede in Cristo un eroe umano della storia mondiale. In tutto questo s’inscrive l’opera del Gruppo Teatrale "Analfa Belfica" nato per fare col teatro un attivo cammino di vita nel personale dei suoi componenti e nel sociale della propria città. Per la giovane compagnia teatrale rappresentare lo spettacolo all’interno della Casa reclusione di Alghero non è soltanto una semplice opportunità, ma anche un grande riconoscimento, al quale i ragazzi della compagnia hanno aderito con forte entusiasmo per realizzare uno scambio reciproco che superi lo spessore invalicabile delle mura.

Sono autorizzati all’ingresso all’interno dell’Istituto un giornalista e un fotografo per testata o operatore per televisione. Si prega voler confermare entro la giornata di giovedì mattina 21 dicembre 2006, rispondendo a questa e-mail o al fax 079.953933

 

Casa Circondariale di Alghero - Area Pedagogica

Il responsabile, dr. Giampaolo Cassitta

Cagliari: fiaccolata di solidarietà con i detenuti di Buoncammino

 

Comunicato stampa, 19 dicembre 2006

 

Un comitato spontaneo di cittadini e associazioni di volontariato promuove a Cagliari per il quinto anno consecutivo la fiaccolata di solidarietà con i detenuti del carcere di Buoncammino e con le loro famiglie. L’appuntamento è venerdì 22 dicembre alle 19.30 davanti alla Cattedrale della città in piazza Palazzo. Il corteo percorrerà via Martini, piazza Indipendenza, Porta Cristina e viale Buoncammino fino ai due bracci del penitenziario. Da qui si porgeranno gli auguri di Buon Natale ai carcerati e si manifesterà attraverso letture e messaggi spontanei la solidarietà della cittadinanza verso chi deve ricominciare.

Numerose le associazioni e le comunità coinvolte che stanno partecipando attivamente all’organizzazione dell’iniziativa: la Caritas di Cagliari con don Marco Lai, Mondo X Sardegna di Padre Morittu, l’associazione di volontariato "Oltre le sbarre" e la comunità "La Collina" di don Ettore Cannavera, l’Oftal, l’Unitalsi, la comunità missionaria di Villaregia, l’Azione Cattolica e la comunità parrocchiale cagliaritana di Sant’Elia e quella di Santo Stefano di Quartu Sant’Elena, la Fondazione Migrantes.

Anche quest’anno l’iniziativa si allarga in un’ottica ecumenica, ad altre confessioni. Hanno aderito infatti i Cristiani Evangelici, guidati dal Pastore Herbert Anders e sono stati invitati a partecipare altri gruppi religiosi presenti in città. Animeranno la fiaccolata con i loro canti, la comunità parrocchiale di Santo Stefano di Quartu Sant’Elena e i volontari dell’associazione Oltre le sbarre, guiderà il Francescano Padre Franco Murgia, già cappellano del carcere di Buoncammino.

L’obiettivo dell’iniziativa è quello di vivere un momento forte di pace e amore gratuito, cercando di andare oltre il pregiudizio e l’atteggiamento di condanna, per lanciare un messaggio di speranza. Per dire ai detenuti che al di là delle sbarre, se vorranno ricominciare, c’è anche chi li accoglie lasciando indietro il loro passato. Gli organizzatori auspicano che alla fiaccolata possano partecipare tutti i cittadini, indipendentemente dal colore politico e dalle convinzioni religiose, fermo restando che il messaggio fondante è quello cristiano e universale della fratellanza e dell’amicizia verso "gli ultimi". Per ulteriori informazioni contattare Laura Floris, cell. 347.4969813.

 

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