Rassegna stampa 19 aprile

 

Certezza della pena e certezza del reinserimento

di Antonio Antonuccio (Responsabile Uepe di Vibo Valentia)

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 19 aprile 2006

 

Il cittadino reclama per la certezza della pena. Lo Stato s'impegni anche per la certezza del recupero.

In un clima di reale incertezza socio-politica, vissuta nella Penisola come non mai, i pensieri degli italiani sono rivolti su due vicende di cronaca. Il feroce assassinio del piccolo Tommy di Casalbaroncolo e la cattura, dopo un tempo quasi siderale, di Bernardo Provenzano. Sono, senz'altro, fatti che inducono a delle riflessioni riconducibili alla necessità di vedere affermato il "diritto di giustizia".

Il tema è stimolante; un passo breve ci conduce presto alla panacea della "certezza della pena", alchimia condivisa in maniera trasversale, sia nella politica, sia nella società; una di quelle formule con cui taluni (molti) risolvono tanti "pruriti", che trova approvazione comunque. Tra coloro che la usano i più non sanno cosa vuol dire, ma questo, in tempi di pressappochismo, tempi in cui ciò è "sport nazionale", è cosa da poco. Esiste, al contempo, un'altra formula che potremmo cominciare a spendere per quel che vale, che però non trova la stessa pletora di seguaci: la "certezza del reinserimento". E' questa un'azione politica che deve portare verso l'inclusione sociale, anziché all'esclusione.

Cosa si deve intendere con "certezza della pena"? L'accezione la si può usare così, come un'espressione logica, che sembra voler dire molto… ma se "certezza della pena" vuol dire inflessibilità della pena, o almeno esempio d'inflessibilità (la pena inflessibile è stata l'impostazione unica, la prospettiva delle normative precedenti alla legge di riforma del 1975) si contrappone in sostanza con quella che è la flessibilità della pena, che è la possibilità che la pena abbia una durata conseguente all'andamento dell'esecuzione della stessa, cioè possa interrompersi prima del termine stabilito, ed essere sostituita da modalità di esecuzione diverse da quelle previste inizialmente; ciò è la "ratio" della vigente normativa, esempio del legiferare, imitata dalle più evolute democrazie odierne.

In effetti, Zanardelli, con il Codice penale del 1889, rivisto da Rocco nel 1930, prevedeva un'unica soluzione per uscire dal carcere prima del fine pena, cioè la sostituzione della pena in istituto con una forma diversa, che è la libertà vigilata, e quindi per mezzo della concessione, da parte dell'allora Ministro di Grazia e Giustizia, della liberazione condizionale. Un'ipotesi di beneficio molto raro, alla stregua di come poteva essere anche il provvedimento di grazia, che non modificava nella sostanza il funzionamento dell'esecuzione della pena, che rimaneva tendenzialmente rigido.

Ma quando si affermava la tendenza alla rigidità della pena, è bene non dimenticare che, ricorrentemente, con tempi che variavano con periodi anche piuttosto brevi, dai tre ai cinque anni, arrivavano formule magiche come i condoni e le amnistie, che "premiavano" chiunque, senza discriminazioni e scelte, ed erano quegli strumenti con i quali si riduceva la popolazione detenuta quando cresceva troppo.

E allora lo status quo impone una riflessione: la pena d'applicare dovrà necessariamente essere flessibile o inflessibile? Un punto di partenza lo offre il lungimirante articolo 27 della Costituzione, e la ricorrente interpretazione che ne ha fornito la Corte costituzionale.

Nel lontano 1974, la Consulta affermava che c'è un diritto del condannato a che sia valutato se la parte di pena che ha scontato è servita a prepararlo ad un processo di recupero sociale all'esterno, in forme che devono essere diverse dall'esecuzione della pena in carcere. La ratio di questa prima sentenza della Corte costituzionale si esplicitava, pertanto, nell'individuazione della flessibilità della pena, ovvero con il modo, l'utilizzo e l'impostazione, con cui l'esecuzione della pena doveva essere attuata.

Nella legge di riforma dell'ordinamento penitenziario (L. 354/75) che ne consegue e nelle successive tante sentenze della Corte costituzionale, che continuano tuttora, si è articolata meglio la novella impostazione. La pena deve essere flessibile, ma questa flessibilità, questo sistema di prova controllata con cui la pena si esegue, deve essere seguita da una struttura che svolge, al tempo stesso, una funzione di controllo, di recupero e di sostegno.

Nasce, quindi, un nuovo sistema che convive col sistema carcerario, perché il carcere c'è, c'è anche una fase dell'esecuzione della pena, che in linea di massima va fatta all'interno dell'istituto penitenziario; pertanto, accanto alla pena intra-moenia ci deve essere un'altra struttura (il Centro di Servizio Sociale per Adulti, oggi l'Ufficio per l'Esecuzione Penale Esterna) che governa quelle che vengono dette misure alternative al carcere, cioè il sistema individuato come "area dell'esecuzione penale esterna", il quale si organizza con personale che ha la specifica funzione di controllare e sostenere la persona condannata.

Nel suo agire circostanziato la Consulta giunge ad affermare che, quando si ricostruirà la validità del percorso che la persona ha fatto all'esterno, eventuali insuccessi saranno valutati se legati alla mancanza di efficacia del sistema esterno. Sarà valutato, per esempio se questa persona ha perso il lavoro, se la perdita del lavoro ha coinciso con la perdita della correttezza dell'inserimento sociale, e così via. Si dovrà tenere conto di tutti quei fatti negativi che si frapporranno tra il soggetto e la meta positiva da raggiungere, per valutare se veramente tutti gli sbagli o violazioni, ovvero tutta la responsabilità deve essere attribuita a lui, se tutta la pena deve essere nuovamente espiata, a partire dal momento in cui si era interrotta (ex tunc) per la concessione della misura alternativa.

Appare ovvio che sono due modalità di esecuzione diverse: pena fissa, pena inflessibile, pena che accompagna la persona, fino alla fine, nelle condizioni in cui si trova in carcere; pena flessibile, che porta a valutare il percorso interno (trattamento intramurario) del soggetto, per il quale si decide ad un certo momento se questo percorso debba cambiare e, al posto del carcere, del trattamento penitenziario interno, debba esserci un trattamento penitenziario esterno che dà alla persona la possibilità veramente di misurarsi, fuori dal carcere, con le difficoltà della sua situazione, e di superarle.

In tale nuovo ambito di esecuzione penale ci dobbiamo chiedere se deve essere certa soltanto la pena o deve essere certa anche il recupero quindi il reinserimento sociale. In una valutazione spontanea, o forse semplicistica, che una persona può fare, si dice: "è bene che stia in galera, perché solo così impara e solo così, quando uscirà, sarà un'altra cosa, sarà un'altra situazione".

E' evidente che questo è un discorso valido per chi osserva le cose da fuori. Tuttavia, è, altresì, chiaro che una persona che ha subito tutta la sua pena in carcere, che è stato recluso per un lungo tempo, all'atto della dimissione non è che trovi le cose molto diverse da quelle che erano prima del suo ingresso nell'istituto di pena. Pensare, per il reo, che il reinserimento si leghi soltanto all'uso dell'afflittività del carcere è lontano dalla realtà. Il discorso, molto più verosimile, è che la sua inclusione, quindi il reinserimento, si realizza attraverso quel periodo di prova controllata e sostenuta da specialisti del settore (assistenti sociali), quello di cui la Corte costituzionale afferma.

In sostanza se "pena certa" vuol dire "pena inflessibile", non può che essere flessibile nella pretesa, nel senso che si dovrà mettere il reo nella condizione di farsi carico delle proprie responsabilità anche di fronte all'azione per il reinserimento, che di contro deve essere garantito dallo Stato. La pena, pertanto, potrà essere flessibile e servirà alla inclusione delle persone. In tale contesto, pertanto, l'interrogativo, sarà: includere o escludere le persone? Il sistema della mera carcerazione altro non è che un processo di esclusione delle persone.

Le persone già recluse, per la ben nota "Teoria dell'etichettamento", ricevevano e ricevono soltanto una stigmatizzazione, dalla quale non riescono a liberarsi, che l'accompagna poi nel resto dell'esistenza. Erano e sono detenuti, o ex detenuti, in procinto di tornare detenuti… questa la loro vicenda esistenziale, in tanti casi, cioè nei casi sicuramente prevalenti.

Il concetto di inclusione ha avuto nel tempo un rapporto sempre più stridente con un'accezione che produce molto più effetto: la parola "sicurezza", ancor più ridondante se accompagnata con "sociale". Appare opportuno ricordare che per sicurezza sociale si deve intendere il tentativo di costruire le condizioni per una migliore vivibilità dell'ambiente in cui viviamo, in cui ci muoviamo; individuare gli aspetti critici che possono essere di nocumento per l'intera popolazione, in particolare per le fasce deboli (bambini, anziani, diversamente abili, ecc.) per rimuoverli. La sicurezza sociale deve agire, in particolare, sulle situazioni di disagio, di emarginazione, proprio per eliminarle, proprio per includere quello che era nella situazione reale escluso.

L'interrogativo che può fare chiarezza sulla certezza della pena e su quello che ad essa è afferente può essere: siamo capaci di ragionare sui principi che la nostra Carta Costituzionale sottopone ai nostri occhi e ispirarci a questo dettato, anziché ragionare in termini di sola contingente emotività, ovvero davanti a quelle ossessioni che accompagnano i nostri giorni, giorni in cui tutte le sicurezze sono lentamente erose?

Giustizia: nel carcere di Pisa c'è un detenuto che pesa 270 chili…

 

www.radiocarcere.it, 19 aprile 2006

 

A. è persona detenuta nel centro clinico del carcere di Pisa. A., 40 anni, si trova in carcere dal 2001. Fine pena 2009. A. è malato. Ha già avuto 4 infarti al miocardio ed un embolia polmonare. A. è affetto da una malattia che lo ha portato a pesare 270 chili. A. è stato dichiarato invalido minorato al 90% A. per le sue condizioni fisiche non ha più il controllo delle funzioni corporali.

Scrive A. "Cara Radio Carcere, devo urinare e defecare sul pavimento della cella, restando sporco per ore e ore, perché dopo che mi hanno pulito subisco "delle perdite". A ciò si mischia il sangue delle piaghe di cui soffro. Chiedo di non morire in carcere". La notte A., per non morire soffocato, deve dormire seduto sul letto. Un mucchio di cuscini dietro la schiena gli assicurano di svegliarsi ancora vivo. A., qualche mese fa, è caduto dentro la sua cella del centro clinico del carcere di Pisa.

270 chili per terra, impossibili da rialzare. Neanche se ci si mettono di impegno medici, infermieri e agenti. Quel giorno A. è rimasto per terra, schiacciato dai suoi 270 chili, per ore. Hanno dovuto chiamare i pompieri per rialzare A.. Carrucole e corde tese lo hanno rimesso in piedi. A. rischia di morire nel centro clinico del carcere di Pisa. A. ha bisogno di cure che quei medici non possono dargli. Il professor Ceraudo, dirigente sanitario del carcere, ha certificato per ben 4 volte l'incompatibilità di A. con il carcere. Il tribunale di Sorveglianza di Firenze, non contento del certificato scritto del massimo dirigente sanitario del carcere di Pisa, ha nominato dei periti. Dopo un bel po' di tempo perso e non pochi soldi spesi, anche i periti hanno certificato che A., con i suoi 270 chili, non può stare in carcere. Il Tribunale di Sorveglianza di Pisa: "A. deve restare in carcere".

Giustizia: arrestato il finanziere Ricucci, "socialmente pericoloso"

 

Agi, 19 aprile 2006

 

Stefano Ricucci è stato arrestato perché "pericoloso socialmente". Questa la motivazione del gip di Roma, Orlando Villoni, nell'ordinanza di custodia cautelare per l'immobiliarista e per gli altre tre arrestati ieri come suoi informatori. I fatti contestati sono "di particolare gravità". Aggiunge il giudice: "Sussistono concreti elementi per ritenere rilevante e attuale il pericolo che gli stessi, se lasciati liberi, possano commettere altri delitti della stessa specie. Le manovre intese a determinare l'anomalo rialzo del valore di mercato del titolo Rcs avevano almeno due obiettivi: conseguire sempre maggiori finanziamenti bancari per autofinanziare l'operazione, realizzare cospicue plusvalenze". Ricucci è stato rinchiuso nel carcere romano di Regina Coeli, accolto dagli altri detenuti con la frase "Dacce i soldi". Ricucci è accusato di aggiotaggio ed è in cella singola. Stamattina ha visto il suo avvocato.

Aggiotaggio, fatturazione di operazioni inesistenti, occultamento di scritture contabili. Sarebbero queste le ipotesi di reato contestate all'immobiliarista romano Stefano Ricucci, tratto in arresto dalla Guardia di finanza negli uffici della Magiste, in viale Regina Margherita. Le ordinanze di custodia cautelare chieste dai pm romani Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli sarebbero quattro, compresa quella di Ricucci: gli altri tre destinatari dovrebbero rispondere delle accuse di favoreggiamento e rivelazione di segreto di ufficio. Al centro dell'inchiesta, ci sarebbe la vendita fittizia e le ristrutturazioni mai eseguite dell'immobile di via Lima 51-53 destinato a diventare la sede della Confcommercio.

Inquinamento probatorio e pericolo di reiterazione del reato di aggiotaggio informativo. L'immobiliarista, attualmente detenuto a Regina Coeli, è accusato dalla procura di aver tentato di ricollocare il 14% di azioni Rcs sul mercato presso una società di comodo a lui riconducibile. Secondo la ricostruzione dei magistrati, il 14% di azioni Rcs stava per essere collocato sul mercato tramite due istituti di credito stranieri, mentre Ricucci formalmente portava avanti la loro negoziazione con la Bpi presso cui era in pegno la quota. L'immobiliarista, le cui mosse erano note a chi indagava perchè erano state intercettate diverse utenze telefoniche, resta indagato per false fatturazioni e occultamento della contabilità per fini fiscali. Violazione del segreto di indagine e favoreggiamento sono, invece, le ipotesi di reato contestate a un pubblico ufficiale e a due intermediari - a carico dei quali è ancora in corso la cattura - sospettati di aver informato Ricucci sull'andamento dell'inchiesta condotta dalla procura di Roma. Stefano Ricucci potrebbe essere interrogato giovedì.

Ancona: schiaffeggia due agenti, poi tenta di impiccarsi in cella

 

Il Messaggero, 19 aprile 2006

 

Era entrato in carcere venerdì. Ieri ha tentato di impiccarsi. Dopo Antonio Spinelli, anche Robertino Spinelli è ricorso al cappio. A seguito di una animata discussione con gli agenti di polizia penitenziaria, nel corso della quale il detenuto sembrerebbe aver opposto resistenza, è stato condotto in isolamento. La sua opposizione si è fatta ancora più forte quando ha capito che gli sarebbe stata destinata la stessa cella in cui solo pochi giorni fa Antonio Spinelli aveva tentato di togliersi la vita. Una volta dentro, incredibilmente ha imitato il proprio predecessore. Ma non ha avuto il tempo necessario per portare a compimento il proprio terribile proposito. E sta bene. Antonio Spinelli, 38 anni, in carcere dall' aprile 2005 dopo due anni trascorsi ai domiciliari, era stato messo in isolamento dopo che gli era stato trovato un cellulare in cella. Lui non aveva resistito, avendo un'ernia iatale allo stomaco e soffrendo di claustrofobia. Prima aveva smesso di mangiare. Poi non ce l'aveva fatta più. E aveva tentato di impiccarsi. Fortunatamente una guardia carceraria era passata davanti alla sua cella giusto in tempo per evitare il peggio.

Brescia: progetto "Libera-mente", il sorriso entra in carcere...

 

Giornale di Brescia, 19 aprile 2006

 

Il metodo del sorriso e del confronto della "Libera università di Alcatraz" fondata da Jacopo Fo (figlio della neo eletta parlamentare Franca Rame e del premio Nobel per la letteratura Dario) è stato il riferimento costante, anche se non esclusivo, del progetto "Libera-mente" realizzato nel carcere femminile di Verziano da Nice Bonomi.

E ora l'esperienza condotta da Nice (meglio conosciuta come dottoressa Takipirina) farà da bagaglio per la tre giorni che si terrà in Umbria e programmata per il 26-27-28 maggio, durante la quale la dottoressa e i suoi amici-collaboratori dell'associazione "Aglio Olio e peperoncino" torneranno nei luoghi dell'origine del teatro, e delle attività, buon umore e del sorriso che stanno alla base delle "clown terapia"applicata nei reparti di oncologia pediatrica di alcuni ospedali bresciani:"Luoghi di grande sofferenza - racconta Nice-. Una sofferenza che si vive e respira anche nelle case circondariali".

Tolti i buffi cappelli e i nasi colorati, gli attrezzi "del mestiere" usati con i bambini malati, in questi giorni Nice Bonomi è indaffarata nell'allestimento dello spettacolo che si terrà domenica 23 alle 15.30 a Verziano dal titolo "Libera-mente show": l'epilogo di un progetto sperimentale di rieducazione rivolto alle detenute e avviato nel maggio scorso. "Una sfida con me stessa e giocata sulla fiducia che sarei riuscita a ottenere da queste ragazze", racconta Bonomi senza nascondere la sua gioia per questo innovativo e nuovo percorso avviato all'interno del carcere, dietro le sbarre reali e basato sul riconoscimento delle proprie prigioni mentali.

"All'inizio non è stato facile - rivela - ma a mano a mano che gli incontri si intensificavano e il rapporto con le ragazze si faceva sempre più stretto emergevano osservazioni e pensieri bellissimi". Il progetto "Libera-mente" era strutturato sulla base di incontri che si svolgevano ogni giovedì e durante i quali, attraverso l'analisi di alcune fiabe, il gruppo di lavoro ha riflettuto, parlato e lavorato sui concetti di libertà da, libertà di: libertà dai pregiudizi, libertà di essere se stessi e di essere artefici della propria vita. Parlare di libertà all'interno di una casa circondariale può sembrare un controsenso ma è ciò in cui ha creduto Nice Bonomi con il progetto "Libera-mente", partendo dalla poca attenzione da parte della società nei confronti dei detenuti, "aiutare queste persone a creare una nuova immagine di sé".

Ed ora che questa prima fase del progetto si è conclusa, la festa che si svolgerà domenica sarà solamente uno dei modi scelti per far conoscere il cammino intrapreso "dietro le sbarre della mente"; l'altro sarà quello di raccogliere le parole e le riflessioni delle ragazze del Verziano e trasformarli in racconti che verranno raccolti in una pubblicazione che Nice porterà all'interno dei reparti pediatrici. Il circolo virtuoso innescato dalla dottoressa Takipirina non ha un inizio né una fine perché come sostiene Nice: "La malattie e la sofferenza del corpo e delle mente hanno mille sfumature e un semplice sorriso, spesso, può diventare un'ottima medicina".

Verona: "Progetto carcere 663"… dietro le sbarre per scelta

 

L'Arena di Verona, 19 aprile 2006

 

Hanno scelto il volontariato in carcere perché volevano capire fino a che punto valevano come persone e desideravano misurarsi con una realtà solo apparentemente distante dalla loro vita quotidiana. Sono due donne residenti in paese, di 35 e 40 anni, una operaia e l'altra commerciante. Per ragioni di sicurezza - di comune accordo con il loro educatore Achille Coltro, anch'egli originario di Albaredo - abbiamo deciso di non rivelare i loro veri nomi, perciò racconteremo la loro esperienza utilizzando due pseudonimi. Entrambe hanno già svolto attività di volontariato in parrocchia e per conto dell'Associazione bambini emopatici-oncologici. Tuttavia non avevano mai pensato prima di affrontare un luogo problematico come il carcere. Almeno fino a dicembre dello scorso anno, quando hanno letto un articolo pubblicato su "L'Arena" e riguardante la casa circondariale di Verona. Il titolo era assai eloquente: "In carcere servono volontari". Le due donne hanno deciso di inviare i propri curriculum per partecipare al "Progetto carcere 663".

"Avevo voglia di fare qualcosa di più significativo per me e per gli altri rispetto a quanto ho compiuto finora - spiega Francesca". "Io ho un lavoro part-time e il pomeriggio libero, così ho pensato che sarebbe stato utile impiegare una parte della mia settimana in modo costruttivo", aggiunge Marina. Le due donne hanno affrontato un corso teorico di quattro incontri al centro "Avanzi" di Verona che entrambe hanno superato brillantemente. "Le lezioni sono state interessanti, ricche di contenuti e ben strutturate. Fin dalla prima riunione abbiamo capito che si trattava di una forma di volontariato molto particolare, che ci avrebbe impegnato anche emotivamente. L'ingresso in carcere non è stato difficile, ero molto più agitata nei giorni precedenti", rivela Marina. "Per quanto mi riguarda invece sono sempre rimasta piuttosto tranquilla - aggiunge Francesca - L'emozione più forte l'ho provata quando il cancello si è chiuso: in quel momento ho realizzato che anch'io non sarei stata più libera, proprio come i detenuti".

Il progetto prevede che le due volontarie accompagnino in giorni prestabiliti della settimana gruppi di ragazze maggiorenni delle scuole superiori nella sezione femminile della casa circondariale, durante l'ora d'aria delle detenute. Dalle 13.45 alle 15.30 le alunne giocano a pallavolo con le detenute, sorvegliate e coordinate dalle volontarie del progetto "Carcere e scuola". L'incontro con la comunità di recluse ha significato molto per le due albaretane. "L'esperienza nel carcere è stata gradevole. Sembra paradossale eppure là dentro ho trovato molta più dignità di quanta non mi capiti di riscontrare nelle persone che incontro tutti i giorni", asserisce Francesca. "Le detenute sono state cordiali con noi, finora non ci sono capitate situazioni imbarazzanti - prosegue Marina - Ciò nonostante ci hanno avvertito che prima o poi si avvicineranno e ci chiederanno qualcosa. A quel punto noi dovremo rispondere no con fermezza. Spero di avere il tatto giusto per non offendere nessuno quando succederà".

La partecipazione a questo progetto avrà un posto d'onore nel bagaglio di vissuto delle due signore. "Mi sento fortificata e motivata da questa esperienza. Mi aiuta a demolire molti luoghi comuni sull'ambiente della galera. Vorrei riuscire a rendermi utile insegnando a qualche detenuta il mio mestiere, per favorire il reinserimento nella società una volta fuori dal carcere", dice Francesca. "Questa iniziativa mi dà la possibilità di arricchire la mia personalità e migliorare il rapporto con mio figlio adolescente", spiega Marina. "Ora posso affrontare con lui alcune tematiche complesse e fargli capire che basta poco per finire in carcere e perdere il diritto alla libertà".

Giustizia: rapporto di Amnesty sulla pena di morte nel mondo

 

Adnkronos, 19 aprile 2006

 

Sono 20mila i detenuti nei bracci della morte nel mondo, nel 2005 sono state 2148 le esecuzioni in 22 paesi e sono state emesse 5186 condanne a morte in 53 paesi. Sono i dati di un rapporto redatto da Amnensty International sull'applicazione della pena di morte nel mondo nel quale viene evidenziato che il 94% delle esecuzioni ha avuto luogo in Cina, Iran, Arabia Saudita e Usa. Lo scorso anno sono state emesse 5.186 condanne a morte in 53 paesi.

Secondo le informazioni di Amnesty in Cina vi sarebbero state circa 1.770 esecuzioni, anche se il numero effettivo potrebbe essere molto più alto: a quanto riferito da un esperto legale cinese, sarebbero circa 8.000 i prigionieri messi a morte nel paese ogni anno.

Nel corso del 2005 in Iran sono stati messi a morte almeno 94 prigionieri, in Arabia Saudita almeno 86. In entrambi i paesi, i dati reali potrebbero essere più alti. Sono invece 60 le esecuzioni registrate in Usa, più di 1.000 dal 1976, anno della reintroduzione della pena capitale.

Tuttavia, i dati resi pubblici oggi sono approssimativi a causa del segreto che circonda l'applicazione della pena di morte. Molti governi, come quello cinese, rifiutano di pubblicare statistiche ufficiali sulle esecuzioni, in paesi come il Vietnam le informazioni su questo argomento sono considerate segreto di Stato.

"I dati sulla pena di morte sono davvero inquietanti: almeno 20.000 persone stanno contando i giorni che li separano dal momento in cui lo Stato toglierà loro la vita - ha dichiarato Irene Khan, segretaria generale di Amnesty International - La pena di morte rappresenta l'estrema, irreversibile negazione dei diritti umani, poiché è contraria all'essenza stessa dei valori fondamentali. Spesso è applicata in modo discriminatorio, a seguito di processi iniqui o per ragioni politiche. Quando è frutto di un'ingiustizia può rappresentare un errore fatale".

Nonostante i dati di Amnesty, la tendenza verso l'abolizione continua a crescere: negli ultimi 20 anni il numero degli Stati che eseguono condanne a morte si è dimezzato e nel 2005 è risultato in calo per il quarto anno consecutivo. Due esempi recenti sono il Messico e la Liberia dove lo scorso anno la pena capitale è stata abolita per tutti i crimini. La Cina da sola totalizza l'80% delle esecuzioni e si può essere messi a morte per 68 reati, anche per atti che non comportano l'uso della violenza, come la frode fiscale, l'appropriazione indebita e i crimini legati al traffico di droga. L'Iran è l'unico paese che nel 2005 ha messo a morte minorenni all'epoca del reato, almeno otto, due dei quali avevano meno di 18 anni anche al momento dell'esecuzione. Gli Usa, in precedenza leader mondiali in questo campo, hanno messo al bando le esecuzioni nei confronti dei minorenni nel marzo 2005.

In Arabia Saudita, prigionieri sono stati prelevati dalle loro celle e uccisi, senza che nessuno li avesse informati della loro condanna a morte; altri detenuti, stranieri o appartenenti a minoranze etniche, sono stati giudicati colpevoli e condannati al termine di processi celebrati in una lingua sconosciuta, senza che fosse stato fornito loro un interprete. Negli Usa, durante il 2005, due persone sono state rilasciate dal braccio della morte dopo che era stata provata la loro innocenza. In Bielorussia e in Uzbekistan, le autorità non informano i prigionieri né i loro familiari sulla data di esecuzione, negando così la possibilità di un ultimo saluto. I corpi dei prigionieri non vengono restituiti ai parenti e a questi ultimi viene persino tenuto nascosto il luogo di sepoltura. Il rapporto di Amnesty mette in luce, inoltre, le conseguenze mortali dei processi iniqui. In Giappone, diverse persone sono state condannate a morte dopo essere state sottoposte a maltrattamenti, costrette a confessare crimini mai commessi. In paesi come la Bielorussia e l'Uzbekistan un sistema penale pieno di falle e minato dalla corruzione crea terreno fertile per errori giudiziari. Secondo denunce attendibili, le esecuzioni in Uzbekistan avvengono spesso dopo processi iniqui, a seguito di maltrattamenti e torture con lo scopo di estorcere confessioni.

 

 

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