Rassegna stampa 10 aprile

 

Salerno: giallo al carcere di Fuorni, detenuto si toglie la vita

 

Il Mattino, 10 aprile 2006

 

Avrebbe dovuto scontare cinque anni di reclusione per violenza sessuale. Ma ieri sera, Fioravante Langella, pluripregiudicato di Pagani, si è ucciso nel carcere di Fuorni. Al momento, l’ipotesi del suicidio è quella più accreditata; fino a notte fonda nel carcere di Salerno ha diretto le indagini il sostituto procuratore della Repubblica Ernesto Stassano, il pm-poliziotto che ha risolto una serie di "gialli". Langella sarebbe stato ritrovato cadavere nella sua cella poco dopo le venti e trenta di ieri sera da due agenti penitenziari. Subito è scattato l’allarme. Fioravante Langella era detenuto nel carcere di Fuorni dopo la pesante condanna che lo scorso anno gli era comminata dal primo collegio del tribunale di Nocera. Fu accusato e giudicato per aver violentato una badante ucraina. Entrò furtivamente nell’abitazione di via Madonna di Fatima di Pagani, nella zona rurale della città, dove l’ucraina di 45 anni stava dormendo da sola. Nella notte tra domenica 25 luglio e lunedì 26 luglio del 2004, infatti, l’anziana cui badava la slava era ricoverata in ospedale. Secondo la dettagliata denuncia presentata dalla slava ai carabinieri della stazione di Pagani, Langella entrò entrato da una finestra. Trovata la badante, la minacciò con un paio di forbici e ripetutamente la violentò.

Bari: muore d'infarto in carcere boss della camorra salernitana

 

Il Mattino, 10 aprile 2006

 

Pierpaolo Capri, boss della camorra salernitana, è stato trovato senza vite in una cella del centro clinico del carcere di Bari. Venerdì sera, intorno alle nove, gli agenti del penitenziario pugliese lo hanno trovato morto. Un infarto, il primo referto medico. Il sospetto di un overdose o un improvviso attacco di epilessia. Per domani è prevista l’autopsia disposta dal pm barese Linda Deiure. Era nel carcere di Bari da venti giorni, trasferito dalla casa circondariale di Larino (Campobasso), per essere sottoposto a perizie. Il suo avvocato difensore, Pierluigi Spadafora, aveva chiesto la perizia per "incapacità a stare in giudizio".

L’agguato del destino si materializza poco dopo le venti e trenta di venerdì sera nel centro clinico del carcere di Bari quando due agenti penitenziari scoprono il corpo senza vita di Pierpaolo Capri. Inutile lanciare allarmi, quel detenuto è morto, il capo reclinato sul cuscino della branda. Un infarto ha appena stroncato la vita di un boss della camorra salernitana, quarantatre anni, un curriculum criminale di tutto rispetto. Un infarto. Scatenato da una crisi epilettica o da una overdose? Sarà l’autopsia a chiarire le cause della morte del boss. Nella tomba porterà i misteri di otto omicidi che hanno segnato gli ultimi venti anni della guerra di camorra in città ed i segreti dei nuovi equilibri criminali della città. A partire da quelli di fine anni Ottanta, per i quali recentemente aveva ricevuto l’ultima ordinanza di custodia con l’accusa di aver ammazzato Carmine Apicella e Elena Ferrigno (febbraio 83) e per finire a quella che, di qui a qualche giorno, gli sarebbe stata notificata per il triplice omicidio di Croce di Cava - Ceruso, Scoppetta e Gargano - (maggio ‘87).

Una morte naturale, secondo i primi referti dei medici del centro clinico del carcere di Bari. Nessun dubbio, dal primo esame esterno del cadavere: il corpo non presenta segni esterni di violenza, né tentativi di suicidio. Domani, lunedì, l’autopsia disposta dal pm barese Linda Deiure che dovrà chiarire anche i sospetti su una eventuale overdose. È notte fonda, a Bari, in via De Gasperi quando i dirigenti del carcere rintracciano i familiari di Pierpaolo Capri. Chiamano per prima sul cellulare dell’avvocato difensore, Pierluigi Spadafora. È spento, nulla da fare. I familiari? Il fratello Pasquale è in carcere, come pure i nipoti. Allora non resta altro da fare che avvertire la compagna, Maria Cristina Tortorella. Passa la notte, in via De Martino dove la Tortorella abita. E da dove parte per Bari in mattinata.

Nel capoluogo pugliese si recherà anche il fratello del boss, Francesco, che vive e lavora a Genova. Pierpaolo Capri era stato trasferito nel centro clinico del carcere di Bari, proveniente dal carcere di Larino (Campobasso), venti giorni fa. A Bari era stato trasferito nel centro clinico per essere sottoposto ad una serie di perizie dopo la richiesta del suo avvocato difensore di certificare "l’incapacità di stare in giudizio". "Proprio la settimana scorsa - ricorda l’avvocato Pierluigi Spadafora - lo avevo incontrato nel carcere di Bari. Lui tranquillo aveva già affrontato al prima serie di esami per la perizia". Un collegio peritale formato dai professori Greco, noto psichiatra barese, Sciaudone, nominato dalla procura e Zarrillo, nominato dalla difesa di Capri avrebbe dovuto consegnare entro fine mese la perizia ai giudici salernitani.

La perizia era stata chiesta dall’avvocato Spadafora nell’ambito del processo a carico di Capri con l’accusa di aver favorito la latitanza di Vincenzo Ignoto subito dopo l’omicidio di Sebastiano Di Mauro avvenuto ad Ogliara nel ‘97. Ma non era l’unica accusa dalla quale si sarebbe dovuto difendere. Per lui c’era le ultime ordinanze della procura antimafia, quelle chieste ed ottenute dai pm Antonio Centore (duplice omicidio di Cava) e Filippo Spezia (indagine clan D’Agostino) e la richiesta di rinvio a giudizio della procura per l’omicidio di Valentino Sorrentino. L’udienza preliminare si sarebbe dovuta tenere davanti al gup Anita Mele il 21 giugno prossimo. Ora finisce tutto in archivio, dopo l’agguato del destino che chiude i fascicoli a suo carico per l’omicidio colposo del pizzaiolo Leandro Iuri, investito a Fratte, o del tentato omicidio, a dicembre scorso, di una giovane ucraina in una discoteca sulla litoranea. Ma per gli investigatori, prim’ancora del destino, c’era chi nella camorra salernitana aveva già pronunciato una sentenza di morte.

 

L’autopsia-verità per la morte del boss

 

Oggi l’autopsia, poi il trasferimento della salma a Salerno e i funerali in forma strettamente privata. Oggi l’autopsia per radicare la verità della morte naturale di Pierpaolo Capri (nella foto piccola), il camorrista morto a quarantaquattro anni in un letto del centro clinico del carcere di Bari. Nel capoluogo pugliese si recherà anche il suo avvocato Pierluigi Spadafora. Non è stato ancora deciso se avvalersi di un perito di parte, considerata l’estrema professionalità dei periti nominati dalla procura pugliese. Ieri è rientrata a Salerno la compagna di una vita, Cristina Tortorella. "Non l’ho mai abbandonato, l’ho sempre accompagnato in tutte le sue difficoltà di vita, non l’ho mai abbandonato..." ha detto tra le lacrime la compagna di vita di Pierpaolo Capri. Scampato alla morte in un agguato del 1988, sempre un passo dietro rispetto alla fila di fuoco dei clan in guerra, Pierpaolo Capri è morto per un infarto. Probabilmente o causa della sua "storica" epilessia, o per effetto di una overdose. È morto nel letto di in carcere, lui che pure avrebbe potuto correre il rischio di finire bersaglio di colpi di arma da fuoco. Perché lui, nella malavita salernitana, era noto come un personaggio freddo, capace di uccidere. "Ò uaglione sparava, era capace. Lo diceva Peppe Nese, che era il nipote di Lucio ò vampiro... mica uno qualsiasi". Pierpaolo Capri lo descrivevano così i pentiti di camorra, un killer, uno spietato assassino con la faccia d’angelo. Fu Pietro Del Vecchio, un pregiudicato del clan Maiale, che nel corso del processo per l’omicidio di Francesco Memoli parlò diffusamente della capacità criminale di Pierpaolo faccia d’angelo. Ma Del Vecchio non si limitò solo a descrivere le capacità di Capri. Parlò ed etichettò la camorra salernitana come quella "dei ballerini", cioè personaggi inaffidabili. Capaci di "uccidere anche i biscazzieri", cioè gli ultimi della catena delle bische clandestine che un clan può decidere di assoldare, per guadagnare la giocata, ma mai uccidere. Del Vecchio non parlava a vanvera. Lui, nei primi anni Novanta, incontrò nel carcere di Fuorni proprio Pierpaolo Capri e Domenico Cuomo. I due parlavano di un anello con una testa di cavallo, che dopo l’omicidio Pierpaolo Capri sfilò dal dito di "Cipolla" tanto da indurre Del Vecchio a prodursi in una lezione di stile criminale. "Togliere l’oro ai morti, presidente, è sciacallaggio" disse Del Vecchio. Ogni qualvolta veniva arrestato, Pierpaolo Capri veniva assalito dalle crisi nervose. Come quando fu arrestato dalla Dia di Salerno, presso la casa di un amico a Battipaglia, dopo aver travolto con l’auto ed ucciso un giovane garzone di pizzeria, Leandro Iuri. Come quella sera vide gli uomini della Dia, cadde a terra e finì in preda da una crisi di nervi. Fu trasportato all’ospedale di Salerno e piantonato per tutta la notte. Ma poi al mattino, fu accompagnato al carcere di Fuorni, in attesa del trasferimento a Sulmona dove fu ospitato nella cella insieme a Giuseppe D’Agostino, il boss di via Capone che aveva deciso di ammazzarlo. Ma durante la libertà vigilata, Capri non aveva cambiato vita. Una sera, gli uomini della Squadra Mobile lo intercettarono nei pressi dei semafori di via Carmine: se ne andava in giro per la città con due coltelli dalla lama di trenta centimetri ben occultati nella portiera della propria auto. Quando ha varcato le soglie delle carceri, Pierpaolo Capri si è sempre dichiarato "malato grave", come avvenne nell’estate del ‘99, quando era recluso nel carcere di Bellizzi Irpino. In quei giorni, si diffuse la voce sulle onde di Radio Carcere: dopo Giovanni Zito, sarebbe stato pronto a pentirsi anche Pierpaolo Capri. L’unica cosa certa di quei giorni è che Capri presentò istanza di scarcerazione per incompatibilità con il regime carcerario. Ma i giudici bocciarono la sua richiesta.

 

Il dolore del fratello in cella

 

La notizia gli è arrivata nel carcere di Augusta, in Sicilia. Pasquale Capri è scoppiato in lacrime alla notizia della morte del fratello. Pasquale era recluso a Sulmona dove, grazie alle intercettazioni ambientali, fu scoperta l’intenzione di organizzare un attentato proprio in danno di Pierpaolo. Nella sala colloqui furono pure intercettate le parole di Francesco Capri quando raccontò al padre Pasquale la minaccia dello zio Pierpaolo ad Aniello Viviano, titolare di una ditta video poker. Oppure, ancora, quando Francesco rassicurò il padre sulla disponibilità delle armi lasciate in custodia a Salerno a Ciro Carpentieri.

Giustizia: per i "delitti imperdonabili" nessuno sconto di pena...

 

Il Messaggero, 10 aprile 2006

 

C’era anche lui a piangere per Tommaso e per quel dolore antico che il tempo non riesce a spegnere, era lì ad ascoltare il messaggio del bimbo ai "piccoli, grandi uomini" col cuore fermo alla sua Marzia. Un padre ferito a morte come il papà di Tommy, Dino Savio quelle lacrime le ha già piante: il 7 marzo del 1982, a Rivoltella del Garda, rapirono sua figlia Marzia, 11 anni, mentre andava a scuola, quattro mesi senza sapere nulla e poi la scoperta del corpo della bambina fatto a pezzi, nascosto nella plastica e gettato via. "Soffro ancora come il primo giorno", 24 anni sono un niente. Un salumiere confessò di aver rapito e ucciso Marzia lo stesso giorno, la strangolò per paura di essere scoperto: anche lui, voleva soldi. È stato condannato all’ergastolo, "ma da un paio d’anni usufruisce di permessi e ora è in libertà provvisoria". Una pena doppia, per Dino Savio.

 

Le richieste del mostro di Foligno

 

Il perdono a volte è impossibile, "e anche i permessi premio ai detenuti in alcuni casi non dovrebbero essere mai dati: questa legge non va bene, va rivista", Luciano Paolucci è il papà di Lorenzo, il tredicenne ucciso da Luigi Chiatti. Domani la Corte di Cassazione si pronuncerà sui permessi premio finora negati all’assassino di Lorenzo Paolucci e di Simone Allegretti, 4 anni, condannato all’ergastolo in primo grado, pena ridotta a 30 anni in appello perché è stato riconosciuto seminfermo di mente. Chiatti, arrestato il 7 agosto del 1993, subito dopo l’omicidio di Lorenzo, ha più volte chiesto di poter uscire dal carcere, ma il Tribunale di Sorveglianza gli ha sempre negato i permessi premio ed è per questo che lui ha presentato ricorso in Cassazione. "È ritenuto un individuo socialmente pericoloso, anche se ha scontato più di un quarto della pena è quasi impossibile che gli sia concesso un permesso", sostiene Giovanni Picuti, l’avvocato della famiglia Paolucci. "Dicono sia un detenuto modello, ma ha dimostrato quando era fuori quello che era capace di fare. Non si può consentire che esca nemmeno per un giorno chi ha commesso omicidi così orrendi. Se Chiatti esce e fa del male a qualcuno, colpevoli sono i giudici che l’hanno fatto uscire, non lui", Luciano Paolucci prova pietà per il "mostro". "Vorrei aiutarlo, nonostante quello che ha fatto a mio figlio penso sia più sfortunato di Lorenzo: mio figlio nella sua vita è stato amato, Chiatti mai. Sono disposto ad andare lì, ad ascoltarlo, ad aiutarlo a tirare fuori i brutti ricordi, il nero che ha dentro. Ma non facciamolo uscire, non adesso, non prima che sia diventato una persona".

 

I serial-killer Bilancia e Minghella

 

Diciassette omicidi, tredici ergastoli. Sono queste le cifre di un uomo che alla fine degli anni Novanta ha terrorizzato la Liguria. Donato Bilancia, il serial-killer genovese, con la passione per i tavoli verdi e le prostitute, fra due anni ha intenzione di chiedere la semilibertà. Ha già contattato il giudice di sorveglianza per poter accedere al beneficio della semilibertà. La stessa strada è stata seguita da un altro serial-killer genovese, Maurizio Minghella, ex pugile, frequentatore di night e balere: alla fine degli anni Settanta è stato condannato all’ergastolo per aver massacrato quattro prostitute, ma nel ‘95, ottenuta la semilibertà, ne ha uccise altre tre.

Il pubblico ministero genovese Enrico Zucca, che per anni ha coordinato le indagini su Donato Bilancia è molto cauto: "Ha una possibilità del tutto teorica. Deciderà il giudice di sorveglianza in base a una relazione che sarà fatta dalla direzione del carcere. Verranno chieste informazioni anche a polizia e carabinieri. Noi della procura siamo tagliati fuori perché il beneficio riguarda la fase dell’esecuzione della pena. Ovviamente il detenuto deve godere dei benefici previsti dalla legge, ma insisto, vedo una possibilità del tutto teorica".

Fa impressione anche a lei che Bilancia possa tornare in libertà? Il pm risponde: "È difficile ravvisare nei suoi confronti elementi di ravvedimento e dire comunque che in questa fase l’esecuzione della pena in carcere abbia assolto al suo compito, quello della rieducazione. Casi come questo mettono in evidenza i limiti del sistema, ma va sempre presa una decisione su fatti concreti".

Ma lei, nei panni del suo collega giudice di sorveglianza, cosa farebbe? "Un giudice ha una sua professionalità - replica il sostituto Zucca - e non ragiona solo con il buonsenso. Bisogna vedere cosa Bilancia ha voluto far filtrare perché spesso sono venute fuori cose antitetiche con le risultanze del processo". Lui, ad esempio, ha sostenuto di aver avuto un complice... "Bilancia durante il processo ha detto di aver fatto tutto da solo, ma una volta che la sua condanna è diventata definitiva ha cercato di insinuarsi in qualche dubbio avanzato da alcuni avvocati di parte civile ed ha adombrato questa possibilità. Lui è comunque responsabile di quei delitti e non ci sono gli elementi per una revisione del processo. L’unica cosa che dispiace che in casi così inquietanti non tutti vanno a leggersi le sentenze dei giudici".

Ma il giudice di sorveglianza di Bilancia andrà a considerare quelle pagine? Il pm: "Questo sicuramente. Si parte innanzitutto dalla gravità del reato". Ma un altro serial-killer genovese, Maurizio Minghella, condannato all’ergastolo per l’uccisione di quattro prostitute, non appena è stato rimesso in semilibertà ne ha fatte fuori altre tre... "Certo nella valutazione del giudice di sorveglianza peserà anche questo. L’allarme è giustificato, ma ritengo che una sua eventuale uscita fra due anni resti molto teorica".

 

Izzo, assassino in semilibertà

 

Era libero dalle 8,30 alle 20 dal lunedì al venerdì e dalle 8,30 alle 16 del sabato, Angelo Izzo, condannato all’ergastolo per il massacro del Circeo. In semilibertà, a Campobasso, un anno fa ha ucciso due donne, Maria Carmela Maiorano, 48 anni e la figlia Valentina, 14. I giudici di Palermo e quelli di Campobasso che si scambiano accuse reciproche: chi ha sbagliato? E si riaccende la polemica sulla legge Gozzini, a 20 anni di distanza. "In questo caso c’è stato un clamoroso errore di diagnosi", è il parere del sociologo Maurizio Fiasco, esperto in criminologia. Nessuno ha capito che Izzo poteva ancora far del male. Una legge da buttare, quella sui benefici ai detenuti? "Il bilancio di 20 anni di legge Gozzini è stato considerato positivo dalla magistratura e dal legislatore: la strategia premiale incentiva la buona condotta in carcere. Le violazioni delle regole previste per i detenuti in semilibertà o in permesso premio sono l’1% l’anno, poca roba". Il fatto è che per la Gozzini tutti gli omicidi sono uguali, "e invece andrebbe introdotta una netta separazione tra i crimini commessi con una grande violenza e tutti gli altri, una distinzione in base alle modalità e alle caratteristiche dei delitti". Una legge incompleta, piuttosto, "presupponeva una forma di controllo sociale e istituzionale sui detenuti al di fuori del carcere e invece non c’è stata: il vero buco sta proprio qua".

Giustizia: Donato Bilancia, 13 ergastoli, potrebbe uscire tra 2 anni

 

Il Giornale, 10 aprile 2006

 

Diciassette omicidi. Tredici ergastoli. Due anni, ed è fuori. Donato Bilancia, il serial killer della Liguria, ha già istruito le pratiche per avere il suo permesso premio nel maggio 2008. Perché "i suoi tredici ergastoli corrispondono a un ergastolo, e un ergastolo a trent’anni. Dopo aver scontato un terzo della pena, cioè dieci anni di carcere, qualsiasi detenuto può chiedere di fare le prime visite a casa e la legge non è diversa per i serial killer".

Lo scrive Ilaria Cavo, giornalista di Porta a Porta, nel suo libro Diciassette omicidi per caso, costruito sul carteggio di quaranta lettere e sui sei incontri in carcere che lei, unica giornalista, ha avuto con il serial killer più spietato della storia italiana. Lo scrive, ma non lo fa per dare una chiusura forte a un saggio che deve "reggere" nella collana "Strade blu" di Mondadori. Lo scrive perché Bilancia "ha già ottenuto un colloquio con il magistrato di sorveglianza di Padova, e ha avuto la conferma che cercava". E perché "come tanti detenuti, con gli stessi criteri, dopo vent’anni di reclusione, potrà chiedere il regime di semilibertà".

Le ultime pagine del libro dicono che ci sarà un killer in libertà, se il magistrato non troverà il modo di opporsi. La Cavo non enfatizza, registra. Lascia tutto il resto alle considerazioni di chi ha letto fino in fondo Diciassette omicidi per caso, conta che il lettore ricordi bene quello che poche pagine prima, a microfoni spenti, Bilancia le ha confessato il 21 febbraio 2003, durante il terzo incontro in carcere. "Se devo essere sincero non mi sento ancora in forma del tutto. Sì, insomma, penso che se dovessi uscire, rifarei quello che ho fatto. Non so come, non so perché, ma penso che lo rifarei". Lucido, tanto lucido al punto di non ridire le stesse cose, anzi di sostenere il contrario, nel corso di un’intervista registrata. E lucido abbastanza per sapere che la giustizia italiana dovrà arrendersi anche di fronte a lui: "Studio inglese perché se continuo a comportarmi bene tra un po' d’anni sarò fuori". È un serial killer che pesa ogni parola, ogni sguardo e ogni mossa. I segreti dell’inchiesta, i particolari mai svelati dal 1997 a oggi passano persino in secondo piano nel libro che porta il lettore faccia a faccia con l’assassino. Bilancia è quello che di fronte a Romolo Rossi, il perito che lo analizza per determinare l’eventuale infermità mentale, risponde che ammazzare qualcuno "no, non è difficile, basta avere una pistola ben oliata ed è facile". Quello che sfida il pm che lo ha accusato, rilanciando l’esistenza di un complice in libertà, protestando perché il magistrato non ha mai voluto credergli.

Dovrà aspettare il 2008, Bilancia, per il suo permesso premio. Ma è già nella mente dei genovesi. Perché in Liguria un altro serial killer c’era già stato. Maurizio Minghella aveva persino qualcosa in comune con Bilancia. La passione per il ballo e lo strano rapporto con le donne. Negli anni Settanta ne aveva uccise quattro ed era stato condannato all’ergastolo. La semilibertà l’aveva ottenuta e i giudici erano convinti che si fosse rifatto una vita a Torino Era vero, solo che la sua vita era anche uccidere. E infatti è stato arrestato per l’omicidio di altre tre donne, ma la polizia sospetta che siano anche di più. Cosa meritano certi criminali? È lo stesso Bilancia che risponde all’interrogativo degli italiani. A proposito di quello che ha fatto, ammette di aver pensato al suicidio: "Quella gente che ha subito danni da me, e forse non soltanto da me, deve essere risarcita", la butta lì alla sua intervistatrice. O ancora: "Alla fine qualunque cosa decidano (i giudici) un colpo in canna comunque l’ho ancora". Quando parla dell’omicidio di Mariangela Rubino, uccisa sul treno, addirittura piange, pensando alla figlioletta della sua vittima. È un killer sì, ma c’è chi è peggio di lui, sostiene. "Qui sono in mezzo a gente che ha violentato bambini - protesta -. Ma come si fa a pensare di fare del male a un bambino? Non posso resistere qui, non posso neanche guardarla in faccia, certa gente". Eppure riesce a decidere la sua pena: "O ritengono che sia colpevole, e allora mi devono sopprimere subito, oppure decidono che sono malato". Un malato che però uscirà. Tra due anni.

Elezioni: Rosa nel Pugno; ai detenuti è stato impedito di votare

 

Il Cittadino, 10 aprile 2006

 

Voto in carcere, è polemica: la Rosa nel Pugno denuncia che "ai detenuti è stato in pratica impedito di votare" e forniscono cifre: a Regina Coeli (Roma), solo 54 detenuti su mille, a Rebibbia (Roma) appena 70 su 1.600. Nel mirino soprattutto le procedure piuttosto farraginose alle quali i detenuti si devono sottoporre per poter votare, che risalgono alla fine degli anni ‘70, e la mancanza di informazione agli stessi detenuti su questo loro diritto, come denunciato dall’associazione "Detenuto ignoto". "Se il voto dei detenuti è stato organizzato in tutta Italia come nelle carceri di Rebibbia e di Regina Coeli, le meno problematiche del nostro sistema penitenziario, è facile dedurre che ovunque ai detenuti è stato in pratica impedito di votare" hanno denunciato Sergio D’Elia e Gerardo Labellarte, candidati della Rosa nel Pugno.

Solo chi aveva fatto la "domandina" un mese fa, avanzando formale richiesta alla direzione del carcere - spiegano - ha potuto avere in tempo la tessera elettorale e il certificato di iscrizione nelle liste elettorali dai comuni di residenza. Perché, si chiedono, "per tutti i cittadini è possibile votare fino al lunedì mentre ai detenuti questa possibilità è stata bloccata tre giorni fa?". Un problema denunciato anche dall’associazione "Detenuto ignoto", che sottolinea come i detenuti non siano stati adeguatamente informati sui loro diritti di voto. D’Elia e Labellarte hanno chiesto pertanto al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di "intervenire immediatamente per tentare di correggere in extremis una situazione che si configura come una grave violazione dei diritti civili e politici delle persone detenute che non abbiano perso il diritto di voto".

Sarà invece allestito oggi, nella nuova struttura di Capanne, il seggio elettorale per i detenuti del carcere di Perugia, tra i quali anche Mario Spezi, il giornalista fiorentino arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Francesco Narducci, che espresso la sua volontà di esercitare il diritto-dovere di voto entro le 15 di domani.La legge prevede l’istituzione di un seggio fisso negli istituti più grandi e di seggi itineranti nelle strutture di dimensioni più ridotte, per far esercitare il diritto di voto ai detenuti che non hanno avuto l’interdizione legale.

Ma sono i detenuti che devono segnalare alla direzione del carcere la loro intenzione di votare, e la stessa direzione deve poi inviare la richiesta del certificato elettorale al Comune di residenza del recluso. Una volta ricevuto il certificato, il detenuto deve esibirlo al personale del seggio allestito nel carcere per poter esprimere il suo voto. La legge riconosce, inoltre, la facoltà di votare in carcere anche agli esterni, e oggi alcuni candidati della Rosa nel Pugno,- a cominciare da Marco Pannella - per attirare l’attenzione sulle condizioni dei detenuti, si sono recati a votare in alcuni istituti, ma non a tutti è stato consentito".

Elezioni: nelle carceri sono stati previsti seggi fissi e itineranti

 

Corriere Adriatico, 10 aprile 2006

 

Un seggio fisso negli istituti più grandi, seggi itineranti - come avviene per gli ospedali - nelle strutture di dimensioni più ridotte: sono queste le possibilità di voto per i detenuti che non hanno avuto nella sentenza di condanna l’interdizione legale e che hanno dichiarato la volontà di presentarsi alle urne. La procedura del voto nelle carceri italiane segue disposizioni che risalgono alla fine degli anni 70. La direzione di ogni istituto avvisa per tempo i detenuti della scadenza elettorale. Ogni detenuto che è nella condizione di poter votare deve comunicare la sua intenzione ai capi reparto della polizia penitenziaria. La direzione, quindi, invia la richiesta del certificato elettorale al comune di residenza del recluso. Una volta ricevuto il certificato, il detenuto-votante deve esibirlo al personale del seggio allestito nell’istituto per poter esprimere il voto. "È una procedura farraginosa - spiega Massimo Di Rienzo, direttore del carcere di Vasto - ma non si è trovato di meglio, perché il problema resta la residenzialità dei detenuti. Molti scontano la pena lontano dai luoghi in cui risultano iscritti. Nell’istituto che dirigo, su circa 250 detenuti, il 50 per cento dei quali stranieri, solo cinque hanno chiesto di votare".

Cremona: con Vivicittà a "Cà del Ferro" una giornata speciale

 

Provincia di Cremona, 10 aprile 2006

 

È tornato in carcere il Vivicittà, il classico appuntamento podistico giunto ormai alla sesta edizione. Sull’anello del cortile interno del carcere una trentina di concorrenti si sono contesi la vittoria lungo i sei chilometri e mezzo del percorso. La vittoria è andata a Fatos Tafa in 23’54", davanti a Klodian Tollumi e Manir Zakria. La solita festa per i detenuti, sia quelli che hanno partecipato alla gara, sia, molti di più, quelli che si sono assiepati sugli spalti per fare il tifo. Ma in gara si sono visti anche degli esterni, secondo una formula che ha avuto successo negli ultimi anni: i ragazzi del Beltrami, ormai degli habitue in questo tipo di manifestazioni, accompagnati dai professori Pompeo Ginevra e Antonella Magni, e gli amatori della società sportiva Marathon Cremona, all’esordio sull’anello della casa circondariale. La gara è stata curata dal gruppo dei cronometristi Fidal guidati da Giovanni Mariaschi. Ad assistere alla gara anche la direttrice Ornella Bellezza e il vicesindaco Luigi Baldani, oltre ai vertici dell’Uisp, il presidente provinciale Goffredo Iachetti e il responsabile regionale del progetto carcere Alberto Saldi.

Negli interventi di chiusura della festa sia Bellezza che Baldani hanno sottolineato l’importanza di creare un contatto stabile tra realtà esterna e realtà interna al carcere. Ed è proprio la sempre più massiccia presenza di persone esterne che sta caratterizzando il Vivicittà, come momento di apertura della casa circondariale. "Spero che la prossima volta ci sia ancora più partecipazione da parte dei detenuti - ha esordito la direttrice -. Ringrazio tutti coloro che hanno permesso di organizzare questa bella manifestazione, dall’Uisp al Comune, dal Beltrami a Marathon Cremona, fino al personale della Polizia Penitenziaria che con la sua opera indispensabile ci permette di organizzare queste manifestazioni.

È importante questo spirito di collegamento tra realtà interna e realtà esterna al carcere". "Il Comune ha sempre considerato questa realtà come una realtà pienamente inserita nel tessuto della città - ha spiegato il vicesindaco -. Noi consideriamo i detenuti nostri concittadini, non una realtà che non ci riguarda". Ovviamente il Vivicittà è solo un appuntamento di un’attività continua da parte dell’Uisp all’interno del carcere. I detenuti sono impegnati nel torneo di pallavolo, che si chiuderà a giugno, mentre si sta allestendo, sempre all’interno del ‘progetto carcerè, un torneo tra i corpi della polizia penitenziaria degli istituti di Cremona, Brescia e Mantova, da giocarsi a Cà del Ferro: un’occasione per favorire i contatti tra le case circondariali della regione.

Libri: "Anime perse?", percorsi di vita di sette detenuti in A.S.

 

Ansa, 10 aprile 2006

 

A cura di Gianfabio Scaramucci

Edizioni San Paolo

144 pagine – Euro 10,00

 

Il libro introduce e accompagna il lettore in un carcere di massima sicurezza: un microcosmo complesso, popolato da uomini che vivono un’esistenza molto difficile, in un contesto nel quale vigono norme e regole ben diverse da quelle della società comune. L’incontro, in un settore di massimo isolamento, con sette detenuti che hanno voluto ripercorrere la propria vita, offre al lettore la possibilità di comprendere come e perché un’esistenza normale possa interrompersi e drammaticamente modificarsi fino a diventare una vita diversa…, "una vita da criminali". Le riflessioni dei detenuti fanno intuire che, attraverso un sofferto percorso di recupero, ogni individuo, anche il più malvagio, può comprendere i propri errori, pentirsene e ambire a un futuro da uomo migliore.

Gianfabio Scaramucci, ingegnere, giornalista pubblicista dal 1976, ha pubblicato: …e mi scambiarono per un angelo! (La Mandragora, 1998), La guardia del corpo (2000), Storie di gommoni volanti (2001), Boston-Albalonga (2001), Il mio cielo 1 (2003), Il mio cielo 2 (2004), Il mio mare 1 (2004), Il mio cielo 3 (2005); Lavinium-Pomezia (Ed. La Teca 2004), Antium (2005); Prevenire il mobbing (Giappichelli, 2005). Attualmente è Presidente dell’Associazione CR Cultura e Risorse Onlus che si occupa di progetti di utilità sociale e culturale. Dell’Associazione fa parte, come consigliere, responsabile delle attività di beneficenza e dei rapporti con la Casa Circondariale di Velletri, Suor Maria Fabiola Catalano.

Brasile: sessanta persone prese in ostaggio dai detenuti in rivolta

 

Il Messaggero, 10 aprile 2006

 

Una rivolta è esplosa in una prigione brasiliana di Sao Vicente (stato di San Paolo) dove i detenuti hanno preso in ostaggio sessanta persone, fra cui dieci membri del personale e cinquanta parenti. Lo hanno riferito radio e televisioni brasiliane che hanno anche trasmesso alcune immagini della rivolta. Le tensioni sono cominciate nel pomeriggio di ieri quando un gruppo ha tentato una fuga che è stata sventata dal personale di servizio. Fra gli ostaggi, tenuti sotto controllo da un recluso armato di pistola, vi sono anche dei bambini e il direttore del carcere sta negoziano per cercare di ottenere il rilascio di tutte le persone trattenute, incontrando però resistenza. Tra le motivazioni della rivolta sembra ci sia anche quella del sovraffollamento della prigione. Il carcere, si è appreso, è stato pensato per 330 persone, ma attualmente ne ospita 509.

Marocco: il Papa intercede per gli sposini arrestati per droga

 

Il Messaggero, 10 aprile 2006

 

Altre ventiquattro ore d’ansia per Pamela Guiducci e Fabrizio Catalani, gli sposini di Castelleone di Suasa in carcere in Marocco dallo scorso settembre per possesso di sostanze stupefacenti. Il loro destino è nelle mani di re Mohammed VI che, domani, in occasione dell’anniversario della nascita di Maometto, renderà noti i nomi dei detenuti ai quali verrà concessa la grazia. Difficile dire se il loro incubo finalmente finirà, dopo il duro colpo incassato lo scorso gennaio, quando furono esclusi da una lista di 450 fortunati rimessi in libertà. Ma secondo indiscrezioni interne al carcere di Casablanca, dove i coniugi sono rinchiusi, sembra che le speranze di contare sulla clemenza del sovrano non siano molte. A rendere problematica la loro immediata liberazione è la differenza di pena a fronte di un’unica pratica.

Mentre Pamela, 29 anni, è stata condannata a 10 mesi di reclusione che scadranno a luglio, Fabrizio, 30 anni, dovrebbe scontare due anni di carcere. "Pamela è molto agitata nonostante gli sforzi del consolato generale di Casablanca e gli interventi del Governo italiano e del Vaticano" racconta al telefono la madre Tamara. Già, perché oltre all’accorato appello del presidente della Repubblica e all’interessamento della Farnesina, anche il Santo Padre è intervenuto a sostegno degli sposini. A febbraio Tamara aveva scritto al segretario di Stato, cardinale Angelo Sodano, per metterlo al corrente del dramma che stava vivendo la sua famiglia. Il mese scorso l’inattesa risposta: una lettera con la benedizione di Papa Ratzinger e la rassicurazione che il Vaticano si sarebbe attivato per intercedere presso il governo magrebino.

La lettera, assieme all’appello di Ciampi, è stata portata all’attenzione del ministro della Giustizia del Marocco, Mohamed Bouzoubaa. Pamela e Fabrizio erano stati arrestati lo scorso settembre a Seuta perché "appiccicati" con nastro adesivo sotto il loro camper sono stati trovati 10 chili di hashish. Prima rinchiusi nel carcere di Teutan e recentemente trasferiti in quello di Casablanca, si sono sempre difesi sostenendo di essere stati incastrati. Dopo l’inferno di Teutan, a Casablanca stanno bene. Sono trattati con il massimo riguardo e lo stesso direttore del carcere è tra i sostenitori della loro liberazione. Domani il verdetto, atteso con ansia dai familiari, che nel frattempo si stanno prendendo cura della figlia di Pamela e Fabrizio. Una bimba di appena 3 anni, che non fa altro che chiedere dove siano mamma e papà.

 

 

 

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