Rassegna stampa 15 marzo

 

Sardegna: malattie mentali, 500 detenuti senza assistenza

 

L’Unione Sarda, 15 marzo 2005

 

Effetto carcere devastante: quasi cinquecento detenuti soffrono di disturbi psichici. Il dato è impressionante se si pensa che l’intera popolazione penitenziaria della Sardegna non arriva a 1.800 persone. A questo si aggiunge il caso speciale dei 74 reclusi che sono stati spediti nei manicomi giudiziari della penisola. "Fratelli sardi", li ha chiamati ieri sera Leonardo Bonsignore, presidente del Tribunale di Sorveglianza.

Intervenendo al convegno su Follia e crimine, castigo e cura, ha lasciato ammutolita la platea del teatro delle Saline. Più che una relazione, la sua è stata una testimonianza raggelante. Ha detto che la Sardegna è la regione italiana che rifornisce più di ogni altra i manicomi giudiziari. Senza esitare, ha parlato di "sradicamento, deportazione". Ai numeri, alle gelide schermate che vomitavano dati e principi di legge, ha contrapposto il commento di una lucida e sofferta requisitoria: contro l’inerzia dello Stato, i silenzi, le omissioni. Ha spiegato che, contrariamente a quanto si crede, la permaNenza nei manicomi giudiziari (Opg) è mediamente di trentasei mesi.

E poi? Poi c’è il nulla, il vuoto assoluto. Le cifre dicono poco: ai 74 reclusi-ricoverati censiti nel 2001 se ne sono aggiunti 33 nel 2003 e 36 nel 2004. Organizzato dal gruppo consiliare di Progetto Sardegna , il convegno ha visto la partecipazione di numerosi relatori, il racconto delle esperienze psichiatrico-giudiziarie in Toscana e quello del Dipartimento di salute mentale di Trieste. A guarnire un tema così complesso anche uno spezzone teatrale da L’ultimo sogno di Balloi Caria, lo spettacolo che Akroama ha portato al Festival dei due mondi a Spoleto.

Di fronte a una situazione che appare sempre più grave, la parola d’ordine è diventata una sola: utilizzare strumenti nuovi. Che significa, uscendo dallo schema delle frasi fatte, reagire ed intervenire, imporre l’applicazione delle disposizioni di legge finora ignorate, prendere coscienza di quanto sta accadendo. Bonsignore ha affidato tutto a una denuncia sulla morbilità. Nel sottolineare che i nuovi ingressi in carcere sono stati oltre 1.200 soltanto l’anno scorso, ha mostrato le statistiche del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Quelle statistiche dicono che almeno 160 detenuti soffrono di depressione (che non è uno stato d’animo ma un disturbo invalidante) mentre altri 123 hanno patologie psichiche d’altro tipo. Per chiudere, ce ne sono sedici in "stato di deterioramento mentale". E continuano a stare in cella, seguiti da un’assistenza assolutamente inadeguata. "Che fare?", si è chiesto Bonsignore.

Alla luce di alcune importanti sentenze della Corte costituzionale (secondo le quali il giudice può disporre provvedimenti alternativi al ricovero in Opg), il presidente del Tribunale di sorveglianza ha messo in evidenza un’apparente contraddizione: da un lato la difesa sociale e dall’altro il dovere di curare un malato. Due principi costituzionali della stessa forza. Come uscirne? Per fortuna oggi la cosiddetta "pericolosità sociale" non è più vista in termini assoluti e inappellabili. È legata alla possibilità di cura per il semplice fatto che, contrariamente anche a un recente passato, il disturbo mentale non è più considerato una sorta di maledizione oscura e misteriosa. Definendo "inaccettabile l’alternativa carcere-Opg", si deve quindi puntare verso "opzioni di libertà". Che sono i permessi, la libertà vigilata, l’affidamento.

Da questo tipo di beneficio debbono tuttavia essere esclusi: i detenuti che, dopo la cura, mantengono la stato di pericolosità sociale; quelli che rifiutano la terapia; quelli che, dopo la cura, manifestano "sofferenze psichiatriche di dubbia natura". In questo modo, secondo la ricetta di Bonsignore, è possibile far convivere due precetti del nostro mondo: la difesa sociale e l’assistenza ai malati. La relazione del presidente del Tribunale di sorveglianza arriva con perfetto tempismo a ridosso del dossier sulle carceri sarde (12 istituti penitenziari, otto ospitati in edifici ottocenteschi) messo a punto dai membri della seconda commissione del Consiglio regionale. Chiederanno al ministro di Giustizia di inserire l’argomento-galera nella trattativa Stato-Regione. Giorgio Pisano

Sassari: pestaggi; poche certezze, giustizia solo in minima parte

 

L’Unione Sarda, 15 marzo 2005

 

"Giuseppe Della Vecchia, Ettore Tomassi, Antonio Salvatore Adamo e Cristina Di Marzio sono colpevoli: condannateli". È la richiesta avanzata ieri dal procuratore generale Francesco Palomba ai giudici della Corte d’appello di Sassari nel processo di secondo grado per i pestaggi avvenuti il 3 aprile del 2000 all’interno del carcere di San Sebastiano. Il pg ha chiesto la conferma delle pene inflitte in primo grado all’ex provveditore regionale degli istituti di pena Giuseppe Della Vecchia, al capo delle guardie Ettore Tomassi e al medico del carcere Antonio Salvatore Adamo: nel febbraio di due anni fa il primo era stato condannato a un anno e sei mesi, il secondo a un anno e quattro mesi e il dottore a quattro mesi.

Sollecitata anche la condanna a 400 euro di multa dell’ex direttrice del penitenziario sassarese Maria Cristina Di Marzio, condannata in prima istanza a un anno di reclusione. Secondo Palomba sarebbe responsabile del solo reato di omissione di denuncia. Con loro erano stati dichiarati colpevoli nove agenti di polizia penitenziaria, cui erano state inflitte pene che variano fra i quattro e i sei mesi, ma per loro il procuratore generale ha chiesto l’assoluzione. "Sarà possibile fare giustizia solo in minima parte, perché purtroppo il processo deve basarsi su certezze che in questo caso mancano", ha affermato Francesco Palomba nel corso della sua requisitoria.

"Non dovete incorrere nel rischio di colpire la massa: nel mucchio ci può essere magari un solo colpevole, ma non è possibile distinguerlo", ha detto ai giudici chiamati in causa dal ricorso invocato da tutte le parti in causa. Questo secondo procedimento, che si è aperto lo scorso 7 marzo con la relazione introduttiva del presidente della corte Giovanni Antonio Tabasso, riguarda i dodici imputati che il 21 febbraio 2003 erano stati condannati dal giudice delle udienze preliminari Antonio Luigi Demuro con rito abbreviato.

Ma alla sbarra ci sono anche i 48 agenti assolti in primo grado, mentre il discorso è definitivamente chiuso per le oltre venti guardie che già allora erano state prosciolte. Una sentenza che aveva lasciato tutti scontenti: il pestaggio feroce nei confronti dei detenuti, pronti per un trasferimento, veniva ammesso, ma per il gup c’erano troppe ombre sugli autori materiali. Era così finita con una manciata di condanne e una raffica di assoluzioni, ma la motivazione della sentenza era stata oggetto di un ricorso in cui il pubblico ministero Gianni Caria sottolineava l’incongruità di una ricostruzione che usava, in molte sue fasi, due pesi e due misure.

All’impugnazione del pubblico ministero era seguito l’ovvio ricorso degli agenti condannati e quello dei tre imputati eccellenti. Nove agenti avevano invece scelto di andare a dibattimento: il processo nei loro confronti si sta celebrando proprio in questi giorni. Alle richieste formulate oggi dal procuratore generale risponderanno lunedì prossimo gli avvocati di parte civile. Era stata proprio la denuncia presentata da un gruppo di madri dei detenuti, che si erano dichiarati vittime di violenze di ogni genere, a sollevare il caso per il quale vennero arrestate 92 persone. Gian Mario Sias

G8 del 2001: l’accusa dei Pm; a Bolzaneto fu "quasi tortura"

 

Aprile on line, 15 marzo 2005

 

Ci sono volute più di 500 pagine per riassumere le violenze avvenute nella caserma di Bolzaneto, nel corso del G8 del 2001. Attraverso questa consistente memoria, i magistrati della pubblica accusa, Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati, hanno chiesto venerdì scorso, durante l’udienza preliminare, il rinvio a giudizio di 47 fra funzionari di polizia, ufficiali dei carabinieri, agenti, militari, appartenenti all’amministrazione penitenziaria e medici.

Il processo ha preso avvio a seguito degli innumerevoli abusi compiuti fra il 20 e il 22 luglio 2001 nella caserma di Bolzaneto, alla periferia di Genova. Mentre gli otto grandi del mondo sedevano ad un tavolo discutendo le sorti del pianeta, l’opinione pubblica si mobilitava in protesta. Dopo gli scontri fra polizia e no global, ed i numerosi arresti di questi ultimi, la caserma di Bolzaneto divenne un centro di smistamento per quanti dovevano essere trasferiti nelle carceri del Nord Italia. Si trasformò invece nel teatro di molti soprusi: piercing strappati a forza, ore trascorse in piedi senza mangiare né bere, gas urticanti lanciati nelle celle.

E poi calci, sputi, pugni, insulti. Con una scelta prudenziale i due pm hanno definito "trattamento inumano e degradante" le violenze fisiche e psicologiche che si sono abbattute sulle 252 persone in transito nella caserma di Bolzaneto. Gli indagati hanno violato pertanto l’art.3 della Convenzione dei diritti umani. Questa scelta di prudenza è da ascriversi alla durata del trattamento rapportata al tempo di permanenza dei detenuti presso la struttura: troppo breve perché si configurino gli estremi per la tortura. Eppure dai racconti delle vittime traspare l’assurdità di vere e proprie sevizie: percosse, ciocche di capelli tagliate, ingiurie, umiliazioni di ogni sorta, violenze psicologiche, calci nei testicoli, minacce di stupro, denudamenti. I reati contestati sono l’abuso d’ufficio, la violenza privata, l’abuso di autorità contro detenuti o arrestati, falso, violazione dell’ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Il rinvio a giudizio per questi crimini colpisce 15 dirigenti e agenti della polizia, 16 dirigenti e agenti della polizia penitenziaria, 11 carabinieri e 5 medici. Le accuse dei magistrati si indirizzano dunque non soltanto verso la base, ma anche verso vice questori, commissari e generali per omesso controllo, e contro i medici dell’infermeria, che avrebbero dovuto fornire assistenza ed aiuto ai detenuti e hanno finito per diventare l’ennesima tappa del percorso di umiliazione.

E per rendere in maniera icastica lo stato disumano imposto ai detenuti nella caserma, la pubblica accusa ha fatto ricorso alle parole di un romanzo di Camilleri, in cui il commissario Montalbano, dinanzi alle torture di Abu Grahib, ricordava i fatti di Genova: "Certo tra i due fatti di sicuro non c’era rapporto o raffronto possibile... ma almeno una cosa in comune l’avevano avuta... non capivano, quegli omini in divisa, che mentre tentavano di ridurre i prigionieri a cose, erano loro stessi che si cangiavano in cose, robot, in macchine di violenza".

La correlazione fra i due episodi è facile e diretta. A leggere le dichiarazioni relative a quelle giornate di Bolzaneto si resta scioccati come dinanzi alle foto di Abu Grahib. In questi giorni gli americani hanno deciso di lasciare quel carcere nelle mani degli iracheni. E al Pentagono si studia persino un piano per chiudere Guantanamo. Che non si stia muovendo qualcosa, in tema di diritti umani? Valentina Dello Russo

Bologna: Telefono Azzurro inaugura una ludoteca in carcere

 

Sesto Potere, 15 marzo 2005

 

Sabato 19 Marzo alle ore 13,30 si svolgerà l’inaugurazione dello Spazio Ludoteca allestito dal Comitato per il Telefono Azzurro all’interno della sezione maschile della Casa Circondariale "Dozza" di Bologna.

Da anni il Comitato per il Telefono Azzurro è impegnato nel progetto "Bambini e carcere - Progetto ludoteca in carcere", nato dal desiderio di affrontare il problema dei bambini e ragazzi che si rapportano con la dura realtà del carcere, avendo un genitore, o in alcuni casi entrambi, detenuti.

I bambini in visita ai genitori detenuti affollano i parlatori e sono costretti ad attendere il momento del colloquio e a vivere l’incontro con il genitore in un ambiente disagevole. La realizzazione, nell’istituto di reclusione, di un ambiente adatto alle esigenze relazionali dei bambini, usufruibile prima e dopo il colloquio, e laddove possibile per l’incontro stesso, è funzionale ad un adeguato sviluppo psico-fisico e relazionale ed è di aiuto ad una più armoniosa interazione genitore-detenuto e figlio. La casa circondariale "Dozza" è il più noto istituto penitenziario bolognese. Presso la sezione femminile era già attivo uno spazio ludoteca sin dal 2001, gestito dallo stesso Comitato per il Telefono Azzurro bolognese. La direzione della casa circondariale si è impegnata con grande entusiasmo affinché il progetto ludoteca del comitato fosse reso operativo in entrambe le sezioni, nella piena convinzione che il recupero degli affetti familiari e il mantenimento dei contatti con le famiglie abbia enormi potenzialità dal punto di vista del recupero del detenuto e della prevenzione sociale.

Il progetto e l’allestimento dello spazio ludoteca della sezione maschile sono stati possibili grazie al sostegno di Coop Adriatica nell’ambito dell’iniziativa "C’entro anch’io". I volontari del Comitato per il Telefono Azzurro saranno operativi in questi spazi in concomitanza dell’orario stabilito dalla direzione del carcere per le visite dei familiari ed accoglieranno i bambini e ragazzi presso lo spazio individuato come ludoteca per trascorrere giocando o parlando, insieme all’accompagnatore, il tempo del colloquio. Il Presidente del Telefono Azzurro Ernesto Caffo sottolinea " quanto sia importante il recupero degli affetti familiari in un luogo e nell’atmosfera giusta e, di conseguenza quanto sia preziosa l’opera dei nostri volontari impegnati in questo spazio di accoglienza e intrattenimento, pensato per i bambini e adolescenti in visita ai genitori detenuti".

Cagliari: pdl regionale per il diritto alla salute dei detenuti

 

Redattore Sociale, 15 marzo 2005

 

Il diritto alla salute dei detenuti negli istituti penitenziari della Sardegna va tutelato. Per questo motivo vanno trasferite al più presto le funzioni, il personale e le attrezzature necessarie a garantire un sistema di prevenzione e assistenza a tutti i reclusi nelle carceri dell’isola. Lo prevede una proposta di legge regionale presentata da un nutrito gruppo di esponenti del centro sinistra, primo firmatario Nazareno Pacifico (Ds), che chiede la piena attuazione del decreto legislativo n.230 del 1999 sul riordino della medicina penitenziaria.

Un provvedimento che i proponenti ritengono urgente non solo per la disastrosa situazione del sistema carcerario sardo (sovraffollamento, strutture fatiscenti e inadeguate a garantire la funzione rieducativa della pena), ma soprattutto per il gran numero di internati tossicodipendenti "che, in considerazione dei numerosi casi di suicidio verificatesi negli ultimi anni, necessitano di continui interventi di cura e sostegno psichico e sociale".

Il testo prevede nove articoli dei quali, i primi due, sanciscono i principi che impongono: livelli di prestazione analoghi a quelli garantiti ai cittadini liberi. I detenuti hanno diritto, al pari degli altri cittadini in stato di libertà, all’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, nonché di sostegno psichico; azioni di protezione, d’informazione e di educazione ai fini dello sviluppo della responsabilità individuale e collettiva in materia di salute; informazioni complete sullo stato di salute al momento dell’ingresso in carcere e per tutto il periodo preventivo.

I restanti articoli stabiliscono gli strumenti e le procedure di trasferimento delle competenze, il personale necessario, i compiti della Giunta e delle aziende sanitarie locali. Al fine di monitorare e valutare l’attuazione dei progetti, l’art. 3 prefigura l’istituzione dell’"osservatorio permanente", composto dai rappresentanti dell’assessorato dell’igiene, sanità e assistenza sociale della Sardegna, del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap), del centro giustizia minorile, della magistratura di sorveglianza e da un rappresentante eletto dalle associazioni del volontariato carcerario.

In base all’art. 4 la Giunta regionale ha, tra i suoi compiti, quello di emanare le linee guida alle aziende sanitarie locali e a quelle ospedaliere della regione per assicurare il buon funzionamento dei servizi all’interno delle carceri e, inoltre, deve presentare ogni anno al Consiglio regionale una relazione sulle condizioni di salute dei detenuti e sul funzionamento dei servizi. Secondo l’art. 5, il direttore delle aziende sanitarie locali deve, in collaborazione con le direzioni delle carceri interessate, verificare periodicamente lo stato di salute dei detenuti e i risultati raggiunti. È compito della Regione, invece, stabilire "le procedure e i tempi per collocare il personale trasferito nella struttura organizzativa dei servizi, tenendo conto dei profili professionali e dei ruoli svolti alla data del trasferimento" (art. 6).

Per quanto riguarda le risorse finanziarie, gli artt. 7 e 8 stabiliscono che nel bilancio regionale sia istituito "un apposito capitolo di spesa destinato alla copertura degli oneri finanziari necessari per lo svolgimento del servizio sanitario penitenziario". Le risorse utilizzate per questo fine "sono assegnate annualmente dalla Giunta alle aziende sanitarie locali tenendo conto delle tipologie degli istituti, del numero degli internati e dei problemi di salute specifici rilevati". Compete al direttore generale dell’azienda sanitaria locale dover predisporre annualmente il programma degli investimenti. Diana Popescu

Vicenza: 110 detenuti su 300 hanno problemi di dipendenze

 

Giornale di Vicenza, 15 marzo 2005

 

Parte il progetto regionale "carcere e dipendenze". È rivolto ai detenuti con problemi di dipendenza dalla droga e dall’alcol. In tutto il Veneto attualmente sono 839 sulle 2 mila 681 persone dietro le sbarre, a Vicenza 110 su 300. Una novità in Italia e una rivoluzione nel settore. La matrice è tutta vicentina. Il progetto, che vede come responsabile Vincenzo Balestra, ormai capo storico del Sert vicentino, è stato curato con bravura da due operatori del Servizio di contrà Mure San Domenico, lo psicologo Giuseppe Chemello e l’educatore professionale Luca Zoncheddu. Ieri mattina la presentazione nella casa circondariale di via della Scola, alla presenza dei protagonisti di tutta l’operazione, di un progetto-pilota finanziato con 100 mila euro dalla giunta veneta per indagare la dimensione e la percezione del problema "dipendenze in carcere".

Non solo, ma sempre ieri l’assessore regionale alle politiche sociali Sante Bressan ha inaugurato, all’interno della casa circondariale vicentina, quegli spazi dedicati per i gruppi di lavoro del Sert, per i quali si era impegnato quando era direttore dell’Ulss. Una conquista anche questa. Difficile ricavare degli ambienti in un carcere sovraffollato, eppure ora ci sono tre sale a disposizione. Ed è la dimostrazione che è partito un nuovo ciclo, in completa controtendenza rispetto al passato, quando fra carcere e territorio c’era chiusura totale.

Ora la volontà è di far uscire il carcere dall’isola e di creare un circuito operativo in cui il lavoro di équipe del Sert diventa un’autentica sfida specie per un’impresa che resta complessa come il reinserimento del detenuto nel dopo-pena. A testimoniarlo c’erano, con Bressan e il suo successore alla direzione del sociale dell’Ulss 6 Paolo Fortuna, l’assessore comunale Davide Piazza (che ha parlato della Bertoliana on line a vantaggio degli ospiti della casa circondariale, ma anche del kit di servizi per i detenuti che lasciano la casa), la direttrice dell’istituto di S. Pio X Irene Iannucci, il comandante Calogero Campanella e il direttore sanitario Salvatore Di Prima (i quali hanno tutti e tre evidenziato l’importanza del nuovo clima di collaborazione), nonché i responsabili dei Sert di quasi tutte le Ulss del Veneto e esponenti del volontariato sociale.

La premessa è che dal primo gennaio del 2000 sono passate al servizio sanitario nazionale funzioni che in precedenza venivano svolte dall’amministrazione penitenziaria, e che questo cambiamento ha indotto i Sert a ripensare la loro attività. Mancano però informazioni sulle iniziative avviate nei singoli istituti penitenziari, né esiste una omogeneità di programmi. E da qui parte la Regione per mettere a fuoco lo stato dell’arte e attivare percorsi modulati di cura, con un progetto che si svilupperà attorno a una serie di direttrici.

"La prima cosa alla quale puntiamo - ha spiegato Bressan - è il monitoraggio di tutto ciò che attualmente si sta facendo nelle carceri del Veneto sul fronte dell’assistenza. Questo perché, una volta tracciato un quadro di riferimento preciso, potremo elaborare linee-guida valide per tutti. Un secondo obiettivo - ha aggiunto - è lo scambio delle buone pratiche, perché, determinate azioni che hanno dato risultati positivi in un luogo, possano essere ripetute altrove. Un terzo obiettivo riguarda il reinserimento socio-lavorativo dei carcerati e lo sforzo che come Regione vogliamo operare in questa direzione attraverso la cooperazione per dare attuazione alla legge Biagi. E ci sono, infine, tutti gli interventi di animazione culturale e sportiva da portare avanti all’interno del carcere. Abbiamo predisposto dei bandi appositi e potranno partecipare Comuni e associazioni".

Insomma, come ha ribadito Balestra, i filoni principali del progetto sono due: tracciare una mappatura dell’attività socio-sanitaria a favore dei detenuti e individuare eventuali buone pratiche. Grande rilievo si darà allo scambio di esperienze specialistiche, alla sperimentazione di programmi ad hoc di prevenzione, cura e riabilitazione per i detenuti soggetti alle dipendenze, e alla divulgazione dei risultati. Il tutto da fare nel giro di neppure un anno e mezzo. Franco Pepe

Ancona: ex provveditore contro direttrice, assolto Bocchino

 

Corriere Adriatico, 15 marzo 2005

 

La corte d’appello assolve perché il fatto non sussiste l’ex provveditore degli istituti penitenziari delle Marche Felice Bocchino, e cancella la condanna arrivata in primo grado all’apice della parabola di tensioni con l’allora giovane reggente del carcere Santa Lebboroni. Tra il ‘97 e il ‘98 sono stati protagonisti di una contrapposizione che ha fatto scorrere veleni nella casa circondariale. Lo scontro arroventò tanto il clima da spingere la futura direttrice del carcere a denunciare il superiore per una censura che le aveva inflitto e che aveva il sapore - diceva lei - della vendetta. La Lebboroni aveva inviato al ministero di Grazia e giustizia una lettera per segnalare le anomalie e i probabili secondi fini di un’ispezione avvenuta il 9 ottobre del ‘97.

Bocchino la considerò un’offesa impossibile da digerire e non voleva lasciarla impunita. Il provveditore, mentre era a mezzo servizio fra Ancona e Milano, in missione per occuparsi delle carceri lombarde, aprì un procedimento disciplinare. La Lebboroni passò al contrattacco con una querela nella quale sosteneva che motivazioni di ripicca personale avevano ispirato la censura, in linea - accusava la direttrice - con un atteggiamento che da diverso tempo tendeva ad ostacolarla.

Il rimbrotto messo per iscritto ledeva la personalità della Lebboroni - costituita parte civile con l’avvocato Cristiana Pesarini - anche a parere dell’accusa, rappresentata dall’allora sostituto procuratore Vincenzo Luzi e del tribunale, che punì Bocchino con una condanna a quattro mesi di reclusione per abuso d’ufficio e a un risarcimento di dieci milioni per i danni morali sofferti.

"Ma è come se volessimo condannare l’arbitro di un partita di calcio sospettando di fare i suoi interessi personali solo perché espelle un giocatore che gli dà del venduto", aveva commentato a caldo la difesa rappresentata dall’avvocato Gianni Marasca. "Bocchino - aveva anche detto - non adottò quel provvedimento disciplinare per interesse personale ma per far rispettare le regole del gioco di cui era garante". Tesi presa per buona dai giudici di appello. E.C.

Trapani: la polizia penitenziaria prende in gestione l’aula bunker

 

La Sicilia, 15 marzo 2005

 

Sarà la Polizia penitenziaria a garantire la vigilanza, il controllo e l’identificazione delle persone che entrano nell’aula bunker annessa alla casa circondariale "San Giuliano" di Trapani.

È quanto ha deliberato il comitato provinciale dell’ordine della pubblica sicurezza, presieduto dal prefetto Finazzo. "Le autorità hanno finalmente decretato un legittimo riconoscimento alla professionalità della polizia penitenziaria", hanno affermato all’unanimità Francesco Di Malta, segretario provinciale della Cisl-Fps e Gioacchino Veneziano, segretario generale della Uil-pubblica amministrazione.

A Trapani sono, infatti, circa 350 gli uomini e le donne che operano nel corpo della Polizia penitenziaria dimostrando serietà e professionalità nonostante i numerosi problemi che affliggono la categoria. Tra le difficoltà, che si trascinano da anni senza trovare ancora soluzione, la Cisl-Fps e la Uil-Pa sottolineano la "carenza degli organici, la precarietà delle carceri e l’insufficienza dei fondi utili al pagamento degli straordinari e dei servizi di missione". Anche gli agenti della Polizia penitenziaria, mortificati nel loro lavoro da questi irrisolti problemi, hanno espresso grande soddisfazione per questo importante incarico nella speranza che, dopo il riconoscimento del loro ruolo professionale, si giunga anche alla risoluzione dei numerosi disagi. M.E.I.

Verona: studenti in carcere, per partite di calcio e pallavolo

 

L’Arena di Verona, 15 marzo 2005

 

Torna oggi Carcere e scuola l’iniziativa messa in piedi da Progetto carcere 663 e dal Csi arrivato alla sua diciassettesima edizione. Saranno 56 gli istituti superiori le cui classi quinte parteciperanno alle partite di calcio e pallavolo che si tengono fino a maggio nell’istituto di pena, tra studenti e detenuti, maschi e femmine. I numeri di questa manifestazione sono considerevoli: 593 studenti, 461 studentesse, 213 insegnanti, divisi in 44 incontri di calcio e 50 di pallavolo nella sezione femminile. A presentare la nuova edizione dell’iniziativa sono stati ieri pomeriggio il presidente del Progetto, Maurizio Ruzzenenti, Roberto Nicolis e Achille Coltro del Csi assieme al direttore Salvatore Pirruccio. Questa non è che la concretizzazione di un lavoro che va avanti da settembre, coinvolgendo ministero dell’Istruzione oltre a quello di Giustizia.

"Vogliamo fare in modo che i giovani capiscano che in carcere ci può finire chiunque, che qui non si viene a vedere "leoni in gabbia", ma gente qualunque la cui vita ha preso percorsi diversi, ma non paralleli a quelli di chi sta fuori", ha spiegato Ruzzenenti che ha avuto parole di ringraziamento per il personale di polizia penitenziaria che in questi giorni, dal lunedì al venerdì dovrà controllare tutte le persone che entrano nella struttura, perquisirle perché così è necessario.

"L’obiettivo del progetto non è soltanto quello dello sport", ha detto Nicolis, "che è spunto per riflessioni, è da questo che nascono i libri fatti con i temi dei ragazzi. Quest’anno, a distanza di cinque anni, verrà pubblicato il secondo volume, che sarà presentato il un convegno alla fine di aprile". "Questa iniziativa è importante per avvicinare il mondo scolastico e la società", ha sottolineato il direttore Pirruccio, "durante le partite, i giovani hanno modo di capire che si trovano davanti persone non diverse da tante altre. Anche le cronache recenti dimostrano che in carcere ci può finire veramente chiunque". A.V.

Lecce: "Regina Pacis", don Cesare Lodeserto si è dimesso

 

Corriere Adriatico, 15 marzo 2005

 

Dopo l’arresto avvenuto quattro giorni fa a Verona, don Cesare Lodeserto, presidente della fondazione Regina Pacis cui fanno capo due centri di accoglienza per immigrati in Italia e una in Moldova, si è dimesso dall’ incarico. La curia di Lecce ha quindi nominato responsabile della Fondazione don Attilio Mesagne, direttore della Caritas diocesana e dell’ufficio diocesano migrantes. Il nuovo responsabile ha annunciato che proseguirà il lavoro avviato da don Cesare "con la stessa passione, lo stesso entusiasmo e slancio, facendo in modo che quanto svolto in questi ultimi anni non vada perduto, annullato". Don Attilio ha detto di avere già incontrato le ragazze che sono ospiti della fondazione Regina Pacis a San Foca di Melendugno (Lecce) e di averle "trovate serene ma profondamente addolorate". "Mi hanno detto di essere sempre state trattate benissimo - ha detto - libere di uscire dal centro ogni volta che lo desideravano". "Mi auguro - ha concluso - che la giustizia faccia piena luce sull’accaduto ma che soprattutto lo faccia in tempi brevi".

Don Cesare Lodeserto è accusato di sequestro di persona, per avere trattenuto conto la loro volontà nel centro di accoglienza alcune immigrate dell’Est, di avere indotto un testimone a dichiarare il falso in un processo, di calunnia e di abuso dei mezzi di correzione. Il sacerdote è rinchiuso nel carcere di Verona dove questa mattina verrà ascoltato per rogatoria dal gip del Tribunale locale per l’interrogatorio di garanzia.

Droghe: nel 2005 potrebbero crescere le morti per overdose

 

Redattore Sociale, 15 marzo 2005

 

Nel 2005 potrebbero crescere i casi di morte per overdose. A lanciare l’allarme è Alessandro Coacci, direttore del Dipartimento delle Dipendenze della Asl 9 di Grosseto e recentemente nominato membro del gruppo di lavoro del Consiglio d’Europa che si occupa della redazione delle linee guida sui trattamenti per i giovani consumatori di sostanze stupefacenti.

"Secondo un rapporto delle Nazioni Unite si prevede, nel corso del 2005, un incremento significativo di morti per overdose sul territorio italiano - spiega il medico grossetano - la causa è da attribuire ad un aumento smoderato di produzione di eroina che supererà certamente la domanda. Inoltre i giovani che hanno abbandonato da anni l’assunzione di questa droga, si potranno trovare ad usare una sostanza con una percentuale di purezza molto elevata, con la conseguenza di fatali conseguenze come l’overdose. I consumatori sono abituati ad usare sostanze diverse dall’eroina, quali le cosiddette droghe ricreazionali, che difficilmente provocano overdose".

L’invito di Coacci a giovani e meno giovani è di non usare droga, e se proprio devono farlo di usarla con molta attenzione e moderazione. Ma l’esperto vuole mettere in guardia anche altre istituzioni: scuola, famiglia e quanti altri proposti alla prevenzione ed educazione dei giovani, in particolare i medici di medicina generale. "Le famiglie e la scuola devono vigilare - avverte Coacci – ci vogliono molte precauzioni ed attenzioni, anche da parte dei giovani.

Il nostro è un territorio dove gira molta gente che arriva da fuori, soprattutto in estate. Chi decide di acquistare droga deve fare molta attenzione alla provenienza, quella che viene da fuori è tagliata in modo diverso". L’allarme riguarda anche i medici di famiglia. "Chiedo ai medici di medicina generale di reinserire nella loro borsa delle fiale di narcan, l’unico farmaco antagonista dell’eroina - invita il direttore delle dipendenze - è probabile che nel corso dell’anno siano chiamati ad interventi di urgenza. L’overdose causa ipossia cerebrale, cioè mancanza di sangue ed ossigeno al cervello con successivo arresto cardiocircolatorio, se si interviene entro 3-5 minuti l’overdose è reversibile". Negli ultimi anni c’è stato un aumento dell’uso delle cosiddette droghe ricreazionali, che non causano overdose ma danni cerebrali permanenti. "Il mercato cambia ogni tre o quattro anni - commenta Coacci - allo scopo di essere sempre molto attraente ed accattivante, fino ad ora c’è un’offerta impressionante di cocaina e di ecstasy e suoi derivati, appunto le cosiddette droghe ricreazionali".

Enna: il vescovo entra in carcere per il battesimo di due detenuti

 

Vivi Enna, 15 marzo 2005

 

Battezzerà anche due giovani detenuti, tra cui un bulgaro, Mons. Michele Pennisi nella Casa Circondariale di Enna. La liturgia sarà celebrata dal Vescovo di Piazza Armerina nel corso di una celebrazione Eucaristica domani, mercoledì 16 marzo, in occasione della tradizionale Messa che il presule celebra annualmente con i detenuti ed il personale della vigilanza in preparazione alla Pasqua. Preparati dal nuovo Cappellano don Giacomo Zangara, che cura l’assistenza spirituale della struttura penitenziaria da qualche mese, riceveranno il sacramento della Cresima anche altri 12 giovani tra cui tre donne. Alla cerimonia parteciperanno il Prefetto di Enna, Carmela Edda Floreno, il Questore, Giorgio Jacobone e la Direttrice della Casa Circondariale Letizia Belelli.

"La detenzione - ha dichiarato il cappellano - si è rivelata una occasione di riflessione e scoperta della fede in modo particolare per i due giovani che riceveranno i sacramenti della iniziazione cristiana (battesimo, cresima, eucarestia), i quali hanno vissuto questo tempo di preparazione in modo intenso, con l’entusiasmo giovanile di chi scopre la bellezza della fede in Gesù Salvatore".

"Le mani in pasta", libro su coop. dei terreni confiscati alla mafia

 

Bandiera Gialla, 15 marzo 2005

 

Tutto ebbe inizio nel 1995 a Corleone dove Libera, l’Associazione presieduta da don Luigi Ciotti, inizia una raccolta di firme per sollecitare l’approvazione di una legge che preveda l’utilizzo sociale dei beni confiscati ai boss mafiosi. L’iniziativa si estende a tutta l’Italia e le firme raccolte arrivano ad un milione: "Indimenticabile il momento in cui Ciotti (in via d’Amelio, in un anniversario della strage che uccise Borsellino e gli uomini della sua scorta) scaricò quella montagna di firme sulle esili braccia dell’allora presidente della Camera Irene Pivetti, che da quel quintale di fogli rischiò davvero di rimanere travolta", così racconta Gian Carlo Caselli nella sua prefazione.

Nel 1996 viene finalmente approvata la legge 109 e da allora alcune centinaia di ettari di terreno confiscati alla criminalità organizzata sono stati recuperati da uno stato di completo abbandono e assegnati a cooperative sociali che li lavorano producendo pasta, vino, olio, passata di pomodoro, farina, frutta, ortaggi e legumi.

La legge 109 ha dato forte impulso sia alle confische dei beni che alla loro successiva destinazione: dal 1996 alla fine del 2003 sono più di 2.200 i soli beni immobili destinati allo Stato o ai Comuni: nei 12 anni precedenti la legge erano state solo 34.

"Le mani in pasta" ripercorre il cammino di queste cooperative, che da qualche anno lavorano questi terreni ottenendo prodotti che hanno un valore aggiunto particolare, che sono portatori di un valore immateriale, di un importante messaggio sociale, culturale e civile che li trasforma in prodotti simbolo: la legalità organizzata in contrasto e in alternativa alla criminalità organizzata.

Essere contro le mafie non è sufficiente: occorre anche "fare", contro le mafie; e antimafia del fare è uno dei concetti che Libera sta cercando di diffondere e affermare, perché la lotta alla criminalità non sia soltanto delegata alle forze dell’ordine e alla magistratura, non sia solamente opera di repressione ma sia interpretata dal singolo cittadino come superamento quotidiano, a partire dalle piccole cose, contro una cultura distorta che assegna alle mafie un potere prima ancora che esse stesse se lo prendano.

"Le mani in pasta" di Carlo Barbieri con prefazione di Giancarlo Caselli, è pubblicato da Editrice Consumatori. Il prezzo di copertina è cinque euro, tre dei quali saranno devoluti a Libera, Associazioni, Nomi e numeri contro le mafie di don Luigi Ciotti. Il libro è in vendita nei supermercati e ipermercati Coop; può anche essere ordinato, con pagamento contrassegno a:

 

Editrice Consumatori, telefono 051.63.16.911

oppure e-mail redazione@consumatori.coop.it

e sui siti internet www.e-coop.it e www.liberaterra.it

Filippine: terminata la rivolta nel carcere di Manila, 27 morti

 

Ansa, 15 marzo 2005

 

La polizia ha messo fine con un’incursione alla crisi durata 24 ore Manila, assalto al carcere in rivolta: 22 morti L’insurrezione, durante la quale sono state uccise anche 3 guardie, era guidata da uomini del gruppo estremista islamico Abu Sayyaf

Le forze di sicurezza filippine sono riuscite stamane a stroncare la rivolta durata quasi 24 ore di un gruppo di detenuti legati al gruppo terroristico di Abu Sayyaf, filiale locale di al Qaida, in una prigione di massima sicurezza di Manila: sul terreno sono rimasti complessivamente 27 morti, tra cui tre agenti della sicurezza.

Sono ventiquattro invece i prigionieri uccisi, tra cui tre dei principali dirigenti del gruppo di Abu Sayyaf, durante l’attacco sferrato contro il carcere da circa 300 agenti delle forze speciali: si tratta - ha detto la polizia - di Ghalib Andang, nome di battaglia Comandante Robot, Alhamser Limbong, alias Comandante Kosovo, e Nadjmi Sabdulla, Comandante Global, autori di attentati e di rapimenti. All’inizio della rivolta, altre cinque persone, tre guardie carcerarie e due detenuti erano morti durante i primi, sanguinosi, scontri. Il presidente filippino Gloria Arroyo si è complimentato con le forze di sicurezza, osservando che, purtroppo, date le circostanze e il fallimento della trattativa, un epilogo armato era inevitabile. Non ha però di fatto risposto alle prime critiche sull’alto numero dei morti, nonostante pochi rivoltosi fossero armati. Durante l’assalto finale, anche sei poliziotti sono rimasti feriti ed una bambina è stata intossicata dai gas lacrimogeni sparati nel blitz. Gli insorti si erano impadroniti ieri del secondo piano dell’edificio carcerario composto da quattro livelli: avevano ucciso tre guardie e si erano impadroniti delle loro armi. Chiedevano migliori condizioni di vita nella prigione e un processo più rapido. Secondo il governo si era però trattato di un tentativo di evasione fallito. In ogni caso era stato avviato un negoziato che però si era rivelato inutile. Nella notte, le forze speciali hanno sferrato l’attacco e sono entrate nell’edificio dalle porte d’ingresso e calandosi dal tetto.

Con l’aiuto di gas lacrimogeni e di colpi di fucile, hanno riconquistato il secondo piano durante un’operazione durata circa due ore e ritrasmessa dalla televisione. Il gruppo di Abu Sayyaf, fondato negli anni novanta con i soldi di al Qaida, è considerato uno dei gruppi terroristici più pericolosi del mondo (figura nella lista nera del Dipartimento di Stato americano) ed ha rivendicato le più sanguinose stragi avvenute negli ultimi anni nelle Filippine.

Immigrazione: 15 Cpt aperti in Italia, per 1.800 posti in totale

 

Articolo 21, 15 marzo 2005

 

I Centri di permanenza temporanea (Cpt) presenti attualmente sul territorio italiano sono 15, con una capacità complessiva di 1.822 posti: il più grande è a Roma, a Ponte Galeria, e può ospitare un massimo di 300 persone. Il più piccolo invece è a Napoli, con 54 posti. Gli altri sono ad Agrigento (110 posti), Bologna (95), Brindisi (180), Caltanissetta (96), Catanzaro (75), Crotone (129), Lecce (180), Milano (140), Modena (60), Ragusa (60) e Torino (78).

A questi, secondo gli ultimi dati forniti dal ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu poco più di un mese fa, si aggiungono due centri che svolgono funzioni di "primario soccorso e sostentamento": si tratta di quello di Lampedusa, che ha una capacità di 190 posti e quello di Lecce-Otranto, che può ospitare 75 persone. Altri 4 Cpt, infine, sono in fase di realizzazione. Sono a Bari (300 posti); Foggia (300); Perugia (300) e Trapani (220).

Proprio sulla necessità di costruire nuovi centri si è soffermato il titolare del Viminale nei mesi scorsi, chiedendo una "inevitabile assunzione di responsabilità" a regioni e autonomie locali. "Ritengo indispensabile - disse il ministro - potenziare gli attuali Centri di permanenza temporanea e di accoglienza, trasformandoli in nuovi centri polifunzionali, dedicati allo svolgimento delle attività amministrative e giurisdizionali previste dalla disciplina dell’immigrazione e dell’asilo". Per questo, aggiunse Pisanu, "i responsabili delle Regioni e delle autonomie locali sono chiamati ad una inevitabile assunzione di responsabilità: o collaborare con lo Stato favorendo la realizzazione dei centri, o esporre le collettività da loro amministrate ai rischi derivanti dalla presenza incontrollata o difficilmente controllabile di immigrati clandestini nei loro territori".

Introdotti dalla legge Turco - Napolitano del 1998 e riconfermati in blocco dalla Bossi-Fini nel 2002, i Cpt sono stati criticati in diverse occasioni da associazioni umanitarie, parlamentari e giuristi per le condizioni in cui vivono gli extracomunitari. Medici Senza Frontiere, presentando a gennaio di quest’anno il libro che riepiloga i risultati del rapporto che l’associazione realizzò dopo aver visitato tutti i Cpt d’Italia nel 2003, ha sottolineato che, di fatto, "il sistema è diventato un’estensione del carcere giudiziario: in media la popolazione è composta da ex detenuti".

Nei Cpt inoltre, sempre secondo Msf, vi sono "gravi violazioni del diritto d’asilo, mancanza di informazione legale, scarsa presenza dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu". Una situazione, dal punto di vista dei diritti, "intollerabile", senza contare il lato umano del problema con immigrati "ospitati in container freddi d’inverno e caldissimi d’estate oppure stipati in camere insufficienti all’interno di strutture fatiscenti". Nel 2004, secondo l’ultimo rapporto dell’Eurispes, nei Cpt sono state trattenute circa 14 mila persone, di cui ne sono state effettivamente rimpatriate circa 6mila.

Cina: sono minorenni il 19 % dei sospettati di crimini gravi

 

Asia News, 15 marzo 2005

 

In Cina, quasi il 19 % delle persone sospettate di reati nel 2003 erano minorenni: un aumento dell’11,8 % rispetto al 2000. I dati relativi alla criminalità minorile sono stati evidenziati da Huang Jingjun, delegato dell’Assemblea nazionale del popolo, che ne ha parlato dei durante la sessione plenaria. La criminalità minorile è inoltre di stampo violento.

Huang ha riportato l’esempio di un centro di detenzione minorile, in cui il 77 % dei detenuti sconta la pena per crimini violenti, mentre l’11 % per reati a sfondo sessuale. Nel suo rapporto all’Assemblea, il delegato ha parlato anche delle cause di questo disagio giovanile, che sono state individuate in scarsa scolarizzazione, mancanza di attenzione da parte dei genitori e nell’assenza di una legislazione preventiva nei confronti dei minori. Inoltre, sono sotto accusa la droga, oramai di facile reperibilità in Cina, e il facile accesso alla pornografia. Queste cause, per Huang, sono direttamente collegate al divario fra ricchi e poveri all’interno della Cina. Per il delegato, "un gran numero di giovani, senza compagnia e senza nulla da fare, gira per le strade senza alcun controllo. Diventano così una sorta di forza di riserva della criminalità minorile".

Xiao Yang, presidente della Corte suprema del popolo, ha invece riportato i dati relativi ai processi ed alle sentenze. In Cina, nel 2004, 145.000 persone sono state condannate a morte o a lunghe pene detentive. I condannati per reati "gravi" sono stati oltre 700.000, il 19 % dei quali ha subito la condanna a morte, al carcere a vita o comunque a pene superiori ai cinque anni di prigione. Il dissenso politico, anche se pacifico, rientra nel novero dei reati definiti "gravi". "Minacce" o messa a repentaglio della sicurezza statale è la formula giuridica con la quale il regime comunista cinese legittima la detenzione di dissidenti e oppositori.

 

 

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