Rassegna stampa 16 giugno

 

Trieste: muore a 30 anni nel bagno della cella, aperta inchiesta

 

Il Piccolo, 16 giugno 2005

 

Si chiamava Paolo Palma, aveva 30 anni, un figlio piccolo e una moglie. L’altra notte è morto all’improvviso nel bagno della cella del Coroneo che divideva con altri detenuti triestini. Avevano cenato, avevano chiacchierato, avevano guardato la tv. Poco dopo le 23 Paolo Palma è entrato nel bagno. Hanno sentito un tonfo, l’hanno trovato a terra. Hanno gridato, hanno chiesto aiuto, hanno cercato di rianimarlo con la respirazione bocca a bocca.

Sono accorsi gli agenti e il direttore Enrico Sbriglia. Poi sono arrivati gli infermieri del 118. Il tentativo di rianimarlo si è protratto per mezz’ora. Nulla da fare. È stato avvisato il pm Maurizio De Marco ed è arrivato il dottor Fulvio Costantinides, medico legale. Infine il direttore ha avvisato la famiglia.

Nelle prossime ore la Procura dovrebbe disporre assieme all’autopsia anche una serie di analisi tossicologiche. Paolo Palma, molti anni fa, aveva avuto a che fare con l’eroina e ieri notte per estrema precauzione gli uomini del 118 gli hanno iniettato anche del "Narcan", un antagonista degli oppiacei che, se assunti in dosi massicce, rendono difficoltosa la respirazione fino a bloccarla. Nulla però fa ritenere che Paolo Palma l’altra sera ne avesse fatto uso. Nella perquisizione della cella non sono state trovate né siringhe, né lacci, né cucchiaini. Palma si era curato al "Sert" con una terapia a scalare di metadone. Era uscito da quell’incubo e aveva ricominciato a vivere. Qualche mese fa gli era stata notificato un ordine di carcerazione per una antica condanna passata in giudicato. Era entrato al Coroneo con una borsa, ne è uscito in una bara di plastica grigia.

L’ipotesi più accreditata parla di un arresto cardiaco tanto improvviso, quanto non reversibile. Sarà l’inchiesta della magistratura a far chiarezza. "Non credo, anzi sono certo che la morte del detenuto non abbia nulla a che fare con la sua storia pregressa" ha affermato il direttore Enrico Sbriglia. "Vorrei sottolineare la grande disponibilità e umanità dei compagni di cella che si sono prodigati in tutti i modi per cercare di salvarlo". Martedì all’interno del Coroneo è stata una giornata difficile. Duecentocinquanta persone sono rinchiuse in una spazio destinato a 150. Inoltre un carcerato accusato di violenza contro le donne, ha aggredito un agente e lo ha spedito all’ospedale. Un altro detenuto proprio nel momento in cui Paolo Palma si è accasciato al suolo, si è sentito male ed è stato ricoverato d’urgenza al Maggiore. Ieri nel pomeriggio è entrato al Coroneo, come gli consente la legge, il consigliere regionale dei Verdi Alessandro Metz e si è incontrato con i detenuti e col direttore. "Conoscevo Paolo Palma" ha detto turbato, senza voler aggiungere altro.

Oristano: condannato a 3 anni per molestie sessuali, si uccide

 

L’Unione Sarda, 16 giugno 2005

 

Quell’accusa proprio non riusciva a sopportarla. Dopo la condanna a tre anni per abusi sessuali la sua vita si era trasformata in un dramma. Lui non si sentiva un pedofilo e per questo non è riuscito ad andare avanti. Si è chiuso nella sua casetta di campagna, alla periferia di Terralba, e si è sparato un colpo di pistola alla tempia. Prima di farla finita con la mano tremante ha scritto il suo testamento: "Sono innocente". Due righe tracciate in blu sulla pagina a righe di un’agenda che ha lasciato aperta sul tavolo di quel casolare. "Vi chiedo perdono, a tutti - ha scritto - Ero innocente e non potevo sopportare quest’accusa". I suoi giorni e le sue notti oramai trascorrevano con il solito assillo. I giudici lo avevano considerato colpevole di aver abusato sessualmente di una bambina di sette anni e lui non riusciva più a vivere sereno. Tutto sarebbe successo durante un pranzo di famiglia, quando l’operaio si sarebbe abbassato i pantaloni davanti agli occhi della bimba. Poi la denuncia, le manette, un lungo processo.

E la condanna a tre anni che lui, però, aveva preso male. Peggio ancora l’interdizione dai pubblici uffici che, per un operaio comunale, significa perdere il lavoro a 57 anni. Un altro guaio per un uomo sposato e padre di due figli. Dietro quel corpo forte e robusto c’era un animo fragile, che evidentemente non è stato capace di affrontare il resto delle sue giornate. Si vergognava, ma in aula non era stato in grado di dimostrare la sua innocenza. Era dura, troppo, per lui andare in giro e incrociare lo sguardo dei compaesani che passeggiavano sul marciapiede. Risentire i pettegolezzi dei vicini di casa e portarsi appresso mille e più interrogativi. Lo diceva sempre che verso quella bambina provava soltanto affetto. Invece, secondo i giudici, avrebbe abusato di lei. I suoi, raccontava ai parenti, erano tutti sentimenti veri, profondi, che nulla avevano a che fare con i pensieri di un pedofilo. Eppure in tribunale non gli hanno mai creduto e lo hanno condannato a tre anni di carcere. "Ero molto malato e non ho avuto la fortuna di vedere i miei nipoti crescere - ha aggiunto nel suo ultimo pensiero scritto in blu - Viviate bene senza di me.

Addio a tutti: chiedo perdono a Dio". Poi un colpo secco, sparato con una pistola usata normalmente per ammazzare i maiali. Un solo proiettile per cancellare i tormenti che gli avevano reso la vita impossibile. Per chiudere il conto con un’esistenza difficile ha scelto di morire da solo, in mezzo alla campagna. Ogni tanto, nei momenti di sconforto, lo diceva che non ce l’avrebbe fatta ad andare avanti ancora a lungo.

Nessuno riusciva a confortarlo perché essere considerato da tutti un pedofilo ti distrugge giorno dopo giorno. E infatti, a 57 anni compiuti, l’ex operaio ha preferito farla finita, spararsi in testa piuttosto che convivere con quel pensiero fisso, con il rischio di tornare in carcere e passare altre notti d’angoscia lontano dai suoi. I familiari si erano preoccupati l’altra sera perché non rientrava a casa e lo hanno trovato steso in terra, con il cuore già fermo. Nelle due righe scritte su quell’agenda c’era tutta la spiegazione. E un’eredità pesante: "Sono innocente". Nicola Pinna

Cagliari: regione intende nominare il Garante dei detenuti

 

Redattore Sociale, 16 giugno 2005

 

La Sardegna potrebbe dotarsi, tra le prime regioni italiane, di una Autorità di controllo e di garanzia dei diritti delle persone private della libertà personale. Si tratta di una "nuova figura" istituzionale con il compito anche di controllare che negli istituti di pena sardi vengano rispettati i diritti dei singoli, che le condizioni minime d’igiene, le norme sanitarie, le attività per il recupero di chi ha sbagliato siano di "decente livello". Le indagini conoscitive sugli istituti di pena della Sardegna, compiute dalle competenti Commissioni del Consiglio regionale, in questa e anche nella precedente legislatura, hanno, infatti, messo a nudo una situazione drammatica, al limite dell’inciviltà, hanno fatto emergere situazioni che gli stessi consiglieri hanno giudicato "indecorose, se non addirittura illegali". Uno stato di fatto denunciato, anche recentemente, dalla commissione permanente dell’Assemblea regionale, Diritti Civili e Politiche Comunitarie, presieduta da Palo Pisu, che ha approvato numerosi documenti e risoluzioni, inviati al Governo centrale e alla Giunta regionale, ma che non hanno portato, per ora, ad iniziative concrete, in grado di modificare questa difficile situazione. Per cercare di rendere meno difficili le condizioni dei detenuti la commissione ha avviato l’esame di una proposta di legge, la n. 59, presentata da Nazareno Pacifico (Ds) con la quale si propone l’istituzione dell’"Autorità garante delle persone private dalla libertà personale".

La nuova Autorità, un organo collegiale costituito da un presidente e da due membri, eletti dal Consiglio regionale, avrà, tra l’altro, il compito di promuovere gli strumenti necessari per migliorare le condizioni di detenzione, attivare forme di controllo nei luoghi di privazione della libertà personale, favorire meccanismi di tutela dei diritti fondamentali delle persone detenute. "Un organo di grande importanza civile, morale e giuridica, ha detto Nazareno Pacifico illustrando il provvedimento, che servirà per riportare a una situazione più tollerabile anche gli istituti carcerari sardi". La commissione, dopo un primo, veloce, esame, ha nominato lo stesso Pacifico relatore "interno del provvedimento", affidandogli il compito di illustrare, in una prossima seduta, tutti gli aspetti più significativi ma anche complessi, per la delicatezza dei rapporti con gli organi dello Stato che operano nel delicato settore della Giustizia, dell’importante provvedimento.

Varese: Pisanu; niente può giustificare la xenofobia

 

Ansa, 16 giugno 2005

 

Nessuno può farsi giustizia da sé. Nemmeno il più atroce dei delitti può giustificare reazioni razziste o xenofobe nei confronti degli immigrati". Il ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, interpellato dall’Ansa, torna sulla vicenda di Varese. "Già l’altro giorno l’avevo detto con chiarezza, ma evidentemente non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire". "Dati alla mano, insisto nel dire che l’immigrazione clandestina è un grave, crescente pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico nel nostro Paese e che pertanto deve essere contrastata e controllata efficacemente nel rispetto delle leggi e convenzioni internazionali", ha detto il ministro dell’Interno.

"Continuo a sperare - ha sottolineato Pisanu - che il Parlamento mi chiami a riferire dettagliatamente sull’immigrazione, anche in vista, se lo riterrà opportuno, di sue specifiche decisioni di indirizzo". L’omicidio di Besano è diventato così anche un caso politico e mediatico non solo locale, tanto che il presidente leghista della Provincia di Varese, Marco Reguzzoni, si è spinto a parlare di "una campagna di aggressione del tutto inaccettabile a Varese e al suo territorio; si vuol far passare una provincia intera come intollerante e razzista.

E questo non è vero, questo è un territorio ospitale". E il leghista Calderoli chiede la massima fermezza: "Serve il rigore assoluto. Sto pensando a una cauzione per ottenere il rilascio del visto d’ingresso in Italia di ogni immigrato". Anche i sindacati hanno deciso di entrare nel dibattito, lanciando un appello alla "fermezza e ai valori della legalità e della civile convivenza", contestando invece i politici che lunedì erano scesi in piazza a Varese con la Lega Nord "dando copertura - sostengono Cgil, Cisl e Uil - ad una vera e propria caccia alle streghe".

"Basta con le affermazioni buoniste di chi vuol far passare le vittime e gli amici delle vittime come razzisti e i colpevoli come semplici sventurati, basta con le carceri sovraffollate da immigrati clandestini che vengono in Italia solo ed esclusivamente per delinquere". Lo afferma Viviana Beccalossi, vicepresidente della Regione Lombardia annunciando che si muoverà per chiedere se è possibile "inasprire ulteriormente le pene di chi non rispetta la Bossi-Fini". "Anche in questa occasione - ha aggiunto - come già accaduto per lo stupro consumato qualche giorno fa da una banda di romeni a Milano, chiedo a chi sarà chiamato a giudicare un crimine tanto efferato, di applicare la legge in maniera ferrea e con il massimo della severità". "A chi punta l’indice contro le affermazioni del ministro Pisanu - continua Viviana Beccalossi - desidero ricordare, rispondendo con dati del Ministero dell’Interno, che il 50% dei reati nelle più importanti regioni d’Italia è commesso da immigrati clandestini.

Da cittadina, prima ancora che da rappresentante delle Istituzioni, preferirei che questi assassini, al pari di tutti gli immigrati clandestini che commettono reati in Italia, fossero rispediti subito e per sempre nei loro Paesi". "Sono disgustata nel pensare che parte delle tasse dei contribuenti siano destinate per pagare loro avvocati d’ufficio e il mantenimento in carcere - ha concluso - Sono certa che, come me molti altri italiani, preferirebbero, anche a costo di non saper quale sarà il destino di questi delinquenti, esser sicuri che non verranno mai più in Italia piuttosto che correre il rischio di ritrovarceli liberi tra qualche anno ad insidiare nuovamente la nostra vita e quella dei nostri figli". È un clima del tutti contro tutti, insomma, a scandire la vigilia dei funerali di Claudio.

Una ridda "Si è creato un clima da caccia alle streghe che non fa bene alla convivenza civile e a chi dovrebbe accogliere in un certo modo gli extracomunitari". È il commento di Giovanni Ingrascì, procuratore della Repubblica dei minorenni, sul clima di tensione che si è creato a Varese dopo l’omicidio del barista di Besano Claudio Meggiorin. Per la vicenda è coinvolto anche il 17enne albanese, Fatjon, arrestato e ora interrogato dai magistrati minorili di Milano. "Non è possibile - ha detto Ingrascì - distinguere un albanese da un varesino, quando si uccide qualcuno. Non riesco a distinguerli per provenienza, razza o clandestinità: li distinguo solo per quello che fanno". Il procuratore della Repubblica dei minorenni ha spiegato che chi ha commesso un reato viene giudicato "a prescindere dalla provenienza e con serenità".

Quanto alla caccia all’albanese che si è scatenata a Varese, Ingrascì ha aggiunto: "è deprecabile che ci siano episodi che sono fondamentalmente razzisti". Riguardo alle parole del ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, il magistrato ha precisato di non essere d’accordo: "Non può generalizzare una situazione e collegare in modo automatico l’ingresso clandestino di extracomunitari in Italia alla delinquenza e alla criminalità. Ovviamente ci sono clandestini che commettono reati, come del resto anche gli italiani. Noi dobbiamo garantire la sicurezza e che chi commette i reati venga punito. Ma questo vale per tutti". Tante voci e commenti, che ieri la mamma del barista ucciso, Elisa, ha deciso di troncare con un secco commento davanti ai giornalisti che da giorni stazionano a Besano: "Qui si sta travisando tutto, meglio non parlare più". Il messaggio della famiglia è chiaro: "Nessuno vuole vendette, ma cerchiamo tutti di non coinvolgere in un fatto tragico cose che non c’entrano nulla".

Brasile: 5 detenuti uccisi durante rivolta in carcere

 

Agi, 16 giugno 2005

 

Cinque detenuti decapitati da altri detenuti ammutinati, costituiscono il bilancio di sangue di una rivolta protrattasi per 30 ore nel carcere Presidente Venceslau, 620 chilometri a ovest di San Paolo del Brasile: una rivolta che ha avuto momenti di autentico orrore, quando le teste delle vittime sono state impalate ed esibite sulle mura fortificate del carcere. Dopo lunghe e difficili trattative, i rivoltosi sono stati convinti a rilasciare, sani e salvi, i 20 ostaggi che avevano catturato, fra i quali 11 guardie carcerarie. Tutto è cominciato quando una banda formatasi fra i detenuti nel carcere ha aggredito gli appartenenti ad una banda rivale.

Tutto era stato organizzato su iniziativa di esponenti del Primo Comando della Capitale (PCC), organizzazione criminosa dedita al traffico di droga, che opera nelle carceri dello stato di San Paolo. I cinque detenuti sono stati "condannati a morte" dall’organizzazione criminosa, evidentemente per un regolamento di conti malavitoso. Il carcere è rimasto devastato dalla rivolta, ma 11 guardie carcerarie, che erano state catturate in ostaggio, sono state rilasciate incolumi.

Bologna: disobbedienti bloccano camion con i pasti per i Cpt

 

Emilianet, 16 giugno 2005

 

Una settantina di disobbedienti da questa mattina prima delle 11 sta bloccando un centinaio di camion in uscita dalla ditta "Concerta" di Trebbo di Reno (Bologna), che fornisce tra l’altro pasti pronti ai centri di permanenza temporanea di Bologna e Modena. Lo fa sapere un portavoce del gruppo, Domenico Mucignat. Sempre secondo quanto riportato da Mucignat, i dimostranti, che espongono cartelli e striscioni per la chiusura dei Cpt, avrebbero fatto passare i convogli diretti a scuole e centri anziani. I disobbedienti sono fronteggiati da uno schieramento di alcune decine di agenti di polizia e carabinieri. Il portavoce dei disobbedienti riferisce anche di contatti con un dirigente dell’azienda, che si sarebbe impegnato a riportare al consiglio di amministrazione di "Concerta" la richiesta dei dimostranti di non partecipare più ai bandi di concorso per l’erogazione del servizio pasti ai Cpt.

Giorgio Dragotto, Presidente del Gruppo di Forza Italia nell’Assemblea legislativa dell’Emilia -Romagna, interviene in merito alla "crociata" dei Presidenti di Regione del centro-sinistra, contro i Cpt: "Di fronte agli ultimi fatti di cronaca e considerando che un terzo dei detenuti nelle nostre carceri è costituito da immigrati (dati del Ministero degli Interni), è da irresponsabili proporre di chiudere i Centri di permanenza temporanei per accogliere i clandestini - centri istituiti dalla legge Turco-Napolitano - senza, peraltro, avanzare alcuna proposta alternativa.

I Cpt sono strutture irrinunciabili, per lo meno fino a quando i numerosi accordi internazionali stipulati dal Governo Berlusconi per arginare i flussi di irregolari e per favorirne il rimpatrio, non saranno pienamente attuati dai nostri partner". Il Consigliere stigmatizza: "La gestione dei Cpt non spetta alle Regioni e sollevare un conflitto istituzionale contro il Governo su questo tema è deleterio". L’azzurro, infine, rivolge un invito al Presidente Errani: "Nella sua duplice veste di Governatore e di Presidente della Conferenza dei Presidenti, Errani dia corso ai suoi impegni di mandato e si spenda per fermare l’ennesima "crociata" ideologica contro il Governo Berlusconi lanciata dalle componenti più radicali e massimaliste del centro-sinistra".

Roma: medici di Rebibbia indagati per la morte di un detenuto

 

Adnkronos, 16 giugno 2005

 

Non si accorsero che il detenuto soffriva di un tumore al cervello: la diagnosi fatta dai sanitari si riferiva invece a una patologia psichiatrica. Con il deposito degli atti il pubblico ministero Antonella Nespola ha concluso un’inchiesta che vede indagato un gruppo di medici del carcere di Rebibbia tra i quali anche il direttore sanitario Sergio Fazioli per omicidio colposo in seguito alla morte di un detenuto Francesco Marone di 42 anni. Secondo quanto è emerso dall’inchiesta i medici non si accorsero che il detenuto soffriva di un tumore al cervello. La diagnosi fatta dai sanitari si riferiva invece a una patologia psichiatrica. Quando le condizioni peggiorarono fu deciso il trasferimento di Marone all’ospedale Sandro Pertini ma non ci fu nulla da fare e qui l’uomo morì nel febbraio dello scorso anno.

Su denuncia dei famigliari verrà aperta un’inchiesta e nel registro degli indagati furono iscritti 12 medici che nelle occasioni più diverse si erano occupate di Marone. Quanto al direttore sanitario gli si contesta di non aver provveduto a far sostituire un encefalografo, pur essendo a conoscenza del suo cattivo funzionamento; di non aver seguito l’evolversi delle condizioni del detenuto e di non aver seguito le terapie adottate dai medici che hanno sottoposto a visita il detenuto. Entro 20 giorni i difensori dei medici indagati potranno depositare memorie o documenti e sollecitare una nuova attività istruttoria poi il magistrato deciderà se chiedere il rinvio a giudizio degli indagati.

Brescia: storia in carcere, in cattedra il sindaco Corsini

 

Giornale di Brescia, 16 giugno 2005

 

La proficua collaborazione avviata da tempo tra l’amministrazione comunale e la casa circondariale di Brescia, ha prodotto ieri mattina un nuovo, significativo, momento di socializzazione e di confronto tra il mondo esterno e la realtà del carcere.

Ieri mattina il sindaco Paolo Corsini, su invito della direttrice Maria Grazia Bregoli, delle Associazioni di volontariato che operano all’interno di Canton Mombello, nonché degli stessi detenuti, ha tenuto una vera e propria lezione sul tema "Sessantesimo anniversario della Liberazione: la Resistenza", storia e interpretazioni al cospetto di una folta platea di detenuti e nell’ambito dei percorsi formativi ed educativi della Casa circondariale.

La direttrice della Casa circondariale ha sottolineato: "Desidero ringraziare il sindaco Corsini per il suo prezioso contributo e per la autorevole testimonianza che ha voluto renderci: un intervento profondo, di grande spessore umano e culturale, ma allo stesso tempo comprensibile a tutti. La sua non è stata solo una lezione di storia, ma una vera e propria lezione di educazione civica, che ha posto all’attenzione di tutti i valori della convivenza associata, l’universalismo dei diritti, la loro affermazione e il loro rispetto, temi di grande rilevanza e attualità anche all’interno dell’istituzione carceraria. Temi importanti, dunque, sui quali ognuno ha potuto sviluppare la propria riflessione personale. L’auspicio - ha concluso la direttrice - , è quello di poter reincontrare presto il sindaco Corsini, se possibile all’inizio del nuovo anno scolastico". Al termine dell’incontro i detenuti di Canton Mombello hanno consegnato al sindaco Corsini una lettera nella quale sottolineano come "La sua presenza in carcere è molto gradita, anche perché dal primo cittadino fortemente voluta" e ricordano come "anche in carcere c’è dignità e sete di cultura".

Scrivono i detenuti: "Il suo interessamento per noi, per i nostri problemi e per quelli del carcere ci fa piacere: lei non è solo il sindaco di Brescia, ma anche il nostro sindaco, perciò già da ora la invitiamo a venire ancora tra di noi, con i suoi insegnamenti molto preziosi e magari per portarci qualche buona notizia per il miglioramento della nostra vita carceraria".

Perugia: protocollo per il reinserimento lavorativo dei detenuti

 

Vita, 16 giugno 2005

 

Partecipano all’accordo, tra gli altri, la provincia di Perugia, il Provveditorato regionale per l’Umbria dell’amministrazione penitenziaria, Casa circondariale di Perugia. Favorire l’orientamento, la formazione professionale e l’inserimento lavorativo dei detenuti e agevolare le imprese e le cooperative che intendono assumere soggetti sottoposti a misure penali: sono queste le principali finalità del protocollo d’intesa firmato oggi dalla provincia di Perugia, dal Provveditorato regionale per l’Umbria dell’amministrazione penitenziaria, Casa circondariale di Perugia, Casa di reclusione di Spoleto, comuni di Perugia e Spoleto, Centro di servizio sociale per adulti di Perugia e di Spoleto. "È uno strumento importante" ha sottolineato l’assessore provinciale al Lavoro, Giuliano Granocchia, "voluto dalla provincia e realizzato attraverso un percorso di concertazione tra le parti. È frutto di confronto e rientra nel ruolo svolto dalle istituzioni verso i soggetti più deboli, che vanno tutelati a livello economico e politico".

Viterbo: all’ospedale Belcolle potenziato reparto per detenuti

 

Garante regionale dei detenuti, 16 giugno 2005

 

Grazie all’intervento del Garante Regionale dei Detenuti Angiolo Marroni passano da 2 a 4 i medici in servizio nel nuovo reparto Detenuti dell’ospedale Belcolle di Viterbo. A deciderlo una delibera della Direzione Generale della Asl viterbese che ha parzialmente modificato la prima dotazione organica. Nel nuovo reparto - che sarà attivato nel giro di un paio di mesi, come dichiarato nei giorni scorsi dal nuovo assessore regionale alla Sanità Augusto Battaglia - presteranno servizio in tutto 17 sanitari: quattro medici, un collaboratore sanitario esperto infermiere e dodici collaboratori professionali sanitari infermieri.

"Le carenze sanitarie e le drammatiche attese per ogni tipo di esigenza, anche quelle minime, sono una delle emergenze del sistema carcerario nazionale - ha detto Angiolo Marroni -. Ci sono detenuti che aspettano mesi per una visita. Per questo saluto con favore la prossima apertura del reparto detenuti a Viterbo. Ringrazio la sensibilità del Direttore Generale della Asl di Viterbo, che ha voluto ascoltare le nostre proposte. Con questa dotazione organica il reparto per detenuti del "Belcolle" si candida a diventare modello e punto di riferimento per la sanità carceraria del Lazio".

 

 

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