Rassegna stampa 4 gennaio

 

Sulmona: dalla direttrice al sindaco, tante morti misteriose

 

Corriere della Sera, 4 gennaio 2004

 

In quindici anni ce ne erano stati tre soltanto di suicidi. Appena tre i detenuti che dal 1984 al 1999 si sono tolti la vita dentro il carcere di Sulmona. Un supercarcere di massima sicurezza, oltre quattrocento i detenuti rinchiusi. Negli ultimi quindici mesi, però, con quattro suicidi filati è esplosa la statistica. O forse è esplosa una maledizione. Che ha un preludio per via di un suicidio decisamente particolare: nell’aprile del 2003, nei giorni di Pasqua, è la stessa direttrice del supercarcere che si toglie la vita nel suo alloggio che era dentro al penitenziario.

Armida Miserere aveva 47 anni si è sparata alla testa. Il 14 ottobre del 2003 si suicida Diego Aleci, 41 anni del clan di Cosa Nostra. Pochi mesi dopo, il 28 giugno del 2004 tocca a un altro mafioso: Francesco Di Piazza, 58 anni, del clan di Giovanni Brusca.

Anche Camillo Valentini, sindaco di Roccaraso, si toglierà la vita con i lacci delle sue scarpe da tennis il giorno dopo ferragosto del 2003. Era in carcere da nemmeno 48 ore, pronto per l’interrogatorio con il gip per via di una storia di tangenti.

Napoli: giovani non arrendetevi, il crimine non paga mai

 

Il Mattino, 4 gennaio 2004

 

Ha trascorso una vita a guardare negli occhi i criminali, piccoli e grandi, tutti a chiedergli un permesso per uscire dal carcere, dall’inferno di Poggioreale. Li fissava a fondo per capire se si poteva fidare, se erano in buona fede, se sarebbero tornati spontaneamente dietro le sbarre dopo aver riassaporato la libertà o avrebbero scelto la latitanza. Pochi lo hanno deluso.

Quella di Salvatore Iovino, 76 anni, ex giudice di sorveglianza a Napoli e procuratore capo a Potenza, è stata un’esperienza utilissima prima nei lavori preparatori e poi nella stesura della legge Gozzini, la norma che tendeva a un carcere più umano, alla rieducazione, al reinserimento del detenuto nella società dopo aver pagato il proprio debito con la giustizia.

Ora Iovino è in pensione, ma l’impegno per la legalità è rimasto e non ci ha pensato due volte ad accettare l’incarico di Difensore civico di Saviano, terra difficile, dove è nato, e dove ha deciso di continuare a vivere. Perché ha scelto di fare il magistrato? "Lo sognavo da piccolo. Mio padre mi voleva medico ma io mi iscrissi a giurisprudenza. Dopo la laurea, con tesi in Diritto civile, ho fatto un solo concorso: quello in Magistratura. Il primo incarico è stato a Milano, dove ho conosciuto mia moglie Franca che è di Pavia. Sono stato anche in Sicilia, a Gela.

Sono tornato a Napoli come sostituto procuratore e poi presidente del tribunale di sorveglianza. Poi ho chiuso la carriera come procuratore capo a Potenza". Cos’è un carcere? "È una cosa terribile, che ti segna tutta la vita, che spesso non rieduca ma abbrutisce. Il nostro compito è quindi quello di cercare di alleviare le sofferenze, cercando di mantenere viva in ogni detenuto la speranza di giorni migliori e di prepararli al ritorno in famiglia, nella società, magari dove potranno condurre una vita normale, ritrovare gli affetti e stare lontani dal crimine. In questo senso va la legge Gozzini e le facilitazioni che si concedono a chi si comporta bene".

Ma spesso chi esce dal carcere lo fa per delinquere ancora. "Nella stragrande maggioranza dei casi non è così, ma fa notizia solo chi ottiene un permesso e una volta fuori commette un crimine. Ricordo il caso di un detenuto che aveva accumulato 27 permessi perché dentro si comportava in modo esemplare. Un giorno, ottenuto il consueto via libera, venne beccato dopo aver commesso un omicidio. Si scatenò il putiferio con accuse senza fine contro il giudice di sorveglianza che firmò il permesso. Qualcuno addirittura mise sul banco degli imputati la legge Gozzini, cercando di rimetterla in discussione. È sbagliato reagire così, dove per colpa di qualcuno si spegne la speranza di molti altri che intendono davvero cambiare strada.

Voglio comunque sottolineare che per un giudice di sorveglianza è molto difficile decidere. Non avendo prove per poter stabilire se il detenuto è in buona fede o meno, si può affidare solo all’esperienza, all’intuito. Sono responsabilità pesanti, che espongono il giudice a possibili procedimenti disciplinari e alla fine succede che per timore magari si sceglie di non concedere nulla, anche di fronte a casi gravi, come quelli di malati costretti a rimanere in carcere quando invece avrebbero bisogno di cure in centri specializzati".

Una vita dura, carica di preoccupazioni: è riuscito a ritagliarsi uno spazio per un hobby? "Mi piace il calcio e sono tifosissimo del Saviano. Una volta seguivo il Napoli: ricordo gli anni prima della guerra. Amo anche la musica sinfonica, da camera: le mie giornate sono scandite dalle note, dal suono degli strumenti a fiato: clarinetto, oboe, flauto, corno e fagotto. Mio padre era diplomato al Conservatorio e insegnava clarinetto e sono cresciuto con quella passione, anche se non ho mai imparato a suonare uno strumento. Quello che faccio, invece, è scrivere: mi diletto a raccontare sia con libri che sui giornali locali. Racconto vecchie storie, le gesta degli antichi personaggi del mio paese e del quartiere dove vivo, il rione Croce". È molto legato a Saviano?

"Legatissimo. Tranne il periodo milanese sono rimasto sempre qui, senza rimpianti. Conosco tutti e ho un rapporto fantastico con la gente, laboriosa e onesta". Ma Saviano è anche terra di boss. "La violenza non esiste solo a Saviano, ma in tutta Napoli e provincia. L’importante è non lasciarsi coinvolgere o condizionare da chi tenta di sopraffarti. Qualcuno può dire che parlo così perché il mio compito è stato sempre quello di combattere la malavita. Posso dire invece che a Saviano la maggioranza dei cittadini la pensa come me: siamo persone di principio e non ci fa paura nulla, né le minacce né la violenza e andiamo decisi per la nostra strada".

Di Saviano è diventato difensore civico. "È un’esperienza positiva, ma spesso i cittadini fraintendono. Molte volte ti vedono non come chi può far valere i loro diritti ma come una specie di "potente" che può dispensare favori, intervenire per un posto di lavoro o altro. Inutile dire che al primo accenno a qualcosa del genere chiarisco che il mio compito è quello di combattere le ingiustizie e che raccomandazioni e favori sono cose illegali".

È cambiata la camorra in questi anni? "Moltissimo, come del resto mafia e ‘ndrangheta: cambiamenti veloci, superiore al mutamento della società. I criminali, spesso menti finissime, utilizzano strumenti sofisticati per meglio delinquere. E poi adesso c’è tanta ricchezza a portata di mano. Un carico di droga può farti immediatamente ricco e i soldi sono potere, forza, capacità di corrompere, di assoldare uomini per la lotta ad altri clan.

Killer, gregari, fiancheggiatori se hanno la possibilità di fare il salto di qualità non ci pensano due volte ad abbandonare i vecchi capi, a mettersi in proprio, a eliminarli. Non esiste più la vecchia figura del boss, dell’uomo di rispetto che rimaneva sulla breccia trent’anni: ora si uccide, si fa terra bruciata e le nuove leve seguono il vincitore. Il cambiamento si nota anche nel riciclaggio del danaro sporco: i padrini ora si servono di persone al di sopra di ogni sospetto per reinvestire i proventi del crimine: costituiscono società gestite da elementi al disopra di ogni sospetto, difficilissimi da individuare e colpire".

Quindi la gente ha ragione quando pensa che la camorra sia invincibile? "I cittadini hanno ragione a essere amareggiati e preoccupati per tutto questo sangue, spesso innocente, ma non debbono avere paura: il male non potrà mai prevalere sul bene. È una questione di tempo, di strategia, ma alla fine lo Stato vince sempre". E qual è la strategia giusta? "Sbaglia chi pensa che è solo una questione di repressione, di una maggiore presenza di forze dell’ordine.

Il lavoro deve partire dalla società, dalla scuola. Chi non va a scuola oggi, può facilmente entrare nell’orbita della malavita. Bisogna combattere sul nascere l’evasione scolastica, attuando un’azione profonda anche con un’attenta educazione alla legalità. Gli adulti devono dare il buon esempio, a cominciare dalle piccole cose: rispetto della viabilità, delle norme che regolano il deposito dei rifiuti. Il ragazzo che imparerà oggi a rispettare la legge, domani la saprà difendere.

C’è poi da affrontare la drammatica questione occupazionale, primo passo per togliere braccia alla malavita". Che consiglio dà ai giovani? "Non si debbono abbattere di fronte a nulla, tutto si aggiusta e nella vita si può recuperare. Si devono impegnare nello studio, perché l’istruzione è importantissima, più di tutto: i soldi non valgono nulla in confronto al sapere. La ricchezza può svanire da un momento all’altro: la bravura, l’intelligenza, la preparazione mai. Puoi diventare povero ma l’intelligenza ti rimarrà e potrai così risalire la china".

Napoli: la rinascita della città nelle mani dei ragazzi

 

Il Mattino, 4 gennaio 2004

 

A Secondigliano e Scampia ci sono posti che sono come buchi neri, posti dove sembra che il sole e nemmeno la luce arrivino mai. Sono angoli di strada presidiati dai pusher della camorra, garage dove ci si scambia pasticche e bustine e che mettono i brividi solo ad avvicinarsi, palazzi inaccessibili a chi non è riconosciuto dal sistema , come lo chiamano loro. Però ci sono anche posti dove il sole è come se splendesse ogni giorno, anche in pieno inverno, quando piove a cascate o quando è calato il buio.

Da fuori sembrano qualcosa di familiare: portoni in legno massiccio, vetri colorati e sfaccettati, una croce su in cima. Da fuori sembrano soltanto chiese. Dentro ci sono uomini che combattono una battaglia quotidiana, la combattevano prima che scoppiasse la faida e continueranno a combatterla quando questa storia sarà finita. Si chiamano don Fabrizio, don Vittorio, padre Luigi. E le loro case, le loro parrocchie accolgono i bambini e i ragazzi del quartiere, bambini e ragazzi che spesso vengono da famiglie dove il crimine è pane quotidiano.

Don Fabrizio Valletti è un sacerdote romano che da tre anni lavora a Scampia, parroco della chiesa di Santa Maria della Speranza. Da lui ci sono giorni in cui si riuniscono anche ottanta bambini, oltre a quelli del quartiere ci sono molti rom che vengono dai campi nomadi della zona, posti dove il degrado di Scampia sembra lusso.

Parlando dei suoi ragazzi, don Fabrizio dice che "nascono già segnati, perché, se non trovano qualcuno che li fa studiare, che li indirizza su una strada diversa da quella già tracciata per loro dal destino, finiscono inevitabilmente nelle mani della camorra".

 

Quanti ne ha conosciuti che abbiano fatto quella fine?

"Troppi. Non i bambini, ma forse soltanto perché sto qui da poco tempo e, quindi, non sono cresciuti ancora abbastanza. Ma ragazzi sì. Venivano da me e poi un giorno non li ho visti più. Spariti. Li ho ritrovati quando sono usciti dal carcere".

 

Un’esperienza che può segnarli per sempre.

"Un’esperienza direi familiare. Il carcere fa parte della loro vita, magari per anni non hanno visto il padre perché era dentro, normale, per loro, andarci a finire, prima o poi".

 

Da dove inizia per aiutarli a scegliersi un altro futuro?

"Proprio da qui, dal cercare di dargli la consapevolezza che il futuro è nelle loro mani, che sono loro la speranza di questo quartiere".

 

È dura, vero?

"È come remare sempre e solo controcorrente. Con il rischio continuo che il lavoro fatto per mesi e anni venga vanificato in un solo giorno".

 

Il nemico peggiore è l’ambiente criminale?

"Non solo. Ci sono anche l’ignoranza e l’analfabetismo. La lontananza da qualunque forma di vita sociale. Qui vivono bambini che non hanno mai visto il mare".

 

Ma hanno sicuramente visto un camorrista.

"Ogni giorno. Perché la camorra è la più grande organizzazione economica di questo territorio. Provvede ai bisogni, dalla casa a tutto il resto. E tocca a noi impedire che provveda anche al futuro dei nostri bambini".

Guantanamo: prigionieri usati come "cavie per esperimenti"

 

Reporter Associati, 4 gennaio 2004

 

Dopo le rivelazioni dell’australiano David Hicks sulle torture sofferte nel campo di concentramento di Guantanamo dove era rinchiuso, e che ha parlato di misteriose iniezioni che gli venivano somministrate durante la prigionia, l’avvocato parigino di Nizar Sassi e Maourad Benechellali, due dei detenuti di nazionalità francese liberati lo scorso luglio, ha rivelato che i suoi clienti sospettano di essere stati vittime di "esperimenti scientifici" protrattisi durante la detenzione. Jacques Debray su Le Nouvel Observateur scrive che Sassi e Benechellali sono stati obbligati a ingerire medicinali sospetti e si chiede se i prigionieri di Guantanamo non siano davvero vittime di "esperimenti medici "di natura sconosciuta, ambigua e inquietante

Solo adesso i due prigionieri francesi hanno accettato di raccontare quanto loro accaduto a Guantanamo, afferma Debray.

La DST, i servizi di sicurezza francesi, per tutta risposta hanno pubblicamente ribattuto che era preferibile tacere questi aspetti della prigionia di Sassi e Benechellali almeno fino a quando altri prigionieri di nazionalità francese si troveranno ancora detenuti nella base militare Usa di Cuba.

I due francesi liberati l’estate scorsa hanno descritto, in presenza del loro avvocato, che nella base di Guantano avvenivano fatti del tutto simili a quelli denunciati dalle immagini del carcere iracheno di Abu Ghraib. E ricordano che una volta giunti nella base di Guantanamo furono accolti da alcuni militari americani che, non appena scesi dall’aereo, gli urinarono addosso ridendo.

Durante la detenzione hanno rivelato di essere stati interrogati un centinaio di volte e spesso, prima degli interrogatori, erano costretti a passare davanti a una sala dalla quale provenivano delle grida strazianti di altri detenuti sotto interrogatorio. Nizar ha poi raccontato di essere stato rinchiuso in un locale pieno di specchi dove faceva un freddo terribile e incomprensibile, se non provocato artificialmente, dato il clima costante di Cuba. Inoltre, ha concluso, vi erano stanze dalle quali proveniva una musica terribilmente molesta e assordante.

I due ex detenuti di Guantanamo hanno parlato di "medicinali strani" che hanno dovuto ingerire. Una volta Nizar svenne dopo averli inghiottiti e, al suo risveglio, ebbe l’impressione di essere rimasto senza conoscenza per un paio di giorni. Non sapevano che medicinali gli venissero somministrati e il perché di quelle terapie, ma ambedue hanno rivelato di detenuti che si riempivano completamente il viso e il corpo di bolle, pustole e foruncoli subito dopo le iniezioni.

Nizar e Benechellali si continuano a chiedere se non siano rimasti vittime di "esperimenti medici". I flaconi dei medicinali apparivano numerate con numeri progressivi con etichette adesive applicate sul vetro delle confezioni ma senza nessuna specifica del nome e dei principi attivi dei farmaci.

Ripetutamente venivano sottoposti a visite molto approfondite da parte dei medici del campo che, dopo averli visitati annotavano a mano su alcuni registri le loro impressioni e chiedavano poi ai due detenuti come si sentissero fisicamente e se consideravano di aver ancora una buona memoria. Al di fuori di queste pratiche di "sperimentazione" non ricevevano alcuna assistenza medica se richiesta da loro: Nizar, ad esempio, ha dovuto aspettare un anno per poter essere visitato da un dentista. Nizar e Benchallali hanno poi affermato che a Guanatanamo vi è la presenza di un numero impressionante di psichiatri ed esistono delle vere e proprie "unità riservate" dove si svolgevano "pratiche mediche" che portavano i prigionieri ad "impazzire".

Gli esperimenti medici sui prigionieri, come ha ribadito l’avvocato parigino dei due ex detenuti di Guantanamo, sono assolutamente proibiti dalla Convenzione di Ginevra e dalla Convenzione contro la Tortura.

David Hicks, uno dei pochi detenuti che ha potuto avvalersi dell’assistenza di un avvocato fin da quando era prigioniero nel Campo di Guantanamo perché cittadino australiano, ha rivelato nei giorni scorsi, in una dichiarazione giurata, di essere stato sottoposto "a forza" all’assunzione di medicinali e all’inoculazione via endovena di sostanze sconosciute. In una dichiarazione resa pubblica dal suo difensore in Australia, Hisks ha spiegato con precisione di particolari le forme di tortura sofferte da parte dei suoi carcerieri, spiegando che questi gli picchiavano la testa contro l’asfalto, dopo averlo bendato, durante le sessioni di interrogatorio che si protraevano per molte ore consecutive.

Non ricevevano cibo e, sostiene ancora Hisks, erano costretti a correre con le gambe incatenate fino a lacerarsi la pelle e la carne delle ginocchia. Hisks, 29 anni, catturato mentre combatteva nell’Afghanistan dei Talebani è stato rinchiuso a Guantanamo nel gennaio del 2002. Sostiene di essere stato picchiato con i pugni e con i calci dei fucili, come si legge nel documento diffuso alla stampa australiana, vivendo praticamente sempre sotto l’effetto di potenti sedativi che gli venivano somministrati, anche questi, "a forza".

Spesso, durante gli interrogatori comparivano alcuni appartenenti alla "Internal Reaction Force" (IRF) una specie di squadrone militare usato dai carcerieri per terrorizzare con l’uso di cani i detenuti. Era, questa, una pratica tanto comune che i prigionieri, tra loro, chiamavano queste azioni "essere irfati".

Hicks ha poi concluso il suo racconto, ricordando come per otto mesi non abbia potuto vedere la luce del sole, rimanendo bendato continuamente per tutti gli otto iniziali mesi di prigionia. Le rivelazioni diffuse da Hicks e dai suoi avvocati in Australia, e i pesanti sospetti sulle pratiche di tortura ancora sconosciuti praticati all’interno del Campo di Guantanamo sono stati resi pubblici subito dopo una relazione della Croce Rossa Internazionale che ha denunciato senza mezzi termini i medici che all’interno del campo aiuterebbero i torturatori della base militare nelle sedute di interrogatorio dei prigionieri.

Il documento conferma la stretta collaborazione di numerosi medici con i "tecnici" della tortura. Il sistema creato dal Pentagono e dalla CIA a Guantanamo non lo si può considerare diversamente da una sistematica e scientifica forma di "tortura permanente" e particolarmente crudele, così come ha commentato il New York Times dopo essere entrato in possesso di una copia del documento della Croce Rossa.

La Croce Rossa ha messo per scritto la responsabilità dei medici militari Usa e degli infermieri che si comportano come dei consulenti negli interrogatori più duri per agire sulla vulnerabilità psicologica dei detenuti, violando così in maniera lampante l’etica e la deontologia professionale. Il NYT scrive inoltre che gli "esperti in tortura" di Guantanamo possono contare sulla presenza di un team di specialisti chiamato "The Behavioral Science Consultacion Team", ("Gruppo di consulenza della scienza del comportamento"), chiamato familiarmente dai militari addetti agli interrogatori "Biscuit".

Il campo di prigionia di Guantanamo è comandato dal generale Usa Jay W. Hood, e il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha diffuso una circostanziata denuncia contro il comandante accusato di essere il diretto responsabile delle pratiche di tortura applicate sistematicamente contro i detenuti del Campo. Il dossier è stato inviato riservatamente alla Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di Stato. Al momento senza aver ricevuto alcuna risposta.

 

L’Fbi conferma

 

Indirettamente, ma anche l’Fbi ha confermato attraverso alcuni messaggi diffusi dalla ACLU - American Civil Liberties Union - l’orrore che nascondono le reti di ferro che circondano i compound dei prigionieri nella base di Guantanamo. "Ho visto un detenuto seduto sul pavimento di una sala per gli interrogatori costretto ad avvolgersi in una bandiera israeliana, con una musica altissima e i flash di uno stroboscopio che gli illuminavano il viso" ha raccontato un agente dell’Fbi ai suoi superiori in un messaggio segreto datato 30 luglio 2004.

Il risultato ottenuto dalla relazione di questo agente è che l’Fbi ha secretato i nomi dei suoi agenti che controllano la vita e sovraintendono agli interrogatori nella base di Guantanamo e quindi cancellato le date e l’entità di quello che l’Fbi stessa definisce "numerosi incidenti" avvenuti nel Campo. Rivelando comunque che molti agenti e analisti del Federal Bureau hanno partecipato fino ad oggi a ben 747 interrogatori di prigionieri di Guantanamo.

"In varie momenti sono entrato nelle sale degli interrogatori e ho incontrato i detenuti che erano incatenati in posizione fetale al suolo, senza sedie o acqua, la maggioranza di loro apparivano sudici di urina e delle proprie feci. Mi resi conto che quegli uomini erano verosimilmente in quelle condizioni da non meno 18-24 ore" ha rivelato uno degli agenti dell’Fbi autore della relazione segreta che è stata riferita a Reporter Associati, a Jacques Debray e a Jean-Guy Allard di Granma Internacional.

Un altro funzionario dell’Agenzia ha dichiarato a conclusone delle medesima relazione interna dell’Fbi di aver visto un detenuto in stato di incoscienza chiuso in una stanza dove la temperatura superava i 38 gradi. Accanto al prigioniero una gran quantità di capelli sul pavimento.

Il detenuto, scrive il funzionario dell’Fbi, si sarebbe strappato con le proprie mani tutti i capelli nella notte precedente l’inizio del suo interrogatorio.

Myamar: governo annuncia liberazione di altri 5.588 prigionieri

 

Ansa, 4 gennaio 2004

 

Annunciata la liberazione di prigionieri in Birmania. Il governo militare birmano ha annunciato domenica 2 gennaio di aver liberato 5.588 prigionieri in occasione del prossimo anniversario della festa per l’Indipendenza nazionale celebrata il 4 gennaio. Sale così a 19.906 il numero dei detenuti liberati nelle ultime sei settimane. "I prigionieri sono rilasciati per buona condotta e per i servizi resi allo Stato durante la loro detenzione e per onorare il 57° anniversario

dell’Indipendenza" ha annunciato la giunta militare al governo dalla radio pubblica. La maggior parte dei detenuti messi in libertà dalle autorità di Rangoon dopo il 18 novembre sono accusati di reati minori.

Nelle tre precedenti amnistie, la radio ufficiale di Rangoon ha spiegato che i prigionieri sono stati rilasciati per irregolarità commesse dal NBI, Ufficio nazionale d’informazione, organo d’intelligence militare, attualmente soppresso. A tutt’oggi le cifre delle persone liberate non hanno potuto essere verificate da fonti indipendenti.

Sarebbero una cinquantina i prigionieri politici sul totale delle persone scarcerate, stando alle informazioni diffuse dai partiti d’opposizione, tra cui il partito nazionale per la democrazia (LND) di Aung San Suu Kyi. La maggioranza di costoro però sono detenuti comuni. Tra i dissidenti liberati compaiono tre uomini la cui liberazione è stata più volte richiesta da organizzazioni

per la difesa dei diritti umani: Min Ko Naing, studente tra gli organizzatori delle più grandi manifestazioni pro democrazia a partire dal 1988; Htwe Myint, anziano vice presidente del partito d’opposizione "Partito della Democrazia" e i presidente dello stesso partito, Thu Wai, entrambi liberati dopo abbondanti 9 anni di prigionia.

Queste liberazioni a opera della giunta militare sembrano marcare una linea di rottura con la precedente era del generale Khin Nyunt, il primo ministro e capo del temuto servizio di informazioni militare, liquidato il 18 ottobre scorso dal resto della giunta per corruzione.

Il NBI è stato uno dei settori fondamentali del servizio di intelligence che ha permesso a Khin Nyunt, oggi agli arresti domiciliari, di affermare il proprio potere.

Con le recenti liberazioni tuttavia sembra che il nuovo assetto della giunta militare cerchi di attirare a sé qualche benevolenza internazionale dopo le aspre critiche in seguito alla recente decisione

di prolungare ancora di un anno gli arresti domiciliari al leader Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace. A tutt’oggi nel Paese sono detenuti in "campi di rieducazione" una quarantina di prigionieri politici. Amnesty International ha recentemente reso pubblica una stima secondo cui il numero totale dei prigionieri politici ammonterebbe a 1300 nel Paese governato con il pugno di ferro da un’oligarchia militare dal 1962.

Roma: club di calcio romani donano maglie ai detenuti

 

Il Messaggero, 4 gennaio 2004

 

Si susseguono le iniziative nei giorni che precedono la grande sfida capitolina, in programma giovedì sera all’Olimpico. Domani pomeriggio, alla vigilia del derby, Lazio e Roma insieme faranno visita ai detenuti del carcere romano di Regina Coeli.

L’incontro è stato fissato per le ore 16,30. L’idea è stata dal presidente biancoceleste Claudio Lotito che ha coinvolto anche la società giallorossa la quale, di buon grado, ha sposato l’iniziativa del club laziale, accordando la propria adesione. La Roma sarà rappresentata dall’amministratore delegato Rosella Sensi. Insieme ai dirigenti delle società parteciperanno all’incontro con i detenuti anche due personaggi politici: Publio Fiori, presidente del club dei laziali alla Camera e l’onorevole Cento, presidente del club dei romanisti.

"Si tratta di un’iniziativa importante per stemperare le rivalità della stracittadina in modo da arrivare alla sfida di giovedì con la serenità e lo spirito che devono caratterizzare queste partite - ha spiegato il presidente Lotito - un’occasione importante per portare un saluto, da parte delle due società romane, a tanta gente che si trova in carcere ma che è sempre vicina allo sport e alle sorti di Lazio e Roma in particolare. Tutti devono fare la propria parte per aiutare gli altri". Lazio e Roma regaleranno ai detenuti di Regina Coeli delle magliette e dei gadget delle due squadre.

Roma: Marroni, contro la criminalità un tavolo permanente

 

Adnkronos, 4 gennaio 2004

 

L’istituzione di un "tavolo permanente deve diventare un punto di riferimento strategico, istituzionale ed operativo per la lotta e la prevenzione dei fenomeni criminali che interessano soprattutto la zona di Fregane".

È quanto chiede il consigliere regionale dei Ds e Garante regionale dei detenuti, Angiolo Marroni, per contrastare i fenomeni di microcriminalità nella zona di Fregene, nel comune di Fiumicino, in provincia di Roma. "Molti cittadini di Fregene - spiega Marroni - stanno vivendo, da oltre due anni, una grave situazione dovuta al ripetersi di attività criminali con l’aumento dei furti nelle case e nelle ville, specie nel periodo invernale ed autunnale quando la città è abitata solo dai residenti".

Palestina: voto ai detenuti, Anp ricorre a Corte Suprema

 

Ansa, 4 gennaio 2004

 

Giovedì prossimo la Corte Suprema israeliana discuterà del ricorso presentato dall’Autorità nazionale palestinese (Anp) contro la decisione di Israele, che ha negato ai detenuti palestinesi il diritto di votare prossime elezioni presidenziali. Il provvedimento interessa oltre settemila persone.

Il ministro palestinese che si occupa delle questioni dei prigionieri palestinesi, Hisham Abdel Razek, ha condannato la decisione, mentre l’avvocato israeliano Zvi Rish, che ha presentato il ricorso per conto dell’Anp, ha sottolineato come "ai detenuti israeliani sia riconosciuto il diritto democratico al voto e non ci sia nessun valido motivo per negarlo ai palestinesi". Per Abdel Razek, Israele potrebbe mirare a influenzare l’esito della prossima consultazione elettorale palestinese.

Sulmona: avvocato, suicidio dimostra sbaglio condanna

 

Ansa, 4 gennaio 2004

 

"Purtroppo questa volta Guido Cercola è riuscito ad uccidersi dopo essersi tagliato le vene la scorsa primavera: avrebbe dovuto essere controllato meglio. Ma andrà avanti lo stesso la domanda di revisione della sua condanna all’ergastolo per la strage del Rapido 904, un crimine che non ha commesso e per il quale non tollerava di stare dentro da sei anni dopo aver scontato un’altra condanna a dodici anni".

Così Corrado Oliviero, avvocato di Guido Cercola - l’ergastolano suicidatosi stamani nel carcere di Sulmona - ha reso noto che il suo assistito non era la prima volta che tentava di farla finita e che presto chiederà alla Corte di Appello di Genova di riaprire il processo per la strage del 23 dicembre 1984.

L’avvocato Oliviero - che difende anche il cassiere della mafia Pippo Calò, per il quale pure presenterà istanza di revisione per la condanna per la strage del rapido Napoli-Milano - ha aggiunto che "gli stessi pentiti di Cosa Nostra, e parliamo di centinaia di collaboratori, non hanno mai attribuito alla mafia la strage del treno: la pista seguita da investigatori e giudici è sempre stata sbagliata e il suicidio di Cercola ne è la dimostrazione".

Giustizia: pdl di An, ergastolo per chi attenta al premier

 

Ansa, 4 gennaio 2004

 

L’attentato contro il presidente del Consiglio va punito con l’ergastolo, analogamente a quanto prevede il codice penale per chi attenta al presidente della Repubblica: è l’obiettivo di una proposta di legge messa a punto da Gennaro Coronella, avvocato cinquantenne della provincia di Caserta e parlamentare di An che estende al premier le disposizioni che tutelano la figura del Capo dello Stato.

Il testo, che sarà presentato alla Camera mercoledì prossimo, intende "introdurre i reati di attentato, offesa alla libertà e al prestigio commessi nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri". L’offesa alla libertà del presidente del consiglio sarà punito con la reclusione da cinque a quindici anni, mentre l’offesa al prestigio con la reclusione da uno a cinque anni.

"Con la mia proposta - spiega - si intende colmare un vuoto normativo presente nel nostro ordinamento penale, che non disciplina ipotesi delittuose specifiche per i reati commessi contro la persona del presidente del Consiglio. Gli articoli 276, 277 e 278 del vigente codice penale prevedono giustamente pene particolarmente severe per fattispecie delittuose commesse nei confronti del Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità della Nazione".

"La mancanza di disposizioni specifiche che tutelino l’incolumità, la libertà e il prestigio del presidente del Consiglio - sottolinea Coronella - è certamente una lacuna ordinamentale che va colmata. La persona del capo del Governo, per il ruolo e le responsabilità che ricopre nella politica interna ed internazionale, necessita certamente di una più solida tutela giuridica, similarmente a quanto avviene negli altri Paesi".

Taranto: denuncia sovraffollamento, trasferiti 70 detenuti

 

Ansa, 4 gennaio 2004

 

"Nel solo mese di dicembre sono state trasferite 70 unità dal carcere di Taranto. Un numero importante; altre unità si apprestano ad essere trasferite". Lo ha dichiarato il neosottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali che oggi, insieme col sindaco di Taranto, Rossana Di Bello, ha compiuto una visita nel carcere del capoluogo jonico, e incontrato il direttore della struttura Luciano Mellone.

Tra la fine di novembre e i primi di dicembre il sindaco, con i parlamentari dell’area jonico-salentina, aveva sollevato il problema del sovraffollamento nel carcere di Taranto. Il sindaco - ha precisato Vitali incontrando i giornalisti in municipio - inviò una lettera al ministro Castelli "per sollecitare un suo intervento, che c’è stato e per il quale io ho fatto da tramite".

"La mia prima visita qui - ha aggiunto Vitali - è per dare atto di una cosa concreta realizzata grazie all’interessamento di tutti, e soprattutto del sindaco di Taranto" Il sottosegretario ha poi annunciato che a breve scadenza Taranto otterrà l’autonomia della corte di appello, ora dipendente da Lecce.

"Venne garantita dal ministro Castelli nel convegno svoltosi a Taranto qualche mese fa - ha ricordato in proposito Vitali - e ora il provvedimento si trova al voto dell’aula del Senato. Credo che alla ripresa sarà tra i primi provvedimenti ad essere approvato dal Senato, poi andrà alla Camera dove l’iter sarà molto agevole. Mi auguro entro i prossimi mesi di poterlo far approvare".

Candido Cannavò, l’uomo che dà un nome ai numeri

di Sergio Segio

 

Vita, 4 gennaio 2004

 

Con il suo Libertà dietro le sbarre, l’ex direttore della Gazzetta dello Sport è entrato nel carcere di San Vittore e ha raccontato le storie di persone vere.

Parlando di carcere, inevitabilmente si finisce per parlare di cifre, perché in maniera più appariscente testimoniano del fallimento delle politiche (e delle culture) con cui (non) si fa fronte alla questione penale e a quella dell’esclusione sociale. Cifre, peraltro, assai poco note: siamo infatti arrivati alla notevolissima cifra di 175mila persone sottoposte a misure penali: 55mila sono quelle mediamente presenti in carcere in un qualsiasi giorno dell’anno, cui ne vanno sommate 30mila in affidamento sociale e 15mila in detenzione domiciliare, nonché altre 75mila, già condannate, in attesa di misura alternativa ai sensi della legge Simeone-Saraceni.

Numeri quadriplicati dall’inizio degli anni 90, quando in carcere vi erano meno di 30mila reclusi e in affidamento sociale meno di 4mila. el resto, come ha ammesso (anzi, rivendicato) il ministro Castelli, la tendenza e il modello seguiti sono quelli Usa, dove le cifre sono le più alte nel mondo: due milioni in carcere e altri cinque sotto controllo penale all’esterno.

La legge Cirielli-Vitali, con la sua logica del "tre reati e sei spacciato", recentemente approvata dalla Camera, è un ulteriore passo in questa direzione. Una logica sostanzialmente condivisa sia dal centrodestra che dal centrosinistra.

I numeri dunque sono importanti per capire lo sfascio e l’ingiustizia del pianeta carcere e, all’opposto, quanto di radicalmente diverso occorrerebbe fare. Ma altrettanto lo sono i volti, i nomi, le storie di chi nelle celle vive, e spesso muore.

Candido Cannavò, con il suo libro Libertà dietro le sbarre - Cronache da un carcere. La vita, la pena, la speranza ha dato un raro, e dunque ancor più prezioso, contributo a raccontare chi c’è dietro quelle alte e impenetrabili mura. Donne, bambini, giovani e anziani: una folla di sommersi, di senza giustizia e troppo spesso senza alternative e opportunità. Un campionario di umanità dolente e bistrattata.

Restituire loro, come Cannavò ha fatto, la dignità di essere considerati individui e non numeri, persone e non problemi, vite, con tutti i loro errori, le sfortune, i sogni e i bisogni, e non anonimi prodotti di quella impietosa macchina schiacciasassi che è il sistema penale e giudiziario, è opera non solo meritoria in sé ma anche utilmente smitizzante. Capace di incrinare il muro della paura, assai più robusto di quello che cinta le prigioni, costruito mattone dopo mattone dal pregiudizio e dall’indifferenza sociale. Dalla non conoscenza e, quindi, dal rifiuto.

Ma oltre che per il suo libro, per la sua potente capacità di comunicare e modificare i luoghi comuni dell’opinione pubblica, di riavvicinare i lembi dell’umanità di ciascuno aiutandolo a riconoscere l’umanità di qualsiasi altro, credo che Cannavò meriti l’Oscar del sociale 2004 anche perché ha saputo dire, in quest’anno, alcune piccole verità, solitamente occultate. Ne ricordo in particolare due. Quando, intervistato da Vita, ha definito l’indultino "una presa per il culo" e quando ha affermato che, di cose del carcere, il ministro della Giustizia pare non saperne granché.

Sulmona: i molti misteri del carcere dei suicidi…

 

Il Messaggero, 4 gennaio 2004

 

Guido Cercola, 60 anni, condannato definitivamente all’ergastolo nel 1992 per la strage del "Rapido 904" dell’antivigilia di Natale del 1984, si è tolto la vita l’altra notte nel carcere di via Lamaccio a Sulmona. La modalità, quella tristemente collaudata delle carceri: lacci delle scarpe legati alla finestra del bagno e nodo scorsoio alla gola.

È finita così, con qualche minuto d’agonia, la vita del braccio destro di Pippo Calò, il "cassiere" della mafia, che si trovava nell’area di massima sicurezza del penitenziario sulmonese. A scorgere il corpo esanime è stato un agente della Polizia penitenziaria, al momento del controllo serale, che ha subito dato l’allarme: ma per Cercola non c’era più nulla da fare, anche se si è tentato tutto per rianimarlo. Aveva chiuso la sua vita ed i suoi conti con la giustizia, non senza un codicillo polemico: si sente dire dell’esistenza di un documento che avrebbe lasciato per il suo avvocato, nel quale attaccherebbe la Commissione Stragi. Sull’esistenza di questo documento e sul suo contenuto non si sa nulla di più. La salma di Cercola si trova all’obitorio, a disposizione della magistratura, per le indagini del caso.

Questa la cronaca scarna dell’ennesimo suicidio: sembra ormai diventato un terribile leit-motiv del penitenziario sulmonese, dove si sono tolti la vita nel 2003, in ottobre, l’altro ergastolano Diego Aleci, killer della "stidda" e della mafia, nel 2004, a giugno, Francesco Di Piazza, pure ergastolano e ritenuto componente del clan mafioso di Giovanni Brusca e soprattutto Camillo Valentini, sindaco di Roccaraso che, dopo nemmeno due giorni di detenzione, la notte prima di essere interrogato dal Gip si uccise con una busta di plastica.

La morte di Valentini suscitò immenso clamore perché accadde in piena estate, il 16 agosto, e fu seguita da un’ispezione del Ministero della Giustizia che fece luce sulle ombre sinistre che si erano allungate sul carcere, chiarendo senza il minimo dubbio che di suicidio si era trattato e che non c’erano state né "leggerezze" né "superficialità" da parte del direttore del carcere, Giacinto Siciliano, persona oltretutto di professionalità e di un’umanità non comuni, e del personale della struttura carceraria. Un’ispezione sarà avviata anche stavolta, da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Certo a pesare sul carcere di via Lamaccio c’era, oltre alle morti per suicidio dei detenuti, anche la vicenda della direttrice Armida Miserere, che pose fine ai suoi giorni con un colpo di pistola alla tempia, proprio nella sua residenza nell’istituto. Per chi vuol creare un alone di mistero e quasi di maledizione, di materiale ce ne sarebbe a iosa. Ma la verità è un’altra, meno misteriosa, meno intrisa di "giallo" di quanto si possa pensare.

Tra quelle mura, spesso, sul foglio matricolare del detenuto, accanto all’espressione "fine pena" c’è una parola fredda come la lama di un rasoio: "mai". Come dire ergastolo, come dire che da quella cella, soprattutto per reati (come la strage del "Rapido 904" che portò alla morte di 16 persone ed al ferimento di altre 267) non si esce tanto facilmente! E allora può accadere che, dopo anni e anni di carcere, come era il caso di Cercola, quando la mente è ancora lucida e la privazione della libertà pesa come un macigno su chi è in cella, l’animo crolli e si ceda alla disperazione.

Al momento questa sembra essere l’unica chiave d’interpretazione di questo ennesimo suicidio. Guido Cercola il 23 dicembre aveva vissuto il ventesimo anniversario di quella maledetta giornata della strage nella solitudine della sua cella e, forse, deve essersi chiesto quale sarebbe stato il suo futuro, quale la sua vita scandita dai controlli degli agenti di custodia, addolcita solo dagli incontri ricorrenti con i familiari. Deve aver deciso che questo non gli bastava più e che era meglio chiudere il capitolo della vita, non gli importava di soffrire per qualche minuto pur di farlo. E l’ha fatto.

Cercola era entrato nel giro della mafia come braccio destro del "tesoriere" Pippo Calò, in un momento in cui la strage, in particolare con i treni per oggetto, era diventata una micidiale forma di terrorismo. "L’organizzazione mafiosa dovette compiere un gesto clamoroso e gravissimo al fine di distogliere momentaneamente da essa l’impegno repressivo ed investigativo dello Stato" si legge nella sentenza della Corte di Appello di Firenze del 14 marzo 1992 (pagine 198-199). Cercola ha scritto la parola fine su una vicenda di cui si è definita la parte finale, quella relativa alla strage, ma di cui non riusciremo mai a capire le motivazioni che avevano spinto quest’uomo a entrare, lui che viveva in una realtà completamente avulsa dall’ambito mafioso in senso stretto, in un’organizzazione micidiale come la mafia.

Dal carcere di via Lamaccio non esce parola sull’ennesimo suicidio. La magistratura ha fatto e sta facendo tutte le sue rilevazioni per chiarire fino in fondo i contorni di questo episodio che, comunque, stride con una realtà carceraria che realizza in un mese 180 "pigotte" per l’Unicef e una mostra di pittura per beneficenza. Ma forse tutto questo fa parte della discrasia che il carcere rappresenta nella società.

Sulmona: 5 suicidi in due anni nel "carcere della morte"

 

Il Messaggero, 4 gennaio 2004

 

Quando hanno aperto la cella era ancora vivo, rantolava, il collo stretto alle sbarre dai lacci delle scarpe. È morto poco dopo in ospedale, senza riprendere conoscenza, Guido Cercola, 60 anni, ergastolano del braccio speciale del supercarcere di Sulmona. Carcere della morte come ormai tutti lo chiamano. Unico condannato, con il mafioso Pippo Calò, per la strage al treno di Natale del 23 dicembre 1984. Sul tavolo ha lasciato un messaggio, carico di rabbia e di risentimento contro gli inquirenti, in particolare contro la Commissione stragi di Giovanni Pellegrino che non ha mai creduto alla sua protestata innocenza. Il quinto suicidio in poco più di due anni, tra cui quello della direttrice Armida Miserere, che alla vigilia di Pasqua del 2003 si è sparata un colpo alla testa. Ma questa forse è un’altra storia.

"Non era depresso, nessuno ha mai sospettato che potesse uccidersi, Guido Cercola era un detenuto tranquillo, perfettamente socializzato, seguito come tutti gli altri dal nostro personale, anche medico", si affanna a sostenere il nuovo direttore Giacinto Siciliano. Eppure Cercola, che nel carcere di Sulmona ha trascorso gli ultimi sei anni, aveva provato ad uccidersi già quattro mesi fa: era riuscito a tagliuzzarsi le vene forse con un coltello, forse con una lametta. Ma perché in un carcere come questo, detenuti a rischio continuano ad avere coltelli, lamette o stringhe di scarpe? È quanto dovrà accertare la Procura di Sulmona, che ha aperto l’ennesima inchiesta. Quella sul suicidio del sindaco di Roccaraso, Camillo Valentini, che si è impiccato il 16 agosto scorso, giace ancora lì, in un mucchio di fascicoli, senza essere approdata a nulla.

In ogni caso, nessuno aveva creduto che Guido Cercola avesse davvero intenzione di uccidersi. Gli inquirenti hanno pensato a un gesto dimostrativo, forse per sollecitare quella riapertura dell’inchiesta sulla strage dell’84 sostenuta da tempo ormai anche dalla Commissione Mitrockin, in virtù di nuove segnalazioni giunte dagli ex servizi segreti della Germania Est. Spiega l’avvocato Corrado Oliviero: "È vero, abbiamo presentato istanza contro la condanna definitiva in Cassazione. Nessuno dei mille pentiti di mafia, in questi anni, ha mai fatto cenno ai retroscena di questo attentato. Possibile? Di contro abbiamo documenti importanti secondo i quali la strage fu organizzata da Carlos".

Un pentito di mafia in realtà in questa vicenda c’è. È Tommaso Buscetta e delle sue indicazioni tenne gran conto il procuratore Vigna. La bomba esplose pochi mesi dopo il ritorno del pentito dei Due Mondi in Italia: le indagini contro la criminalità organizzata stavano decollando, il terrorismo era in calo. Qualcuno nella strage di Natale lesse anche un messaggio ricattatorio nei confronti di apparati deviati dello Stato che potevano essersi avvalsi delle organizzazioni criminali in azioni destabilizzanti. Strage anomala, come anche Guido Cercola era un imputato anomalo, la cui personale storia sfuma nei grandi misteri. Nella sua villa nel Reatino fu trovato l’esplosivo, il famigerato Semtex T4 con cui era stata imbottita la valigia lasciata sul treno. E nel retrobottega di un antiquario di via del Babuino, amico di Cercola, fu trovata una scatola contenente undici detonatori a distanza. Mancava il dodicesimo: Cercola ammise di averne avuto la disponibilità ma raccontò di averlo utilizzato per un piccolo attentato contro un "cravattaro" romano di via dei Pettinari. Gli inquirenti non gli hanno creduto.

Uomo dai mille segreti, il quarto suicida del carcere di Sulmona: non ha mai voluto spiegare ai giudice perché mai lui, imprenditore romano, fosse diventato l’uomo ombra del cassiere di Cosa Nostra Pippo Calò. E neppure quale fosse il collante che teneva insieme i trafficanti internazionali di droga, i piccoli gangster della Magliana, alcuni terroristi neri, e l’aristocrazia mafiosa di Totò Riina sbarcata a Roma. Segreti che ormai Guido Cercola ha portato per sempre con sé.

Palermo: l’amico "Fido" entra anche in... carcere

 

La Sicilia, 4 gennaio 2004

 

Dopo gli ospedali la "Pet therapy" varca gli ingressi anche delle carceri. La Giunta municipale ha approvato il protocollo d’intesa che riguarda il progetto di "Pet-therapy", dal titolo "Gli amici di Pluto", da realizzare con l’utilizzo di cani all’interno del carcere minorile di via Principe di Palagonia. L’iniziativa è stata proposta dalla direzione dell’Istituto penale per minorenni di Palermo, con la collaborazione dell’assessorato comunale alla Salute e Servizi alla Persona e l’Asl 6.

Il progetto "Gli amici di Pluto" si propone di stimolare il linguaggio comportamentale necessario per interagire con il "fido" amico dell’uomo, il cane. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di sviluppare il senso di responsabilità del detenuto attraverso il rapporto con l’animale e favorire la crescita dell’autostima dello stesso detenuto. Il provvedimento non prevede alcun impegno di spesa, poiché è previsto l’utilizzo dei cani presenti nel canile municipale. "Gli animali saranno portati dentro il carcere dai veterinari del canile municipale – spiega l’assessore alla Salute, Nino Nascè – l’iniziativa si svolgerà ogni giorno con il coinvolgimento dei minori reclusi". Ed intanto, il direttore del carcere Pagliarelli ha detto "no" alla realizzazione di un canile gestito anche dai detenuti in un’area del carcere. "A questo punto - aggiunge Nascè - non sappiamo in quale area realizzare il nuovo canile municipale".

Sulmona: Codacons; suicidi e sospetti, carcere da chiudere

 

Ansa, 4 gennaio 2004

 

Chiudere immediatamente il carcere di Sulmona: a chiederlo è il Codacons, in una lettera al Ministro della Giustizia Castelli. "Il quarto suicidio negli ultimi due anni all’interno del penitenziario - si legge - fa nascere troppi sospetti e troppe domande. In attesa che la magistratura compia tutte le indagini e accerti i fatti chiediamo di chiudere in via cautelativa il carcere e avviare indagini approfondite per capire come mai si registri un così alto livello di suicidi".

Milano: dal Comune 390 mila euro per il sostegno ai detenuti

 

Corriere della Sera, 4 gennaio 2004

 

C’è il kit di sopravvivenza per i detenuti di San Vittore. Ma c’è anche la sala giochi per i bambini che accompagnano i genitori nei colloqui con i detenuti di Bollate. C’è la falegnameria per i ragazzi del Beccaria e il rinnovo degli impianti sportivi del carcere di Opera. Palazzo Marino mette mano al portafoglio per le carceri e tira fuori quasi quattrocentomila euro per 31 progetti che dovrebbero alleviare le pene dei detenuti. Ieri in Comune c’erano tutti: l’assessore ai Servizi sociali Tiziana Maiolo, il presidente della Commissione carceri Stefano Carugo e i direttori delle carceri milanesi. Per la precisione, direttrici. Le richieste ammontavano a 630mila euro. I finanziamenti sono per 390mila euro.

Si parte con il kit di sopravvivenza. Dentro ci saranno un paio di pantofole, uno spazzolino, un tubetto di dentifricio, una maglietta. "Serviranno - spiega il nuovo direttore Fiorenza Manzelli - per i detenuti appena arrestati, spesso in situazione di totale indigenza, senza neanche gli strumenti minimi per l’igiene personale. In gran parte si tratta di stranieri".

Tredicimila euro serviranno invece per la realizzazione di un sito internet dedicato al carcere e alle problematiche della tutela dei diritti dei detenuti. Il progetto prevede la realizzazione di uno strumento per la diffusione della conoscenza giuridica in materia di esecuzione penale e in particolare dell’informazione sui diritti dei cittadini sottoposti a misure cautelari. Ventimila euro serviranno invece per la realizzazione della falegnameria per i ragazzi del Beccaria.

"Offrirà un preziosa opportunità per la formazione professionale dei giovani detenuti" spiega la Maiolo. Non solo. Il Comune, secondo carugo, sta studiando la possibilità di utilizzare queste nuove professionalità nate in carcere per le attività del Comune. Ossia, un inserimento lavorativo in settori come quello dei Parchi e giardini. Così come si vorrebbe rendere stabile quell’altra iniziativa di Palazzo Marino, quando i detenuti scelsero di passare il loro giorni di libertà, ripulendo parchi, e aiutando gli anziani. "Stiamo studiando la possibilità - continua Carugo - di strutturare il servizio anche per la pulizia dei graffiti con una retribuzione".

Ci sono poi progetti per un giornale che sarà fatto dai detenuti, per la creazione di un laboratorio musicale e uno informatico, per gli impianti sportivi di Opera. "L’obiettivo - ha commentato l’assessore Maiolo - è il reinserimento nella società dei detenuti che hanno scontato la pena". E proprio sul carcere di Opera si è aperto un fuori programma che ha creato qualche imbarazzo. La rappresentate della direttrice di Opera si è scagliata contro il Comune accusandolo di aver dimenticato i detenuti del carcere. Niente soldi, niente finanziamenti nonostante le promesse.

Molto meglio la Provincia di Penati. Quando l’assessore Maiolo le ha fatto notare che Opera ha ricevuto il finanziamento più consistente tra i 31 progetti (30mila euro per gli impianti sportivi) la marcia indietro è stata repentina. "Non lo sapevamo. Comunque il Comune poteva fare di più".

 

 

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