Rassegna stampa 3 febbraio

 

La demagogia dei risarcimenti impossibili, di Luigi Manconi

 

A Buon Diritto, 3 febbraio 2005

 

"Con chi commette atti del genere bisogna buttare via la chiave", dice il ministro per le Riforme, Roberto Calderoli, commentando le sentenza che, accogliendo il patteggiamento in appello, riduce la pena di Ruggero Jucker a 16 anni di detenzione. Jucker è l’autore di un omicidio efferato: nel 2002 uccise con ventidue coltellate la sua fidanzata, Alenya Bortolotto.

"La povera Alenya muore per la seconda volta", chiosa ora il coordinatore della segreteria della Lega. E qui, come già in altre occasioni, Calderoli interpreta un umore diffuso, facile e brutale insieme. Quello che vuole che a un crimine violento e spaventevole, come quello di Jucker, corrisponda, inesorabile, una pena altrettanto violenta e spaventevole: esemplare e severa, in ogni caso, e che non ammetta sconti, che non preveda misure alternative alla detenzione e che - soprattutto - non tolleri "buonismi garantisti" di sorta.

D’altra parte, il ministro leghista (e altri con lui) non si limita a interpretare un comune sentire; la sua non è solo la voce di un’Italia "profonda", turbata dai molti fatti di cronaca nera che rimbalzano di telegiornale in telegiornale e di salotto televisivo in salotto televisivo. La sua è, piuttosto, l’arte sinistra della demagogia, nel suo significato originario: ovvero la tecnica discorsiva di chi coltiva e alimenta un clima d’opinione al quale è difficile opporre argomenti razionali. Si pensi alla vicenda di Omar, il complice di Erika nel delitto di Novi Ligure.

Già condannato a 14 anni di reclusione, Omar potrà godere di permessi premio e uscire dal carcere, purché presenti un progetto legato ad "attività socializzanti di recupero": così ha deciso il tribunale di Sorveglianza di Torino, e la cosa ha suscitato sorpresa. C’è, poi, il caso di un minorenne (dibattuto, pochi giorni or sono, a Porta a Porta, ospite il ministro della Giustizia, Roberto Castelli) che, ad Agrigento, uccise un coetaneo per uno sguardo di troppo rivolto a una ragazza, e che, dopo alcuni mesi di detenzione, è stato affidato a una comunità.

"La legge sui minori che delinquono va cambiata, altrimenti si dà loro un messaggio deviato: voi godete dell’impunità", ha dichiarato il ministro della Giustizia, aggiungendo che "non c’è dubbio che con queste decisioni i magistrati creano sconcerto". Ad avviso di Castelli sono le norme che devono essere cambiate, perché ispirate ad una "cultura che guarda esclusivamente a chi ha commesso il delitto, ignorando la sete di giustizia dei parenti delle vittime".

Per il ministro, dunque, lo Stato è un gestore terzo ed imparziale di una suprema "legge del risarcimento", che - sanzionando e recludendo - risponde alla "sete di giustizia" di chi viene offeso direttamente da un reato tanto grave quanto può essere, come in questo caso, un omicidio. All’impostazione di Castelli, fatalmente, finiscono col dare manforte tutti quei giornalisti che, in casi come questi, si precipitano a intervistare i parenti delle vittime, per chiedere loro cosa ne pensano di uno sconto di pena o di un permesso premio: o, addirittura, della disponibilità al "perdono". Conoscono già la risposta che li attende (la conosciamo tutti): per questo la cercano, la solleticano e la sollecitano, la provocano.

Ai parenti e agli amici di chi è stato ucciso, nessuna pena renderà mai la vita di chi non c’è più; né alcuna sanzione potrà mai essere tanto "remunerativa" da pareggiare il danno fatto. La loro indignazione e, tanto meno, la loro disponibilità al "perdono" (sentimento intimissimo e privo di qualunque valenza pubblica) non sono, certo, i parametri che la giustizia può adottare per rispondere a un reato: né per decidere delle condizioni di espiazione della pena di chi, di quel reato, è stato dichiarato colpevole.

La reclusione e la pena in generale - in uno Stato di diritto e in un ordinamento liberale - hanno prioritariamente una funzione deterrente: intervengono per scoraggiare il cittadino da possibili condotte criminali; svolgono un ruolo "protettivo" nei confronti del corpo sociale; disincentivano coloro che, avendo già commesso un delitto, potrebbero ripetere il loro crimine, mettendo a repentaglio i diritti o l’incolumità di terzi. Infine, la pena dovrebbe avere un valore "rieducativo": le forme della sua esecuzione dovrebbero tendere alla "riabilitazione" del cittadino che ha violato la legge. È in base a questi criteri e alla loro combinazione, crediamo, che la magistratura è chiamata a esprimersi sul merito delle modalità di espiazione della pena.

Nessuno potrà mai indagare nella coscienza di chi uccide la donna che ama, o di chi toglie la vita a un genitore o a un fratello. Vi è qualcosa, in azioni come queste, che trascende le nozioni più comuni di ciò che è bene e di ciò che è male: qualcosa di insondabile. Ma, davanti all’inconoscibile, almeno una cosa sappiamo: la vita di chi commette reati tanto gravi non può essere decisa sul metro dell’indignazione sociale o del dolore individuale.

Giustizia: Vitali; per prima viene la sicurezza dei cittadini

 

Ansa, 3 febbraio 2005

 

"Se i problemi di super-affollamento vi saranno, saranno affrontati nei modi e nei tempi che la situazione richiederà, ma non si può assolutamente rinunciare nel dovere di dare giustizia ai cittadini". Lo afferma il sottosegretario alla giustizia, Luigi Vitali, commentando l’allarme lanciato dall’associazione Antigone, secondo cui la ex Cirielli porterà in breve tempo 20 mila detenuti in più nelle carceri italiane.

"Ci voleva la presa di posizione di Antigone per capire qual è il vero problema della cosiddetta legge Cirielli - dice Vitali -. Mantenere in carcere i pluripregiudicati e recidivi che sono quelli che commettono l’80% dei reati. Ma non deve essere questo lo scopo che deve raggiungere uno stato democratico e di diritto ogni qual volta verifichi che non vi sia stata rieducazione e resipiscenza in coloro che delinquono?".

"Sarebbe interessante sapere - conclude - cosa vale di più, il diritto di sicurezza dei cittadini, che sono le vittime indifese dei reati, o coloro che li commettono e hanno dimostrato di non volerne sapere di abiurare il crimine? La risposta è fin troppo semplice".

Giustizia: comunicato di "Antigone" su Finanziaria e Cirielli

 

Ansa, 3 febbraio 2005

 

In Finanziaria meno risorse per le carceri e con la Cirielli una esplosione di sovraffollamento. A descrivere così la situazione del sistema penitenziario italiano è l’associazione Antigone. "Le carceri sono sempre più affollate e sempre meno sono le risorse a disposizione per la salute, il lavoro, il trattamento delle persone detenute dichiara Patrizio Gonnella, coordinatore nazionale di Antigone e per questo oggi eravamo a protestare nel Sit-in che si è tenuto davanti a Montecitorio".

"La situazione delle carceri italiane - sostiene Gonnella - potrebbe divenire ingestibile, qualora dovesse passare la sciagurata proposta di legge Cirielli. Da un lato vengono salvati i soliti noti con gli artifici di norme che riducono i tempi ci prescrizione, dall’altro viene di fatto cancellata la legge Gozzini per i poveracci".

"Le galere italiane - conclude - sono piene di tossicodipendenti e immigrati, quasi sempre recidivi. Pertanto la cosiddetta legge sulla recidiva potrebbe determinare per questa folla di popolazione detenuta (oltre il 60% del totale) la perdita di ogni speranza di reinserimento sociale".

Prato: Bertolt Brecht interpretato dai detenuti - attori

 

Nove da Firenze, 3 febbraio 2005

 

"La delega al messaggio creduto e condiviso è ridicola credenza del passato, ottocentesca, è banalità infantile e primordiale. E’ fumo negli occhi. Come fare a raccontare questo mondo che si sottrae ad ogni efficace descrizione? E quanti prima di noi hanno già praticato questo?".

Queste sono le domande che Punzo si pone come punto di partenza di questo lavoro e continua : "In queste domande senza risposta, in questo spazio vuoto si inserisce la mia azione, il mio pensiero, la mia attuale idea di teatro. In questo Vuoto assoluto ripartire dal piacere e dalla necessità del teatro che può nascere anche dal dispiacere di una riflessione senza via d’uscita. Per far questo non abbiamo bisogno di nuovi testi, abbiamo bisogno di testi icone, di testi mito, che già esistono in qualche modo nella mente dello spettatore e che possiamo far ritornare sotto altre forme."

"Egoismi, mostruosità e violenze regnano sovrani", continua Punzo "il potere corrotto è verità fondante e incontrovertibile. Ogni cinque secondi un bambino muore di fame nel mondo, basta contare sulla punta delle dita per rendersi conto di tali assurdità. Noi possiamo solo prenderne atto e restituire il male in chiave grottesca ironica e innocua, consapevoli dei limiti in cui è relegata l’arte e l’azione umana isolata. La nostra scena mantiene il carattere didattico ma diventa una scuola del male".

Partendo da queste considerazioni, Punzo si è avvicinato al mondo di Brecht con i detenuti-attori della Compagnia della Fortezza e questa esperienza adesso la trasferisce sugli attori di fuori. L’idea è quella di partire da dove finisce lo spettacolo della Compagnia della Fortezza, I Pescecani – ovvero quel che resta di Bertolt Brecht, per andare ancora oltre a cercare di mettere in scena con gli attori della Nihil Company la presunta impossibilità di Brecht oggi.

Bologna: in corso regolare monitoraggio epidemiologico

 

Adnkronos, 3 febbraio 2005

 

All’interno del carcere di Bologna, "le attività di monitoraggio epidemiologico (per le infezioni Hiv, Hcv e Hbv) sono regolarmente in corso, per iniziativa della direzione sanitaria dell’istituto penale e con la collaborazione dell’Azienda usl, che assume a suo carico i relativi oneri e garantisce ai detenuti sieropositivi la fornitura gratuita dei farmaci".

È quanto chiarito dall’assessore alla Sanità della Regione Emilia Romagna, Giovanni Bissoni, in risposta all’interrogazione del consigliere diessino Lamberto Cotti, circa la situazione sanitaria dei detenuti nel penitenziario emiliano.

Catania: scagionato dopo 11 anni, ma suo figlio si è suicidato

 

Corriere della Sera, 3 febbraio 2005

 

Dopo 11 anni di carcere, non se la sono sentita i giudici di Messina di lasciarlo ancora in cella per un omicidio che, pare, non avrebbe commesso. E, in vista di un’assoluzione quasi scontata, come dovrebbe accadere dopo l’ultima udienza del 28 febbraio, hanno lasciato aprire le porte del carcere di Brucoli, a metà strada fra Catania e Siracusa, scenario di un drammatico errore giudiziario.

Un doppio dramma quello di Salvatore Grasso, 53 anni, da 18 impegnato a difendersi dall’accusa di avere ucciso un amico siciliano in Germania, scagionato da un testimone e da una lettera del vero assassino. Alla sua odissea segnata da un’altalena di verdetti, assoluzioni, nuove condanne e, adesso, da una definitiva revisione in corso, si aggiunge il tormento di un padre raggiunto in carcere dalla peggiore delle notizie, il suicidio del figlio, Rosario, 24 anni: "Quando me lo dissero, capii che a pagare di più era stato proprio lui. Soffocato dalla vergogna, dalla pena. Uno strazio infinito. La giustizia, con i suoi errori, ha indirettamente fatto una vittima. Ed io... non mi sono impiccato solo perché sono credente".

Così, per questo agente immobiliare ormai senza mestiere, senza patrimonio e senza figli perché il secondogenito, il più piccolo, è morto a 17 anni per un aneurisma "la giustizia è solo una roulette". E lo dice con una smorfia amara, uscendo con la sua busta dal carcere e baciando l’asfalto scrostato prima di salire in macchina con il fratello e correre a Giarre, sotto l’Etna, dalla madre, la signora Maria, 77 anni, certa che il signore abbia ascoltato le sue preghiere.

I giudici di Messina ai quali il caso è finito per scelta della Cassazione, dopo un complesso ping pong giudiziario fra Amburgo, Parigi e Catania, hanno ascoltato soprattutto Paolo Samperi, un altro siciliano emigrato nel 1983 in Germania. È lui il testimone che la sera del delitto, il 13 agosto del 1986, parlò al telefono con la vittima, Giovanni Calì, e con due dei tre siciliani arrestati dalla polizia tedesca. Appunto, Grasso e Francesco Iuculano Cunga, anch’egli in cella e ancora in attesa della libertà. Attesa perché con un colpo di scena al testimone si è aggiunta la confessione di chi sparò quei colpi di pistola, il terzo siciliano, Agatino Di Bella, autore di una lettera scritta dal penitenziario di Porto Azzurro e indirizzata a Grasso: "Ti chiedo scusa se non ho parlato prima, ma tu e Iuculano Cunga siete innocenti e sono disposto a dirlo ai giudici...".

Ecco gli elementi sui quali hanno insistito gli avvocati Dina D’Angelo e Puccio Forestiere, come adesso faranno i legali di Iuculano Cunga. E lui, Grasso, abbraccia un po’ spaventato la madre: "Il processo e il calvario debbono ancora finire... Per tre volte, quando mi hanno condannato, mi sono costituito. Diciotto anni di inferno".

L’ultimo periodo nel carcere di Brucoli, a due passi da Augusta, dove direttore e agenti di custodia gli hanno dato una mano. "Soprattutto un computer", racconta. E imparando ad usare programmi difficili ha costruito il Cd rom della sua vita. Tutti gli atti giudiziari del processo. Con le prove della sua innocenza. Con un pezzo della sua vita che comincia da studente di Giurisprudenza, passa attraverso un matrimonio in crisi ed approda ad Amburgo: "Conoscevo una ragazza tedesca e ho vissuto per un po’ con lei. Quando ad un tratto mi sono ritrovato coinvolto nel delitto del mio amico Giovanni. Ma io ero in un’altra città quella sera, come ha ripetuto ai giudici di Messina il teste...".

Gli incubi della cella e i drammi della vita sono finiti in quel computer, diventato il suo confessore e il suo svago. Finché, sempre più esperto, Grasso è riuscito a realizzare perfino la sigla per un telegiornale: "Era un modo per volare via dalla prigione col pensiero. La sigla del telegiornale è venuta bene e spero di venderla magari ad una Tv privata siciliana...".

Sorride, ma con un’amarezza profonda: "Non so dove ho trovato la forza di continuare a credere nella giustizia. E continuo a crederci. Anche se ho capito a mie spese che il giudice è solo un uomo. E bisogna avere la fortuna di trovarne uno capace di rispondere alla propria coscienza. Perché gli atti sono sempre quelli. E ogni volta li hanno interpretati in modo diverso. Si, una roulette. In cui ho perduto un pezzo di vita e un figlio che nessuno potrà mai restituirmi".

Quotazioni alla borsa dei reati, articolo di Sergio Romano

 

Wall Steet Journal, 3 febbraio 2005

 

L’assassino di Alenya Bortolotto ha patteggiato e ha ottenuto la riduzione del 50 per cento della pena. Se terrà buona condotta, comincerà a godere di qualche permesso e sarà libero fra una decina d’anni. Erika e Omar, i due giovani assassini di Novi Ligure, sono già alle soglie della libertà. Negli stessi giorni un uomo è stato condannato a un anno e un mese di carcere con la condizionale, per avere dato a una ragazza una "pacca sul sedere". Una pesante avance sessuale sarebbe dunque proporzionalmente più grave di un efferato omicidio? Qualche giornalista ha dedicato al confronto un commento ironico, molti lettori hanno scritto lettere colme di stupore e di indignazione.

Ma questo è soltanto l’ultimo di una lunga serie di episodi analoghi. Alcuni magistrati hanno chiesto alle aziende di assumere nuovamente un dipendente licenziato per furto, frode o slealtà. Ma gli stessi magistrati, o i loro colleghi, hanno ritenuto che il falso in bilancio e l’accusa di corruzione giustificassero lunghe detenzioni preventive e severe sentenze. Questi fenomeni non sono soltanto italiani. Le cronache giudiziarie francesi, tedesche, inglesi e americane sono piene di episodi analoghi.

Come spiegare queste contraddizioni? Gli storici del diritto sanno che la sanzione penale di un reato riflette sempre le idee o, se preferite, le ideologie dominanti della società in un particolare momento storico. Nelle democrazie popolari il danneggiamento di un bene pubblico (le panchine di un giardino, un cartello stradale) era considerato un reato grave e aveva per conseguenza una lunga pena in campi di rieducazione.

Da noi il vandalismo urbano è un peccato veniale e i graffittari possono sporcare indisturbati le case della città. In Cina gli amministratori truffaldini vengono fucilati, da noi per fortuna non corrono questo rischio. Vi sono momenti in cui la renitenza alla leva militare è stata considerata una sorta di tradimento della patria. Ve ne sono altri in cui viene compresa, condonata, giustificata.

Alla borsa della morale nazionale la quotazione di alcuni reati sale, quella di altri scende. Vi sono addirittura reati che scompaiono: l’adulterio, la sodomia, il concubinato, l’aborto, il tentato suicidio (punibile in Inghilterra fino all’altro ieri). E vi sono reati che appaiono: inquinare l’ambiente, molestare una donna, sculacciare un bambino, fumare in un ristorante o addirittura (è il caso di alcune città americane) per strada.

Alla borsa italiana i reati che hanno perduto valore sono quelli che una parte della cultura comunista, socialista e cattolica attribuisce prevalentemente alla società: furti, slealtà aziendale, consumo di droghe, forme violente di lotta sindacale, disobbedienza civile, espropri proletari. In questi casi, la effettiva durata della detenzione, anche quando la sentenza è severa, viene misurata con il criterio della "redenzione".

Sono diventati molto più gravi invece, agli occhi di una parte della magistratura, i reati del "capitalismo" (occultamento di fondi, aste truccate, corruzione, concussione) e quelli che minacciano i nuovi diritti umani emersi nel corso degli ultimi decenni: i diritti delle donne, dei bambini, dei disabili, dei malati. Questa situazione, ripeto, non è soltanto italiana. Ma nei paesi democratici in cui l’iniziativa dell’azione penale appartiene allo stato e la magistratura giudicante costituisce un corpo separato, la scelta dei reati da perseguire è assicurata e garantita, in ultima analisi, dal grado di rappresentanza della classe politica.

Negli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, l’amministrazione Bush e l’Attorney general hanno adottato una linea repressiva, poliziesca e illiberale. Credo che abbiano commesso un errore, ma lo hanno fatto nella fondata convinzione che tale giustizia rispondesse in quel momento alla domanda del paese. In Italia, invece, dove inquirenti e giudici fanno parte di una stessa carriera, i magistrati si proclamano "bocca del diritto", invocano l’"obbligatorietà dell’azione penale", trasmettono la convinzione che la legge è una divinità immutabile.

Ma anch’essi agiscono in realtà discrezionalmente secondo la propria coscienza, le proprie simpatie ideologiche e una cultura giuridica tuttora influenzata dal marxismo e dal cattolicesimo sociale. È questa la ragione per cui certe azioni penali e certe sentenze non sono in sintonia con i bisogni, le domande e l’evoluzione della società.

Giustizia: chi si salverà dalla "salva - Previti"?, di Giulio Salierno

 

Liberazione, 3 febbraio 2005

 

Le norme del disegno di legge sono in linea con un’idea della società che riscopre la crudeltà come strumento di controllo sociale. Alcune delle norme, meno conosciute, contenute nel disegno di legge c. d. salva Previti non sono finalizzate a "salvare" il Nostro, ma, al contrario, a colpire, senza scampo, uccidendo le norme civili della legge Gozzini (ammissione al lavoro all’esterno, ecc.), chi non ha santi in paradiso: i recidivi, i detenuti ribelli, i reclusi già gravati dal peso della prigionia.

E non solo. Anche i recidivi in semilibertà, o agli arresti domiciliari, se il Senato darà il via libera alla nuova legge, dovranno rientrare in carcere. E così la prigione, in barba all’art. 27 della Costituzione, che prevede la pena abbia carattere rieducativo e non punitivo, sarà abbandonata anche dalla Speme ultima Dea.

In realtà, ciò non stupisce. Infatti, come già trent’anni fa, in Crimini di pace, aveva osservato Stanley Cohen, stiamo entrando in una nuova era della politica penale, nella quale il problema non sarà più rappresentato dai condannati a peni brevi, i patetici personaggi che entrano ed escono dalle nostre sovraffollate prigioni, bensì dalla presenza di un numero sempre maggiore di condannati a lunghi periodi di detenzione, uomini "pericolosi", che pongono difficoltà completamente diverse di disciplina, controllo e sicurezza. E la depenalizzazione dei reati minori, in parte richiesta e in parte attuata, per eterogenesi dei fini, rafforza le caratteristiche escludenti dei penitenziari ed etichetta in termini ancora più negativi e distruttivi i ristretti. I quali diventano i "duri", la feccia, i recalcitranti, gli incorreggibili: quelli per cui non si può far niente, se non isolarli in prigioni speciali o in bracci di sicurezza.

Nella realtà italiana, e non solo, poi, la legge sulle tossicodipendenze, quella sull’immigrazione clandestina, le norme antimafia e anticamorra, l’estensione del controllo sociale all’esterno del carcere e ad apparati medici e psichiatrici, la paura dei kamikaze islamici, eccetera, eccetera, rendono palese il tramonto della reclusione tradizionale e la trasformazione della prigione in apparato deputato a gestire la devianza degli strati giovanili, l’anomia degli immigrati e ad isolare ferocemente i criminali, i boss e i terroristi. In altri termini, la prigione, come microcosmo riproducente il contesto più vasto, riflette le esigenze di autoritarismo selettivo del capitalismo post-industriale, la necessità, cioè, per i Paesi altamente sviluppati, di gestire le contraddizioni con metodi sempre più raffinati, ma anche sempre più distruttivi nei confronti di chi è spinto, o si pone volontariamente, ai margini dei nostri sistemi socio-economici.

Il carcere, quindi, come istituto innovabile, ma non effettivamente rinnovabile, diventa (come processo in corso) strumento di annientamento per quelle frazioni o settori sociali reputati irrecuperabili, mentre, invece, e contemporaneamente, si decriminalizzano (come tendenza in corso) quelle violazioni della norma gestibili con istituti di controllo sociale diversi dalla reclusione. Inutile sottolineare, però, che questo processo si svolge tra contraddizioni fortissime e altre ne provoca esso stesso. Ma questo è un altro discorso. Ciò che conta è che il quadro tratteggiato (tutt’altro che idilliaco) denuncia una delle caratteristiche del nostro tempo: la crudeltà, o la riscoperta della crudeltà come strumento di controllo sociale. E, in proposito, è meglio non farsi illusioni di sorta. Dall’oggettiva violenza dell’emigrazione, agli incidenti sul lavoro, alla disumane condizioni di vita delle periferie napoletane e palermitane, sino all’ufficialità o all’ufficiosità dei campi di prigionia per i terroristi e delle torture - per non parlare delle guerre - la nostra era è carica di tragici regressi e altri ancora più terribili ne annuncia, o almeno ne fa sospettare il possibile avvento.

In Europa, a esempio, il potere (inteso in senso lato) è cosciente che gli ultimi stremi della macchina socializzante o risocializzante - la prigione, la pena di morte - sono entrati in una crisi priva di prospettive. E a smesso da tempo di impiccare o fucilare o ghigliottinare. Ma è anche persuaso che la prigione non sia un’alternativa credibile alla morte e al supplizio. Ha scoperto, infatti, che la reclusione è un’arma debole contro chi intende uscire fuori dalla normativa esistente. E, di fronte a ciò, è costretto, da un lato, a raffinare gli strumenti di controllo sociale, e, dall’altro, a rendere sempre più dura e distruttiva la pena della reclusione. Ma sa che ciò non gli è ancora sufficiente. E allora pensa, studia di trovare altri meccanismi (Cayenna, punizioni corporali, annientamento psicofisico mediante l’isolamento in ambienti gelidamente impermeabili anche ai suoni?) che diano, anzi che restituiscano alla sofferenza il tragico privilegio di apparire un convincente sostituto penale al carcere e alla morte.

Milano: in aumento minori detenuti, sono soprattutto stranieri

 

Giornale di Brescia, 3 febbraio 2005

 

Dai dati resi noti dal Ministero della giustizia, emerge un trend di crescita costante circa gli ingressi all’Istituto penale per i minori "Beccaria", con sede a Milano, che accoglie minori dal capoluogo lombardo e da Brescia: 184 i ragazzi accolti nel solo primo semestre del 2004, rispetto ai 323 dell’intero 2003 e ai 291 del 2002. Il dato significativo è che l’87 percento degli ingressi è rappresentato da minori stranieri, nella maggioranza maschi e di nazionalità rumena, che sta rapidamente sorpassando la presenza di maghrebini, un tempo fascia prevalente.

Che sui minori stranieri ci sia un ricorso a misure di carattere detentivo molto più diffuso che sugli italiani è confermato anche dai numeri del Centro di prima accoglienza, sempre con sede a Milano, polo che ospita i minori per tempi limitati, prima dell’inizio del processo o del raccordo con i servizi territoriali: nel primo semestre del 2004 sono stati 226 i minori accolti, contro i 389 dell’intero 2003, con una prevalenza decisiva (più del 70 percento), ancora una volta, degli stranieri.

I quali escono dal Centro in prevalenza (41 percento) per entrare in custodia cautelare, o per rimessione in libertà e altri motivi, "spesso la mancanza di presupposti per la detenzione o la mancata conferma del reato in udienza preliminare", spiega Flavia Croce del Centro giustizia minorile per Lombardia e Liguria. I minori italiani, invece, escono dal Centro in prevalenza per passare alla misura della permanenza in casa, potendo nella maggior parte dei casi contare su una rete di supporto familiare e sociale.

Molto diffusa fra i minori stranieri è la pratica del collocamento in comunità (66 percento stranieri contro il 34 percento di italiani), "anche se Brescia, rispetto agli altri due distretti di Corte d’Appello analizzati, Milano e Genova, fa un ricorso ancora limitato a tale collocamento", precisa Croce. "Anche nel contesto bresciano, comunque, va affermandosi un istituto giuridico innovativo qual è la messa alla prova, che consente al giudice di sospendere il processo in corso se ritiene di valutare l’evoluzione della personalità dell’imputato minorenne, affidandolo ai servizi minorili - aggiunge Croce -. Se l’esito del periodo di prova è favorevole, secondo un progetto di sostegno personalizzato, viene dichiarata l’estinzione del reato".

Fra gli interventi prevalenti, infatti, dell’Ufficio servizi sociali per i minori presso il Dipartimento di giustizia minorile di Brescia, c’è proprio la messa alla prova (38 percento), oltre all’accertamento della personalità del minore (28 per cento), che può essere propedeutico alla messa alla prova, e alle misure cautelari (28 per cento).

Brescia: "Fraternità Giovani", più reati tra i minori benestanti

 

Giornale di Brescia, 3 febbraio 2005

 

Istanze educative e di aiuto, oltre che sanzionatorie e di controllo: nel caso dei minori con procedimento penale, l’impegno alla rieducazione è una priorità che chiama in causa molteplici ambiti, dal Tribunale dei Minori alle istituzioni pubbliche, dalle Asl al mondo della cooperazione sociale.

A restituire una fotografia della situazione dei minori sottoposti a procedimento penale è stata la giornata di studio condotta da Flavia Croce, dirigente del Centro di giustizia minorile per Lombardia e Liguria e da Roberta Carini, dirigente della Regione Lombardia, organizzata dalla cooperativa sociale Fraternità Giovani al Pirellino di via Dalmazia, nell’ambito del "Progetto per l’attuazione di rapporti interistituzionali nella gestione dei minori con procedimento penale", di cui la cooperativa è capofila, nel Bresciano, insieme ai Comuni, al Tribunale dei minori e all’Asl.

In base al nuovo accordo quadro siglato fra Regione Lombardia e Ministero della giustizia nel marzo del 2003, infatti, si prevede la realizzazione di programmi di intervento congiunto a favore dei minori in ambito penale, attraverso il coinvolgimento dei diversi soggetti istituzionali e del Terzo settore: una visione che richiederà una pianificazione organica degli interventi, per evitare sovrapposizioni e avere punti saldi di riferimento, gravitanti attorno alla Commissione regionale per il coordinamento dei servizi alla giustizia minorile e territorio.

Obiettivo sono interventi sempre più appropriati, che tengano conto delle potenzialità evolutive dell’adolescente e della sua personalità, privilegiando meccanismi di messa alla prova e di affidamento. Nello specifico, si prevede la creazione di una rete che permetta il miglioramento della conoscenza del fenomeno della devianza, l’ampliamento di interventi all’esterno della struttura detentiva, la tutela della salute, in particolare di minori tossicodipendenti o con problemi psichiatrici, il sostegno per l’autonomia dei minori stranieri.

Un lavoro che richiederà un supplemento di impegno per l’integrazione fra i diversi attori coinvolti, alla luce dei dati lombardi riferiti al primo semestre del 2004 (non ancora ufficializzati dalla Regione), da cui risulta ancora qualche problema nei rapporti fra realtà che dovranno invece lavorare in équipe, come ad esempio le Procure e i servizi territoriali.

Se l’obiettivo è quello di raggiungere un sempre maggiore coordinamento con i servizi territoriali, chiamati a collaborare nella presa in carico complessiva del minore, altrettanta importanza dovrà essere data alla messa in campo di progetti mirati. Fra le tipologie di minori con procedimenti penali in corso, oltre alla categoria del disagio socio economico, con nuclei familiari multiproblematici, e alla fascia di minori stranieri, più facilmente passibili di inserimento in istituti penitenziari e comunità, si va affermando il fenomeno del cosiddetto "malessere nel benessere", ragazzi che provengono da famiglie normali e contesti integrati, protagonisti di reati meno ascrivibili al patrimonio e più a comportamenti violenti, come episodi di bullismo e trasgressione. "Specchio, quest’ultimo caso, che la falla è più sul piano educativo-affettivo - osserva Carini - e che è lì che bisogna intervenire".

Bolzano: Max Leitner scrive dal Marocco "Aiuto, mi torturano"

 

L’Adige, 3 febbraio 2005

 

Max Leitner, il "campione" delle evasioni dai carceri italiani sembra essere in grande difficoltà. E supplica le autorità italiane di aiutarlo al più presto. Almeno questo trapela da una lettera inviata al quotidiano "Tageszeitung" di Bolzano.

Dopo l’ennesima fuga dal carcere di Bergamo in compagnia di Emanuele Radosta, Leitner si trova incarcerato nelle prigioni marocchine. E proprio da qui il bandito altoatesino lancia la sua supplica: "Aiutatemi. Presto. Non resisto a queste torture. Aiutatemi, altrimenti fra pochi giorni sarò morto".

La lettera, che porta la data del 20 gennaio è scritta a mano. Leitner dice di essere tenuto legato ad un letto da venti giorni. "Vi prego - scrive il bandito - di avvertire l’ambasciata italiana di Rabat e il procuratore capo di Bolzano Cuno Tarfusser perché possano aiutare me ed il mio amico Radosta Manuele. Il carcere di isolamento mi fa impazzire e sono sottoposto a sofferenze che superano ogni limite di sopportabilità".

Sul suo capo, come su quello del siciliano Radosta, pende una condanna delle autorità locali ad un anno di reclusione per essersi introdotti clandestinamente nel Paese africano. Dall’Italia è già arrivata una richiesta di estradizione, che Rabat sarebbe disposta ad accogliere subito, se non fosse che Leitner ha fatto domanda di asilo in Marocco per motivi poco chiari.

Viterbo: un pacco bomba che avrebbe potuto uccidere

 

Il Messaggero, 3 febbraio 2005

 

Un’operazione di routine nell’ufficio del carcere di Mammagialla. Ma durante lo smistamento della posta quella busta ha insospettito gli agenti della polizia penitenziaria, che ci sono voluti andare cauti. Ed hanno fatto bene. Quella busta, normale all’apparenza, del formato 15 per 20 centimetri, indirizzata alla direzione del carcere viterbese, conteneva due etti e mezzo di polvere esplosiva che avrebbe avuto conseguenze devastanti qualora fosse stata aperta. Adesso il micidiale plico è all’esame dei tecnici degli artificieri dei carabinieri di Roma per cercare di individuarne la provenienza. Ma, ancora una volta, anche se il gesto non è stato rivendicato da nessuno, nell’occhio del ciclone ci sono gli anarco-insurrezionalisti.

Un altro pacco bomba a Viterbo. Vero. Che avrebbe potuto uccidere il malcapitato destinatario. Dopo quelli arrivati alla Questura, alla redazione del Corriere di Viterbo, quello fatto esplodere davanti al Tribunale. Questa volta il pacco era indirizzato al vice direttore del penitenziario, Francesco Ruello. E non è esploso grazie all’accortezza del personale addetto al controllo e alle sofisticate attrezzature di cui è dotato il carcere di massima sicurezza.

Sono le 9,30. La corrispondenza è appena arrivata alla casa circondariale di Viterbo. È moltissima, tra quella indirizzata ai detenuti, all’amministrazione penitenziaria e al personale di servizio. Presso l’apposito ufficio inizia il controllo, minuzioso, di ogni busta. Quando gli agenti di polizia penitenziaria si trovano tra le mani quel plico indirizzato alla direzione quasi lo lasciano passare. In fin dei conti era indirizzato al vice direttore. Poi ci ripensano. Qualcosa li fa insospettire. Ed ecco che lo passano sotto la sofisticata apparecchiatura che mette in evidenza una batteria e dei puntini.

Scatta l’allarme e vengono avvertiti i carabinieri che, a loro volta, fanno intervenire gli artificieri. Quel plico conteneva la scatola di un dvd con 250 grammi di polvere pirica. "È stato grazie alla professionalità del personale di polizia penitenziaria - dicono la dottoressa Silvana Sergi, direttore in missione, e Maurizio Pesci, comandante del reparto - e dei sistemi a disposizione del comando che non si è verificato il peggio".

"Sulla matrice? Per il momento - dicono - non c’è alcuna conferma, possiamo fare solo ipotesi sul fatto che siano stati gli anarco-insurrezionalisti a recapitare il pacco bomba, anche se i tempi attuali farebbero pensare proprio a questo. Quello di Viterbo è un istituto al centro dell’attenzione, siamo un possibile bersaglio di questi attentatori". Adesso, in attesa di una rivendicazione, quel plico è all’esame della Procura di Viterbo che attende con ansia i risultati degli esami effettuati dagli artificieri dei carabinieri.

Udine: consiglieri regionali; carcere superaffollato, mensa buona

 

Il Gazzettino, 3 febbraio 2005

 

Consiglieri regionali in visita alle carceri di Pordenone. Si tratta di Daniele Gerolin (Margherita) e Giorgio Baiutti (Sdi) che, accompagnati dai dirigenti della struttura, hanno esaminato la Casa circondariale per individuarne problemi e punti critici. L’obiettivo? Valutare la possibilità d’inserire i detenuti nella rete dei servizi integrati di protezione sociale alla persona.

L’età media della popolazione carceraria pordenonese è tra i 40-50 anni: si tratta quindi di persone che, scontata la pena e terminato il percorso riabilitativo, dovranno reintegrarsi nel tessuto sociale. Dalla visita è emerso che il carcere di Pordenone è in relazione col territorio: dal Sert ai servizi sociali del Comune e ad alcune importanti associazioni culturali. I consiglieri Gerolin e Baiutti hanno evidenziato la necessità d’aumentare i finanziamenti che la Regione assegna ogni anno per ridurre devianza e disadattamento. Hanno poi ricordato come la Regione stia costruendo la proposta di legge regionale sui servizi di protezione sociale alla persona e dei diritti di cittadinanza. "Quella legge - hanno aggiunto - potrebbe essere l’occasione per affrontare i problemi del mondo carcerario".

Il carcere ospita detenuti condannati e soggetti a un regime di protezione per reati specifici, con altri inseriti in una sezione comune. Gerolin e Baiutti hanno potuto toccare con mano il sovraffollamento in cui versa il carcere ricavato in locali e ambienti assolutamente inadeguati. Il carcere di Pordenone è anomalo: è inserito nel pieno centro storico, con detenuti prevalentemente di fuori regione. La grande richiesta della popolazione carceraria è di poter fare qualcosa, rendersi utile. Un obiettivo che potrà essere coronato solo con il nuovo carcere. Nell’attuale struttura il tempo all’aria aperta diventa scarso sia per i turni cui sono costretti i detenuti che per la carenza di spazi. "Nonostante la situazione difficile e il sovraffollamento - è la tesi di Gerolin e Baiutti - va riconosciuto il buon livello della mensa e la grande sensibilità del personale".

Immigrazione: no ad espulsione, in Senegal gay rischiano carcere

 

Agi, 3 febbraio 2005

 

Pur essendo un "irregolare" in Italia, un giovane senegalese ha evitato l’espulsione che era stata decisa dalla Questura di Torino, perché dichiaratamente omosessuale e nel suo paese in quanto "gay", rischia fino a 5 anni di carcere.

Il giovane ha beneficiato di una sentenza a suo favore emessa dal giudice di pace del capoluogo piemontese, con un provvedimento dove si specifica, appunto, che l’espulsione non è possibile in quanto nel suo Paese di origine, l’omosessualità viene perseguita con il carcere.

 

 

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