Rassegna stampa 1 febbraio

 

Pecorella (FI): l'amnistia? non ci sono più le condizioni politiche

 

Corriere della Sera, 1 febbraio 2005

 

Bisognerebbe innanzitutto scolpire una linea di spartiacque tra reati associativi e i reati di sangue: "Condanne per fatti anche non gravi hanno tagliato fuori dalla vita civile un’intera generazione che oggi non ha più le caratteristiche di pericolosità. Mentre per i reati di sangue non vi è alcun motivo di perdonare". Parla così Gaetano Pecorella (FI) ma dal suo punto di osservazione, lui è presidente della commissione Giustizia della Camera, dice che ormai non ci sono più le condizioni per una pacificazione che porti a un’amnistia o all’indulto per gli anni di piombo.

 

È pessimista anche lei che si è sempre impegnato per una soluzione politica?

"Ho sempre lavorato per un provvedimento di clemenza, anche al di là degli anni di piombo, ma credo che con le elezioni regionali alle porte e quelle politiche poco dopo sia impossibile mettere in piedi una trattativa politica su questo terreno".

 

Anni di piombo o Tangentopoli: in ogni caso ci si deve muovere al principio della legislatura?

"Sono cose che si fanno in condizioni di confronto non esasperato. Oggi nessuno si scoprirebbe, tranne qualche piccolo gruppo politico, sul tema del perdono".

 

E nei prossimi anni?

"Nei prossimi anni per chi non sarà estradato in Italia si prescrive tutto: parliamo anche di omicidi (puniti con una pena a 24 anni, ndr) commessi negli anni ‘70. Tanto più passa il tempo tanto meno c’è un interesse politico per chiudere queste situazioni. Forse ci sarà l’amnistia per i reati comuni quando le carceri scoppieranno".

 

Sulla prescrizione, D’Alema attacca la Cdl.

"Distinguiamo tra prescrizione del reato e prescrizione della pena. Su quest’ultima, il caso della strage di Primavalle, si può dire che, anche con una responsabilità accertata, quando poi è troppo lontana nel tempo la pena non ha più alcuna funzione. La ex Cirielli, invece, abbassa la prescrizione per i reati meno gravi e per gli incensurati ma alza la prescrizione per quanto riguarda i recidivi e i reati gravi".

Castelli: legge ex-Cirielli, un deterrente contro la criminalità

 

Corriere di Como, 1 febbraio 2005

 

Alla richiesta di maggiore sicurezza che viene dal convegno promosso dall’Unione commercianti e dai giovani imprenditori della Confcommercio, il ministro della Giustizia Roberto Castelli ha risposto citando un nuovo deterrente contro la criminalità: la legge Cirielli che dà meno garanzie ai recidivi e maggiori possibilità di riscatto a chi delinque la prima volta.

"La stragrande maggioranza dei delitti - ha detto il ministro - è compiuta da una piccola percentuale della popolazione: i recidivi" e la nuova legge è "un sistema decisamente deterrente per la criminalità", con lo stesso sistema "gli Stati Uniti hanno drasticamente abbassato il tasso di criminalità". Qualcuno ha calcolato che con la nuova legge ci saranno 20 mila detenuti in più. Nel convegno sono stati presentati i risultati di un sondaggio sulla percezione della sicurezza dei commercianti e dei cittadini in genere. Più di un esercente su tre ha subito violenze. E l’incubo dei bambini è trovarsi i ladri in casa.

Castelli: vanno ridotti gli spazi per dare sconti di pena ai recidivi

 

Corriere di Como, 1 febbraio 2005

 

"È venuto il momento per le forze politiche e non mi riferisco a quelle di opposizione, di avere le idee chiare sulla giustizia. Non si può un giorno chiede al ministro la linea dura sui reati e il giorno dopo essere garantisti oltre misura". Il ministro della Roberto Castelli lancia da Lecco un richiamo forte alla maggioranza di governo ad una maggiore coerenza sulla delicata questione della giustizia nel corso del convegno dedicato alla sicurezza organizzato dai Giovani di Confcommercio.

Il Guardasigilli, dopo le polemiche che in questi giorni lo hanno visto scontrarsi con il collega di governo Giovanni Alemanno all’indomani della notizia della prescrizione delle pene per i tre colpevoli della strage di Primavalle dove trovarono la morte i due fratelli Virgilio e Stefano Mattei figli di una segretario della sezione dell’Msi, torna a richiamare gli alleati ad una maggiore coerenza in un momento in cui approdano in parlamento importanti leggi in grado di modificare il peso delle pene.

"La mia azione in questi anni di governo è sempre andata verso un rafforzamento della certezza della pena, non sempre ho trovato, nei fatti analoga sintonia nella maggioranza. Troppo spesso mi sono visto chiedere l’applicazione dello strumento dell’indulto con la giustificazione di liberare le carceri per il sovraffollamento. Un modo per vanificare gli sforzi di assicurare i criminali alla giustizia".

Quasi a voler mettere alla prova le dichiarazioni di principio dei partiti del centrodestra, Castelli ha ricordato la legge Cirielli in discussioni ora in parlamento che prevede meno garanzie per i recidivi e maggiori possibilità di riscatto per chi delinque la prima volta. "Una filosofia - secondo Castelli - che nasce dalla constatazione che la stragrande maggioranza dei delitti è compiuta da una piccola percentuale della popolazione: i cosiddetti recidivi".

Proprio nei confronti di questi criminali occorre, secondo il Guardasigilli, ridurre il più possibile gli spazi per l’applicazione degli sconti di pena che inducono nei cittadini un senso di sfiducia nei confronti della giustizia. "Con questo atteggiamento - ha sottolineato - gli Stati Uniti hanno drasticamente abbassato il tasso di criminalità. A Washington gli omicidi sono addirittura dimezzati. È un sistema decisamente deterrente per la criminalità".

Castelli ha poi spiegato che qualcuno ha calcolato che la Cirielli comporterebbe un aumento di 20 mila unità nella popolazione carceraria. "Io di calcoli non ne faccio - ha precisato -. Spero non sia così perché 20 mila detenuti in un colpo solo non riusciremmo ad assorbirli. Certamente aumenteranno, ma è questa la norma: chi è atto a delinquere lo lasciamo fuori a tormentare i cittadini o lo mettiamo in condizioni di non nuocere?".

Al convegno lecchese era presente anche la figlia di Giuseppe Maver, il benzinaio ucciso il 25 novembre scorso a Lecco da due rapinatori, di cui uno minorenne. Viviana Maver, figlia del benzinaio ucciso, ha ribadito che è intenzione della famiglia riaprire la pompa di benzina teatro dell’omicidio per continuare nel lavoro del padre.

Droghe: il 27% della popolazione carceraria è tossicodipendente

 

Redattore Sociale, 1 febbraio 2004

 

Circa il 27% della popolazione carceraria è tossicodipendente (pari a 15.173 persone), ma la percentuale in alcuni penitenziari sale al 40-45%, secondo i dati rilevati nel 2001. Ma è ampia anche la compresenza di dipendenza da sostanze e problemi psichiatrici: si tratta di cifre significative, con punte sfiorano il 50%. Lo evidenzia la ricerca "La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti", a cura di Vittorino Andreoli, coordinatore del comitato scientifico della ricerca promossa dall’Ufficio studi del Dipartimento amministrazione penitenziaria.

Lo studio, pubblicato alla fine dello scorso anno, riporta i risultati di un progetto triennale (svolto dal 2000 al 2003) condotto dall’Ufficio studi, ricerche, legislazione e rapporti internazionali del Dap, finanziato dal Fondo Nazionale per la lotta alla droga (Art. 127 L. 309/90) e gestito dall’allora Dipartimento per gli Affari Sociali – Presidenza del Consiglio dei Ministri.

L’obiettivo del progetto pilota era quello di focalizzare strumenti di valutazione e di intervento per rispondere alle necessità cliniche di questa fascia di detenuti. L’indagine ha analizzato, in particolare, due istituti: il "Due Palazzi" di Padova e la Casa circondariale "Regina Coeli" di Roma, dove sono stati distribuiti test psicodiagnostici ai detenuti risultati suscettibili di doppia diagnosi psichiatrica dopo l’esame delle interviste autocompilate. Lo studio, che ha comportato una convenzione con le Asl di riferimento (Ussl 16 di Padova e Asl RM A), è stata divisa in due fasi. Nella prima, la ricerca si è proposta di considerare tutta la popolazione tossicodipendente, a rischio di "doppia diagnosi", usando uno strumento che potesse essere distribuito dal personale di Polizia Penitenziaria opportunamente formato a questo scopo. Sono stati quindi distribuiti dei questionari, messi a punto dal professor Andreoli assieme al dottor Carmelo Cantone, allora direttore del carcere di Padova. Nella seconda fase sono stati invece distribuiti dei test psicodiagnostici ai detenuti risultati a dubbio di "doppia diagnosi".

Quella della doppia diagnosi risulta essere "una terra di nessuno dove le persone, che sono al tempo stesso affette da disturbi mentali e tossicomani, non possono essere trattate dalla sola psichiatria classica, ma ancora meno dalle sole strutture destinate ai tossicomani", commenta nell’introduzione il direttore dell’Ufficio Studi e Ricerche del Dap, Giovanni Tamburino, responsabile del progetto. Un’indagine non facile, quindi, "soprattutto perché non esistono ancora statistiche affidabili sull’argomento a livello europeo, né strutture specifiche di presa in carica delle persone che mostrino una doppia patologia, situazione questa particolarmente inquietante nel caso delle popolazioni carcerarie".

 

Su 165 tossicodipendenti, di Padova e Roma, il 77% ha problemi psichiatrici

 

Su 165 detenuti tossicodipendenti negli istituti penitenziari "Due Palazzi" di Padova e "Regina Coeli" di Roma, ben il 77% ha problemi psichiatrici, quindi ha una "doppia diagnosi". Tra loro, il 52% era costituito da italiani, il resto da stranieri. È quanto emerge dalla ricerca "La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti", a cura di Vittorino Andreoli, coordinatore del comitato scientifico della ricerca promossa dall’Ufficio studi del Dipartimento amministrazione penitenziaria.

Il campione analizzato in entrambe le carceri era composto da 422 detenuti, di cui 253 italiani (60%) e 169 stranieri; tra loro, il 65,2% degli italiani si dichiara tossicodipendente, contro il 62,1% degli stranieri. Gli eventuali ricoveri per tossicodipendenza si sono verificati per il 38,7% dei connazionali e per il 19,5% degli stranieri, mentre il 55,7% degli italiani dichiara di essere stato in comunità terapeutica (44,3% degli stranieri). Il 21,7% degli italiani ha avuto ricoveri in psichiatria, percentuale superata dagli stranieri con il 22,5%; al 17,8% dei connazionali è stato diagnosticato un disturbo psichiatrico (13,6% degli stranieri). Gli intervistati che ritengono di soffrire di un disturbo psichiatrico sono complessivamente il 24,2%, mentre ben il 16,8% ha familiari che hanno sofferto di malattie psichiatriche e, tra loro, il 49,3% ritiene di aver manifestato gli stessi sintomi emersi nei parenti. E il 34,8% dei detenuti interpellati (il 44,4% degli stranieri, il 28,5% degli italiani) teme di impazzire, mentre il 39,1% ha chiesto la visita psichiatrica.

"Non bisogna pensare che la doppia diagnosi sia la sommatoria di una diagnosi di abuso di sostanze fino alla dipendenza e di una diagnosi psichiatrica – spiega Andreoli -. Ciò che si aggiunge nella doppia diagnosi, alla dipendenza, all’abuso di sostanze, non è una problematica legata ai disturbi della personalità. In altri termini, è chiaro che chi consuma sostanze stupefacenti può, in linea di principio, essere ritenuto come un soggetto che sposta la soluzione di certi bisogni individuali, e li sposta attraverso un comportamento che è quello dell’uso di sostanze. La doppia diagnosi si ha quando il quadro clinico contempla precise categorie diagnostiche, che vanno dai processi dissociativi alla depressione, insomma tutti quei quadri che danno la precisa indicazione che, se non ci fosse la tossicodipendenza, ci sarebbe comunque in quel soggetto un diverso quadro psichiatrico".

Quindi, conclude il professore, "se ci si occupa di un tossicodipendente, vedendolo solo come tossicodipendente, e ignorandone la diagnosi dissociativa, possiamo essere sicuri che l’intervento, il migliore possibile che si possa mettere a frutto sulla tossicodipendenza, non ci permetterebbe di risolvere il problema".

Nel corso dell’indagine sono emerse alcune difficoltà, anzitutto di comprensione della lingua italiana sia scritta che parlata per i detenuti stranieri, che hanno riscontrato anche difficoltà culturali per significati differenti attribuiti alle parole e alle frasi. Non è stato facile neppure trovare spazi e orari adeguati per la somministrazione dei test, e stimolare "una adeguata partecipazione alla ricerca da parte dei detenuti: spesso infatti si aspettavano qualcosa in cambio". Senza dimenticare il continuo turn-over di detenuti, per uno spostamento di sede oppure per l’uscita dal carcere.

Droghe: doppia diagnosi, al primo posto i disturbi border-line

 

Redattore Sociale, 1 febbraio 2004

 

Su 101 detenuti tossicodipendenti nel carcere "Due Palazzi" di Padova, quelli con profilo psicopatologico sono oltre la metà (62), con sintomi psicotici nel 53,2% dei casi; una percentuale analoga si è riscontrata nella Casa circondariale "Regina Coeli" di Roma: il 60% dei 100 detenuti interpellati ha un profilo psicopatologico, con sintomatologia psicotica nel 53,3% dei casi, nevrotica nel 33,3%. I dati emergono dalla ricerca "La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti", promossa dall’Ufficio studi del Dipartimento amministrazione penitenziaria e curata di Vittorino Andreoli, coordinatore del comitato scientifico dello studio.

I risultati dimostrano un trend simile, per quanto riguarda la diagnosi rilevate nel carcere di Padova e di Roma; al primo posto, in entrambi i penitenziari, i disturbi borderline di personalità, a cui seguono i disturbi antisociali di personalità, quelli d’ansia, un quadro psicotico sintomatico, un disturbo depressivo con tratti psicotici. Per quanto riguarda una costante nei casi analizzati, "una caratteristica psichica e comportamentale che si può rilevare estensivamente - e che costituisce un elemento unitario tra disturbi da uso di sostanze e disturbi psichiatrici - è l’impulsività", nota la ricerca, precisando che l’impulsività elevata "è presente nei disturbi di personalità, nei bipolari e nei tossicodipendenti. L’associazione tra disturbi di personalità e abuso di sostanze si è mostrata capace di predire la facilità a commettere reati, in particolare per ciò che concerne il disturbo di personalità borderline e quello antisociale", nota la ricerca.

Per quanto concerne il trattamento terapeutico, anche l’uso di metadone di mantenimento "andrebbe incontro a un peggiore esito nei casi in cui al disturbo additivo si associano disordini affettivi, ansia e disturbi della personalità", riferisce lo studio, sottolineando la "marcata necessità di interventi terapeutici inerenti la salute mentale in carcere: gli obiettivi principali sono quelli di implementare la capacità di relazione sociale e le abilità a vivere in modo indipendente". Infine, "i pazienti con più grave comorbilità ritornano con maggiore difficoltà all’integrazione sociale e presentano un esito negativo in risposta ai più comuni trattamenti, facendo maggior ricordo ai servizi sanitari e sociali". È stata anche rilevata la necessità di attivare, per i detenuti con disturbi psichiatrici, "strumenti terapeutici integrati, mirati sia al trattamento dello specifico disturbo psichiatrico, sia alla socializzazione e al controllo dell’aggressività".

Milano: City Angels; clochard in trattamento sanitario obbligatorio

 

Redattore Sociale, 1 febbraio 2004

 

È morto di freddo, ma non di solitudine. Quando l’hanno trovato sulla panchina di piazza Duca D’Aosta, davanti alla Stazione Centrale di Milano, Giacinto Naselli, 45 anni, ex tossicodipendente e malato di Aids, era ancora avvolto nel paltò con cui l’aveva coperto l’amico Paolo, senza fissa dimora come lui. Ma nella notte più fredda dell’anno, anche la calorosa attenzione di un amico non è bastata ad evitare il peggio. Per evitare che il freddo dell’inverno milanese uccida altre persone, i City Angels propongono il trattamento sanitario obbligatorio per i senza fissa dimora che rifiutano l’aiuto di Comune e associazioni.

"Non è una provocazione - conferma Mario Furlan, presidente dei City Angels -. In seguito alla morte di Giacinto questo strumento diventa una possibilità per le persone senza fissa dimora che non vogliono farsi assistere, tra cui ci sono alcolisti, tossicodipendenti e malati di Aids". Il trattamento sanitario obbligatorio, di norma, è un procedimento attuabile nei confronti di soggetti incapaci di intendere e di volere, "ma in questi casi non si tratta di persone malate di mente - precisa Furlan -.

Sono soggetti che si trovano in una ‘zona grigià, tra la follia e la lucidità, soprattutto quando fanno abuso di sostanze o di alcool. Dovrebbero quindi essere curati e assistiti anche contro la loro volontà, ma ci vorrebbero procedure semplificate per il loro ricovero".

La proposta di Furlan non convince i volontari del Naga, associazione impegnata nell’assistenza socio-sanitaria a nomadi e immigrati: "Èuna proposta non opportuna - commenta Fabio Parenti -. Non si possono mettere sullo stesso piano un tossicodipendente e un malato di mente che vivono sulla strada, né applicare limitazioni alla libertà di chi non rientranei criteri del trattamento sanitario obbligatorio".

L’alternativa del Naga è una proposta contenuta in una lettera al prefetto di Milano Bruno Ferrante, articolata in tre punti: una moratoria fino a fine marzo riguardante tutti i singoli e le famiglie sotto sfratto; una moratoria agli sgomberi delle baraccopoli situate sul territorio metropolitano e l’apertura di luoghi per il ricovero notturno (come i mezzanini della metropolitana) in più punti della città, a prescindere dalla posizione amministrativa delle persone.

"Analoghi provvedimenti esistono già in altri Paesi dell’Unione europea", si legge nel testo della lettera. In Francia, per esempio, "esiste un blocco degli sfratti durante il periodo invernale". Il documento, in cui si chiede un incontro con il Prefetto di Milano, è stato sottoscritto anche da Sin Cobas, Centro sociale Leoncavallo, Baggio Social Forum, Associazioni Dimensioni diverse, Giovani Comunisti, Arci e dal giornale di strada Terre di Mezzo.

Padova: "mattinata in galera" per 160 studenti delle superiori

 

Il Gazzettino, 1 febbraio 2004

 

Sono arrivati in 90 il 24 gennaio, in 70 il 31, tutti giovani studenti delle scuole superiori di Padova, accompagnati dai loro insegnanti, per entrare in un carcere. Qualcuno col documento sbagliato, qualcuno con sciarpe e berretti che coprivano la faccia, tutti col telefonino. "Ripuliti" dai cellulari e "messi in riga", con le facce in bella vista (perché entrare in un carcere non è uno scherzo, nemmeno se si è solo visitatori), hanno affrontato una "mattinata in galera", parte di un progetto importante, sostenuto dal Comune di Padova, assessorato alle Politiche sociali, e realizzato da due associazioni, Il Granello di Senape e Tangram, in collaborazione con la Casa di reclusione Due Palazzi.

È un’occasione davvero straordinaria, un percorso costruito perché i ragazzi capiscano che il carcere non è una realtà così lontana, così fuori dal mondo. Il progetto ha portato e sta ancora portando nelle scuole alcuni detenuti, a rispondere alle domande dei ragazzi, e alcuni operatori penitenziari a parlare della realtà istituzionale degli Istituti di pena, e poi, prima di questi incontri finali in carcere, c’è stata una produzione scritta di testi per la rivista del Due Palazzi, "Ristretti Orizzonti". Ne uscirà un numero speciale, fatto interamente con articoli degli studenti, alcuni scritti prima di iniziare il percorso, con dentro tutto quello che un ragazzo può immaginare sul carcere guardando soprattutto i film americani, altri scritti dopo, già con un’idea diversa, con alcune curiosità soddisfatte, con la voglia di capire, di ascoltare, di confrontarsi con chi in carcere ci vive e chi ci lavora. E poi ci sarà un video, realizzato dal TG 2Palazzi, con interviste incrociate tra detenuti e studenti, e molto materiale documentario, fornito ai ragazzi, per le loro ricerche, dal Gruppo Rassegna Stampa che opera in carcere.

Per gli studenti, un doppio risultato: essere un po’ più informati, e anche più attenti ai percorsi che possono portare a violare le regole, e imparare concretamente a scrivere un articolo di giornale, che è poi la prova scritta dell’Esame di Stato.

Il programma strettamente "carcerario" è stato un mix di musica, con il gruppo musicale dei detenuti, la Extra & Communitarian Orchestra, e alcuni studenti che hanno provato e poi suonato con loro, e di parole, con i ragazzi impegnati a fare domande, lasciando da parte l’emozione del luogo in cui si trovavano, e gli adulti a rispondere: i detenuti; il direttore e gli operatori della Casa di reclusione; i volontari, illustrando il progetto che ha portato gli studenti "dentro"; i funzionari del Comune, dando un quadro chiaro di come il territorio risponde alle esigenze di offrire alle persone che escono dal carcere prospettive di reinserimento concrete.

Milano: creare impresa in carcere, per preparare il futuro

 

Vita, 1 febbraio 2004

 

Redimere chi è finito in carcere non rientra tra le competenze del Consorzio Nova Spes, realtà che opera in quasi tutte le case circondariali lombarde e che, nel 1988, come l’araba fenice, è rinato dalle proprie ceneri raccogliendo l’input del cardinale Carlo Maria Martini. Un invito raccolto da realtà quali Caritas Ambrosiana, Compagnia delle Opere - Federazione Impresa sociale e Fondazione Exodus.

Questi i soggetti sociali che sei anni fa hanno iniziato a lavorare per non disperdere il patrimonio della Spes spa, società della Regione Lombardia che si occupava di lavoro nelle carceri. Da lì il Consorzio Nova Spes ha iniziato a scrivere un nuovo capitolo coniugando la razionalizzazione dei processi produttivi e d’impresa con la messa in campo di un progetto sociale nelle carceri.

Una sfida vinta visto che il gruppo non solo ha saputo dare attenzione alla persona in carcere, offrendole un aiuto nel difficile processo di conquista dell’autonomia e responsabilità avviandone così il reinserimento sociale, ma ha anche garantito produzione e qualità, come attesta la certificazione Iso 2000.

"Ma per fare ciò non bisogna attendere il momento in cui il soggetto torna in libertà", spiega Riccardo Rebuzzini del Consorzio Nova Spes. "La creazione di impresa nelle carceri ha la finalità principale di accompagnare i detenuti alla costruzione di una nuova autonomia dell’individuo". Ma gli operatori del consorzio sanno bene che se da un lato il lavoro nobilita, dall’altro può essere un mezzo non sufficiente a centrare l’obiettivo. Per questo hanno introdotto la formula del 4 + 1: un mix composto da quattro giorni di lavoro seguiti da una giornata di formazione. "L’attività principale svolta da quasi 150 detenuti (di questi una trentina usufruisce di forme di carcerazione alternativa) è il trattamento di dati.

Ci occupiamo di trasferire documenti o archivi cartacei su supporto informatico". "Il lavoro però non deve essere la nostra unica finalità", continua Rebuzzini. "Il carcere contribuisce ad abbassare se non azzerare il livello di responsabilità dei detenuti, l’attività lavorativa invece lo rimette in gioco in termini di tempistica e mansioni da rispettare, avviando così di fatto anche un percorso di riprogettazione del futuro del carcerato".

Processi non semplici tanto che c’è anche chi non ce la fa o chi, dopo anni di detenzione, torna a delinquere. "Se riuscissimo a ottenere il 100% dei risultati, meriteremmo il Nobel per l’economia per aver costruito un’impresa con gente che è stata allontanata dai circuiti imprenditoriali. La nostra percentuale di successo supera il 50%. Confortanti anche i dati dell’amministrazione penitenziaria", spiega Rebuzzini.

"Chi riesce a mantenere il lavoro nel primo anno post detenzione, abbassa del 60% le possibilità di rientrare nel circuito delinquenziale. Ma perché ciò possa accadere l’approccio al lavoro deve iniziare in carcere". Il Consorzio, oltre all’elaborazione informatica, ha attivato servizi di pulizia e assemblaggio. Il comparto principale resta però quello informatico e la gestione fisica dei documenti i quali vengono catalogati e riordinati in un capanno di Peschiera Borromeo.

In questo campo la Nova Spes ha saputo diventare una realtà nazionale, sviluppando dietro le sbarre non solo capacità imprenditoriali, ma anche professionali. "Una volta liberi sappiamo che non è facile trovare lavoro, ma così è più semplice", conclude. "Lavorare in carcere permette di attivare contatti e conoscenze che possano rivelarsi poi utili per trovare una sistemazione".

 

Consorzio Nova Spes onlus

Via Montecuccoli 21/a - Milano

Fax: 02.48371941

consnovaspes.dir@tiscali.it

Matera: nasce uno sportello per l'accesso alle pene alternative

 

Comunicato Stampa, 1 febbraio 2004

 

Ha aperto ufficialmente i battenti giovedì 2 dicembre scorso a Matera lo Spin "Vologiù" (SPortello INformativo VOLOntariato GIUstizia). Frutto di un Protocollo d’Intesa fra CSSA della Basilicata e Associazione "Cittadini Solidali" - membro della CRVG della Basilicata - lo Sportello svolge un servizio di informazione rivolto a tutte le persone che possono accedere alle pene alternative alla detenzione e alle loro famiglie, avvalendosi della presenza di assistenti sociali del CSSA e di volontari dell’Associazione. Attraverso lo Sportello, gli utenti possono ricevere anche informazioni sulle modalità di accesso al gratuito patrocinio. Per il momento, l’orario di apertura del servizio è di due ore settimanali. Per presentare ufficialmente l’iniziativa, si sta progettando un convegno che si svolgerà a Matera il 18 febbraio 2005, a cui parteciperanno Livio Ferrari e Alessandro Margara. Seguiranno informazioni più precise.

Chi volesse saperne di più, può contattare sr. Lucia Cima in Caritas Diocesana di Matera (0835 330060) o attraverso e-mail: lucaniacvg@hotmail.com Le assistenti sociali del CSSA sono Anna Rita Di Gregorio e Nicoletta Serra (tel. 0971 411472).

Iraq: disordini in un carcere, guardie Usa uccidono 4 detenuti

 

Reuters, 1 febbraio 2004

 

Truppe americane hanno ucciso quattro prigionieri durante disordini in un carcere militare nell’Iraq meridionale e altri sei detenuti sono rimasti feriti ieri, riferiscono i militari Usa. I disordini al Theater Internment Facility di Camp Bucca sono scoppiati dopo un’ispezione di routine per il contrabbando in uno dei dieci compound del campo e si sono estesi ad altre tre strutture, con detenuti che lanciavano pietre e oggetti, dicono i militari. Le guardie Usa hanno aperto il fuoco dopo 45 minuti dall’inizio dei disordini. I feriti sono stati provocati sia dalle guardie che da altri detenuti durante i disordini, riferiscono i militari.

Fabrizio Rossetti (Fp-Cgil): il carcere? è una discarica sociale…

 

Liberazione, 1 febbraio 2004

 

"Il carcere? Una discarica sociale, altro che struttura rieducativa". "Il carcere, nell’immaginario collettivo è un luogo dove scaricare le contraddizioni, le emarginazioni, i conflitti che il vivere sociale non riesce a risolvere. Sostanzialmente il carcere è sofferenza per chi è costretto a viverci da recluso e per chi è costretto a lavorarci".

Sofferenza però, come spiega a Liberazione Fabrizio Rossetti, responsabile nazionale area carcere della Cgil-Fp, che non è sempre uguale: varia di intensità e in questi ultimi quattro anni di governo del centrodestra ha superato livelli di umana sopportazione.

"Non solo ci deve essere la maturazione di una coscienza collettiva che superi il bisogno del carcere, che faccia in modo che non sia l’unica risposta che la società sappia offrire al crimine, alla devianza, al reato. Ma c’è anche da porsi il problema di come si amministrano le carceri, se si tagliano i fondi per investimenti e spese viene meno la funzione rieducativa della pena".

 

Come si è arrivati all’attuale collasso del sistema carcerario?

Sono state drammaticamente ridotte le risorse che lo Stato, il Parlamento, la società civile ha sempre destinato al carcere. Nel 2001 l’amministrazione penitenziaria spendeva all’incirca 105 milioni di euro per il funzionamento del servizio sanitario e farmaceutico, nel 2004 le spese previste nel bilancio sono state di 75 milioni di euro. Una riduzione così drastica degli investimenti fa sì che il livello di assistenza sanitaria in carcere sia gravemente compromesso.

 

Quanto compromesso?

Spariscono le medicine, sparisce la strumentazione, sparisce il servizio di guardia medica, si taglia il servizio infermieristico. Ci sono istituti, soprattutto i più piccoli, che non possono permettersi il servizio di guardia medica interna. Carceri, questi, dove se si sente male un detenuto sono costretti a chiamare il 118. Con tutte le contraddizioni e le difficoltà del caso: con l’aggravante che il cittadino recluso non ha la possibilità di scegliere il tipo di assistenza sanitaria.

 

C’è una responsabilità diretta del ministro Castelli?

Assolutamente. Perché da un lato taglia risorse da destinare alla attività sanitaria interna, dall’altro lato blocca la legge di riforma approvata nel ‘99 che affida l’assistenza sanitaria in carcere non più al ministero di grazia e giustizia ma al sistema sanitario nazionale. Riforma che doveva partire dal 2001. Quella legge tutt’ora è inapplicata, il parlamento non ha mai inteso rivendicare la mancata applicazione della riforma e neanche la Conferenza Stato-Regioni si è resa conto che esiste un problema macroscopico di diversa attribuzione delle competenze: la riforma del Titolo V della Costituzione affida totalmente alle regioni l’attività di assistenza sanitari ai cittadini, evidentemente c’è una deroga informale, che non sta però scritta da nessun parte, ma è sostanziale ed il risultato è la totale illegalità dell’amministrazione sanitaria in carcere. Ammesso e non concesso che un ministro della giustizia possa sospendere una legge perché non gli piace, in quattro anni non ha offerto nessun alternativa al collasso.

 

Un collasso, dunque, economicamente pianificato?

E che purtroppo si riflette sulla vita quotidiana dei detenuti. Un altro taglio di finanziamento che può dare il senso del collasso strutturale degli istituti di pena è quello destinato alla spese di manutenzione e riparazione degli immobili. Tutte quelle spese che generalmente concorrono a far diventare dignitoso un carcere: soldi destinati ad esempio per la riparazione di un lavandino, di una perdita d’acqua. Spese che rendono inevitabilmente più umano il carcere. Anche queste spese sono state tragicamente ridotte in questi quattro anni, da 22 milioni di euro a 16 milioni.

 

Ma le carceri non dovevano essere messe a norma entro il 2005?

C’era l’obbligo, secondo il regolamento Corleone del 2000, di mettere a norma gli istituti. Ad esempio dotando le celle di una doccia e creare luoghi per l’affettività, la scadenza era entro il 2004. Ovviamente non è stato fatto nulla, anche perché quel regolamento non prevedeva penali. E Castelli si è sentito in diritto di violare. Naturalmente questa messa a norma degli istituti si fa con i fondi, se i fondi non si stanziano non c’è la volontà politica di rendere umani i luoghi di detenzione. Non a caso in questi quattro anni sono state decurtate anche le spese per le attività culturali e scolastiche: si è passati dai quattro milioni di euro del 2001 a due milioni e mezzo del 2004. Decurtato anche lo stanziamento per pagare i detenuti che lavorano per l’amministrazione penitenziaria da circa 58 milioni di euro ai 48 milioni del 2004.

 

Qual è l’effetto più devastante di tutti questi mancati finanziamenti?

Il carcere che diventa discarica sociale. Il nostro sistema penitenziario prevede come obiettivo finale il reinserimento penale e introduce alcuni parametri attraverso i quali valutare il percorso del condannato e giudicarsi più o meno meritevole di essere reinserito. Parametri come il lavoro, la famiglia e quindi la capacità di mantenere relazioni con l’esterno, cultura e attività professionali come la partecipazione a corsi di formazione e di scolarizzazione. Un sistema selettivo e classista, perché chi ha già un lavoro, la famiglia e la cultura ha naturalmente gli strumenti e la capacità di accedere in carcere ai circuiti alternativi, ma chi non ha questi strumenti ha difficoltà estreme ad accedere ai percorsi che portano al reinserimento. Se si tagliano risorse destinate ai corsi di formazione, agli educatori, alla scuola - al principio classista dell’ordinamento penitenziario - si aggiunge una discriminazione altrettanto classista delle istituzioni. Ed è quello che sta accadendo. Attraverso il taglio mirato del bilancio sta passando l’idea di un carcere dentro il quale si rinchiudono i reietti, gli ultimi.

Cagliari: attentato a Buoncammino, domani il via alle perizie

 

L’Unione Sarda, 1 febbraio 2005

 

L’ipotesi di un attentato messo a segno dalla criminalità organizzata comune prende sempre più forza. A una settimana dal botto di Buoncammino i gruppi eversivi sardi non hanno mandato alcun alcun segnale, ed è singolare. Ma non è comunque questo l’unico motivo a indurre gli inquirenti spostare il raggio d’azione. Finora gli antagonisti hanno infatti usato bombe confezionate con esplosivi a basso potenziale, eccezion fatta per l’attentato a Mario Diana, il 23 dicembre di due anni fa a Oristano. Ma lunedì notte davanti al carcere di Buoncammino c’era qualcosa di diverso: un’auto-bomba con un ordigno micidiale che avrebbe potuto fare una strage.

Domani mattina gli esperti del Ris inizieranno le analisi tecniche insieme ai consulenti eventualmente nominati dalla direzione del carcere, dall’amministrazione penitenziaria, dal proprietario della macchina rubata per essere trasformata in bomba, e dal carabiniere di Quartu sotto processo a Genova per i pestaggi durante il G8 che, alla stessa ora, subiva un attentato davanti a casa. Soltanto dopo aver accertato la natura dell’esplosivo i carabinieri passeranno alle comparazioni con gli ordigni esplosi in passato e rivendicati dai gruppi eversivi.

Senza dimenticare la criminalità comune. E qui la memoria va subito all’attentato del 21 dicembre 2001 quando ad Assemini fu ucciso un trafficante di droga cagliaritano, Giuseppe Loddi: una bomba nel vano motore della sua Punto esplose non con l’accensione ma qualche istante dopo. Si ipotizzò anche allora un telecomando ma le indagini non riuscirono a chiarire la circostanza perché la macchina fu distrutta dalla deflagrazione. Proprio come la Y10 di Buoncammino.

I due attentati al momento hanno in comune soltanto il mezzo (l’autobomba) e la potenza dell’esplosione. Per il resto sono soltanto ipotesi. Certo è però che gli investigatori si stanno concentrando sul carcere, stanno cioè controllando i nomi dei detenuti per capire se la bomba possa essere stato un invito rivolto a qualcuno per convincerlo a non parlare. Nel frattempo dal riserbo delle indagini sugli attentati collegabili al mondo dell’eversione filtra una notizia: un nuovo filone collegherebbe Mario Floris, - un dipendente della Prefettura di Cagliari arrestato l’8 ottobre scorso per l’attentato di due giorni prima contro l’abitazione del prefetto Efisio Orrù - a Luca Farris, il ventiseienne operaio di Assemini arrestato il 2 febbraio 2004 per gli attentati rivendicati da Asai (anonima sarda anarchici insurrezionalisti).

Il difensore dell’anarchico (che peraltro domani tornerà libero), l’avvocato Carmelino Fenudi, nega il legame tra Floris e Farris mentre fonti investigative confermano la pista. Mario Floris, che in casa conservava scritti sul mondo anarchico, assomiglierebbe all’uomo descritto da un testimone dopo uno degli attentati rivendicati da Asai: 50 anni, grosso e non grasso, alto circa un metro e 80, capelli corti, gli occhi dal taglio particolare, naso da pugile.

Per gli investigatori potrebbe essere l’identikit di Mario Floris. Quando fu interrogato dal gip, subito dopo il fermo, Floris confessò l’attentato al prefetto, colpevole a suo dire di averlo perseguitato sul lavoro, ma negò altre minacce e attentati nel comune di Sarroch dei quali era da tempo fortemente sospettato. Quanto a Farris, durante i numerosi interrogatori in carcere col pm antiterrorismo Paolo de Angelis, ha sempre detto di aver fatto tutto da solo e di non conoscere nessuno del mondo anarchico, sardo o nazionale.

Farris fu arrestato un anno fa subito dopo aver spedito una lettera di minacce al Capo dello Stato Ciampi in visita in Sardegna. Da quel momento gli attentati, fin lì messi segno con un cadenza impressionante (ventidue in due mesi), sono cessati. Questo proverebbe la veridicità delle affermazioni di Farris. Ma ora questo nuovo filone d’indagine potrebbe rimettere in discussione tutto.

Como: per carnevale il carro "recluso", costruito al Bassone

 

La Provincia di Como, 1 febbraio 2005

 

Detenuti in permesso premio, per partecipare al Carnevale comasco. È questa la nota più curiosa ma anche più positiva della 18.a edizione del corso mascherato promosso e organizzato dalla Pro Loco Como, che domenica vedrà sfilare per le vie del centro cittadino anche il carro "Recluso", in costruzione in queste ore all’interno della casa circondariale del Bassone, a cura degli ospiti e delle ospiti, che si stanno occupando dell’allestimento della struttura e della confezione dei costumi.

E grazie all’intervento del magistrato e della direttrice del carcere, 7 detenuti saranno sul carro per condividere con gli altri partecipanti e gli spettatori, l’allegria e la spensieratezza di quello che non a torto viene definito il giorno più pazzo dell’anno.

Regista dell’operazione è Mauro Imperiale, responsabile dell’area educativa: "La nostra partecipazione con la coreografia "I colori della libertà" – spiega – vuole essere un messaggio alla città per far pensare e riflettere sui detenuti, che devono essere accolti come parte integrante del tessuto sociale, con la società disponibile al loro percorso di reinserimento".

Il carro – realizzato in collaborazione con Nerolidio, istituto don Guanella e con l’assistenza tecnica del consigliere comunale Luigi Nessi e il supporto morale della stessa Pro Loco – è composto da una struttura in legno e metallo larga 1,8 metri e lunga 3,20 che ripropone una cella con la porta aperta e tutt’intorno i carcerati con tanto di pigiamone a righe e palla al piede, con contorno di secondini sotto i cui panni si nascondono volontari e operatori del carcere. A trainare questa sorta di viaggio della speranza un trattore messo a disposizione e condotto dall’agricoltore Paolo Bianchi.

Caltanissetta: Comune diventa socio Fondazione per ex detenuti

 

La Sicilia, 1 febbraio 2005

 

Per l’adozione di uno dei 40 ettari dell’ex fondo "Sturzo", in contrada "Russa dei boschi", territorio di Caltagirone, l’amministrazione comunale diventa "socio onorario benefattore" della fondazione di promozione umana "Mons. Francesco Di Vincenzo".

La fondazione, che ha sede ad Enna, si prefigge il compito di inserire nella vita sociale i detenuti e le loro famiglie, che saranno ospiti del fondo di contrada "Russa dei boschi", un tempo residenza estiva della famiglia Sturzo di Caltagirone.

"In territorio di Caltagirone, presso il feudo rurale storico dei venerandi fratelli Mario e Luigi Sturzo, rispettivamente vescovo di Piazza Armerina per 36 anni e fondatore del Partito Popolare Italiano - scrive il presidente della fondazione Salvatore Martinez al sindaco Giovanni Virnuccio - sorgerà un’opera sociale. La realizzazione del progetto è stata affidata dal vescovo di Piazza Armerina, mons. Vincenzo Cirrincione, e dal suo successore, mons. Michele Pennisi, alla fondazione "Istituto di promozione umana mons. Francesco Di Vincenzo, un ente morale diocesano".

"Non potevamo non aderire - dice il sindaco Virnuccio - a questa opera sociale che, guardando con attenzione al mondo carcerario, consentirà il pieno recupero della dignità umana dei singoli e delle loro famiglie". Per l’adesione, il Comune verserà alla fondazione una quota di 5 mila euro per 5 anni.

Honduras: due reclusi uccisi e decapitati in regolamento di conti

 

Ansa, 1 febbraio 2005

 

Vittime di altri detenuti durante un regolamento di conti nel carcere Marco Aurelio Soto, alla periferia di Tegucigalpa. Due reclusi honduregni sono stati uccisi e decapitati da altri detenuti durante un regolamento di conti nel carcere Marco Aurelio Soto, alla periferia di Tegucigalpa.

Isaias Flores, 23 anni, e suo fratello Samuel, 26, sono stati accoltellati a morte ed i loro cadaveri sono poi stati decapitati con un machete da altri detenuti. Le due vittime erano state condannate a pesanti pene detentive per omicidio e rapina, ha rivelato il portavoce della polizia locale, Miguel Martinez. Il governo ha inviato nel penitenziario 100 agenti antisommossa per evitare altri fatti di sangue e impedire rivolte, ha aggiunto Martinez.

Arezzo: gli agenti protestano contro il sovraffollamento

 

Ansa, 1 febbraio 2005

 

Otto in una cella: in tanti sono costretti a vivere i detenuti del carcere di San Benedetto, ad Arezzo. La denuncia arriva dagli agenti della polizia penitenziaria che questa mattina hanno protestato con un sit-in davanti al carcere e con un corteo che ha raggiunto la sede della Prefettura a "Poggio del Sole". Gli agenti hanno chiesto al Prefetto di farsi portavoce presso il Governo per sollecitare la realizzazione di un nuovo edificio. Inoltre sono stati anche richiesti altri agenti.

 

Rispettare la dignità della persona

 

Il gruppo UDC in Consiglio Comunale interviene sul problema del carcere di San Benedetto: "È necessario dare una risposta estremamente urgente ai problemi del carcere aretino di San Benedetto - afferma Giovanni Grazzini, Vicecapogruppo UDC in Consiglio Comunale - infatti, con il sovraffollamento, gli organici ridotti della Polizia Penitenziaria e le carenze strutturali si rischiano non solo problemi di sicurezza interna al carcere ma anche di natura socio-sanitaria per le numerose tossicodipendenze.

Ciò che preme ricordare è che la funzione del carcere non deve essere solo punitiva ma deve permettere un percorso di reinserimento nella società: la dignità umana non va mai calpestata ed anche nel carcere deve rimanere al centro degli interventi dell’amministrazione penitenziaria.

Lo Stato ha la possibilità di riaffermare il diritto e la doverosa certezza della pena solo se mantiene la cultura del rispetto della persona anche nelle strutture penitenziarie".

"Questi principi, per noi fondamentali, non devono rimanere solo belle parole - continua Grazzini - servono da subito fatti concreti come le ristrutturazioni dei locali, il rafforzamento degli organici degli agenti di polizia penitenziaria e alcuni trasferimenti che alleggeriscano le presenze a San Benedetto. Questo chiediamo al Prefetto come interessamento verso gli organi competenti.

Per l’attività di competenza dei Consiglieri Comunali, siamo solidali con i detenuti e gli agenti e chiediamo al Sindaco un tavolo urgente per l’individuazione del nuovo sito del carcere di Arezzo, che tra l’altro permetterà nel futuro di liberare il centro storico da una presenza "ingombrante" ed anacronistica, permettendo nuove e più consone destinazioni per l’attuale sede carceraria".

Parigi: nei musei le ceramiche prodotte nelle carceri della Sicilia

 

La Sicilia, 1 febbraio 2005

 

Le ceramiche realizzate dai detenuti delle carceri di Giarre e Caltagirone, potrebbero essere vendute nei bookshop dei musei europei. Sia per la qualità artistica, ancora migliorabile, sia per il particolare valore morale e sociale che questi prodotti assumono. Di ciò si sono fatte carico Graziella Bollini e Joelle Marty, organizzatrici del Museum Expression di Parigi. Ma anche la principessa Beatrice di Borbone delle Due Sicilie ha manifestato il desiderio di fare qualcosa, non solo per aiutare questi detenuti sulla via del recupero sociale, ma per tutta la Sicilia.

 

Il progetto

 

Si chiama "Ceramica Amica", il progetto che coinvolge il Museo della Ceramica di Caltagirone, diretto da Enza Cilia Platamone, le case circondariali della provincia di Catania e la Fondazione "Monsignor Di Vincenzo", della quale è presidente onorario il vescovo di Piazza Armerina, mons. Michele Pennisi. Un progetto voluto dall’assessore ai Beni culturali, Alessandro Pagano, che vi ha creduto fin dal primo momento.

 

Dignità da rispettare

 

"I carcerati non fanno notizia - ha rilevato Pagano - costituiscono la fascia degli emarginati, ma hanno anche una dignità che va rispettata. Le vite di molti detenuti sono segnate per sempre. Molti sono solo dei ragazzi e per questo motivo dobbiamo credere ed impegnarci nella loro riabilitazione, nel loro riscatto. Troppo spesso rimuoviamo questa realtà, quella di chi non ha potuto scegliere di andare a scuola oppure ha conosciuto solo la via facile del crimine. Per molti di essi il carcere può essere un’occasione di vita, un’occasione di riscatto, un luogo cioè dove riappropriarsi di se stessi ed acquisire un ruolo nella società".

 

Opportunità da incentivare

 

Il progetto "Ceramica Amica", è coordinato dal Centro servizi sociali per adulti di Catania del ministero di Grazia e giustizia. "Questo progetto è un esempio - ha aggiunto l’assessore Pagano - di come restituire a queste persone la possibilità di riacquisire quei valori che gli permetteranno un rientro meno traumatico nel tessuto sociale. Il detenuto quando esce dal carcere ha due strade: può tornare a svolgere attività criminose oppure può decidere di farsi valere onestamente con le competenze acquisite durante la sua detenzione. Ed in questo senso, la produzione artistica artigianale è un’opportunità da incentivare".

Palermo: ergastolano diventa dottore in legge si difenderà da solo

 

TG Com, 1 febbraio 2005

 

Ha utilizzato i sei anni e mezzo di isolamento per laurearsi in legge. Carlo Marchese, condannato all’ergastolo come membro di Cosa nostra, ha realizzato il suo sogno: studiare in cella per poi potersi difendere senza avvocati. Marchese, 48 anni, ha fatto fruttare il tempo "a disposizione" prima nei carceri di Ascoli Piceno e Voghera, poi all’Ucciardone e al Pagliarelli di Palermo, dove ha ottenuto il titolo di dottore in legge con 110 e lode.

Il suo ruolino di marcia in giurisprudenza è di quelli da far invidia alla maggior parte degli studenti universitari: 30 e lode in diritto privato, diritto costituzionale, diritto penale. Male che sia andata, Marchese non è mai sceso sotto il 28, ottenuto due volte. "Dimostrerò la mia innocenza senza avvocati. Quelli che ho avuto non erano in grado di difendermi", ha poi detto una volta ottenuta la laurea.

Tutto merito della "41 bis". "Quando ero in isolamento mi chinavo sui libri che era un piacere - ha raccontato al Corriere della Sera l’ergastolano, vicino di cella di Totò Riina ad Ascoli - Del resto a parte la ginnastica e l’ora d’aria non avevo altro da fare. I guai sono cominciati quando mi hanno tolto il regime duro. Dopo tanto tempo mi sono trovato a condividere la mia vita con un altro detenuto. Non è facile spiegare che hai bisogno di tranquillità per studiare".

 

 

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