Rassegna stampa 10 febbraio

 

Milano: in arrivo il difensore civico regionale per i detenuti

 

Redattore Sociale, 10 febbraio 2005

 

È in arrivo il difensore civico regionale per i detenuti delle carceri lombarde. La nuova figura, che dovrebbe occuparsi dei problemi dei carcerati, verrà istituita con la nuova legge regionale n°309 "per la tutela delle persone ristrette", approvata ieri dal consiglio regionale della Lombardia. "Non c’è ancora il Garante dei detenuti, ma è un primo passo", commenta Licia Roselli, direttrice dell’Agesol (Agenzia di solidarietà per il lavoro).

Il provvedimento, presentato nel marzo 2003, è il primo di questo tipo in Italia e contiene una serie di iniziative "finalizzate al recupero reale dei detenuti e alla riduzione del fenomeno della recidività", ha detto il Presidente della Commissione speciale sulla situazione carceraria, Antonella Maiolo. La legge prevede uno stanziamento di un milione di euro, "ma molte delle attività regolamentate saranno in capo ai diversi assessorati che si faranno carico di finanziarle - prosegue la Maiolo -, aumentando di molto il budget complessivo dedicato all’attuazione della legge". Tra le novità che veranno introdotte c’é la gestione di un apposito servizio sanitario l’aumento degli educatori, oggi soltanto 33 per circa 8mila detenuti.

"Non è un provvedimento risolutivo di ogni problema, ma una legge che indica una direzione e una responsabilità", ha commentato Guido Galperti, consigliere regionale per La MargheritA. Pur non risolvendo i problemi dell’accesso al lavoro, del sovraffollamento delle carceri e dell’assistenza sanitaria, secondo Galperti "questa legge individua una serie di paletti imporTanti che, nella prossima legislatura, permetteranno di affrontare al meglio la questione carceri. La speranza è ora che questo provvedimento sia adeguatamente finanziato, per evitare di vanificare gli strumenti previsti".

Un’esigenza sollevata anche da Giovanni Martina, consigliere di Rifondazione comunista: "Affinché le buone leggi funzionino e non restino lettera morta, occorre un finanziamento adeguato. E, purtroppo, non è questo il caso. Ora è necessario reperire tutte le risorse necessarie per rendere concretamente operativo uno strumento di valore lungamente atteso e rivendicato dai detenuti, dagli operatori, dalle associazioni, dal mondo del volontariato e da tutti coloro che si occupano di carcere". Tra questi c’é l’Agesol (Agenzia di solidarietà per il lavoro), che ha accolto positivamente l’approvazione della normativa. "È positivo che ci sia una legge a

tutela delle persone ristrette in Lombardia - ha detto la direttrice Licia Roselli -. Le questioni che più ci interessavano (educatori, sanità, lavoro, difensore civico) sono state accolte e dovrebbe essere passata anche una proposta per estendere il prestito d’onore anche ai singoli detenuti". Finora gli aiuti in denaro riguardavano soltanto le famiglie delle persone ristrette, "ma molti di loro perdono anche gli affetti durante il periodo in carcere e quando escono si ritrovano soli - dice la Roselli -. Ecco perché è importante che abbiano la possibilità di rifarsi una vita". Nonostante il commento positivo, anche l’Agesol critica lo stanziamento previsto dalla legge:"Questi soldi sono pochi - conclude la Roselli -. È vero che è stata prevista la possibilità di andare a pescare fondi dagli altri assessorati ma, visti gli scarsi finanziamenti a favore degli enti locali, i detenuti rischiano di essere gli ultimi della lista".

Frosinone: da mesi manca un magistrato di sorveglianza

 

Famiglia Cristiana, 10 febbraio 2005

 

Sono un detenuto molto giovane, nel carcere di Frosinone, vi scrivo per segnalare che ormai da mesi qui a Frosinone non c’è un magistrato di sorveglianza. Io sto aspettando (da cinque mesi) 180 giorni di liberazione anticipata e la risposta a una istanza di permesso premio, poiché alla fine della mia pena manca poco più di un anno. Spero che questa mia lettera venga presa in considerazione da chi può risolvere la situazione al più presto.

 

Un detenuto del carcere di Frosinone

 

Grazie e complimenti a questo ragazzo che ha il coraggio di scrivere! Perché ci vuole coraggio anche per scrivere, da un carcere! Si può sperare che nel frattempo la questione ("piccola", ma capace di segnare un vita -e quella dei familiari- per sempre) sia stata risolta? Chissà. Tuttavia resta il fatto che le carceri in Italia sono una vera scuola di soprusi, ricatti, violenze, illegalità.

Di chi la colpa? Della burocrazia? Degli agenti e/o della loro scarsa preparazione? Degli educatori, psicologi, infermieri e medici mancanti o burocrati che non fanno i colloqui e non preparano le necessarie "relazioni scritte"? Dei direttori che vanno e vengono? A proposito, in quante carceri il direttore (da cui tutto dipende) manca, o è a mezzo servizio? Oppure dei magistrati di sorveglianza sempre "oberati di lavoro" e scarsi di numero? Di chi è la colpa se mancano spazi, letti, docce e acqua calda, medici, infermieri e medicine anche le più semplici ed essenziali? Chissà?

Eppure c’è un ministro (piovuto "alla giustizia" chissà come) che continua a dire che tutto va bene... certamente perché non ha mai visto "da dentro" un solo carcere e "da vicino" un solo carcerato. Chissà? Forse col tempo si comincerà a capire che privare le persone (almeno quelle non "pericolose") della libertà, e tenerle schiave (di fatto senza difesa dei diritti) e in condizioni troppo spesso disumane, è una barbarie (stupida e costosa!) ormai fuori dai tempi della civiltà.

Medio Oriente: irruzione in carcere Gaza, uccisi due detenuti

 

Agr, 10 febbraio 2005

 

Due detenuti nel carcere palestinese di Gaza sono stati uccisi questa mattina da un commando armato. Lo ha riferito la polizia palestinese, secondo cui il commando ha ucciso i due dopo uno scontro a fuoco con gli addetti alla sicurezza. I secondini non hanno riportato ferite e gli assassini sono riusciti a fuggire. I due erano in carcere con l’accusa di aver ucciso un uomo: gli inquirenti ipotizzano una resa dei conti dei familiari della vittima.

Milano: legge su carceri, adesso servono risorse adeguate

 

Varese News, 10 febbraio 2005

 

"Una legge di civiltà che contribuirà a umanizzare le condizioni di vita all’interno delle carceri". Così il consigliere regionale del Prc Giovanni Martina ha commentato le nuove disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della Regione Lombardia approvate oggi dal Consiglio. "I quattro pdl su sanità, lavoro, educatori e difensore civico che, dopo un lungo e puntuale lavoro di monitoraggio rispetto alle esigenze prioritarie, abbiamo presentato nei cinque anni - spiega Martina - rientrano in questa legge con una formulazione ancora non del tutto sufficiente, ma che comunque ci lascia soddisfatti". "Grazie anche al contributo di Rifondazione Comunista si è così giunti a un risultato importante che, in una Regione dove sempre più si ledono diritti fondamentali, va controcorrente, favorendo il processo di reinserimento sociale dei detenuti".

"Rimane, tuttavia, un limite enorme: affinché le buone leggi funzionino e non restino lettera morta, occorre un finanziamento adeguato. E, purtroppo, non è questo il caso".

"È ora necessario - conclude Martina - reperire tutte le risorse necessarie per rendere concretamente operativo uno strumento di valore lungamente atteso e rivendicato dai detenuti, dagli operatori, dalle associazioni, dal mondo del volontariato e da tutti coloro che si occupano di carcere".

Vibo Valentia: una commedia teatrale nel penitenziario

 

Asca, 10 febbraio 2005

 

Iniziativa all’insegna della solidarietà quella organizzata dal Forum provinciale dei Giovani, coordinato da don Maurizio Raniti, che ieri ha allestito, nel penitenziario di Vibo Valentia, una commedia brillante in tre atti, messa in scena dal Centro di aggregazione sociale e per anziani di Stefanaconi (VV). "In occasione del Carnevale - ha spiegato l’assessore alla Solidarietà, Lidio Vallone - abbiamo voluto promuovere un momento di svago e di serenità a favore dei detenuti, ospitati nel penitenziario di Vibo Valentia.

È proprio in coincidenza delle principali feste popolari, infatti, che il disagio della detenzione si acuisce, accrescendo la malinconia e il rammarico di chi, suo malgrado, non può condividere con i propri amici e familiari queste ricorrenze". La commedia, diretta da Francesco Defina e intitolata "Amaru cu ‘ncappa", ha offerto al pubblico momenti di grande divertimento, grazie anche ad una trama ricca di equivoci e situazioni paradossali, che facevano leva sulle disavventure del protagonista, Pascali (Lino Loschiavo), alle prese con un ricovero ospedaliero. Soddisfazione per l’iniziativa è stata espressa dalla direttrice del complesso penitenziario, Rachele Catalano, che ha assistito alla rappresentazione teatrale con i detenuti. Presenti anche Don Raniti e gli operatori del Forum dei giovani, Pasquale Barbieri e Antonella Idà.

Droghe: Regioni contro Fini, altra politica su tossicodipendenze

 

Il Manifesto, 10 febbraio 2005

 

"Obiettivo: mettere in luce le scelte comuni delle regioni evidenziando i punti di discordia con il disegno di legge nazionale". In altre parole, è un secco no alla legge Fini in materia di droga che vorrebbe fare piazza pulita della distinzione tra spaccio e consumo e di fatto non distingue una canna e un grammo di cocaina. Sette regioni lo hanno detto chiaro ieri a Bologna. Si tratta del primo messaggio arrivato dalla "Conferenza per un progetto delle regioni sulle dipendenze", due giornate di lavori che sanciscono l’alleanza tra le regioni e il vasto cartello di organizzazioni sociali Non incarcerate il nostro crescere.

Campania, Friuli Venezia-Giulia, Marche, Sardegna, Toscana, Umbria, Emilia Romagna e la provincia di Bolzano faranno fronte comune stabilendo alcuni punti fermi diametralmente opposti alle politiche del governo sulla droga. No a ogni "messaggio di tipo terroristico" sulle sostanze stupefacenti, ai "messaggi che equiparano tutte le sostanze e tutte le modalità di assunzione", no "a interventi non progettati in relazione al contesto, a trattamenti limitati da considerazioni che non siano dettate da evidenze scientifiche, alla riduzione degli interventi residenziali come sostituti del carcere".

Spiega l’assessore alle politiche sociali dell’Emilia Romagna, Gianluca Borghi, che ieri ha aperto il convegno: "Va ribaltata la logica del punire per educare". Per riuscirci si può puntare sull’autonomia delle regioni. Anche perché, come ha ricordato l’assessore, "rispetto alla legge in discussione non è mai stato avviato nessun confronto tra stato e regioni". Perché lo spiega con un discorso di vasto respiro don Ciotti: "Siamo di fronte a un precariato dei diritti non solo in materia di droga - ha detto - e ci troviamo ad affrontare uno stravolgimento delle parole. Comunità vuol dire creare legami, non vuol dire repressione, educare non significa cambiare i comportamenti delle persone con divieti e punizioni".

Come dire che le politiche repressive della destra sulla droga vanno lette in un più vasto scenario che va dalla guerra all’atteggiamento nei confronti degli stranieri, alla privatizzazione della sanità alla situazione indecente delle carceri; e in questa luce il disegno di legge Fini appare come un’altra manifestazione di una più vasta ansia punitiva, un’ideologia che per esempio "enfatizza la sostanza e solo poi arriva alla persona", agita il terrore della droga ma, come dice De Facci del cartello Non incarcerate il nostro crescere, dà solo risposte "del tutto politiche e ideologiche", senza tenere conto delle pratiche e sperimentazioni messe in atto da chi lavora sul campo e neppure delle evidenze scientifiche. Per la serie non solo la legge Fini è ingiusta ma non può funzionare.

Cagliari: indagine della Commissione Diritti Civili sugli Ipm

 

Ad Majora, 10 febbraio 2005

 

La Commissione regionale "Diritti civili" ha sentito in audizione il direttore e il vicedirettore del Centro di giustizia minorile della Sardegna Sandro Marilotti e Giovanna Allegri per conoscere la reale condizione delle carceri minorili.

Dei 650 minorenni colpiti da provvedimenti giudiziari solo 20, in media, sono detenuti nel carcere di Quartucciu. Un numero limitato anche perché la legge prevede la reclusione per i giovanissimi solo come estrema ratio. La struttura, però, che ha costi altissimi, ha la possibilità di contenere 60 persone in condizioni ottimali e 100 in condizioni tollerabili. "Quindi è semivuota a dispetto di altri carceri per adulti che invece sono sovraffollati" afferma la Commissione che si è domandata la possibilità di destinare la struttura di Quartucciu agli adulti cercando un edificio più adatto alla detenzione dei minorenni.

Il direttore Marilotti ha detto di non essere contrario ad una soluzione di questo tipo sempre che si trovi una struttura, all’interno della città di Cagliari, per i minori. "Di questa soluzione si parla da anni, ha aggiunto, ma non si è mai trovato un accordo". Ricordando che dei 20 detenuti presenti a Quartucciu, solo 6 sono sardi (ci sono 12 extracomunitari e 2 siciliani), Marilotti ha ricordato che la struttura era stata costruita come carcere per adulti, quindi per molti versi è inadatta a ospitare ragazzi, ma che, comunque, permette di svolgere molte attività ricreative e sportive.

La sezione femminile poi non esiste: "Per assurdo, ha sottolineato, se esistesse una sezione femminile i giudici condannerebbero più donne, invece, molte ragazze che dovrebbero essere rinchiuse in carcere perché hanno commesso reati gravi non vengono recluse perché in Sardegna non esiste una sezione femminile per le minorenni e i giudici tendono a non inviarle nei carceri della penisola". La soluzione per i ragazzi che commettono reati, ha concluso Sandro Marilotti, non è certo quella del carcere: "un ragazzo che non è mai entrato in un carcere minorile ha più possibilità di salvarsi".

Milano: "Belli dentro", da domenica sit-com sui detenuti

 

Vita, 10 febbraio 2005

 

Da domenica 13 febbraio 2005 alle ore 23.30, prende avvio su Canale 5 la sit-com Belli Dentro, la prima produzione televisiva italiana che mette in scena storie di ordinaria quotidianità carceraria con ironia e leggerezza Belli Dentro nasce da un’idea dei detenuti del carcere di San Vittore che, sotto la guida di Emilia Patruno direttrice del sito www.ildue.it, da tempo lavorano a innovare, attraverso una comunicazione auto-ironica, il racconto della vita "dietro le sbarre" al di là dello schema noto e già super frequentato di luogo di violenza, ingiustizia e isolamento sociale. La collaborazione dei detenuti redattori con la sceneggiatrice Giovanna Koch, ha prodotto il soggetto di serie della sit-com.

Tre donne: Gonni (Geppi Cucciari) Lilli (Brunella Andreoli) e Iolanda (Alessandra Ierse), e tre uomini: Ciccio (Claudio Batta) Mariano (Stefano Chiodaroli) ed Eugenio (Leonardo Manera), ognuno con un passato diverso alle spalle che li ha portati a vivere insieme, a diventare "una famiglia". E ancora: due agenti di Polizia Penitenziaria (Tony Rucco e Maria Rossi), uno spesino (Alessandro Fullin) e una suora (Pia Engleberth) co-protagonisti. 25 minuti circa a episodio, ritmo incalzante e battute pungenti: ogni volta due storie intrecciate, reali, storie di vita vissuta condividendo tutto, dalla stanza da letto al bagno. Belli Dentro è una produzione Rti, realizzata da Bananas e Grundy Italia. Belli Dentro è scritta da Federico Basso, Giancarlo Bozzo, Carmelo La Rocca, Renato Trinca e Lucio Wilson. La regia è di Chiara Toschi.

Giustizia: pdl Lega, pene più severe per sottrazione di minori

 

Ansa, 10 febbraio 2005

 

All’indomani della sentenza di Lecco con la quale è stata inflitta una pena lieve a due nomadi che hanno tentato di portar via un bimbo alla madre, il deputato della Lega Giancarlo Pagliarini ha annunciato la presentazione di una proposta di legge che prevede un inasprimento della pena per il reato di sottrazione di minore (art. 574 codice penale) da cinque a 12 anni.

Ora il reato è punito con la reclusione da uno a tre anni. L’inasprimento della pena - ha precisato l’on. Pagliarini - si riferisce solo all’ipotesi che la sottrazione del minore sia compiuta da persone diverse dai coniugi nei riguardi di un loro figlio. Nella proposta di legge, inoltre, si preclude al giudice la possibilità di concessione di qualsiasi attenuante, salvo la diminuente per il rito, nel caso in cui la definizione del processo avvenga con applicazione di pena concordata tra accusa e difesa.

Torino: condannato per violenza sessuale, pagherà studi a vittima

 

Ansa, 10 febbraio 2005

 

Per evitare di finire in carcere dopo una condanna per violenza sessuale un uomo dovrà pagare alla parte lesa una somma che le servirà per studiare: lo ha deciso il tribunale di Torino nel giudicare un immigrato marocchino di 40 anni che aveva pesantemente importunato una giovane donna. I giudici hanno inflitto all’imputato, Nedar B., un anno e dieci mesi di reclusione, e gli hanno concesso la sospensione della pena a condizione che versi alla vittima della violenza duemila euro.

A chiedere questa singolare forma di risarcimento era stata la stessa la stessa ragazza, una ventunenne residente in un comune della provincia di Torino, spiegando che i soldi le sarebbero serviti per frequentare un corso serale di inglese. "Le lezioni - dice infatti il suo avvocato, Romana Vigliani - hanno il loro costo, e per di più si tengono in un paese distante alcuni chilometri".

La cifra accordata dai magistrati della terza sezione penale, che Nedar B. dovrà versare immediatamente, è stata quindi comprensiva anche del tragitto in taxi. L’episodio contestato, sul quale ha indagato il pm Gabriella Viglione, risale allo scorso anno e ha avuto per cornice i sotterranei di un grande mercato di Torino in cui lavorano tutti i protagonisti della vicenda.

Roma: "ConFido", l’educazione cinofila dietro le sbarre

 

Ansa, 10 febbraio 2005

 

Libero grazie al carcere. "Free" è un simil-spinone che per un anno, da quando era cucciolo, non ha conosciuto altro che la gabbia di un canile, quello di Tivoli (Roma). Oggi ha trovato un tetto grazie alle detenute della casa circondariale di Rebibbia che per tre mesi lo hanno coccolato e, soprattutto, gli hanno insegnato a non aver paura dell’uomo.

Per Stefania, Nadia, Teresa e le altre cinque detenute che hanno curato Free, impartendogli gli insegnamenti di base con la supervisione del noto addestratore di cani-star del cinema, Massimo Perla, non è stato facile salutare questo simpatico meticcio per consegnarlo alla sua nuova padrona, Clare Cuzzer. Ma sanno che altri cani, di razza e non, impegneranno le future giornate in carcere. Perché ConFido, il progetto di educazione cinofila in carcere, va avanti: c’è da finire di educare Reb, l’altro trovatello del canile il cui nome altro non è che il diminutivo di Rebibbia; affinare l’addestramento di Tomak, biondo golden-retriever in grado di assistere disabili in carrozzella; crescere un cucciolo di golden; insegnare a un border-collie e a un australian-shepard cosa significhi il bon ton e, più in là, anche qualche rudimento di agility-dog.

L’associazione ConFido, nata su iniziativa di Massimo Perla e di Sirio Paccino, comincia a raccogliere i primi frutti di mesi di intenso lavoro. Sulle orme del Prision dog program - il progetto inventato vent’anni fa da una suora americana, Pauline Quinn, e ora diffuso in un’ottantina di penitenziari statunitensi - ConFido ha fatto entrare gli amici a quattro zampe in carcere. Obiettivo: far accendere quella scintilla tra uomo e cane che in carcere diventa ancora più speciale, perché fa bene all’anima e alla mente del detenuto.

"Ma anche dare la possibilità a chi esce dal carcere - aggiunge l’educatrice di Rebibbia, Sabrina Falcone - di trovare un lavoro nel mondo della cinofilia". Le detenute stesse non lo nascondono. "Quando esco spero che Massimo Perla mi farà lavorare con lui", dice Sonia, 41 anni, due anni scontati per truffa e ricettazione, altri due da passare a Rebibbia.

"Il lavoro con i cani mi ha riempito il cuore. Avevo cominciato per curiosità - aggiunge Teresa, 55 anni, una condanna per truffa - poi sono prevalsi la passione e l’affetto. Prima vivevo quasi sempre in sezione, ora sto quasi sempre all’aria aperta". Quattro ore di lavoro al giorno per quatto giorni alla settimana; lezioni teoriche e pratiche; un supervisore cinofilo, due istruttori, una psicologa, un disabile e un veterinario.

In un anno - spiegano i fondatori - ConFido è riuscita a mettere in piedi una struttura non da poco: quello che era un campo coltivato a carciofi è stato trasformato in un’area con tre box, un campo di addestramento, uno spazio chiuso dove si tengono le lezioni teoriche e una zona ad hoc per il lavoro con la sedia a rotelle dove insegnare ai cani l’accompagnamento dei disabili. Il tutto non senza un tocco speciale di colore e di fantasia: il vignettista Vauro ha pensato ai murales, disegnando tanti cani con la divisa da carcerati e con le ali per prendere il volo. E il primo ad uscire è Free, il cane da oggi libero di andare a casa di Clare, signora inglese da 30 anni in Italia che tanto desiderava un amico a quattro zampe. (Info: Massimo Perla - 063330228)

Giustizia: 41 bis, modalità colloqui con figli sono crudeli

 

Ansa, 10 febbraio 2005

 

I deputati Giacomo Mancini e Giuliano Pisapia, componenti della commissione Giustizia della Camera, in un’interrogazione al Ministro della Giustizia, criticano il divieto imposto da una circolare del 1998 ai detenuti sottoposti al 41 bis di avere colloqui con i propri figli senza i vetri divisori solo fino al compimento da parte di questi ultimi del dodicesimo anno di età.

"Al minore maggiore di 12 anni - affermano Mancini e Pisapia nell’interrogazione - è impedito anche il minimo contatto fisico con il genitore detenuto. Non si comprende per quali ragioni le afflizioni che, per quanto riguarda il detenuto in regime di carcere duro, già ben poco si appaiano alla finalità rieducativa della pena e del recupero sociale del cittadino, devono estendersi nei fatti anche ai figli minorenni che, a causa di tale disposizione regolamentare, vengono impediti ad avere un contatto fisico diretto con il proprio genitore e che rischiano così di subire traumi che possono provocare danni irreparabili alla loro crescita psichica".

"Alle tante mancanze delle strutture carcerarie, spesso fatiscenti e sovraffollate, si aggiungono così - aggiungono i due parlamentari - disposizioni normative e regolamentari che appaiono contrarie ai principi dello stato di diritto. Il regime del cosiddetto carcere duro, che già prevede invasive privazioni della libertà individuale contro le quali più volte si è pronunziata la Corte europea dei diritti dell’uomo, con queste divisioni aggiunge un divieto crudele ed inumano e di difficile comprensione anche dal punto di vista normativo, considerato che la legge penale pone come parametro il compimento non dei 12, bensì dei 14 anni come riferimento all’imputabilità".

Mancini e Pisapia chiedono al ministro Castelli, in particolare, "se e quali provvedimenti intenda prendere al fine di agevolare i rapporti tra il detenuto sottoposto al regime del 41 bis e i propri familiari, con speciale riguardo ai figli minori, essendo questo uno dei compiti previsti dall’ordinamento penitenziario ad integrazione degli interventi trattamentali".

Padova: la boxe nelle prigioni, in chiave educativa...

 

Il Gazzettino, 10 febbraio 2005

 

Guardie e ladri che se le danno di santa ragione sul ring. Rispettando le cavalleresche regole del marchese di Queensberry, l’inventore del pugilato moderno, e alla fine abbracciandosi come fanno tutti i pugili. A testimonianza di quanto educativa possa essere tra le mura di una prigione la boxe, che può incanalare e correggere la violenza innata dell’uomo.

È l’immagine da film americano che presto forse potremo vedere nelle carceri italiane grazie alla Federazione pugilistica e all’iniziativa di Paolo Toniolo, 60 anni, presidente del comitato regionale (e candidato alla presidenza nazionale), prototipo dell’imprenditore veneto: è nato a Villorba (Tv), ha l’azienda a Taglio di Po (Ro) e ha svolto per anni l’attività sportiva a Piove di Sacco (Pd).

È l’uomo che con Gino Freo ha lanciato la carriera di Cristian Sanavia, unico campione del mondo veneto (supermedi Wbc) della storia, mettendolo a libro paga in azienda perché potesse allenarsi con tranquillità. Ora si è messo in testa di portare il pugilato nelle carceri e ha realizzato il suo sogno alle Vallette di Torino, insieme al presidente della Fpi Franco Falcinelli, in attesa dell’ok dal Due Palazzi di Padova.

"Proprio a Padova - racconta Toniolo - nel ‘94 c’era stato un tentativo da parte dall’ex campione d’Italia dei medi Luciano Sarti. Era praticamente fatta, ma la fuga di Felice Maniero pochi giorni prima ha bloccato tutto. È da allora che ci stiamo riprovando. Presto porteremo ai detenuti del Due Palazzi una maglietta con le firme dei pugili olimpici di Atene. Intanto, grazie al direttore Pietro Buffa, siamo entrati con la boxe a Torino, zona che conosco bene per gli interessi che ho come imprenditore del settore termoidraulico. A Buffa piace il ciclismo, ma pensando al padre tifoso sfegatato di pugilato ci ha aperto le porte".

È la prima convenzione, insieme a Firenze, firmata tra l’ente sportivo e l’autorità carceraria. Una seconda, pochi giorni fa, ha riguardato Opera (Milano), mentre a Roma lezioni sono tenute dall’ex campione europeo Vincenzo Cantatore. A Torino sono stati istituiti quattro corsi di pugilato da dodici ore ciascuno. Il primo in gennaio ha avuto successo. "Si sono iscritti in venti, il massimo per la capienza della palestra - racconta Corrado Cornaglia, insegnante di educazione fisica alle Vallette - Altri venti sono pronti per il prossimo dal 28 febbraio. Ad aprile e maggio i corsi saranno riservati agli agenti carcerari, ma se non raggiungeranno il numero c’è già la lista d’attesa di detenuti. Alle Vallette lo sport era presente finora era presente solo con il calcio. La boxe ha fatto subito centro e ci fa piacere. Credo abbia notevoli potenzialità educative e di recupero in un ambiente come il nostro".

Un esempio lo si è avuto il secondo giorno di corso. Antonio Montecalvo, maestro che tiene i corsi col collega dell’Orbassano Boxe Giovanni Moscatelli, ha ritrovato un vecchio allievo e l’ha coinvolto, costruendo con lui un nuovo rapporto. Tra i corsisti c’è un croato che nel suo Paese ha disputato oltre cento incontri da dilettante prima di finire sulla cattiva strada. Dove i pugni della vita fanno più male di quelli del ring.

"Ti riempie il cuore vedere l’impegno che questi ragazzi ci mettono, e pensare quanto puoi fare per loro e la società attraverso la boxe - conclude Toniolo - Ti colpisce anche il modo ironico in cui prendono la loro situazione. Caschi, guantoni, sacco, punching-ball e gli altri attrezzi li abbiamo già forniti. Il ring, che viene dal centro federale di Assisi, è stato bloccato nei giorni scorsi a causa delle neve, e l’abbiamo montato solo lunedì, fra la gioia dei detenuti, delle guardie e anche del cappellano che ha voluto indossare egli stesso i guanti. Quando mi sono scusato per il tempo perso, mi hanno freddato rispondendo: non si preoccupi, qui l’unica cosa che non ci manca è il tempo".

Latina: progetto della Provincia per rieducare i detenuti

 

Il Messaggero, 10 febbraio 2005

 

Si chiama "Provincia solidale" e mira al recupero, al reinserimento sociale attraverso il lavoro dei detenuti del carcere di Latina, una volta scontata la reclusione. Il progetto è pensato dall’amministrazione provinciale di Latina, sotto l’egida della Regione, del ministero di Grazia e Giustizia, dell’università "La Sapienza".

A breve, la firma del protocollo di intesa con le cooperative e le ditte che garantiranno, dopo i corsi di formazione professionale, tirocinio e apprendistato in azienda, anche grazie alle agevolazioni fiscali e previdenziali di legge per tutti gli imprenditori che assumano alle loro dipendenze ex detenuti. "Un’opportunità vera, concreta di futuro avviamento al lavoro, migliore qualità di vita, un sostegno in più per tante famiglie che vedranno aumentare, così, i loro redditi, che ritroveranno fiducia e speranza", commenta l’assessore provinciale alle Politiche Scolastiche, Sandro Maracchioni.

Incalza, Paola Bernoni, consigliera di Parità: "Il carcere appartiene al territorio e le istituzioni hanno il compito di farsi carico dei diritti fondamentali della comunità, soprattutto delle fasce più deboli, a rischio di emarginazione, isolamento sociale. Il diritto al lavoro, ad una vita dignitosa è il più importante". Il progetto prevede anche di affidare ai reclusi di Latina la manutenzione degli istituti scolastici di proprietà della Provincia, piccoli lavori di manodopera, tinteggiatura e ristrutturazione, con il fine di educarli al lavoro, alla cooperazione sotto la guida di artigiani di mestiere.

Giustizia: la legge li libera, ma la gente li vuole dentro…

 

Donna Moderna, 10 febbraio 2005

 

Gli assassini, anche i minorenni, devono pagare sino in fondo. Lo chiede l’opinione pubblica, come rivela il nostro sondaggio. La giustizia, invece, punta a recuperarli. Ma comunità e sconti di pena servono? Per capirlo, siamo andati a vedere cos’è successo agli autori di delitti che hanno scosso l’Italia.

Si è parlato in questi giorni della possibilità di concedere forme di semilibertà a Omar, autore con Erika della strage di Novi Ligure, e a Mattia, il più giovane del gruppo che ha ucciso Desirée Piovanelli. Noi abbiamo fatto un sondaggio per sapere cosa ne pensa la gente. Ecco i risultati: l’86% dice no: non condivide la concessione di benefici (secondo il 68% "Hanno commesso dei delitti orribili e devono pagare", mentre per il 18% "Sono pericolosi e potrebbero rifarlo"). Favorevoli, invece, alla concessione della semilibertà il 14% degli intervistati ("Perché sono giovani e devono potersi rifare una vita", 9%; "Perché devono poter usufruire di questo diritto come gli altri detenuti", 5%).

La giustizia è finita sotto processo. Trascinata dalle sue stesse sentenze. A inizio febbraio si è lamentata perfino Anna Maria Franzoni, condannata in primo grado a 30 anni per l’assassinio del figlio Samuele (ma ancora in libertà, in attesa dell’appello). Ora la mamma di Cogne, che da sempre si proclama innocente, minaccia di farsi giustizia da sola. Ma l’opinione pubblica si indigna soprattutto per alcune scelte dei magistrati. Come la notizia che Omar, l’autore con Erika del massacro di Novi Ligure, avrà dei permessi per uscire dal carcere. Ed è bastato l’annuncio che Mattia, uno dei giovani assassini della 14enne Desirée Piovanelli, potrebbe presto godere di permessi e di misure di rieducazione (in realtà avverrà solo tra alcuni mesi) per suscitare scandalo.

Lo sconcerto degli italiani viene fotografato dal nostro sondaggio: nessuno sconto per gli assassini. Una reazione destata dallo sdegno per quei delitti efferati, e dall’allarme emotivo che suscita l’idea di trovarsi dei killer in libertà. Per la legge, però, i permessi premio e il trasferimento nelle comunità di recupero sono una conquista di civiltà. "La giustizia italiana mira alla rieducazione dei condannati e non a una punizione senza possibilità di riscatto, in particolare quando si tratta di minorenni" commenta Giulia De Marco, presidente del tribunale dei minorenni di Torino.

Vero. Ma la bilancia della legge riesce sempre a trovare la giusta misura? E che succede agli assassini quando escono dal carcere? Le storie che abbiamo raccolto provano a dare una risposta.

 

Accoltellò un ragazzo: scarcerato dopo otto mesi

 

Un ragazzo di vent’anni, Calogero Gagliano, disteso sulla spiaggia. Ucciso da una coltellata che gli ha spaccato il cuore. Ma l’assassino, un diciassettenne (il suo nome non è stato reso noto, tranne le iniziali: L.G.A.) che ha imparato a maneggiare le lame in un ovile, quasi subito esce dal carcere. A otto mesi dal delitto si trova già in una comunità di recupero. Agrigento è rimasta senza fiato di fronte alla sentenza con cui, il 12 gennaio di quest’anno, il giudice ha scarcerato il giovane colpevole. La spiegazione? Il giovane non è "socialmente pericoloso" e si è comportato bene quando era in carcere minorile. Una decisione ancora provvisoria, perché il percorso giudiziario è solo alla prima tappa. Ma il padre della vittima non può darsi pace. Con le sue parole esprime il senso di impotenza e di ingiustizia di molte famiglie colpite da gravi delitti.

"Mio figlio Calogero è stato ucciso per la seconda volta" dice con la voce rotta dalla commozione Giuseppe Gagliano. "Trovo incredibile che ad appena otto mesi dall’omicidio il colpevole possa essere scarcerato e trasferito in una comunità di recupero. Come può quel ragazzo rendersi conto del male che ha commesso? Non ne ha avuto il tempo. Capirei la decisione del giudice se si fosse trattato di un reato minore, come il furto di un’autoradio. Non per un omicidio". Per lui è impossibile accettare una condanna così leggera per un delitto gravissimo. "Ad Agrigento, la mia città, qualcuno racconta che in questa vicenda due padri hanno perso il figlio" dice Gagliano. "Non è vero. Io il mio ragazzo non potrò più riabbracciarlo. Mentre l’altro genitore, quando vuole, può baciare suo figlio in comunità. Per chi ha ucciso l’unica condanna giusta è l’ergastolo".

 

Veronica ammazzò una suora: adesso è in comunità

 

"Non è facile spiegare ai parenti che l’assassino di un loro caro è uscito dal carcere dopo soli quattro anni". L’avvocato Michele Cervati, legale dei parenti della vittima, ha dovuto affrontare l’ingrato compito quando nel 2004 è stata liberata Veronica, una delle ragazze che il 6 giugno del 2000 uccisero la suora di Chiavenna Maria Laura Mainetti. Diciannove coltellate in nome del satanismo, un altro dei misteri della provincia italiana, questa volta nella zona di Sondrio. Ma Veronica, condannata a otto anni e mezzo di carcere, vive ora in una comunità di recupero del Lazio, mentre le altre complici del delitto, Ambra e Milena, anch’esse minorenni ai tempi dell’omicidio, restano in carcere. "Sicuramente anche un’altra delle due, di cui non posso dire il nome, otterrà prima o poi il trasferimento in una comunità" anticipa don Antonio Mazzi, incaricato di seguire la rieducazione di Veronica.

"Una decisione scandalosa? La gente deve capire che la comunità non è un premio, ma l’unica opportunità di miglioramento. Chi ci va non ha più la necessità di difendersi dalla violenza del carcere e può mettersi alla prova e maturare con lo studio, il lavoro e il dialogo con gli educatori. Senza ricevere alcuno sconto sulla sua condanna". Cosa ne pensano le persone colpite? "Nessuno contesta la scelta del giudice di concedere a Veronica le misure alternative, ma rimane il dubbio sulle reali intenzioni della ragazza" dice l’avvocato Cervati. "È davvero pentita? Al processo le ragazze non hanno mostrato un grande turbamento. E sul motivo che le ha spinte a uccidere una suora amorevole e premurosa rimane un inquietante punto interrogativo".

 

Carretta sterminò la famiglia: tra poco sarà libero

 

È una questione di settimane. Ferdinando Carretta, il giovane di Parma che nel 1989 ha sterminato i genitori e il fratello, sta per tornare in libertà. Un killer che ha nascosto con abilità i cadaveri, tanto che per anni si è creduto che la famiglia fosse fuggita ai Caraibi. Ma nel 1998 Carretta è stato scovato a Londra, riportato in Italia e internato in un ospedale psichiatrico. Per i giudici, al momento del delitto il pluriomicida era in preda alla follia e per questo bisognava assolverlo. Ma Carretta restava socialmente pericoloso. Ora le porte dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (vicino a Mantova), dove è rinchiuso dal ‘99, stanno per aprirsi. Come reagiremmo ad avere quest’uomo per vicino di casa? "Carretta non era pericoloso sei anni fa e non lo è ora, visto che da un anno frequenta senza problemi un corso professionale di informatica a Mantova" sostiene Gianluca Paglia, l’avvocato di Carretta.

"Ecco perché tra qualche settimana chiederemo al giudice di mettere fine all’internamento". Possono bastare pochi anni di cure per venire a capo di una psicologia malata? "Carretta appare radicalmente cambiato" dice Georgia Azzali, la giornalista della Gazzetta di Parma che lo ha incontrato più volte. "Nel 1998 ho visto una persona carica di inquietudine. Oggi Carretta è lucido e motivato, vuole trovare un lavoro e metter su famiglia". L’ultima parola spetterà al giudice. E se decidesse per la liberazione? "Un paziente, anche se guarito, non viene lasciato andare senza approfonditi controlli e verifiche" dice il direttore dell’ospedale di Castiglione delle Stiviere, Antonino Calogero. "Nella maggior parte dei casi gli ex ospiti rimangono in contatto con il servizio psichiatrico pubblico o vanno a vivere in una comunità di cura. Ed è davvero raro che qualcuno commetta altri delitti".

 

Aiutarono Maso a fare un massacro: ora girano in paese

 

Lui, Pietro Maso, ha ideato l’omicidio dei suoi genitori per impossessarsi dell’eredità e darsi alla bella vita. Loro, Giorgio Carbognin e Paolo Cavazza, diciottenni, quella sera del 17 aprile 1991 sono stati i fedeli complici del massacro consumato a colpi di spranga. A quasi 14 anni dal delitto il killer, Maso, condannato a 30 anni, rimane nel penitenziario milanese di Opera. Per lui, finora, neppure mezza giornata di libertà. Mentre Giorgio e Paolo, puniti con 26 anni di carcere, ricevono da tempo i permessi premio previsti dalla legge per chi si comporta bene.

E si sono fatti rivedere nel loro paese del Veronese, Montecchia di Crosara, teatro del delitto. "Carbognin e Cavazza sono stati riaccompagnati varie volte a casa dagli assistenti sociali del carcere per le feste di Natale e di Pasqua" racconta Elisa Caltran, sindaco di Montecchia al tempo del massacro. "La reazione della gente? Prevale l’indifferenza. Le famiglie dei ragazzi, invece, sono chiuse nel dolore".

Paolo Cavazza si è diplomato in ragioneria nel carcere romano di Rebibbia, mentre Giorgio Carbognin è diventato geometra nel penitenziario di Bergamo. Per loro non è remota la possibilità di ottenere la semilibertà. "Paolo e Giorgio sono maturati" dice monsignor Guido Todeschini, la guida spirituale di Pietro Maso e dei suoi complici. "La riflessione in carcere ha inciso sulla loro personalità. Il caso di Pietro Maso, invece, è completamente diverso. Lui ha ucciso i suoi genitori, un’azione che richiede un lavoro di recupero molto più lungo. La sua coscienza deve poter dire: "Sto pagando il giusto prezzo per i miei errori". Per questo anch’io, che sono amico e confidente di Maso, mi oppongo ai permessi premio. E credo che lui, in questo momento, sia d’accordo con me".

 

Samson e Davide uccisero una prostituta: liberi

 

Poco più che bambini. Samson e Davide hanno solo 15 anni quando nell’agosto del 2000 convincono Mares Porer, una prostituta del Ghana, a seguirli in un bosco di Lonate Ceppino, vicino a Varese. È la scena dell’omicidio. Samson colpisce più volte la ragazza con un coltello. Davide carica in bicicletta l’amico e fugge con lui. Il processo, i giornali, i dibattiti sui giovani senza valori. Ma a poco più di quattro anni di distanza Davide e Samson sono liberi. Hanno saldato i conti con la giustizia. "I due ragazzi girano in paese senza problemi. E senza che ci siano reazioni scandalizzate. Il tempo purtroppo cancella anche i fatti più gravi" dice don Luigi, il parroco di Lonate Ceppino. La mano lieve della legge lascia sconcertati? In realtà Samson ha beneficiato della messa alla prova, un provvedimento del giudice che permette a un minorenne di uscire dal carcere e lavorare in una comunità di recupero.

Se il giovane si impegna, può riacquistare la libertà in meno di tre anni, e il reato viene cancellato dalla fedina penale. Ancora più breve il percorso di Davide, tornato subito dai genitori a condizione di fare del volontariato. "Questi ragazzi erano perfettamente sani di mente" chiarisce lo psichiatra e criminologo Massimo Picozzi, consulente dei magistrati che si sono occupati dell’omicidio. "Ma Davide e Samson, seppur colpevoli di un grave delitto, non provenivano da ambienti criminali e non avevano uno stile di vita pericoloso. Per questo il giudice ha deciso la messa alla prova. La gente rimane scandalizzata. Eppure questa soluzione quasi sempre funziona e permette il reinserimento nella società. Ma se un ragazzo non si mostra all’altezza, le porte del carcere si riaprono".

 

Doretta Graneris: dall’ergastolo a una nuova vita

 

Molti ricordano ancora Doretta Graneris, la ragazza che nel 1975, appena diciottenne, sterminò la famiglia. Ma la storia della "belva di Vercelli" dimostra come anche una persona che si è macchiata di un delitto orribile ed è stata condannata all’ergastolo possa ravvedersi e, col tempo, tornare alla libertà. In quel lontano 13 novembre del 1975 Doretta, con la complicità del fidanzato, uccide i genitori, i nonni e il fratellino di 13 anni. Diciannove colpi di pistola. "Volevamo sposarci e vivere ricchi e felici" dice lei dopo la cattura. Invece ha passato 18 anni in cella. Ma a partire dal 1990 il percorso giudiziario è cambiato. Prima i permessi per lavorare fuori dal carcere, poi dal 1993 la semilibertà al Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, il sacerdote torinese che aiuta i tossicodipendenti. Infine, un anno fa, la Graneris è tornata in libertà.

"All’età di 47 anni Doretta è una donna completamente cambiata, addolorata per i suoi errori e desiderosa solo di essere dimenticata" spiega lo psicologo Leopoldo Grosso, vicepresidente del Gruppo Abele. "Capisco il rifiuto ad accettare che un omicida possa uscire dal carcere. Ma le pene alternative sono l’unico modo per riabilitare un colpevole. Anche la Graneris ha seguito questo lungo percorso. All’inizio un omicida tende a dimenticare le sue azioni per non restare schiacciato dal senso di colpa. Poi inizia a interrogarsi su quel che ha commesso. È la fase più delicata della ricostruzione di una persona, un momento che dovrebbe svolgersi fuori dal carcere. Anche in un posto senza sbarre alle finestre, come nelle comunità del Gruppo Abele. Solo così un ex carcerato si sente dare fiducia e inizia a comportarsi non come un prigioniero ma come una persona normale".

 

Cosa dice la legge

 

Assassini che tornano in libertà dopo pochi mesi. Com’è possibile? "Grazie a una serie di sconti" spiega Guariente Guarienti, ex avvocato di Pietro Maso. "Il rito abbreviato, per esempio, fa ottenere lo sconto di un terzo della pena. Per i minorenni al primo reato, poi, è prevista la messa alla prova: non vanno in carcere ma in una comunità. E dopo tre anni tornano liberi. La liberazione anticipata, invece, vale per chi si comporta bene in carcere e garantisce uno sconto di 45 giorni ogni sei mesi di reclusione". Ma l’anno carcerario si accorcia anche grazie ai permessi premio. "Vengono concessi a chi ha scontato almeno metà della condanna e regalano fino a 45 giorni di libertà all’anno" dice Guarienti. "Infine c’è la semilibertà. Quando un omicida ha scontato due terzi della pena, può uscire di giorno dal carcere per lavorare".

Venezia: nascono in carcere gli abiti utilizzati alla Fenice

 

Il Gazzettino, 10 febbraio 2005

 

Dal carcere della Giudecca al palcoscenico della Fenice, grazie ad una collezione di abiti di scena. Studentesse alle prese con stoffe e manichini, allieve che tagliano, cuciono e realizzano abiti: stiliste, e fin qui nulla di strano. L’originalità è che si tratta delle recluse della struttura penale femminile della Giudecca, a Venezia.

A loro, l’istituto per l’industria e l’artigianato "Usuelli Ruzza" di Padova, insieme con l’Ufficio scolastico regionale, offre un’opportunità "fashion" unica nel suo genere: seguire corsi di sartoria grazie all’impegno di alcuni docenti e alla collaborazione di un pugno di aziende attive nell’ambito dell’abbigliamento e del calzaturiero. È la moda che valica le sbarre e si fa istruzione oggi, che vuol dire possibilità di riscatto domani, una volta fuori, liberi di prigione e agevolati da una marcia in più.

"L’iniziativa è nata dal desiderio di far sentire le donne recluse partecipi di un progetto comune, attive e propositive - spiega Paolo Damberger dell’Ufficio scolastico regionale - protagoniste di un percorso che unisce l’interno all’esterno e accorcia le distanze tra detenzione e libertà. Il carcerato deve sì scontare una pena, ma deve farlo nel migliore dei modi. La nostra è dunque una sfida: alla Giudecca vogliamo proporre un’attività educativa particolare, dimostrando alle ospiti che c’è qualcuno che pensa a loro e ha intenzione di aiutarle, offrendo una chance di istruzione per riempire parte delle tante ore vuote che sono costrette a trascorrere".

Il progetto prevede che i docenti delle discipline che hanno a che fare con la moda si sottopongano a colloqui attitudinali perché all’insegnamento a livello carcerario è richiesta continuità. L’idea, fa sapere Maddalena Carraro, preside dell’istituto "Usuelli Ruzza", è maturata in seno al progetto "Equal" per l’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, sull’esempio di altre nazioni europee, in particolare modo il Belgio, dove non è raro vengano proposti, proprio nelle case di reclusione, corsi di formazione per stilisti. E una volta addestrate al taglia e cuci, le particolari creatici di moda avranno la soddisfazione di veder sfilare i loro modelli nientemeno che alla Fenice, indossati da attori di pièces teatrali.

Venezia: dall’orto della Giudecca i set da bagno degli alberghi

 

Il Gazzettino, 10 febbraio 2005

 

Il più famoso è l’hotel Bauer, ma clienti sono anche gli alberghi Quattro Fontane al Lido, il Sole e la Locanda La Corte. E trattative sono in corso con altri hotel. Tutti interessati alla linea di cortesia per albergo, ovvero quel set di saponette, shampoo, bagnoschiuma, crema per il viso e per il corpo, che i turisti trovano nelle stanze. Sono i prodotti di cosmesi "Santa Maria degli Angeli", realizzati dalle ospiti del carcere femminile della Giudecca con le piante aromatiche officinali dell’orto.

L’idea è venuta tre anni fa alla direttrice dell’istituto di pena, Gabriella Straffi, ed è stata lanciata dalla Cooperativa Rio Terà dei Pensieri, con il prezioso aiuto dell’insegnante di matematica e cosmetologo, Fabrizio Longo. "Con la Cooperativa Rio Terà dei Pensieri e il suo storico presidente Raffaele Levorato siamo riusciti a realizzare un sogno - spiega Longo -, quello di far nascere in un convento del ‘500 un’attività che riprende quella degli antichi speziali. I nostri prodotti sono i più naturali possibili e derivati da materie prime vegetali".

A coordinare il lavoro è Vania Carlot, che spiega: "È l’unico laboratorio di questo tipo in una struttura penitenziaria, e ha come scopo principale la fabbricazione e la successiva commercializzazione di linee cosmetiche basate sugli estratti di piante officinali coltivate anche nell’orto. In questo modo si realizza il binomio orto - laboratorio, che è stato il motivo dominante della realizzazione di questo progetto".All’inizio i prodotti venivano venduti in banchetti in occasioni particolari o al punto informativo della Fenice. Il vero lancio la linea cosmetica l’ha avuto grazie all’incontro della cooperativa con la presidente dell’hotel Bauer, Francesca Bortolotto: "Era tempo che cercavo un prodotto per la linea di cortesia dell’albergo - spiega Bortolotto - che, in qualche modo, uscisse dai soliti paradigmi di commercializzazione; ed ecco che finalmente potevo offrire un prodotto tutto veneziano, concepito ed elaborato artigianalmente e che poteva essere controllato nella produzione, modificato e migliorato man mano. Potevamo inoltre coinvolgere persone che avrebbero trovato forza e positività nell’accettare la loro difficile condizione attuale".

In questi tre anni la produzione si è incrementata, i clienti si sono diversificati ed ora esistono due linee, la normale "Rio Terà dei Pensieri" (con shampoo doccia, creme viso e corpo, lozione deodorante, spray antizanzara, sapone colorato e sapone da barba) e la più raffinata "Santa Maria degli Angeli", che ha come pezzi forti la "crema degli angeli", la crema antiage, il serum lifting plus. Allo studio la linea benessere, con idroaromi balsamici, rilassanti, energizzanti. All’opera sono in particolare tre detenute assunte da quest’anno con un contratto part time, che hanno già scontato metà della pena.

Droghe: Cnca; legge Fini non è emendabile, va riscritta

 

Toscana Oggi, 10 febbraio 2005

 

"La legge Fini non è emendabile ma va riscritta daccapo". È la conclusione cui sono giunti gli oltre mille partecipanti alla "Conferenza per un progetto delle Regioni sulle dipendenze" (Bologna, 7-8 febbraio), organizzata dal cartello nazionale "Non incarcerate il nostro crescere", coordinato dal Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza), sette amministrazioni regionali (Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Marche, Sardegna, Toscana, Umbria) e la Provincia autonoma di Bolzano.

"La funzione strategica della prevenzione - secondo il Coordinamento - deve partire dalla constatazione di un aumento generalizzato dei consumi e dal fatto che la sperimentazione di droghe sta diventando sempre più un elemento dei "normali" contesti giovanili del divertimento. Appaiono, dunque, poco incisivi interventi di prevenzione fondati su richiami ideologici e non calibrati su persone, contesti e sostanze differenti, ognuno dei quali richiede proprie modalità di azione". La Conferenza, si legge nel comunicato, "riconosce l’importanza - anche scientifica - dei servizi di prossimità, cioè di quegli interventi che si impegnano nel contattare i possibili consumatori di droghe, a cominciare dal mondo giovanile, nei luoghi dove essi si incontrano (la strada, le discoteche e i luoghi del divertimento, ecc.), all’insegna del principio: "esserci prima, per lavorare meglio dopo".

Tali interventi si offrono sul territorio come accoglienza, dialogo e vicinanza per più soggetti: dai settori più emarginati delle persone tossicodipendenti ai mondi giovanili che sperimentano sempre nuove sostanze e inediti stili di consumo".

Infine tutti gli addetti ai lavori "si sono trovati concordi nel denunciare il rischio che la legge Fini rappresenta per il sistema carcere. I detenuti italiani già oggi sono costretti a vivere in una situazione di grave sovraffollamento, con una qualità della vita deteriorata e quasi ovunque al di sotto degli standard anche minimi di tutela della salute e degli altri diritti fondamentali. L’entrata in vigore della legge porterebbe in carcere un enorme numero di persone, provocando - presumibilmente - tensioni e conflitti esplosivi. Il sistema carcerario italiano non è in grado di reggere l’impatto della proposta del Governo".

Bergamo: lavoro in carcere con il progetto del Rotary

 

L’Eco di Bergamo, 10 febbraio 2005

 

Il lavoro è un elemento primario per il recupero dei carcerati, per redimerli e aiutarli nel reinserimento sociale. Ne sono convinti i rotariani del Distretto 2040, che comprende anche i cinque club orobici. Nel "Progetto carceri" il Distretto rotariano impegna da alcuni anni un’apposita commissione presieduta dall’ingegner Andrea Schiatti di Milano, che ha tenuto una relazione sull’argomento al Rotary Bergamo Sud (presidente Pietro Pellegrini).

Aiutandosi con la proiezione di fotografie scattate nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore (ma il progetto toccherà presto anche Bergamo), il relatore ha illustrato i lavori che possono essere svolti in carcere, raggiungendo risultati positivi sotto vari aspetti: dalla qualità del lavoro stesso, alla sua competitività sotto il profilo dei costi, all’aiuto morale e materiale che l’attività lavorativa dà ai reclusi, preparandoli al rientro nella società. Purtroppo solo un detenuto su quattro può impegnarsi nel lavoro perché - ha spiegato Schiatti - il lavoro commissionato è per ora insufficiente ad accontentare tutti coloro che vorrebbero svolgerlo. Di qui l’invito, anche agli imprenditori bergamaschi, a studiare in collaborazione con il Rotary e le direzioni delle carceri la possibilità di introdurre nei penitenziari determinate attività.

Diversi i tipi di lavoro svolti dai reclusi nelle carceri milanesi. Si va dal call center alla lavorazione del legno, da un forno di panificazione (che rifornisce di pane le mense scolastiche di Milano e provincia) alla ripulitura delle decorazioni marmoree del Duomo di Milano, dal disassemblamento di elementi elettrici ed elettronici alla stampa di bollettini e piccole pubblicazioni (anche il Rotary fa stampare suoi notiziari nel carcere di Opera). Il progetto del Rotary prevede anche interventi di telemedicina e di formazione professionale e scolastica.

Genova: morì in carcere a 35 anni, processo a quattro medici

 

Secolo XIX, 10 febbraio 2005

 

Tre anni fa era morta in carcere per una forma di meningo-encefalite tubercolare lasciando cinque bambini nel suo paese, in Ecuador. Il prossimo cinque luglio i quattro medici che si occuparono di lei nella casa circondariale di Pontedecimo, saranno processati per omicidio colposo. La donna Garcia Quinde, 35 anni, era rinchiusa a Pontedecimo perché il 14 ottobre del 2001 era stata fermata con alcune connazionali che trasportavano ovuli contenenti cocaina, ma era risultata l’unica senza droga. La donna aveva sempre ribadito la propria innocenza.

Nel marzo del 2002 iniziò a manifestare malessere: lamentava cefalee e vomito. Scrisse diverse lettere al marito e ai familiari raccontando la difficoltà che trovava in carcere a farsi credere quando diceva che si sentiva male. Alla fine venne ricoverata all’ospedale San Martino dove i sanitari le diagnosticarono una meningo-encefalite. Nonostante le cure ricevute, il 29 marzo per le complicanze della grave patologia di cui era da tempo affetta. Il giudice Maurizio De Matteis, accogliendo la richiesta del pm Paola Calleri, ha rinviato a giudizio quattro medici della casa circondariale con l’accusa di omicidio colposo.

Si tratta di Giacomo Toccafondi, responsabile dell’area sanitaria del carcere, di Marilena Zaccardi e Antonio Abbondati, medici di guardia che si sono succeduti nei vari turni e Elivia Burchielli, ginecologa consulente estreno del carcere. L’inchiesta è scattata a seguito della denuncia del marito della donna assistito dall’avvocato Massimo Auditore. La morte della straniera aveva scatenato le proteste del personale di polizia penitenziaria e delle detenute per il ritardo con cui erano scattate le cure per una malattia infettiva che poteva coinvolgere altre persone. Il processo è stato fissato per il 5 luglio davanti al giudice Giuseppe Dagnino.

Cagliari: detenuto pugnalò un agente, pena ridotta in appello

 

L’Unione Sarda, 10 febbraio 2005

 

Era rinchiuso a Buoncammino dove stava scontando una condanna a trent’anni per l’omicidio della sorella quando, la mattina del 6 febbraio 2002, Michelangelo Osana ferì con un coltello un agente di polizia penitenziaria. Per quell’ episodio in primo grado, il 3 ottobre 2003, il detenuto era stato condannato a otto anni di reclusione per tentato omicidio. Ieri mattina la Corte d’Appello di Cagliari, accogliendo le tesi dell’avvocato Francesco Trudu, ha derubricato l’imputazione in lesioni gravi e, considerato anche il parziale vizio di mente di cui soffre Osana, gli ha inflitto un anno di reclusione.

La sentenza ribalta quasi completamente il primo verdetto quando era stata invece accolta la ricostruzione del pm che aveva sollecitato nove anni di carcere. Quando successe il fatto di cui si è parlato ieri mattina davanti alla Corte d’Appello, Osana era in carcere da circa quattro anni: era stato arrestato, e poi condannato a trent’anni, per l’omicidio della sorella Teresa. Delitto efferato: il corpo della donna era stato trovato il 31 agosto 1998 semicarbonizzato e riverso su un materasso nella sua casa di Decimomannu. Inizialmente si era pensato a un incidente, poi sotto il materasso era stato trovato un accendino.

L’autopsia aveva infatti rivelato che la donna era stata colpita con violenza alla testa, come dimostrava una larga ferita sulla parte posteriore del cranio: Teresa Osana, 61 anni, era stato uccisa prima dello scoppio dell’incendio. Il 6 febbraio 2002 nel carcere di Buoncamino Osana stava uscendo in cortile per l’ora d’aria quando aggredì l’agente che lo accompagnava cercando di infilargli un coltello in gola.

L’agente, pur colto di sorpresa, riuscì ad afferrare la lama del rudimentale coltello, ricavato probabilmente dal coperchio di un pentolino da cucina. La guardia rimediò alcune ferite alla testa e vari tagli alla mano. Il detenuto fu poi stato bloccato dagli altri agenti mentre la guardia ferita veniva ricoverata a in ospedale. La difesa ha sempre sostenuto che in realtà quel giorno il detenuto non voleva uccidere la guardia bensì intendeva mettere in atto un gesto dimostrativo per protestare: da qualche tempo, infatti, non riusciva a dormire perché ogni notte qualcuno bussava alla porta della sua cella.

Torino: clochard muore dopo un’iniezione sedativa

 

Ansa, 10 febbraio 2005


Un senzatetto di 49 anni è morto dopo un’iniezione di sedativo. È successo nella notte, a Torino, sulle scale di un condominio dove l’uomo era entrato per dormire al riparo dal freddo. Alcuni inquilini, poiché il clochard si rifiutava di uscire, hanno chiamato la polizia per mandarlo via. All’arrivo delle volanti la reazione del barbone è stata la stessa. L’uomo era molto agitato, per questo gli agenti hanno chiesto l’intervento del 118. Gli operatori, per calmarlo, gli hanno fatto un’iniezione di sedativo e poco dopo l’uomo è deceduto.

 

 

Precedente Home Su Successiva