Rassegna stampa 4 agosto

 

Napoli: detenuto sieropositivo di 39 anni muore in cella

 

Il Mattino, 4 agosto 2005

 

Un altro detenuto sieropositivo è morto nell’istituto penitenziario di Secondigliano. Terza morte in carcere, in pochi mesi. Lo denunciano Samuele Ciambriello, presidente di "Città invisibile" e Dario Stefano Dell’Aquila, portavoce di "Antigone". Si tratta di L.M. 39 anni, detenuto da sette. "Siamo preoccupati - dicono Ciambriello e Dell’Aquila - perché le condizioni dei detenuti sieropositivi sono durissime e le carceri sono drammaticamente sovraffollate. Invitiamo i parlamentari, che hanno poteri ispettivi, a visitare le carceri per rendersene conto". La popolazione detenuta è composta da oltre un terzo di tossicodipendenti.

59.125 detenuti al 31 giugno 2005; in 6 mesi 3.000 in più

 

Redattore Sociale, 4 agosto 2005

 

Sono 59.125 i detenuti reclusi nelle carceri italiane. Lo si evince dagli ultimi dati pubblicati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e relativi allo scorso 30 giugno 2005. Al 31 dicembre 2004 i detenuti erano 56.068: dunque in 6 mesi si è avuto un aumento della popolazione carceraria pari a 3.057 persone. Molti i nuovi ingressi in carcere nel primo semestre 2005: sono ben 44.345, di cui 23.207 italiani (4.400 donne) e 16.738 stranieri (43%, di cui 2546 donne).

Tornando alla popolazione carceraria nel suo insieme, va detto che 56.267 sono uomini (95,2%) e 2858 donne (4,8%). La Regione con il maggior numero di detenuti è la Lombardia (8.613), seguita da Campania (7.350), Sicilia (6.189), Lazio (5.778), Piemonte (4.842) e Toscana (4.114). La classe di età più rappresentata in carcere è quella che va dai 30 ai 34 anni (11.255 detenuti), seguita dai 35-39enni (10.466), dai 25-29enni (9.561) e dai 40-44enni (7.837).

Pena e reati. Per ciò che concerne la posizione giuridica, il 62% dei detenuti ha avuto una pena definitiva, il 2% sono internati, mentre il 36% dei detenuti è ancora ascrivibile all’area degli ‘imputati’ (tra questi ultimi: il 56,7% sono giudicabili, il 29,8% appellanti e il 12,6% ricorrenti).

Per ciò che concerne i condannati definitivi, va rilevato come il 31% ha avuto una pena fino a 3 anni, il 30,7% da 3 a 6 anni, il 15,4% da 6 a 10 anni, il 13,5% da 10 a 20 anni e il 9,4% oltre 20 anni o l’ergastolo. Dei 59.125 detenuti, il 30,8% sta scontando la pena per aver commesso reati contro il patrimonio; seguono la violazione della legge sulle armi con il 16,4%, reati connessi alla droga (14,9%), reati contro la persona (14,6%). Tra le altre, da segnalare un 3,4% detenuti per reati contro la pubblica amministrazione, un 2,6% di reati per associazione di stampo mafioso e l’1,6% per violazione dell’ordine pubblico.

Grado di istruzione. Dai dati si evince come, ancora una volta, i più penalizzati siano coloro che hanno un grado di istruzione basso. La maggior parte dei detenuti infatti (21.843, 36,9%) è in possesso della licenza di scuola media inferiore, 13.966 (23,6%) hanno la licenza di scuola elementare mentre 2.698 (4,6%) non hanno alcun titolo di studio e 865 (1,5%) sono analfabeti.

Per ciò che concerne le 2.858 donne detenute, il grado di istruzione conferma il trend generale. Quanto allo stato civile, invece, prevalgono le nubili (1.295), seguite dalle coniugate (786) e dalle separate legalmente (220); 167 sono vedove e 139 le divorziate.

Condizione lavorativa. Sul totale dei detenuti, la maggior parte (13.631) ha regolare occupazione, ma solo mille di meno (12.642) sono i disoccupati (tra le donne, primeggiano invece le disoccupate: 677 contro le 329 occupate); 1287 sono in cerca di occupazione, mentre 445 sono casalinghe/i e 186 i pensionati. Quanto alla situazione lavorativa una volta in carcere, i dati sono relativi al 31 dicembre del 2004 e ‘parlanò di 14.686 detenuti lavoranti (13.780 uomini e 906 donne), pari al 26,2% della popolazione carceraria. La maggior parte (12.152) è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e vengono occupati soprattutto in servizi di istituto (10.118), manutenzione di fabbricati (1.014), lavorazioni varie (754) e in colonie agricole (235).

Quanto ai detenuti non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (2.534), vanno segnalati i ‘semiliberi’ che lavorano in proprio (105) o alle dipendenze di datori di lavoro esterni (1.386); i detenuti lavoratori esterni (447); i lavoranti negli istituti per conto di imprese (131) e cooperative (449). In generale, chi lavora negli istituti, siano essi alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e non, si occupa principalmente di lavori di falegnameria, di vivai, serre e agricoltura, di sartoria, di attività di call center.

Stranieri circa il 32% dei detenuti nelle carceri italiane

 

Redattore Sociale, 4 agosto 2005

 

La situazione nelle carceri italiane non muta e, come denunciano da tempo le associazioni in difesa dei diritti dei detenuti, gran parte delle persone in esecuzione penale provengono dalle fasce più deboli della popolazione: immigrati, tossicodipendenti, malati di Aids o sieropositivi, rom e sinti. Lo confermano i dati del Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che ha fornito oggi le cifre aggiornate al 30 giugno di quest’anno della popolazione carceraria: dei 59mila detenuti circa il 33,5% è straniero e ed è straniero il 43% degli oltre 44mila nuovi ingressi nel primo semestre dell’anno. Oltre il 27% inoltre è tossicodipendente e sono 1.472 detenuti affetti da Hiv (questo dato si riferisce al 31 dicembre 2004).

Stranieri. Degli oltre 59mila detenuti nelle carceri italiane al 30 giugno di quest’anno 19.071 sono stranieri, di cui 17.797 uomini. Al 31 dicembre dello scorso anno erano 17.819 gli immigrati, su un totale di 56.068 detenuti presenti. Dei 44.345 ingressi nel primo semestre dell’anno, gli stranieri rappresentano il 43%; 16.738 gli uomini. Oltre 120 le nazionalità d’origine dei detenuti, che per la maggior parte provengono da Marocco (4098) Albania (2905) e Nigeria (1999). È l’Africa l’area geografica più rappresentata in carcere: il 21% dei detenuti è di origine marocchina, il 10% proviene dalla Tunisia. Un discorso a parte riguarda le donne; nei primi 6 mesi dell’anno ne sono entrate in carcere 2.546, 1.274 quelle ristrette alla data del 30 giugno. Differentemente dal dato generale, la maggior parte delle donne in carcere sono di nazionalità europea e provengono soprattutto dall’Ex Jugoslavia (192) e dalla Romania (158). Al 31 dicembre del 2004 il 24% dei detenuti stranieri su un totale di 56.068 i lavorava alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (3.940), solo 333 quelli impiegati in attività lavorative non legate alla gestione del carcere. Prevalentemente sono gli uomini a lavorare; alla data della rilevazione infatti solo 403 donne straniere erano occupate in attività lavorative.

Tossicodipendenti. Il 27,7% delle persone detenute è tossicodipendente (i dati aggiornati del Dap si riferiscono al 31 dicembre dello scorso anno). Su un totale di 56.068 persone in carcere 15.558 sono consumatori di sostanze illegali e di questi il 3% (1.687) è in trattamento metadonico; alla stessa data, sono 1.334 gli alcoldipendenti. Il fenomeno riguarda prevalentemente gli uomini: 14.884 i tossicodipendenti e 1.280 gli alcoldipendenti. Dei 17.819 detenuti stranieri inoltre al dicembre scorso 3.346 erano i tossicodipendenti stranieri, anche in questo caso in netta maggioranza gli uomini Alla data della rilevazione 6045 persone con problemi di alcol e droga usufruiscono della detenzione domiciliare, (la legge lo consente qualora la pena non sia superiore a quattro anni).

Pescara: il Progetto Equal Intra, per l’inclusione dei detenuti

 

Il Tempo, 4 agosto 2005

 

Una partnership fra Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Abruzzo e Molise, le Amministrazioni Provinciali di Chieti, L’Aquila e Teramo, Ance Abruzzo, Confcooperative Abruzzo, Ial Cisl Abruzzo e Cefal ha dato il via alle attività del progetto "Intra - Azioni integrate per la transizione al lavoro di detenuti ed ex detenuti" finanziato dalla Regione Abruzzo, dal Ministero del Lavoro e dalla Unione Europea nell’ambito dell’iniziativa comunitaria Equal fase II. Il progetto prevede la definizione e sperimentazione di un insieme di servizi integrati di carattere formativo e di accompagnamento al lavoro, destinati a detenuti ed ex detenuti. Tali servizi saranno programmati ed erogati attraverso il coinvolgimento attivo delle organizzazioni, pubbliche e private, a vario titolo operanti con l’utenza target sul territorio (Istituti di Pena, Centri per l’impiego, Silus, Asl, Istituti Scolastici, Associazioni di Volontariato), nonché del mondo imprenditoriale (Camere di Commercio, Associazioni datoriali, Imprese).

Le attività si svilupperanno nel territorio delle province di Chieti, L’Aquila e Teramo per un periodo di 30 mesi a partire dal mese di luglio 2005 e, nello spirito dell’iniziativa Equal, i loro risultati saranno progressivamente diffusi al contesto regionale, nazionale e comunitario. L’iniziativa rappresenta infatti un esperienza pilota nelle pratiche di intervento per l’inclusione socio-lavorativa di una fascia di popolazione particolarmente svantaggiata, con particolare riferimento ai servizi offerti durante il periodo di detenzione per il potenziamento delle capacità individuali di reinserimento nel mercato del lavoro. Per informazioni sul progetto possono essere contattate le organizzazioni partner, anche attraverso l’indirizzo di posta elettronica ad esso dedicato: equalintra@ial.abruzzo.it.

Norvegia: sospesi corsi yoga, rendevano detenuti più aggressivi

 

Associated Press, 4 agosto 2005

 

Lo yoga rende nervosi e anche qualcosa di più. È quanto sostengono le autorità del penitenziario di Ringerike in Norvegia che si sono visti costretti a sospendere i corsi di yoga organizzati per i detenuti, avendo osservato che la meditazione aumentava l’aggressività dei prigionieri. I corsi erano stati istituiti in via sperimentale a inizio anno in questo carcere dove sono detenuti i criminali più pericolosi del Paese, riportava oggi il giornale locale "Ringerikes Blad". Le autorità carcerarie speravano che la meditazione e gli esercizi respiratori, che contraddistinguono questa disciplina orientale decantata per i benefici psicologici che dovrebbe apportare, avrebbero aiutato i detenuti a controllare la loro aggressività. Ma pare si sia prodotto esattamente l’effetto contrario. Secondo una guardia carceraria, Sigbjoern Hagen, alcuni detenuti erano diventati più nervosi e agitati mentre altri accusavano turbe del sonno.

Giustizia: le regole per il reinserimento sociale dei collaboratori

 

Altalex, 4 agosto 2005

 

Nuove regole per il reinserimento sociale dei collaboratori di giustizia. Il Ministro dell’Interno di concerto con il Ministro della Giustizia, con Decreto 13 maggio 2005 n. 138, adotta le misure per il reinserimento sociale dei collaboratori di giustizia e delle altre persone sottoposte a protezione, nonché dei minori compresi nelle speciali misure di protezione.

Ai collaboratori e testimoni di giustizia sottoposti a speciali misure di protezione ed alle altre persone indicate all’articolo 9, comma 5, e all’articolo 16-bis, comma 3, del decreto-legge 15 gennaio 1991, n.8, convertito nella legge 15 marzo 1991, n. 82, che siano dipendenti pubblici e che non possano continuare a svolgere attività lavorativa per motivi di sicurezza, è garantita la conservazione del posto di lavoro, secondo le modalità previste dagli specifici ordinamenti o dalla contrattazione collettiva, per tutto il periodo di vigenza delle misure stesse.

Le persone ammesse al piano provvisorio di protezione sono, se dipendenti pubblici, collocati in aspettativa senza assegni o in un altro analogo istituto che permette la conservazione del posto di lavoro senza la corresponsione di retribuzioni. I dipendenti pubblici ammessi alle speciali misure di protezione vengono trasferiti in comuni diversi da quelli di residenza, ed è loro assicurata, la ricollocazione lavorativa presso sedi o uffici dell’Amministrazione o ente pubblico di appartenenza. Tali soggetti mantengono il trattamento economico e l’anzianità contributiva di cui godevano alla data della proposta di ammissione alle speciali misure di protezione.

I testimoni di giustizia ammessi alle speciali misure di protezione hanno diritto, nel periodo di interruzione dell’attività lavorativa per esigenze connesse all’attuazione delle misure, ai versamenti degli oneri contributivi da parte dell’amministrazione o ente pubblico di appartenenza. I dipendenti privati ammessi alle speciali misure di protezione ed allo speciale programma di protezione che non possono prestare attività lavorativa per motivi di sicurezza, viene mantenuto il posto di lavoro, con sospensione degli oneri retributivi e previdenziali a carico del datore di lavoro fino al rientro in servizio dei dipendenti stessi. Se l’azienda dispone di sedi, anche in province o regioni diverse da quella in cui sono attuate le speciali misure di protezione, gli interessati possono essere trasferiti, con il loro assenso, presso di esse, se sia possibile la continuazione delle prestazioni lavorative e fatte salve le esigenze di sicurezza.

I dipendenti pubblici ammessi allo speciale programma di protezione, ad eccezione dei testimoni di giustizia, sono collocati in aspettativa senza assegni, o in altro analogo istituto, che, secondo gli specifici ordinamenti e la contrattazione collettiva, permette la conservazione del posto di lavoro per tutta la durata del programma senza la corresponsione di retribuzioni. Tali soggetti possono chiedere al Servizio Centrale di Protezione, l’attivazione della procedura per la loro assegnazione in via temporanea, ad altra sede di servizio dell’Amministrazione di appartenenza ovvero, se ciò non sia possibile, il distacco o comando presso altra amministrazione o ente pubblico. Agli interessati è garantito il mantenimento del livello retributivo goduto alla data del collocamento in aspettativa o in analogo istituto aggiornato agli aumenti contrattuali intervenuti, nonché il riconoscimento del periodo trascorso in aspettativa senza assegni ai fini dell’anzianità di servizio.

I dipendenti pubblici ammessi al programma speciale di protezione in qualità di testimoni sono collocati in aspettativa retribuita. Se gli interessati richiedono di essere trasferiti in località diversa da quella in cui risiedevano originariamente, il Servizio Centrale di Protezione provvede, previa valutazione dei profili di sicurezza, riservatezza e anonimato, alle necessarie procedure per il trasferimento della sede di servizio presso l’amministrazione di appartenenza, o il comando o il distacco presso altre amministrazioni o enti pubblici.Essi mantengono il livello retributivo di cui godevano all’atto del collocamento in aspettativa aggiornato agli aumenti contrattuali intervenuti, nonché il riconoscimento del periodo trascorso in aspettativa senza assegni ai fini dell’anzianità di servizio e, ove possibile, le medesime mansioni. Nei confronti dei soggetti ammessi a speciali misure di protezione che svolgono attività lavorativa, le amministrazioni e gli enti competenti adottano, idonei accorgimenti per impedire, in caso di consultazione di banche dati o archivi informatici, l’individuazione degli interessati e del luogo di lavoro delle località in cui gli interessati effettuano le prestazioni.

Ogni volta che soggetti minori, nei cui confronti è stata avanzata una proposta di speciali misure di protezione sono affidati a persone non incluse nella proposta stessa o che rifiutano di sottoporsi alle misure, la Commissione centrale provvede a darne tempestiva informazione all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale dei minorenni ed a quello presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito è il luogo dell’ultima residenza del minore. Gli Organi competenti all’attuazione delle speciali misure e del programma speciale di protezione assicurano assistenza psicologica ai minori in situazioni di disagio. Gli Organi competenti all’attuazione delle speciali misure e del programma speciale di protezione provvedono, a garantire ai minori l’assolvimento degli obblighi scolastici, salvaguardando la loro tutela.

I titoli di studio delle persone sottoposte a programma speciale di protezione, che siano stati conseguiti con nominativi di copertura per motivi di sicurezza, vengono convertiti con il nominativo reale, su richiesta degli interessati e previa consegna al Servizio centrale di protezione del diploma conseguito con le generalità di copertura, tramite accordi tra il medesimo Servizio centrale e il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, per finalità di reinserimento sociale e lavorativo. Nell’ambito dell’istruzione professionale, le Autorità che attuano le speciali misure ed il programma speciale di protezione provvedono ad incentivare l’accesso delle persone incluse nelle misure stesse a corsi di formazione e specializzazione finalizzati all’inserimento lavorativo.

Giustizia: Castelli promuove azione disciplinare contro Gip Forleo

 

Adnkronos, 4 agosto 2005

 

Il ministro della Giustizia Roberto Castelli ha promosso l’azione disciplinare nei confronti del gip milanese Clementina Forleo in riferimento allo "scontro" di cui è stata protagonista il magistrato con alcuni agenti di una volante che stavano fermando un egiziano.

I fatti oggetto dell’azione disciplinare si riferiscono all’8 luglio scorso quando, in una via del centro di Milano, il gip Forleo era intervenuto per contestare le modalità con le quali gli agenti avevano fermato un extracomunitario che tentava di sottrarsi al controllo dopo che era stato sorpreso senza il biglietto per i mezzi pubblici. Già al centro di infuocate polemiche dopo l’assoluzione dal reato di terrorismo internazionale di alcuni cittadini islamici, il gip, oggi giudice dell’inchiesta sulla scalata Antonveneta, "litigò" con gli uomini della volante che avevano effettuato il fermo.

L’intervento del giudice, che aveva chiesto che gli fossero prese le generalità per poter testimoniare a favore dell’extracomunitario, era stato considerato di "gravità inaudita" dal sindacato di polizia Uilps, che aveva indetto una conferenza stampa. In merito alle critiche, il gip Forleo si era così difesa: "Non ho fatto altro che il mio dovere di cittadina. Non ho intralciato l’operato della polizia, perché sono intervenuta quando questa persona era già stata ammanettata e caricata in macchina. E poi lo rifarei non una ma cento volte".

Secondo gli agenti che si sono rivolti al sindacato il magistrato milanese, che separò nella sua discussa sentenza l’attività di guerriglia da quello di terrorismo, sarebbe intervenuta indebitamente durante l’operazione.

"Non ho visto in volto quell’uomo né sapevo ciò che avesse fatto", aveva spiegato dopo l’incidente il gip Forleo. "Sarei intervenuta, da cittadino e non da magistrato, anche se fosse stato un italiano. L’ho visto inseguito dagli uomini di quattro pattuglie, preso, scaraventato a terra e portato via. A quel punto ho sentito il bisogno, come cittadino, di intervenire per le modalità che mi sembravano sproporzionate e violente". Clementina Forleo aveva quindi insistito per dare le proprie generalità: "Quando si sono accorti che ero un magistrato ho spiegato che spesso capita che arrivino procedimenti per resistenza a pubblico ufficiale, e che quindi volevo testimoniare a favore di questa persona, casomai gli fosse stato contestato quel reato".

I poliziotti avevano respinto le accuse e il sindacato evidenziò quanto accaduto " all’attenzione dell’autorità giudiziaria, dei Ministeri dell’Interno e di Giustizia, e del Csm". Il segretario provinciale dell’Uilps Agostino Marnati aveva contestato il magistrato sostenendo che "le affermazioni del giudice Forleo non corrispondono alla realtà perché è intervenuta dopo che i fatti erano già accaduti". "Mi dispiace - aveva detto Marnati - che la magistratura si comporti in questo modo con le forze dell’ordine". Sul caso era intervenuto anche l’europarlamentare della Lega Mario Borghezio stigmatizzando il comportamento del giudice. "La considero una vicenda antipatica, perché si presta a una possibile strumentalizzazione", aveva detto a sua volta Renato Samek Ludovici, responsabile dell’ufficio Gip di Milano.

Il giudice si era definito addolorato "di apprendere quello che è avvenuto. Però la considero una vicenda nella quale la collega si è presentata come un semplice cittadino e non nell’esercizio delle sue funzioni: appartiene quindi al suo privato e non può e neanche deve coinvolgere l’ufficio".

"Mi auguro che l’episodio non sia enfatizzato, convinto come sono - aveva spiegato poi - che si sia trattato di un semplice malinteso tra la dottoressa Forleo e la polizia". Comunque, se la questione dovesse avere ulteriori sviluppi, aveva sottolineato il magistrato, "spetterà a chi deve prendere decisioni di tipo amministrativo o giudiziario ricostruire come sono andati i fatti. Non c’è nulla di male offrire la propria testimonianza o nell’immediatezza o dopo, prendendo carta e penna e facendo una segnalazione a una autorità giudiziaria o alla polizia".

Roma: carcere di Regina Coeli raccontato in cento foto

 

Il Messaggero, 4 agosto 2005

 

L’ora d’aria, la partita di calcetto, il profano rito del pranzo e quello sacro della messa, la doccia collettiva, i lavoretti in falegnameria e in sartoria, fino al momento del parlatorio, quando solo un muro e un vetro separano la libertà dalla detenzione. Sono alcuni dei cento scatti immortalati da Pino Rampolla e raccolti nel libro fotografico Regina Coeli (Herald Editore) che verrà presentato questa sera sul Pontile di Ostia all’interno della manifestazione "Approdo alla Lettura" (ore 21.30 - ingresso libero). Un fotogiornalista con un passato di "nera" al quotidiano Il Mattino e un lavoro realizzato nell’arco di due mesi fitti di sopralluoghi e frequentazione dello storico carcere romano. "Pensavo di averle viste tutte - spiega Rampolla - dopo aver passato tanti anni realizzando servizi di cronaca in Campania, con la Camorra protagonista di spargimenti di sangue senza tregua. Invece questa esperienza all’interno di Regina Coeli, accanto a persone per lo più in attesa di giudizio, è stata tra le più toccanti che abbia mai vissuto".

Cosa ricorda di quel lungo lavoro? "Innanzitutto i sopralluoghi. Mi avevano dato la possibilità di scattare dove volevo, ma per questo avevo chiesto di poter visitare più volte ogni luogo. Così, senza macchina, sono entrato per sentire odori, rumori e silenzi, cercando di soffermarmi su ogni sfaccettatura per poterla poi restituire su carta fotografica". Non solo fotografie "rubate" alla realtà, ma anche alcuni scatti in posa (accompagnati nel libro dalle didascalie di Mario Tidei). "Di solito si realizzano servizi esclusivamente volti a fermare la realtà così com’è. Il bianco e nero, la detenzione, la solitudine possono essere facilmente impresse da uno sguardo attento e fedele. Chiedendo invece alla gente di sorridere, volevo cogliere sottopelle il contrasto tra una contentezza forzata e la drammaticità che rimaneva comunque segnata su quei volti.

Certo, c’era anche chi mi diceva: "Aò, ma io devo famme altri cinque anni, ho poco da ridere". Ma nella maggior parte dei casi le foto erano addirittura richieste dai detenuti per essere spedite a casa". Tanti ragazzi, tra cui molti extracomunitari, assiepati nelle celle, e qualche "fortunato" già condannato e quindi con la possibilità di lavorare per spezzare la monotonia di un tempo che sembra non passare mai. "Ho visto tanti ragazzi non perdersi d’animo e sperare. Da alcuni ho visto realizzare opere straordinarie, come velieri e castelli semplicemente con pezzetti di plastica e legno". Tra gli autori della prefazione padre Vittorio Trani, da trent’anni cappellano del carcere, figura carismatica e punto di riferimento per i detenuti.

Giustizia: pene ancora più severe per i tifosi "delinquenti"

 

Giornale di Vicenza, 4 agosto 2005

 

Nuovo giro di vite del governo contro la piaga della violenza negli stadi, a poche settimane dall’avvio dei campionati di calcio. Ieri il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto che prevede un inasprimento delle sanzioni e che integra i provvedimenti già presi alla fine della scorsa stagione. A giugno erano state varate norme riguardanti, tra l’altro, l’introduzione dei biglietti nominativi elettronici e della video sorveglianza, sul modello inglese.

Le norme approvate ieri, su proposta del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e del ministro per i Beni culturali, Rocco Buttiglione, prevedono pene più severe per il lancio di oggetti e per le invasione di campo, quando questi episodi compromettano il regolare svolgimento della partita.

Gli ‘steward’ che prestano assistenza ai tifosi all’interno dello stadio, durante le manifestazioni sportive, saranno equiparati a incaricati di pubblico servizio, con la possibilità dunque di applicare le stesse pene previste per chi commette reati nei confronti di un pubblico ufficiale.

Infine è previsto il divieto di accedere negli impianti stranieri per i tifosi italiani diffidati e viceversa, i tifosi stranieri diffidati nel loro Paese non potranno entrare negli stadi italiani. Il decreto approvato ieri adegua le norme italiane in materia agli obblighi europei e istituisce L’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive presso il ministero dell’Interno. L’Osservatorio avrà il compito di "monitorare i fenomeni di violenza e intolleranza" e promuovere la tutela di spettatori e forze dell’ordine.

Il decreto ha l’obiettivo di rendere più dura la vita agli pseudo tifosi che vanno allo stadio ogni domenica solo per sfogare la loro violenza e che hanno fatto fare nell’ultimo anno molte bruttissime figure anche in competizioni internazionali alle società sportive italiane.

E mentre il presidente della Federcalcio Franco Carraro si dice "convinto che queste misure risulteranno utili ed efficaci", le nuove norme incontrano però le critiche dell’opposizione, attraverso le parole di Vincenzo Siniscalchi, Ds, primo firmatario di una proposta di legge sul fenomeno: "Non bastano rattoppi di stampo prevalentemente sanzionatorio per legiferare in modo organico in questa materia". Per Siniscalchi il decreto "emergenziale avrebbe potuto essere sostituito da una normativa organica approvata in Parlamento con il contributo e l’arricchimento di tutti".

Le nuove misure "Sono inutili e demagogiche" per Paolo Cento, vicepresidente della commissione Giustizia della Camera, "Si tratta di un pacchetto di norme che va nel senso opposto a quello tracciato dagli altri Paesi europei, che scarica sulle tifoserie delle curve la grave crisi del calcio, lesivo delle libertà individuali. In Parlamento daremo battaglia, a cominciare dalla revisioni della diffida, un istituto che deve essere ricondotto sotto il controllo del giudice ordinario, come chiesto durante l’iniziativa tenuta in parlamento alcune settimane fa alle quale hanno partecipato esponenti politici e del mondo del calcio".

Pastasciutta come libertà, ovvero l’arte di cucinare in cella

 

Secolo XIX, 4 agosto 2005

 

Non deve essere facile tirare le lasagne con un manico di scopa, cucinare la pizza senza il forno, farsi la pasta alla ricotta senza la ricotta o i dolci senza la farina. Tecnica, pazienza e fantasia: ecco quello che ci vuole. In carcere, non sono capricci da chef: quando ci si vuole preparare una cena come quelle che faceva mamma, bisogna destreggiarsi tra regolamenti e limitazioni. Occorre aguzzare l’ingegno e inventare cucina con quel poco che si ha sottomano.

Cibo e carcere è un binomio che pare quasi un ossimoro per l’accostamento di gusto e olfatto a un universo fatto di tante privazioni sensoriali. Sarà forse anche per questo che il cibo, e la capacità e la fantasia di cucinarlo, assume tanta importanza dentro una cella. Le sfogliatelle e la pasta alle cime di rape sono un modo per stare insieme e ricordare i sapori di "fuori", un modo di raccontarsi e di ritrovarsi. Ricette di vita vissuta. I primi a battere, non senza ironia, i sentieri della gastronomia dietro le sbarre sono stati un paio di anni fa i detenuti del carcere milanese di San Vittore con il cd multimediale "Avanzi di galera - Le ricette dei poco di buono". 80 ricette, interviste, racconti e una bella colonna sonora ("Don Raffaè" di Fabrizio De Andrè, "La libertà" di Giorgio Gaber e "Spaghetti a Detroit" di Fred Buongusto) che si trasformano in un viaggio nella durezza della vita carceraria. Il cd (10 + 3 per la spedizione, bisogna scrivere a emilia@ildue.it) è stato prodotto da www.ildue.it, il giornale web redatto dai detenuti di San Vittore, e l’anno passato si è aggiudicato il Premio Cenacolo Editoria e Innovazione promosso da Assolombarda e diversi editori italiani.

"L’uomo è ciò che mangia", sosteneva il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, e non è detto che di questi tempi sia sempre una bella notizia. Mucche pazze e polli con l’influenza stanno lì a ricordarcelo. Ma se l’uomo è ciò che mangia, è anche vero che mangia quello che è perché conferma attraverso il cibo la propria identità e perché mangia quello che riesce a produrre.

Lo stesso vale anche in carcere, come scrivono Daniela Basti e Clara Ippolito, curatrici di "Ricette d’evasione - L’arte di cucinare dietro le sbarre" (Cucina e Vini editrice, pp. 192, 15 euro, parte dei quali devoluti a favore dei detenuti e delle loro famiglie). Il libro, nato durante i corsi di educazione per adulti all’interno del carcere romano di Rebibbia, raccoglie le ricette scritte in prima persona tra strafalcioni e dialettismi dai detenuti. Ne escono brevi racconti di vita di grande umanità.

Il pasto in carcere è comunque garantito a tutti e come scrive Santo, "il cibo che passano in carcere con un po’ di fantasia si può mangiare". Lo slalom tra regole e burocrazia (in carcere "ogni cosa è vietata a meno che non sia autorizzata", e ogni carcere ha le sue regole) impone dunque uno sforzo di fantasia. Gli strumenti, innanzitutto. I coltelli sono ovviamente vietati. Per tagliare, allora, bisogna fare ricorso ai coperchi dei barattoli di latta: tagliare le verdure per il soffritto non dev’essere impresa alla portata di tutti. Per la grattugia, si usa invece "una scatoletta di tonno, bucata dall’interno con tagliaunghie". Poi ci sono le materie prime, che per un motivo o l’altro possono scarseggiare. Il lievito, per esempio: basta prendere una lattina con un po’ di birra, infilarci una mollica di pane e lasciarla lì qualche giorno. Per fare la ricotta, invece, occorre mischiare latte fresco intero, mezzo limone a fette, mezzo cucchiaio di aceto bianco e un pizzico di sale. Poi, si fa bollire. Ci vuole tecnica e fantasia, anche per utilizzare quella "specie di merluzzo che ci passano": Santo ne ricava un brodo di pesce da usare per un risotto. Aveva ragione Totò, insomma: "Si dice che l’appetito viene mangiando, ma in realtà viene a stare digiuni".

Questa "cucina dell’impossibile" fatta di fornelletti da campeggio e "ricette ristrette" la raccontano anche dal carcere di Fossano Davide Dutto e Michele Marziani, autori del libro fotografico e ricettario "Il Gambero Nero - Ricette dal carcere" (Derive Approdi, pp.140, 19 euro), titolo che gioca con il nome dell’Osteria del Gambero Rosso di Pinocchio ma anche con l’omonima casa editrice.

A Fossano, il cibo e la cucina prendono i sapori delle linguine alla duchessa (pomodori, polpa di vitello, rosmarino, alloro e formaggio grattugiato), ma anche del cous cous, del tajine o del pollo alla jardinera. Pezzi di mondo che si incontrano in un piatto caldo dentro le mura di un carcere. Il cibo come linguaggio in senso metaforico, certo, ma anche pratico. Alla cella numero tre del terzo piano, per esempio, c’è Hu: faccia timida e sguardo perplesso, Hu non parla italiano, non parla inglese e il suo cinese è incomprensibile anche ai cinesi. "Nessuno sa perché è qui, ma la sua cucina no, quella la capiscono tutti". Hu condivide la cella anche con Bruno, calabrese e maestro indiscusso nell’arte della pasta al forno. Tecnica non semplice, in carcere. A Fossano, in materia, ci sono diverse scuole di pensiero: "c’è chi usa il doppio fornello con cappa di stagnola e chi preferisce lo sgabello ricoperto con un panno bagnato". Fotografie in bianco e nero di una "cucina fatta di nulla".

 

 

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