Rassegna stampa 27 agosto

 

Giustizia: stranieri nelle nostre oscene prigioni

di Giulio Salierno

 

Liberazione, 27 agosto 2005

 

Le vacanze sono finite. Ma per i detenuti non sono mai cominciate. E i problemi del carcere sono sempre gli stessi. Solo che, durante le ferie, li avevamo dimenticati. Ma con l’autunno alle porte, come l’ombra di Banquo, tornano a bussare prepotentemente alle nostre porte. Ed esigono, con rabbia, di essere ascoltati. Inutile gridare, come Macbeth: "Via di qui, orribile ombra, beffa senza realtà, via". Il carcere non è un fantasma. Shakespeare non aiuta. E puntualmente abbiamo il cadavere di un altro detenuto. Morto, ancora non si sa bene come, a Porto Azzurro (l’ex, famigerato, Porto Longone). In più, torna a galla, anzi esplode il problema dei detenuti stranieri. Per la precisione, secondo il Sindacato autonomo degli agenti penitenziari (Sappe), di quelli, tra essi, islamici. I quali, teme, in sintesi, questo sindacato, possono convertire i reclusi italiani e farne, come è successo a quanto pare in Inghilterra, almeno di alcuni, dei potenziali kamikaze. E il sindacato, per contrastare ciò, chiede dei corsi di formazione speciali. Clemenceau diceva: "Per affossare un problema, nulla di meglio di una bella Commissione d’indagine". Noi siamo più modesti: ci basta un corso di formazione.

Ricordiamo qualche dato. I detenuti, in Italia, sono 59.200. Di essi, il 30 per cento è tossicodipendente e un altro 30 per cento è di origini straniere. La capienza dei 205 istituti di pena è di 42.540 posti; i detenuti in più, rispetto ai posti disponibili, sono 16.660. In realtà, queste cifre non riflettono la concreta realtà. Si pensi, a esempio, che le celle di un carcere come Regina Coeli o San Vittore, in origine, dovevano ospitare un solo detenuto. Poi, con un letto a castello, da uno i posti, per ogni cella, sono diventati tre e ora, in certi casi, si stipano, nello stesso ambiente, anche quattro reclusi. Ma la questione più seria è che il carcere è cambiato. È un’altra cosa rispetto a dieci, quindici anni fa. Il sistema carcere è saltato. È un’istituzione morta, sorpassata. E i detenuti stranieri sono la rappresentazione visiva, la cartina di tornasole di questo fenomeno.

Prima, alla fine degli anni ‘60, dopo le rivolte, gli omicidi a catena, i suicidi a getto continuo, si era arrivati, con la legge Gozzini, a una svolta. Si erano introdotti, per i reclusi, una serie di benefici: semilibertà, lavoro all’esterno, permessi premio, eccetera, eccetera. A condizione - si capisce - per i detenuti, di serbare buona condotta. Una sorta, se vogliamo, di "ricatto" fondato sulla bilancia dei privilegi e delle punizioni: "Tu fai il buono e io ti premio". Con i detenuti stranieri ciò non è possibile. Non hanno fissa dimora, non hanno famiglia in Italia, sono privi di permesso di soggiorno, nessuno è disposto ad assumerli, spesso i loro stessi nomi sono falsi. Dunque, come stringere un accordo con loro? Non basta. Gli immigrati, prima di entrare in carcere, subiscono un terribile processo di marginalizzazione sociale e criminalizzazione. E arrivano in prigione già carichi, anzi sovraccarichi di problemi esistenziali.

Giusto per rammentare cose note (ripetere spesso è indispensabile), gli immigrati, in fuga dalla fame, dalla guerra e dalla malattia, sono arrivati, in Italia, come in Europa, perché il nostro sistema economico ne ha assoluta necessità, almeno per ora. Ma non hanno trovato l’Eldorado. Né in Europa, né in Italia. Da noi, poi, si sono imbattuti con disorganizzazione e imprevidenza senza pari. Oggetto di scontro politico-ideologico tra "buonisti" e "cattivisti", di altisonanti dichiarazioni di principio e di sostanziale inazione, nessuno, salvo la Caritas e poche altre strutture similari (di molti centri pro immigrati, vere e proprie associazioni per delinquere, per carità di patria, è meglio non fare cenno), si è preoccupato, concretamente, non a chiacchiere, delle loro indifferibili esigenze materiali: alloggio, vitto, luoghi di riunione o di culto, centri di informazione, amministrativi, di indirizzo al lavoro, scuole di italiano, formazione tecnica.

Costretti a muoversi, abitare e vivere tra inimicizia, diffidenza e avversione, stigmatizzati come non-persone, spesso privi di lavoro (sia pure in nero), di documenti e di alloggio, accusati di avere una particolare propensione a delinquere, ignari delle regole da rispettare, per molti, troppi di loro, la strada è diventata rifugio, casa, centro commerciale, luogo di spaccio e ricettazione, cesso per defecare e orinare, posto dove ubriacarsi, litigare, aggredire i passanti, molestare le donne, urlare la propria rabbia e disperazione anche a notte fonda.

E dalla strada al carcere la via è breve. È ovvio, naturale, che nel crimine gli immigrati portino le proprie abitudini e la propria cultura. Ritornano così a essere impiegate armi desuete come il coltello, la prostituzione si trasforma talvolta in schiavitù e alle rapine si associa sovente la violenza carnale. E ormai, nella grandi città del Centro e del Nord (nel Meridione il discorso è diverso), interi settori illegali sono dominio di bande straniere, spesso, in dipendenza delle diverse nazionalità, in conflitto tra loro. Prime avvisaglie dei grandi scontri che ci attendono.

All’inizio, alcuni di questi immigrati, per sopravvivere, non hanno altra scelta che diventare manovalanza per le gang locali. Ma imparano in fretta la lezione. In carcere completano l’addestramento, trovano un’identità, selezionano i leader e, una volta fuori, su base etnica si mettono in proprio. La prigione, inoltre, incattivisce, indurisce e alimenta gli odi interetnici. Per di più, gli immigrati, per rispondere all’ostilità da cui sono circondati e per evitare di essere colonizzati o integrati in una cultura - quella locale - che rifiutano, si concentrano per etnie nelle varie zone della città. Non solo come aggregati abitativi, ma anche per attività commerciali. Il ghetto è l’unico strumento che hanno a disposizione per difendersi e preservare le loro radici: i cinesi con i cinesi, i neri con i neri, i nordafricani con i nordafricani, i bengalesi con i bengalesi.

Ciò, naturalmente, alimenta la minacciosa reazione dei residenti italiani nei popolosi quartieri periferici (in quelli centrali, anche se degradati, gli italiani sono pochi e anziani) e, per converso, aumenta il senso di insicurezza e di sradicamento degli immigrati. E tutto diventa occasione di conflitto: la religione, i riti matrimoniali, il vitto, le feste, gli abiti, la macellazione della carne, persino il tono di voce. Né potrebbe essere altrimenti. Non siamo ancora arrivati, per tema di risse sanguinose, a proibire, in periferia, locali partite di pallone tra italiani e immigrati e tra le varie nazionalità degli stranieri. Ma, presto o tardi, ci arriveremo. Soprattutto, e in particolare, quando i figli e i nipoti degli attuali immigrati, presa coscienza della loro condizione e dei patimenti subiti, rivendicheranno la propria cultura e la propria religione come armi contro l’omologazione che ci illuderemo di imporre loro. Ed è possibile che tra questi giovani chi, per nascita, memoria e presente, avrà, come proprio sentire, forte coscienza di una religione missionaria e in espansione come l’Islam, aspiri a quella ricerca di verità e assoluto i cui effetti sono storicamente noti. Ci vuole, dunque, ben altro che, in carcere, un corso di formazione per ostacolare un processo di proselitismo che ha radici profonde e lontane. E che potrebbe diventare il principale problema della società italiana.

Cagliari: la Regione interviene sulla salute mentale in carcere

 

Sardegna Oggi, 27 agosto 2005

 

Nella sua seduta di stamane la Giunta Soru ha approvato tre delibere presentate dall’assessore alla Sanità Nerina Dirindin, e riguardanti le linee guida per la predisposizione da parte delle Asl dei piani strategici di riqualificazione dell’assistenza e di rientro dal disavanzo, l’individuazione delle finalità per i progetti di ricerca finanziati dalla Regione, e lo schema di convenzione tra la Regione e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per garantire una migliore assistenza ai detenuti che soffrono di disturbi mentali.

Il 40% dei detenuti reclusi nelle carceri sarde presenta un disturbo mentale. Attualmente la loro assistenza è garantita in maniera frammentaria da una pluralità di soggetti, non adeguatamente coordinati con il Servizio Sanitario Regionale. Per superare questa situazione, la Regione ha predisposto insieme al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e al Tribunale di Sorveglianza uno schema di convenzione, oggi approvato dalla Giunta. La convenzione prevede che i Servizi di salute mentale delle Asl nel cui territorio ricadono le carceri possano promuovere interventi più efficaci con una presa in carico globale della persona detenuta, che sarà costantemente seguita attraverso visite e terapie specialistiche, colloqui di sostegno, programmi riabilitativi dentro e fuori dal carcere, e contatti con la famiglia per evitare il più possibile la detenzione in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Il Servizio di tutela della salute mentale potrà essere attivato su indicazione del medico del carcere ma anche su richiesta della singola persona detenuta. Con la convenzione l’Istituto penitenziario si impegna a dar corso alle indicazioni terapeutiche e a concordare con gli operatori del Centro di salute mentale i tempi e i modi della presa in carico di ogni singolo paziente. L’avvio dell’organizzazione dei servizi di tutela della salute mentale nelle carceri isolane sarà sostenuto nel 2005 con un finanziamento di 150 mila euro.

Iraq: Usa liberano 1000 detenuti dal carcere di Abu Ghraib

 

Quotidiano Nazionale, 27 agosto 2005

 

Gli Stati Uniti hanno annunciato la liberazione di mille detenuti che erano finora rinchiusi nel penitenziario di Abu Ghraib, il super-carcere alle porte occidentali di Baghdad ove all’epoca dell’ex regime di Saddam Hussien erano torturati gli oppositori politici, divenuto poi ancora più tristemente noto per lo scandalo degli abusi sui prigionieri perpetrati da militari americani che li avevano in custodia.

Si tratta del più ingente rilascio di massa avvenuto in Iraq dalla caduta della dittatura; nel renderlo noto il Comando Usa ha precisato che esso è stato disposto su richiesta del governo transitorio iracheno guidato dal premier Ibrahim Jaafari, uno sciita moderato.

Non è chiaro se il provvedimento sia direttamente da ricollegarsi alle trattative in corso per mettere a punto la bozza definitiva della nuova Costituzione, con l’alleanza maggioritaria curdo-sciita impegnata a trovare un compromesso risolutivo attraverso l’accoglimento di alcune tra le richieste dei sunniti, minoritari; questi ultimi hanno in effetti sollecitato a più riprese il ritorno in libertà dei correligionari in prigione, così che essi possano votare nel referendum popolare del 15 ottobre sulla futura Costituzione, una volta che sarà stata adottata, come pure nelle elezioni generali in programma il prossimo dicembre.

Cuneo: detenuto scrive al presidente della Repubblica e al Papa

 

La Stampa, 27 agosto 2005

 

Si appella al Presidente della Repubblica e al Papa per chiedere di essere curato e poter contare sul sostegno spirituale di un sacerdote. La richiesta d’aiuto giunge da un quarantaduenne di Mazzara Del Vallo, Andrea Manciaracina, che, condannato per mafia, sta scontando l’ergastolo nel carcere del Cerialdo a Cuneo. A richiamare l’attenzione sulla vicenda è l’avvocato difensore, Teresa Certa, di Vercelli. "Il mio cliente - spiega il legale - soffre di crisi depressive che rischiano di degenerare in epilessia: in otto mesi è dimagrito di circa quaranta chilogrammi. Essendo molto religioso chiede anche di poter incontrare regolarmente il cappellano del carcere. Non mette in discussione la pena alla quale è stato condannato, chiede soltanto di essere curato e assistito spiritualmente". In una lettera inviata all’avvocato Certa, Andrea Manciaracina, scrive: "La celebrazione della messa avviene ogni 3-4 mesi. Dopo oltre un mese che anelavo un colloquio spirituale con il cappellano, mentre lo stavo effettuando, dopo circa 15 minuti gli agenti l’hanno sospeso sostenendo che dovevano rientrare i detenuti dai passeggi". Funzionari del carcere di Cuneo non commentano l’appello, fanno solo notare che il detenuto è sottoposto al 41 bis. "La messa - spiegano - viene celebrata un sabato a rotazione per ciascuna delle sezioni. Non è, dunque, possibile che siano 3-4 mesi". "Per quanto riguarda lo stato di salute - spiega ancora l’avvocato Certa -, abbiano richiesto che Andrea Manciaracina venga visitato da un medico esterno al carcere. Sia ben chiaro che il mio cliente non chiede sconti di pena, né inveisce contro la giustizia. Chiede solo di poter vivere con dignità il carcere: confessarsi e assistere alla messa". L’appello è stato inviato al giudice di sorveglianza di Cuneo, al presidente del Consiglio, al ministro di Grazia e Giustizia e al leader dei radicali, Marco Pannella.

Giustizia: violenze sui minori, sei richieste di aiuto al giorno

 

Il Manifesto, 27 agosto 2005

 

Le denunce di violenze sui minori aumentano. Il Telefono arcobaleno riceve sei richieste di aiuto al giorno. È il bilancio dell’attività sociale svolta dall’associazione, dal primo luglio al 22 agosto di quest’anno, presentato ieri. Mentre nel primo semestre del 2005 sono arrivate 1512 chiamate, solo negli ultimi due mesi 345 persone hanno contattato il numero verde del centro nazionale di ascolto di Telefono arcobaleno per denunciare violenze e maltrattamenti.

Nella top ten delle regioni che si sono rivolte al servizio, non ci sono distinzioni nette tra il nord e il sud Italia. Se Lazio, Calabria, Sicilia e Campania fanno da apripista, seguono Emilia Romagna, Sardegna, Lombardia, Veneto, Piemonte e Toscana.

Variegata anche la tipologia delle denunce: ci sono otto abusi sessuali (di cui cinque all’interno dello stesso nucleo familiare e tre extrafamiliari), undici casi di maltrattamenti, sette episodi di incuria, tre di accattonaggio e uno di sfruttamento lavorativo.

Le richieste di aiuto o le denunce di violazioni dei diritti dei bambini si sono scontrate con un’altra realtà preoccupante: la chiusura estiva dei servizi sociali in alcune realtà provinciali. " In alcuni casi - spiega il presidente dell’associazione, Giovanni Arena - come è avvenuto in provincia di Mantova, abbiamo dovuto fare riferimento ai carabinieri perché l’inadeguatezza della risposta dei servizi sociali non attiene solamente al sud del paese".

Inoltre il presidente di Telefono arcobaleno ha sottolineato che "il lavoro non conosce sosta anche per la ricerca di siti pedo pornografici". Infatti le ultime notizie sul fenomeno della pedofilia non sono rassicuranti. Nei giorni scorsi i volti riconoscibili di adulti che violentano bambini tra i 2 e i 10 anni sono stati scoperti su internet.

Un altro elemento negativo che si evince dall’indagine di Telefono arcobaleno è l’aumento del numero di utenti che richiedono l’assoluto anonimato. Sono sempre di meno, insomma, le persone che si espongono apertamente quando si tratta di denunciare i maltrattamenti e gli abusi sui minori.

Secondo il sociologo Antonio Marziale, presidente dell’osservatorio sui diritti dei minori "siamo di fronte ad una vera e propria emergenza. Infatti oltre al bilancio di Telefono arcobaleno, ci sono i dati forniti dalla polizia che individuano tremila minori che scompaiono ogni anno e i recenti numeri sullo sfruttamento minorile divulgati dalla Cgil che segnalano 400mila minorenni operai". La proposta del presidente dell’osservatorio è quello di istituire un ministero dell’infanzia che tuteli effettivamente i minori.

Usa: viaggio in Texas per incontrare 4 condannati a morte

 

Secolo XIX, 27 agosto 2005

 

Il responsabile spezzino dell’associazione S.O.S. dal braccio della morte è in partenza per il Texas dove incontrerà alcuni condannati alla pena capitale. Dopo una lunga serie di ostacoli burocratici, sabato prossimo Mauro Dispenza, già responsabile spezzino di Amnesty Internationa ed oggi in prima linea nella battaglia non violenta contro la pena di morte, potrà coronare il desiderio di quattro amici con cui è in corrispondenza da tanto tempo. Angel, Martin, Preston e Daryl sono detenuti nel braccio della morte del carcere di massima sicurezza Polunsky Unit di Livingston, in Texas. "Da tempo queste persone avevano espresso il desiderio di conoscermi di persona, considerato che non ricevono mai visite da amici o da parenti - dice Dispenza - Sono consapevole che sarà una esperienza dura ma, a mio parere, importante per gli amici là rinchiusi da tanti anni, e per me stesso. Nell’ occasione della permanenza in Texas avrò anche degli incontri operativi con gli avvocati di difesa del Texas Defender Centre di Houston, e con i responsabili di Amnesty e della Coalizione Texana contro la pena di morte. Al ritorno sarà mia premura redigere un rapporto che tramite questo giornale, vi farò conoscere". Per chi fosse interessato al lavoro volontario dell’associazione S.O.S., può inviare un messaggio al seguente indirizzo di posta elettronica: scottymoore@tin.it oppure può presentarsi presso la sede spezzina di Via Manin 27 nel pomeriggio di ogni terzo venerdì del mese.

Fiume: giovane detenuto da una settimana muore in cella

 

Il Piccolo, 27 agosto 2005

 

Un detenuto è morto in circostanze ancora tutte da chiarire nel carcere quarnerino di Via Roma. Martedì mattina le guardie penitenziarie hanno notato il corpo del 23enne Sasa Cvetkovic che non dava segni di vita. È stato subito allertato il servizio medico che però ha potuto soltanto constatare il decesso. Il giovane, residente a Pinguente, era stato tradotto nel penitenziario fiumano una settimana fa dopo che gli agenti della stazione di polizia della località istriana lo avevano arrestato, poiché Cvetkovic non aveva risposto agli inviti per presentarsi al processo al Tribunale quarnerino. Infatti, il giovane è stato denunciato per furto commesso nel capoluogo quarnerino. Questa era anche il suo primo reato. Le prime indagini hanno appurato che sul corpo del Cvetkovic, il quale divideva la cella con altri quattro detenuti, non sono stati trovati segni di violenza. Inoltre, è stato escluso anche il suicidio o la morte per overdose, anche se in un primo momento nella cella era stato trovato un pezzo di carta stagnola che, come è stato appurato più tardi, era di una confezione di formaggini. Infatti, il ragazzo non aveva nemmeno un soldo per acquistare eventualmente sostanze stupefacenti e nessuno dei parenti o degli amici gli ha fatto visita. Quanto la morte del 23enne di Pinguente sia ancora avvolta dal mistero, lo dimostrano anche le parole del patologo Valter Stemberger che ha effettuato ieri l’autopsia. "In questo momento non posso esprimere un giudizio definitivo. Servirà ancora almeno una settimana per effettuare delle ulteriori analisi, poiché si tratta di un caso molto specifico".

Negli ultimi due anni nel penitenziario quarnerino si sono susseguiti diversi avvenimenti che hanno dimostrato la scarsa efficienza del sistema interno. In questo senso va ricordata l’aggressione di un detenuto nei confronti di un secondino che era stato minacciato con un coltello. Poi, pochi mesi dopo, un altro detenuto è stato picchiato selvaggiamente dai compagni di cella e qualche mese fa tutte le persone che stanno scontando la pena o che sono in attesa di giudizio hanno organizzato lo sciopero della fame per protestare contro le difficili condizioni all’interno del carcere.

Trieste: Sbriglia; molti detenuti si reinseriscono, sono eroici

 

Il Piccolo, 27 agosto 2005

 

Tra il Coroneo e il Municipio. La giornata di Enrico Sbriglia si spalma in questi due luoghi apparentemente lontani. Da una parte c’è il lavoro non facile di dirigere un carcere dove vivono oltre 270 persone di cui almeno metà stranieri e che ha visto transitare e permanere anche detenuti "eccellenti". Dall’altra c’è il suo ufficio di assessore al Bilancio del Comune di Trieste. Con le segretarie, i telefoni e i computer. "Devo fare quadrare i conti. E non è facile di questi tempi....", dice. Ha sempre fatto politica tra le fila di Alleanza Nazionale. Ma l’impatto maggiore per chi lo incontra è senza dubbio quello del carcere. Porte blindate, telecamere, l’atmosfera di un mondo diverso a poche centinaia di metri dal centro città. Assessore o direttore? "Sono i miei due lavori. Li faccio per passione", risponde secco Sbriglia.

Parliamo di carcere. Cosa serve tenere la gente dietro alle sbarre per anni? Riusciranno a reinserirsi nella società?

A dispetto di quello che pensa molta gente sono numerosi i detenuti che riescono a reinserirsi nella società. Tante volte mi meraviglio io per primo della loro forza d’animo. Sono eroici, perché la nostra società non tende a perdonare. Ma piuttosto a lasciare il sigillo della colpevolezza impresso per tutta la vita. E questo marchio a volte anche riguarda l’ambito familiare. Non so se serva il carcere. Ma la domanda che mi faccio è se serva anche commettere i reati. La verità è che la prigione nasce come estrema ratio, non come rimedio infallibile. Il carcere dovrebbe essere adottato solo nei casi estremi. Ancor prima di mettere in carcere bisognerebbe verificare se esistono altre soluzioni percorribili. Non a caso nel mondo penitenziario è cresciuta la cosiddetta area penale esterna. Cioè numerosi soggetti detenuti vengono avviati a misure alternative alla pena. O anche persone condannate che non passano neanche per il carcere, mai possono essere impegnate in attività sociali utili.

 

Ma nonostante questo il carcere di Trieste è sovraffollato?

È vero: il carcere del Coroneo è sovraffollato, come la gran parte degli istituti italiani. Va da sé che la maggioranza politica che governA con il patto elettorale carca di dare una maggiore risposta di sicurezza e quindi sviluppa più incisive attività di polizia. Da ciò l’ovvia conseguenza di un maggior numero di persone detenute e un più forte contrasto alla criminalità. Bisogna ricordare che negli anni Ottanta si era sviluppata un’altra idea. Si parlava di liberarsi della necessità del carcere quasi fosse un’esigenza. Ma non si erano sviluppate politiche di accoglimento ed eliminate le cause sociali dell’esplosione. E non si immaginavano nemmeno le conseguenze di un’immigrazione clandestina su scala mondiale che avrebbe interessato il nostro Paese portandoci non solo disperati che avevano bisogno d’aiuto, ma anche criminali e organizzazioni mafiose straniere.

E poi non furono avviati importanti lavori di riqualificazione ed un ampliamento delle disponibilità di spazi. Una volta sembrava una sorta di bestemmia voler realizzare un carcere. Basti pensare alla vicenda di Pordenone. Ora la conseguenza è che il numero di posti sono inferiori alle esigenze. Eppure con questo governo sono state realizzate nuove strutture. Si è passati da una fase in cui le cose si dicevano a una in cui le cose si fanno. Sono sempre più convinto che in carcere ci siano persone di troppo. Non siamo riusciti a trovare altre soluzioni. Ma sono anche convinto che in carcere ci sono persone che non dovrebbero mai riuscire e tornare libere se non a condizioni di assoluta sicurezza. Come quelli hanno commesso efferati delitti verso donne e bambini. Questo, lo ammetto, è il mio punto debole. Devo sforzarmi a distinguere il fatto di essere padre e contemporaneamente un funzionario dello Stato. Non mi sentirei tranquillo nel sapere che violentatori di bambini o sfruttatori possano lasciare le patrie galere per dedicarsi a queste attività.

 

Lei è un po’ giustizialista, lo ammetta...

Non credo che farsi giustizia con le proprie mani appaghi, perché quello che ti hanno tolto non te lo ridanno più. Ma penso che in certe situazioni ci sia il legittimo desiderio di essere certi che taluni debbano espiare per quanto hanno causato ad altri ingiustamente. Esiste un fenomeno singolare. È quello in cui la pena mangia se stessa. Attraverso le riduzioni, i benefici il detenuto può essere il regista della sua storia penitenziaria. Attenzione, non è sbagliato il principio. È sbagliato un nostro reale sistema di verifica della congruità dei benefici. Non è il farmaco sbagliato, è il dosaggio che non funziona. E chi lavora in questo contesto si assume grandi responsabilità.

 

Si sente molto spesso parlare di malessere, di proteste...

Se volessimo distribuire pranzi alla carta o organizzare spettacoli di lap dance questo non basterebbe a rendere appetibile il carcere. Così come anche l’ ospedale o il cimitero. Ma questi luoghi servono maledettamente alla nostra società.

 

Chi soffre di più in carcere?

Le donne. Molte volte è evidente il loro sfruttamento piuttosto che la loro partecipazione strategica ai reati per cui sono state condannate. Al Coroneo è sul versante delle detenute che ci sono obiettive carenze. Manca una decina di agenti donne.

 

Preferisce sentirsi temuto?

Mi farebbe piacere sentirmi rispettato come persona sia che l’interlocutore sia un detenuto o un cittadino libero. Come direttore servo lo Stato. Il fatto di fare il mio dovere è già qualche cosa che mi appaga.

 

Si ricordano più le critiche o le lodi dei reclusi?

Quello del direttore è un lavoro duro e difficile dove gli interlocutori conflittuali non sono solo i detenuti. Provare ad assicurare un sistema di legalità significa impegnare tutti ed esigere un comportamento chiaro. Sarei preoccupato se fossi amico di tanti. Mi interessa sapere invece se ho fatto il mio dovere. Posso dire che in questi anni ho avuto molti attestati di stima. Ho cercato, se possibile, di aiutare. Si dice: fai il bene scordalo, fai il male ricordalo.

 

Lei è di destra. Ha la tessera di Alleanza nazionale. Quanto conta la fede politica nel suo lavoro?

Qualche giorno fa una cara persona mi ha ricordato la frase del fondatore dell’Opus Dei: "Lavorare con passione, santificare il lavoro". Se si lavora con passione poco importa quale sia la sensibilità politica dell’uomo. Ci sono altri direttori che hanno un’idea diversa dalla mia. Sono il segretario nazionale di un sindacato che raccoglie la stragrande maggioranza di direttori e funzionari. Certamente sarei contento se tutti la pensassero come me. Ma così non è. La politica c’entra poco nel mio lavoro.

 

Qualche recluso ha mai fatto riferimento alle sue idee politiche?

Sì più di una volta. In un caso c’è stato un tentativo di avvicinarsi al direttore accampando una comunanza di sensibilità politica. Gli ho risposto: "Bene. Peccato che non lei non riesca a manifestarle nella realtà quotidiana".

 

Si sente più a suo agio in carcere da direttore o in Comune come assessore?

Credo di aver trovato più persone di parola dietro alle sbarre che in altri contesti come nella società civile. C’è un’idea folle sul carcere intesa come discarica sociale. Ma non è così.

 

Le piace fare l’assessore al bilancio?

È un’ esperienza bellissima. Questa città mi ha accolto bene. Credo che da parte mia fosse doveroso ricambiare l’affetto che mi è stato dato. Considero i triestini una comunità che brontola, ma hanno un cuore grande. Questa città sa essere vicino nei momenti in cui c’è bisogno. Mi è stata offerta questa possibilità di servire la città. Non ho desideri, non ho sogni nel cassetto.

 

Dicono che lei non segua le regole imposte dall’alto.

Ho la mia personalità. Si è voluto accreditare un’idea di destra che debba rispondere a caratteristiche di conservazione, tradizionalismo e di scarsa capacità di affrontare il futuro. Se dovessi esprimere la mia fede politica darei una definizione: futurismo. Per esempio non ho paura dei problemi dell’immigrazione. Sono convito della bontà della nostra cultura mediterranea. Mi costerebbe più fatica pensare che fossero più moderni gli antichi romani che non avevano paura del nuovo.

 

Lei è stato anche assessore alla vigilanza del Comune…

Ho tratto insegnamenti e ho fatto esperienza. Non sapevo della ricchezza professionale dei vigili urbani. Pensavo di imbattermi in un Corpo senza grandi professionalità. Ho scoperto invece un livello professionale notevole.

 

Però non le è andata molto bene quando ha proposto di armare i vigili?

Quando mi sono interessato alla polizia municipale non mi sembrava dissacrante proporre una dotazione analoga a quelli che svolgono simili compiti altrettanto rischiosi. Si dice: "Alla guerra come alla guerra".

 

A Trieste non c’è mica la guerra.

Per i latini se vuoi vivere in pace preparati alla guerra. Ho visto però che molti consiglieri e anche l’opinione pubblica non riteneva che fosse giunto il momento. Si può parlare di puntualità più che di opportunità. È andata così dal momento che in democrazia prevale la maggioranza. Sarei stato arrogante imporre qualche cosa che non fosse condiviso.

 

Ora è assessore al bilancio. È un momento difficile per tutti. Taglia la spesa sociale o la sicurezza?

Non c’è contraddizione. Poco interessa avere dal Comune avere una serie di servizi ma senza poter tornare alla sera a casa tranquillo. Non è vero che il Comune ha ridotto le opportunità sociali. Non è vero che ha puntato ad incrementare gli stanziamenti per i lavori pubblici. Il Comune di Trieste non ha ridotto il livelli di spesa per il sociale. Non c’è stato il taglio dei servizi come è invece è accaduto i tutti i più grandi comuni d’Italia. Nulla si dice a questo riguardo su città come Roma, Napoli, Firenze o Bologna dove i tagli sono stati costanti.

 

Ma le tasse a Trieste sono cresciute?

È vero. Qualche anno fa c’è stato un marginale aumento dell’Ici e un aumento delle tariffe che erano ferme a valori di otto - dieci anni prima. Non è giusto che i servizi non siano adeguati.

La cella luogo di potenziali conversioni religiose

di Giuseppe Pilumeli

 

Dopo avere letto l’intervento della Segreteria Generale del Sappe sul rischio "proselitismo in cella" costituito oggi dai numerosi musulmani detenuti insieme agli italiani, leggo un ulteriore intervento a riguardo. Il mio intervento vuole essere solo un contributo per una riflessione sull’argomento, partendo dall’assunto che si tratta del punto di vista "limitato" di un singolo.

Io lavoro in carcere da 22 anni oramai, Agente di leva nel 1984, Ispettore nel 1994, Commissario nel 2003, dal 1997 svolgo la funzione di Comandante della Polizia Penitenziaria in un istituto di pena medio grande (Prato - 500/600 detenuti).

Il mio non vuole essere un intervento teso a suscitare polemiche; conosco molti dirigenti del Sappe, dei quali condivido il lavoro di sindacalisti impegnati, che peraltro colgo anche in altri schieramenti sindacali.

Quello che mi colpisce dell’intervento di Roberto Martinelli sono sostanzialmente due aspetti, l’uno collegato all’altro: si lancia l’allarme sul problema del proselitismo e si richiede contestualmente all’Amministrazione di intervenire con una "formazione" degli Agenti che tenda a fornire strumenti di conoscenza finalizzati a prevenire questo rischio.

Non condivido nessuno dei due problemi: dal mio punto di vista (è chiaro che è il punto di vista di un Comandante che ha una esperienza limitata ma è anche il punto di vista di un lavoratore che da sempre opera "in carcere", mai altrove) il problema non esiste.

Anzi, pericolosa mi sembra una affermazione di questa portata: il carcere è pieno di poveracci, e se i progetti legislativi in corso andranno in porto, come sembra, il sistema è destinato, secondo me, a deflagrare, perché saranno incapacitati ancora di più fasce socialmente deboli che, non avendo protezione sociale esterna (parlo di agenzie di sostegno e di controllo sociale che laddove esistono non sono in grado di affrontare compiutamente i tanti problemi sul tappeto – mi riferisco quindi agli stranieri, di cui una piccola parte "votati" alla micro criminalità e quasi sempre per bisogno, ai tossicodipendenti, ad altri "marginali" che non hanno strumenti ed opportunità per vivere, come stanno le cose, fuori dal circuito penale e, quindi, penitenziario).

Il preventivato aumento della popolazione nei nostri penitenziari porrà a nudo i limiti nostri che vi operiamo, perché non saremo in grado di assicurare, di certo, un servizio pubblico migliore di quello che, con gli sforzi quotidiani, ci sforziamo di garantire.

Può essere che gli amici del Sappe abbiano elementi diversi che portano ad affermazioni come quelle esternate, ma ho il timore che la situazione che descrivo possa corrispondere alla realtà generalizzata di quasi tutti gli istituti di pena, soprattutto del centro nord, dove la quota di stranieri si aggira fra il 30 ed il 50% della popolazione detenuta.

La mia esperienza mi porta ad affermare che il pericolo descritto non sussiste. Dove lavoro le etnie convivono e mi sembrano abbastanza integrate, e non da ora. Vanno a scuola insieme, lavorano insieme, mangiano insieme, dormono nella stessa cella.

Sulla richiesta di "formazione" specifica mi sento di dire la mia.

Agli Agenti oggi si cerca di chiedere una qualità nel lavoro che, per gli strumenti e per il taglio formativo tradizionale con il quale sono stati condotti gli arruolamenti e la scarna formazione di aggiornamento in fasi successive all’assunzione in servizio, non è possibile ottenere.

Si richiede agli Agenti di:

"osservare" i comportamenti dei detenuti, condizione operativa oggi difficoltosa stante il livello di sovraffollamento degli istituti, la presenza di soggetti con problematiche psichiatriche o comunque con patologie comportamenti particolari, la presenza di numerosi soggetti di svariate etnie che pongono di per se problemi oggettivi di comunicazione per carenza cognitiva di tradizioni e costumi (capita di scoprire che una parola o un gesto per le altre culture vogliono dire qualcosa di diverso dalla nostra).

"osservare per prevenire gesti autolesionistici"; un lavoro che peraltro gli Agenti assolvono anche con buoni risultati, ma che andrebbe "pensato" con l’incentivazione di figure diverse dalla Polizia Penitenziaria, mi riferisco ad educatori, psicologi, criminologi, mediatori culturali, specialisti in psichiatria. Anche se qualcosa si muove, la sproporzione sui numeri è lampante (in percentuale al numero degli Agenti corrisponde un irrisorio numero di specialisti del trattamento).

Nel nostro ambito si sta cercando di "qualificare" sempre di più l’operato della Polizia Penitenziaria, fornendo il più possibile strumenti per una buona comunicazione, "per una operatività improntata all’attenzione misurata" (senza schizofrenie) per la sicurezza, per un contributo concreto sul versante del trattamento, considerando che, per dato di fatto, la Polizia Penitenziaria è sempre presente in sezione e vive il contatto con i detenuti 24 ore su 24.

Qualificando sempre di più (con lo strumento della buona prassi improntata alla cultura dei diritti, alla serena comunicazione, alla interazione, all’osservazione ed alla vigilanza attenta e discreta in sezione e comunque in ambienti dove sono presenti i detenuti, con l’incentivazione di offerta trattamentale e con la continua interazione fra Operatori delle due aree, trattamento e sicurezza, per unire le poche forze a disposizione) questa presenza attiva in sezione, si spera di contribuire a migliorare concretamente la vivibilità all’interno del penitenziario

Bisogna inoltre chiedersi quale livello di stress subisca l’Agente che lavora, spesso da solo, a contatto con i detenuti. Quando si parla di assenteismo (fenomeno presente nell’amministrazione penitenziaria come in altre amministrazioni), spesso non si vanno ad analizzarne le ragioni per cui parte della forza/lavoro viene quotidianamente a mancare.

Ed allora è qui che, parlando di formazione, occorre chiedere una formazione non solamente improntata a prevenire l’aspetto securitario del problema (sempre che esista nei termini citati nell’intervento Sappe), ma una formazione prevalentemente mirata ai problemi della comunicazione, alla conoscenza delle ragioni della devianza, alla conoscenza di usi e costumi di etnie oggi presenti in misura sempre maggiore nei nostri penitenziari, senza con questo perdere di vista il problema della sicurezza.

La sicurezza: spesso se ne parla a senso unico, come un problema fine a se stesso. La sicurezza in carcere non può prescindere dalla vivibilità e dal buon clima dell’ambiente che stiamo considerando.

I fenomeni che interessano gli istituti, i gesti inconsulti in particolare, a volte sono conseguenza di lacune organizzative, della mancanza di strumenti di buona comunicazione, della carente cultura per i diritti dei detenuti (sanciti dalla legge non come facoltà ma come diritti), dalle carenze di figure previste dalla legge per il trattamento.

Il trattamento: è un diritto, che può essere rifiutato dal singolo detenuto, non è mai un optional.

Formiamo il nostro Personale su questi concetti, qualcosa migliorerà.

Il resto, il passo più difficile, non rientra nelle nostre competenze di lavoratori penitenziari, spetta ad altri, spetta alla politica, alle scelte di politica penale, di politica di sicurezza sociale, alla creazione di una cultura della solidarietà e del sostegno sociale. È evidente che il circolo vizioso che tende a creare la recidiva non porta a nient’altro che ad incapacitare nel carcere altri "marginali", lo dicono i numeri. Questa precaria situazione, se non cambierà nulla, è destinata a peggiorare.

 

Giuseppe Pilumeli

 

 

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