Rassegna stampa 4 ottobre

 

Le nostre prigioni: un SOS dal carcere di Opera

 

Il Cittadino, 4 ottobre 2004

 

Questa non è una storia dell’estate, è una storia di tutte le stagioni (purtroppo), di tutti i giorni. Parliamo del supercarcere di Opera e del suo importante centro clinico con le sue quattro sale operatorie e le attrezzature avanzate, degno di essere classificato con "quattro stelle".

Così era stato definito dal ministro Castelli non molto tempo fa. Data la presenza di un tale centro sanitario-terapeutico vengono trasferiti in questo carcere detenuti da tutta Italia con patologie più o meno gravi. Purtroppo la realtà è che il centro clinico del carcere di Milano-Opera è pura finzione. Semplicemente non funziona, non è attivo, non ci sono medici e ogni emergenza è risolta con la visita (o il ricovero) in ospedali esterni al carcere.

I detenuti portatori di patologie che vengono trasferiti qua per ragioni sanitarie, non stanno mica al centro clinico. Bensì vivono nelle sezioni comuni con gli altri reclusi sani. Il centro clinico non lo vedono neppure. C’è da aggiungere che l’assistenza sanitaria in genere è perfino inferiore agli altri carceri. è frequente la mancanza di farmaci per le terapie già prescritte dai medici, anche le medicine salvavita come anti-epilettici, anti-aritmici, anti-ipertensivi, etc… per non parlare dell’aspirina o degli anti-influenzali.

Per poter accedere ad una visita specialistica, come quella cardiologica, occorre attendere in media 6 mesi, così, per poter andare dal dentista, ci sono detenuti che debbono attendere dai 6 agli 8 mesi. Capita che per essere visitati dal medico di reparto si debba attendere anche 20 giorni, tuttavia c’è il medico di guardia per le emergenze, ma (ti pareva) c’è una prassi… Cioè per far chiamare il medico di guardia si deve essere prima visitati dall’infermiere, il quale deve valutare se è davvero necessario disturbare il medico di guardia.

 

Una "clinica a 4 stelle", ad esempio…

 

Si parla di questo per introdurre l’ultimo gravissimo episodio avvenuto in ordine di tempo. Circa una settimana fa, dopo aver superato la trafila della prassi predetta, un detenuto recluso nella nostra sezione che accusava malessere diffuso e dolori alle braccia (tipico delle cardiopatie), per due volte, nel volgere di un pomeriggio, è stato visitato dal medico di guardia, il quale lo ha congedato dicendogli che non era nulla di preoccupante. Per dovere di cronaca, e per rendere merito alla giustizia, nel nome di Ippocrate, corre l’obbligo di ricordare che quel medico di guardia era molto seccato di essere stato disturbato!

Ebbene, un paio di ore dopo, questo detenuto è stato colpito da un grave infarto e solo l’intervento fortuito di un’autolettiga, che si trovava fuori dal carcere per motivi di servizio, ha salvato la vita di questo compagno di pena. Lo hanno "recuperato" con i defibrillatori e con una iniezione al muscolo cardiaco.

Dopodiché, intubato, con l’ossigeno, è stato portato via, incosciente, dallo stanzino adibito ad infermeria della sezione, e operato d’urgenza in ospedale. Se non ci fossero stati gli operatori della Croce Rossa, nessuno sarebbe stato in grado di riattivare il battito cardiaco e a Opera si sarebbe aggiunto un detenuto morto per incapacità dei medici alla già lunga lista di decessi di questi ultimi anni. In questi casi scatta una coltre di silenzio, pertanto non siamo in grado di fornire ulteriori notizie sull’accaduto.

Il personale medico di cui si parla ha capacità limitate. Infatti, solo una settimana prima, un altro detenuto che accusava una forte aritmia cardiaca, dopo aver superato l’iter infermiere-medico di guardia dopo altre due ore di attesa è stato scortato fuori dal carcere per una visita urgente in una struttura ospedaliera. In quel caso, il medico di guardia ebbe a dichiarare che pur se avesse effettuato un elettrocardiogramma, non sarebbe stato utile, poiché non era in grado di leggerne il tracciato.

Ci sono volute quattro ore affinché il detenuto venisse portato in ospedale, davanti ad un medico che sapeva fare il proprio mestiere. Sarebbe tempo che qualche persona seria si dedicasse a chiarire questo problema: la vergogna della sanità nel carcere di Opera, un penitenziario contenitore di carne umana da 650 posti trasformati in 1.400 posti a "quattro stelle". Eppure ci troviamo nella capitale economica dell’Italia, nella grande Milano.

Il sindaco Albertini, alcuni mesi fa, era entrato qua dentro per assistere alla partita di calcio della squadra locale. Ebbene, noi ci auguriamo che torni a farsi un giro qui a Opera per assistere allo scempio che si compie quotidianamente contro la dignità umana. Questa è una situazione che si trascina da anni, non è senz’altro di facile soluzione, ma se la Regione Lombardia o altri organi autorevoli si attivassero, ci sarebbe speranza di vita anche a Opera.

 

Lettera di un detenuto della Casa di Reclusione di Opera

Venezia: in arrivo una casa e due uffici per i detenuti

 

Gente Veneta, 4 ottobre 2004

 

Entro l’anno sarà disponibile: un appartamento del Comune di Venezia, che alcuni detenuti potranno utilizzare come punto d’appoggio per dormirci prima di recarsi al lavoro. Trova così una prima risposta un’esigenza forte - e finora inappagata - di parecchi carcerati. Parliamo di quelli che godono dei benefici di legge, tipo la semilibertà.

Se manca un tetto si è costretti a rimanere in prigione. Anzi, sarebbe meglio dire che "godrebbero" dei benefici se avessero gli strumenti per goderne. Invece finora spesso è accaduto che queste persone sono state costrette a rimanere in carcere. In genere proprio perché non sono riuscite a trovare un’abitazione dove pernottare.

"Ho la disponibilità dell’assessore alla Casa D’Agostino", spiega Beppe Caccia, assessore alle Politiche sociali, "ed entro l’anno riusciremo a rendere disponibile l’appartamento a chi ne avrà diritto". È appena arrivato il sì. E anche i soldi. Ma non è l’unica novità. Sempre entro la fine di questo 2004 il Comune, in collaborazione con la direzione delle carceri e le associazioni del volontariato penitenziario, aprirà due sportelli, uno dentro e uno fuori le carceri cittadine.

Serviranno a detenuti e detenute per poter avere informazioni e sbrigare pratiche burocratiche. Cose finora complicatissime, specie per gli stranieri, come capire il funzionamento del sistema penale italiano o procurarsi un documento o il permesso di soggiorno, saranno agevolate da personale competente. Il progetto dei due sportelli, approvato già due anni fa, era in attesa del sì da parte del ministero delle Infrastrutture. Un sì che avrebbe sbloccato anche i finanziamenti necessari. Ora il sì è arrivato e l’operazione prende il via.

Caccia: Sono cittadini da integrare. "L’idea di fondo - sottolinea Caccia - è questa: evitare che la condizione delle persone recluse sia alla Giudecca che a S. Maria Maggiore venga percepita come estranea rispetto alla città e ai cittadini. I detenuti sono persone che fanno parte a pieno titolo della nostra comunità. Per di più sono persone che, nella maggior parte dei casi, sono state portate in carcere da gravi problemi di carattere sociale mai affrontati. Noi, perciò, puntiamo ad azioni che combattano questo tipo di esclusione sociale".

Il "delitto di immigrazione", articolo di Maurizio Bonanni

 

L’Opinione on line, 4 ottobre 2004

 

L’immigrazione clandestina deve essere, o no, considerata un reato penalmente perseguibile? Indovinala grillo, direbbe qualcuno. In tema si odono urla di protesta e squilli di tromba provenire sia da sinistra (con un’opposizione che difende a spada tratta le "conquiste" della Turco - Napolitano), sia dal centro-destra, con il riaffiorare del solidarismo universale di democristiana memoria, all’interno dell’Udc. Di certo, si assiste ad una corsa dissennata all’irresponsabilità, grazie alla mancanza di una strategia e di idee comuni, che favorisce i flussi disordinati di un’immigrazione disperata, illogica, inumana e profondamente inquinata da componenti malavitose, esterne ed interne alle realtà italiana ed europea.

L’immigrato cattivo scaccia quello buono, si direbbe, secondo un celebre detto popolare. Lo si vede, a prova di qualsiasi smentita, dall’analisi delle statistiche sulla popolazione carceraria e dalla crescita del numero e della gravità dei reati commessi dagli extracomunitari. Rimane, però, il dubbio che l’introduzione di un’ulteriore fattispecie di reato, punibile con la reclusione, porti in carcere moltissime persone assolutamente innocenti ed innocue, alla disperata ricerca di un’occasione di sopravvivenza economica. A meno che il reato di immigrazione clandestina non serva, esclusivamente, a decretare l’espulsione immediata ed il riaccompagnamento coatto alla frontiera dell’immigrato in posizione irregolare.

In questo caso, però, dovremmo prepararci alla fatica di Sisifo, riportando più e più volte indietro uno stesso immigrato, che abbia reiterato, nel tempo, i suoi tentativi di ingresso clandestino. Il problema vero, come insistono in molti, sta nella riduttività della scelta puramente repressiva di un fenomeno che, in realtà, ha carattere planetario geo-strategico e, quindi, squisitamente "politico". Vero. Però, anche il nodo del metodo e della coerenza deve avere il suo peso. Mi spiego meglio. Dal punto di vista del diritto comune, tutti noi diamo per scontato che chiunque entri non autorizzato a casa Nostra, per di più declinando false generalità, commetta un reato penale grave.

Domanda: le frontiere italiane non sono, forse, da considerare come la "soglia collettiva" della nostra nazione comune? Chiunque sia ammesso lecitamente al suo interno deve, quindi, rispettare le nostre leggi e, soprattutto, non può pretendere mai, in ogni caso, di forzare i nostri ordinamenti, per renderli compatibili con la propria tradizione (si pensi alla poligamia, alla discriminazione dei sessi, al razzismo religioso, alle pratiche di infibulazione, etc.). Tra l’altro: per quale motivo il codice dovrebbe discriminare tra un cittadino italiano ed un extracomunitario che declinino false generalità?

Per ora, il meglio che siamo riusciti a fare, per contenere il fenomeno dell’immigrazione clandestina, è stato quello di creare una sorta di "campi sosta" (centri sia di permanenza temporanea che di prima accoglienza), sorvegliati e compartimentati, per impedire fughe all’esterno, al fine di identificare i clandestini e di applicare le leggi sull’asilo agli aventi diritto. La legge "Bossi-Fini" prevede che ogni regione italiana ospiti al suo interno almeno un centro di questo tipo. E qui, com’è noto, accadono cose turche: le varie collettività locali interessate fanno a gara di egoismo, esattamente a quanto avviene nel caso dell’individuazione dei siti per la sepoltura delle scorie radioattive (o per le discariche ordinarie), considerati una sorta di "lebbra" geografica, che nessuno vuole sul proprio territorio.

Invece, e giustamente, la legge prevede un sistema, o una rete, di vasi comunicanti, in modo da mantenere ad un livello-standard il numero massimo delle presenze per ciascun centro. Certo, noi tutti siamo condizionati dalle carrette del mare che portano ognuna qualche decina di disperati sulle nostre coste. Eppure, sembriamo non renderci conto dell’invasione, massiccia e silenziosa, di molte decine di migliaia di immigrati provenienti dai Paesi dell’Est europeo (Romania, Polonia, Moldavia, etc.) perché, forse, li consideriamo "facilmente" integrabili, alla stregua di quelle foltissime comunità asiatiche (cinesi, in particolare), in grado di auto-amministrarsi perfettamente, senza incidere minimamente sui livelli di sicurezza e su quelli dell’assistenza sanitaria (grazie alla loro giovane età!).

Quindi, in realtà, noi siamo assolutamente favorevoli ad accogliere aliquote anche molto consistenti di quella che consideriamo immigrazione "buona", anche perché le leggi di natura impongono a chi non fa figli di prendersi in casa quelli degli altri, per rimediare all’inesorabile invecchiamento della propria forza-lavoro nazionale. Allora, basterà aver tolto l’embargo alla Libia, per arginare l’immigrazione sgradita? Io dico di no, purtroppo!

Droghe: ecco cosa prevede la riforma proposta da Fini

 

Vita, 4 ottobre 2004

 

Ecco i punti principali previsti dalla riforma della legge sulla droga, contenuta nel ddl Fini. La relazione approvata il 13 novembre dello scorso anno dal Consiglio dei ministri, ha iniziato il suo iter in Parlamento, dove È ora all’esame del Senato. L’approvazione dovrebbe avvenire entro la fine del 2005, secondo quanto si augura An.

 

Via distinzione fra droghe leggere e pesanti

 

Viene abolita la distinzione fra droghe leggere e pesanti in quanto considerate comunque dannose. Due tabelle conterranno rispettivamente l’indicazione delle sostanze stupefacenti e dei medicinali che contengono sostanze stupefacenti o psicotrope, suddivise in cinque sezioni.

L’uso e l’impiego di sostanze stupefacenti, anche per consumo personale, È vietato. Scompare, dunque, la concessione della cosiddetta modica quantità o della dose media giornaliera. Per ogni droga, viene indicato un limite quantitativo, al di sotto del quale si applicano le sanzioni amministrative e al di sopra del quale scattano le sanzioni penali. Le sanzioni amministrative prevedono: sospensione della patente di guida, del porto d’armi, del passaporto, del permesso di soggiorno per motivi turistici; fermo amministrativo del ciclomotore in uso; e, in caso di recidiva, obbligo periodico di firma, divieto di condurre veicoli a motore, divieto di allontanarsi dal Comune di residenza. Le sanzioni penali prevedono, per le ipotesi meno gravi, la pena da uno a sei anni di reclusione, fino a un massimo di venti anni di carcere. Per chi commette un fatto di lieve entità viene introdotta la possibilità, alternativa alla reclusione, di svolgere un lavoro di pubblica utilità, revocata se si violano gli obblighi connessi al lavoro chiamati a svolgere.

Si può accedere alla terapia di recupero già a partire dalla disposizione della custodia cautelare in carcere. La reclusione può essere evitata, andando agli arresti domiciliari e sottoponendosi al programma terapeutico.

 

Il ruolo di Ser.T. e comunità private

 

Nuovo sistema di rapporti fra enti pubblici e strutture private. Prevista l’istituzione di Albi regionali, ai quali le strutture private di recupero, munite dei requisiti indicati dalla legge, si devono iscrivere. Con l’iscrizione, sono abilitate a stipulare convenzioni con le Regioni per le terapie di recupero e con il ministero della Giustizia, per la parte relativa alla sospensione dell’esecuzione della pena. Alle comunità è riconosciuta la possibilità di certificare la dipendenza da droga e di predisporre il piano terapeutico, la cui certificazione era prima affidata in esclusiva ai Ser.T., i servizi pubblici per le tossicodipendenze.

Droghe: Carlesi, 120 mln di euro per il fondo nazionale antidroga

 

Vita, 4 ottobre 2004

 

Le risorse del fondo nazionale per la lotta alla droga, stimato in 120 milioni di euro, a partire dall’anno prossimo dovranno entrare a regime". Lo ha detto Nicola Carlesi, capo del Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, parlando a margine del convegno organizzato dalla Fict (Federazione italiana comunità terapeutiche).

Tali risorse, ha spiegato, per il 75% sono trasferite alle Regioni e per il 25% "restano al Dipartimento, per i progetti relativi ai ministeri competenti e, all’interno dello stesso Dipartimento, per l’osservatorio epidemiologico, che ha lo scopo di avere un monitoraggio costante sul fenomeno della diffusione della droga e le caratteristiche dei soggetti che abusano di tali sostanze, con l’obiettivo di delineare le strategie di intervento".

Carlesi ha altresì sottolineato come il quadro delle tossicodipendenze in Italia sia "cambiato moltissimo. Da un lato - ha detto - il problema dell’eroina resta importante. Basti pensare che il 75% delle persone che si rivolge ai servizi pubblici o alle comunità terapeutiche è eroinomane e, in generale, il numero di quanti ne fanno uso è sostanzialmente stabile, anche se vi è un aumento del consumo e delle morti per overdose tra le donne".

Un problema che quindi si "è cronicizzato, mentre dall’altra parte cresce il consumo di altre sostanze e soprattutto di cocaina e hashish e quelle sintetiche. Nel 2003 - ha proseguito Carlesi, ricordando i dati della relazione annuale al Parlamento - c’è stato un aumento del 3% dei consumatori di cocaina e allo stesso tempo è emerso un approccio estremamente precoce, in media intorno ai 15 anni". Per quanto riguarda le comunità terapeutiche, rappresentano "una risorsa fondamentale di cui non si può fare a meno".

In generale, però, il numero dei tossicodipendenti che ricorrono alle comunità "è in diminuzione. Un dato che fa preoccupare", ha proseguito il capo del Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, aggiungendo che per quanto riguarda il metadone, invece, "purtroppo è ancora percentualmente il sistema più usato nei servizi pubblici". Quanto, infine, alla IV Conferenza triennale sulla droga "che è in ritardo di un anno", Carlesi ha ribadito che "deve essere svolta nei primi mesi del 2005. Si cercano i fondi, ma credo che sia assolutamente opportuno farla".

Pisa: "Un attaccante estremo", libro-intervista a Sofri

 

Il Manifesto, 4 ottobre 2004

 

La piccola casa editrice "Scritturapura" ha trasformato in libro una lunga conversazione sul calcio tra il giornalista Giorgio Porrà e Adriano Sofri. Un attaccante estremo racconta la favola del pallone vissuta dentro il carcere.

"Ieri un istruttore di ginnastica ha portato un pallone nuovo e ha spiegato che era avanzato da una vecchia raccolta di giochi per Sarajevo. La vita è infatti rotonda. Quanti palloni ho portato io a Sarajevo". Comincia così Adriano Sofri, attaccante estremo, la lunga intervista che il giornalista Giorgio Porrà ha fatto all’ex leader di Lotta Continua e che la casa editrice Scritturapura ha trasformato in libro, fornendo di fatto un’ideale continuazione di Altri Hotel, la raccolta di articoli scritti da Sofri in regime di detenzione.

Una prosecuzione puramente teorica, perché se in quel libro Sofri raccontava come il mondo viene visto dalle sbarre di un carcere, nell’intervista di Porrà, che sarà in libreria da domani, il tema toccato diventa la favola del calcio vissuta dentro un carcere. Lo stile è quello de Lo sciagurato Egidio, la fortunata trasmissione sportiva di Sky condotta dallo stesso Porrà, che negli anni si è rivelata essere il miglior tentativo di fondere il calcio con la letteratura, lo sport con la società e le storie con la Storia.

Sì, la Storia, quella con la s maiuscola. Quella che con Sofri è stata perfida e irrazionale, quella che, essendo pubblica e personale, il libro di Porrà volutamente mantiene in sottofondo. Alla luce affiorano invece le storie, quelle con la s minuscola, quelle vissute nel carcere e fuori, quelle che mettono sullo stesso piano Maradona, Beckenbauer, Rivera e Omar, il maghrebino mancino del carcere di San Gimignano. Storie vere, come quella del bambino della Miljacka (il fiume di Sarajevo) che, con le scarpe da adulto scalcagnate, vuole giocare a pallone sotto i bombardamenti ma, siccome è troppo piccolo, i compagni di gioco lo mandano a fare il raccattapalle nel fiume, sotto il fuoco dei cecchini.

È questo il calcio amato da Adriano Sofri: "Se tu guardi una partita di ragazzini incontrati al parco, dopo dieci minuti già ricostruisci il modo di essere di ciascuno, li distingui, ti diverti nel vedere le loro fisionomie e le loro reazioni". È per questo che Sofri s’annoia a vedere le partite di calcio in televisione. È per questo che invece ama giocare le partite che "allungano l’ora d’aria", le partite di "un sessantottino" che riscopre il calcio giocato a "sessantotto anni". E lo riscopre da attaccante estremo, "perché in carcere non c’è il fuorigioco, altrimenti sarei sempre al di là dei difensori".

È un viaggio quello attraverso cui Porrà e Sofri conducono il lettore, e lo fanno passare tra le pieghe della letteratura - sapevate che Albert Camus era un ottimo portiere? - per poi farlo rotolare, come fosse un pallone - anzi, come fosse il pallone avanzato da una raccolta di giochi destinata ai bambini di Sarajevo - fino ai più torbidi scandali del calcio italiano.

Perché è grazie a quel pallone che Sofri si riavvicina al calcio. Dapprima con un po’ di diffidenza, poi con crescente passione, finché piano piano non ne viene conquistato. È un esercizio salutare di "reinfantilizzazione e istupidimento senile" vissuto insieme ai colleghi di sventura, i quali non sono i delinquenti abituali di una volta, vale a dire persone avvezze alla galera e alle sue dinamiche, ma sono soprattutto immigrati e malati, le brutte facce che la società di finte immagini presentabili non vorrebbe vedere e che il carcere contiene come una vecchia rete.

Eppure tutti loro, che hanno stracciato i documenti e spesso non si sa da che luogo provengano, che hanno cancellato la propria storia e stravolto i propri valori, non solo sanno giocare come pochi, ma hanno anche maturato una nuova identità: sono tifosi di squadre italiane. "Hanno visto in televisione la Juventus, l’Inter, il Milan, le hanno viste in Albania oppure a Marrakech. Arrivano avendo già una specie di carta d’identità [...] Il loro tifo per l’Inter è molto più impegnato, molto più devoto di quello dei milanesi. La prima forma di integrazione di questi che arrivano in un paese europeo è l’adesione a un’identità calcistica che spesso precede l’emigrazione".

Ecco che cosa è il calcio in carcere. Non un emporio delle vanità, non un’infernale macchina dominata dal marketing e giostrata dai media, ma il modo migliore per realizzare puramente se stessi. È questa la conclusione che ribalta ogni tesi. Giorgio Porrà e Adriano Sofri sono partiti discutendo della deriva che il calcio sta prendendo, ma poi, analizzando la funzione che questo riveste nella nostra vita, del metalinguaggio che rappresenta, e delle disfunzioni che può arrecare non solo alle fasce deboli ma anche al modello sociale nel suo complesso - a causa del meccanismo vittoria/sconfitta, che Sofri rievoca citando il bellissimo libro di Alan Sillito e Solitudine di un maratoneta - i due finiscono per ritrovare proprio nel calcio quella funzione di esperanto libertario che dà una possibilità a tutti, senza distinzione di estrazione sociale, di emergere dalla solitudine di un carcere e di trasferire in un campetto quasi mai regolamentare il sogno di un gol segnato e di una corsa a perdifiato con le braccia al cielo.

Un sogno di libertà, forse la massima espressione di libertà individuale, vissuta tra le quattro mura di un carcere. Come quel detenuto autolesionista che non sopportando la detenzione si stritola le dita fino quasi ad amputarsele, ma che nelle partitelle giocate durante l’ora d’aria è il miglior portiere del carcere, il più ricercato e ben voluto di tutti.

Sofri, immerso in un tempo senza fine, ha la facoltà di riflettere che gli è stata drammaticamente imposta dagli eventi. Dal suo eremo pisano ha sempre detto la sua su molte questioni; a volte i suoi pensieri sono sembrati fuori del tempo, come incapaci di tastare il polso della nostra storia. Ma quando dice "la vita è rotonda" - ennesima applicazione di una metafora calcistica alla vita di tutti i giorni - Adriano Sofri colpisce violentemente al cuore.

La vita è rotonda, se prende il palo può uscire, rientrare o finire in rete. Sofri nella rete c’è finito e la vicenda la conoscono tutti. Ma la retorica non è uno strumento che addolcisce la storia. La addolcisce quella droga sociale che è il calcio. Speriamo che un giorno Sofri possa inseguire un pallone dentro un campo senza limiti.

 

Costruire centri per immigrati in Africa? È prematuro…

 

Il Manifesto, 4 ottobre 2004

 

Il commissario europeo uscente alla giustizia e agli affari interni, Antonio Vitorino, lo ha detto esplicitamente: il finanziamento di cinque progetti in nord Africa (Libia, Mauritania, Algeria, Marocco, Tunisia) dell’Alto commissariato delle Nazioni unite (Unhcr) servirà per testare la proposta di costruire campi in nord Africa per gestire l’ingresso dei migranti e dei rifugiati in Europa "appaltandola" ai paesi del Maghreb. Ma l’Unhcr dà un’altra versione, ne parliamo con la portavoce in Italia, Laura Boldrini

 

Cosa risponde alle parole di Vitorino?

Deve essere chiaro che si tratta di una considerazione del Commissario. Ribadisco che la nostra proposta non è in alcun modo legata all’idea di costruire centri in nord Africa

 

Di cosa si tratta, allora?

Nel 2002 proponemmo Convention plus. Si tratta di una serie attività volte ad arricchire e attualizzare la Convenzione di Ginevra, che comunque rimane la pietra miliare nella protezione internazionale dei rifugiati. Il progetto discusso ieri serve per promuovere le legislazioni in materia di asilo in quei paesi, appoggiare le ong che si occupano dei richiedenti asilo, addestrare il personale nazionale. Ma Convention plus si rivolge anche all’Ue.

 

Come, ad esempio?

Chiediamo ai paesi europei di offrire ogni anno una quota di posti per i rifugiati che fuggono nei paesi di primo asilo, che sono quelli più vicini alle aree di crisi. Qualche numero: i 500 mila burundesi che vivono in Tanzania, o i 600 mila sudanesi che vivono in Uganda, Ciad, Eritrea e Kenya. E questo, a fronte dei 13 mila rifugiati che vivono in Italia. Si chiama resettlement, e significa trasferire in un paese terzo rifugiati riconosciuti che non hanno la possibilità di integrarsi nel paese di primo asilo.

 

E se l’Unione vi chiederà di collaborare alla sperimentazione dei centri in nord Africa?

Apprezziamo lo sforzo di ridurre i rischi di arrivare in Europa e di morire nel Mediterraneo. Dopodiché ci devono essere dei presupposti. Noi diciamo che al momento Tripoli non possiede un sistema di asilo sviluppato.

 

In ogni caso non siete contrari alla costruzione dei centri...

Perché dovrei essere contraria? Se ipoteticamente in Libia esistesse un sistema di asilo sviluppato, con personale specializzato, con la possibilità di ricorrere contro i rigetti, sarebbe tutta un’altra faccenda. Ma oggi non è così e ne va tenuto conto. Sia chiaro che non stiamo parlando di sistemi alternativi: chi arriva in Europa e vuole chiedere asilo dovrà avere sempre diritto a farlo

 

Fatto sta che, già oggi, si tenta di indirizzare i richiedenti asilo verso i nuovi "paesi frontalieri"

È vero che i nuovi paesi di confine dell’Unione hanno visto aumentare le richieste: nel 2003 a Cipro sono aumentate del 364%, a Malta del 67%, in Slovenia del 57%. Parallelamente nel Regno unito sono diminuite del 41%. È proprio per evitare di gravare sui fragili sistemi di asilo dei nuovi membri dell’Ue che proponiamo una gestione congiunta dell’asilo che preveda l’istituzione di centri gestiti da team specializzati europei. Cosicché i rifugiati possano poi essere indirizzati verso tutti i paesi europei, ripartendo anche i costi dell’intera gestione.

 

E per quanto riguarda la detenzione in uso in alcuni paesi dell’Ue?

Secondo l’Unhcr i richiedenti asilo non possono essere trattenuti se non per il periodo necessario alla loro identificazione. Ma in alcuni paesi questo non succede. A Malta, ad esempio, il richiedente asilo è detenuto per un massimo di 18 mesi, ma prima non c’era un limite. Il nostro compito è denunciare le carenze, esortare i governi a fare meglio, collaborare con loro. In questo ambito ha un ruolo molto importante anche la società civile. Ma ognuno di noi fa la sua parte. L’obiettivo, però, è sempre lo stesso: tutelare i diritti di chi fugge da guerre e persecuzioni.

Immigrazione: Vitorino, mai parlato di campi di transito

 

Apcom, 4 ottobre 2004

 

"Io non ho parlato di centri di detenzione e mai nessuno nella proposta della Commissione parla di centri di detenzione". Lo ha detto oggi ai giornalisti il commissario europeo alla Giustizia e affari interni, Antonio Vitorino, correggendo le voci che avevano attribuito nei giorni scorsi all’esecutivo Ue un’iniziativa tesa a installare sulle coste dell’Africa settentrionale campi di transito per migranti.

L’idea è emersa nel corso del Consiglio dei ministri dell’Interno e della Giustizia dell’Unione europea di venerdì scorso. Due proposte, ventilate entrambe in quell’occasione, si sono intrecciate nei commenti di molti osservatori: quella dei campi di transito, avanzata dal ministro dell’Interno tedesco Otto Schily; e quella dell’Onu, della Commissione europea e dell’Olanda per migliorare la gestione delle domande d’asilo da parte di cinque paesi dell’Africa settentrionale. "Il progetto pilota, concordato con l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, non ha niente a che vedere con dei centri di detenzione", ha puntualizzato oggi Vitorino. "Si tratta solo della necessità di migliorare la capacità dei centri di asilo nazionali di cinque stati del nord Africa".

La confusione ha indotto anche l’Onu a pubblicare una nota nella quale si chiarisce che la proposta consiste nel "promuovere la legislazione, addestrare gli ufficiali nello stabilire lo status di rifugiato, assistere le Ong nel costruire le loro capacità. Centri di ricezione non figurano per niente in questo progetto". I cinque paesi a cui il progetto pilota è indirizzato sono Marocco, Algeria, Tunisia, Libia e Mauritania. Antonio Vitorino oggi è tornato anche sul secondo progetto circolato al Consiglio Ue di venerdì. "Continueremo a discutere delle proposte del ministro tedesco Schily", ha detto il commissario europeo. "Lo si è già fatto durante il consiglio e la Commissione europea ha sollevato una serie di questioni a cui si deve trovare una risposta prima che si possa parlare della concretizzazione di questa idea", ha concluso Vitorino.

 

Roma: S. Francesco, incontro interreligioso a Regina Colei

 

Il Messaggero, 4 ottobre 2004

 

Dopo le fiaccole di mamme e bambini, dopo i cortei silenziosi e i sit-in di no global, pacifisti e uomini politici uniti contro la guerra e ogni forma di violenza, ora ad invocare la pace si aggiungono i detenuti. Che da dietro le sbarre in segno di cordoglio e solidarietà per le vittime in Ossezia e contro il terrorismo hanno deciso di partecipare ad un momento di preghiera multietnica. Ad un mese dalla strage nella "Scuola 1" di Beslan, durante il primo giorno di lezione per migliaia di bambini, e a pochi giorni dalla liberazione di Simona Pari e Simona Torretta, dietro le sbarre del carcere romano di Regina Coeli si prega per un mondo senza più vittime di guerre e torture, per un futuro di pace e solidarietà tra i popoli.

A varcare le soglie di Regina Coeli, oggi alle 15.30, saranno i rappresentanti delle tre religioni monoteistiche (ebrea, cattolica e musulmana), oltre ad uno di fede protestante. Nell’ordine: padre Vittorio Trani, cappellano del carcere, Emanuel Fiano e Leonardo Peysachawez, del movimento ebraico giovanile, Jane Paone ed Ester Tangi, maggiori della Chiesa evangelica "Esercito della Salvezza", Omar Camiletti del centro islamico di Roma e Kater Shawi presidente dei giovani musulmani d’Italia.

"È importante che i detenuti partecipino a questi eventi - spiega Noemi Novelli, presidente di City Angel di Roma e Lazio, la onlus che ha organizzato l’iniziativa - I reclusi si uniranno singolarmente ai promotori delle tante iniziative per la pace e per aprire la strada del dialogo. Tra i loro intenti, ricordare le migliaia di bambini e genitori morti nella strage di Beslan". 

Siracusa: esposizione per le tele del pittore carcerato

 

La Sicilia, 4 ottobre 2004

 

"Dal Carcere al Convento dei Frati Cappuccini di Augusta per un giorno di riflessione francescana". Una rappresentanza formata da 10 detenuti della Casa di Reclusione di Augusta ha vissuto ieri una giornata particolare e per certi versi indimenticabile a contatto con la comunità parrocchiale del Convento dei Frati Cappuccini ed una delegazione di studenti degli Istituti Tecnico Commerciale (settore turistico) e Tecnico Industriale aderenti al progetto "Scuola aperta al Territorio - Educazione dei valori" accompagnati dagli insegnanti: Nella Leone, Rosa Bellistri e Nello Ruscica.

L’iniziativa organizzata e realizzata da un artista - detenuto Alessandro Bronzini e dal cappellano, frate Maurizio Sierna e grazie alla sensibilità dimostrata dalla direzione della casa di reclusione di contrada Piano Ippolito e dal magistrato di sorveglianza di Siracusa, ha avuto momenti di alto contenuto spirituale ed è stata per molti dei detenuti che hanno già in gran parte espiato la pena una occasione di approccio verso la società esterna.

"Il carcere, essendo un luogo di espiazione, sofferenza e solitudine - hanno spiegato Bronzini e fra Maurizio - presenta degli aspetti di vita simili alla clausura del monastero, dove per assonanza, la riflessione, la preghiera e il pentimento sono percorsi quasi obbligati". Ha riscosso notevole interesse e successo, la mostra di manufatti artistici ed artigianali prodotti all’interno della casa di reclusione. In particolare sono stati apprezzate le ceramiche realizzate a cura del gruppo di lavoro del laboratorio artistico e gli acrilici e gli oli su tela del quotato pittore - scultore Alessandro Bronzini. L’artista palermitano ha presentato una raccolta costituita da una cinquantina di lavori di pregevole fattura realizzati in questi ultimi 15 anni trascorsi in carcere e che hanno trovato ispirazione e spunto dall’attualità e dalla quotidianità vissuta dietro le sbarre.

"Se io, in questi lunghi anni di detenzione non avessi avuto la pittura, - ha avuto modo di dire l’artista – sicuramente mi sarei fatto travolgere dall’angoscia fino a morirne. Nella solitudine della pena pennelli e colori, mi hanno dato la libertà interiore necessaria per continuare a vivere". 

Agrigento: San Vincenzo, raccolta di fondi per i detenuti

 

La Sicilia, 4 ottobre 2004

 

I riberesi rispondono con il cuore all’appello dell’associazione San Vincenzo De Paoli e del Papa Giovanni Paolo II e offrono quasi 500 euro a favore dei reclusi nelle carceri italiane.

La notizia è stata resa nota dal prof. Nicola Sajeva, da decenni coordinatore dell’associazione Onlus di Ribera, il quale domenica 26 settembre scorso, in occasione della quarta giornata nazionale a favore dei carcerati, si è prodigato con i volontari dell’associazione a raccogliere fondi per i detenuti.

"Siamo riusciti a sensibilizzare la popolazione - ci dice il prof. Sajeva - con la distribuzione davanti alle chiese e anche in piazza, dei depliant illustrativi dell’iniziativa nazionale che mira a realizzare nelle carceri italiane, per quanti lo richiederanno, laboratori di informatica e soprattutto attrezzate officine artigianali per la lavorazione del legno, del ferro, del vetro. Ribera ha risposto con il cuore perchè pensiamo che le somme raccolte saranno più corpose perché molti cittadini e fedeli hanno voluto i bollettini di conto corrente postale per effettuare in proprio e in privato le proprie offerte".

L’appello lanciato dal Santo Padre, con lo slogan "Uomini prima, detenuti poi", a Ribera ha sortito i suoi effetti perché i cittadini, rispetto alla terza edizione dell’anno scorso, hanno raddoppiato le offerte, nutrendo certamente sentimenti di comprensione nei confronti di quanti stanno in carcere ad espiare le pene.

Dalle carceri italiane, ormai da qualche anno, giungono accorati appelli di recupero sociale e morale dei carcerati che vogliono essere impegnati, perfino dietro le sbarre, in attività che possono essere poi loro molto utili quando usciranno dal carcere e si troveranno ad reinserirsi nel difficile contesto sociale. La San Vincenzo di Ribera ha dato la propria disponibilità ad organizzare altre manifestazioni pubbliche e di solidarietà a favore dei carcerati. Ribera in genere è molto sensibile per quanti stanno in carcere. Tanto è vero che due compagnie teatrali locali nei mesi scorsi hanno rappresentato in carcere, per i reclusi della casa circondariale di Sciacca, una commedia e una recita sacra.

 

 

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