Rassegna stampa 8 novembre

 

Il perché delle proteste nelle carceri...

di Luigi Manconi e Andrea Boraschi

 

L’Unità, 8 novembre 2004

 

Ogni sciopero e ogni mobilitazione collettiva intendono promuovere quella che, nel linguaggio sindacale, si definisce una "piattaforma": un pacchetto di richieste sulle quali aprire il negoziato e trattare la ripresa dell’attività lavorativa o procedere nella lotta. In questi giorni, ne è stata avanzata una, di piattaforma, che con le classiche rivendicazioni sindacali ha una parentele assai lontana, ma la cui singolarità costituisce il motivo della sua forza e, insieme, della sua "invisibilità".

Leggiamola: "Lanciamo un appello ai presidenti delle commissioni Giustizia della Camera e del Senato e al presidente del comitato Carceri della Camera affinché si stabilisca un calendario certo per riprendere la discussione sull’ipotesi di un provvedimento di indulto e amnistia; [e affinché] siano avviate al più presto le procedure necessarie (…) per immediate modifiche legislative che consentano una limitazione degli abusi che si compiono nell’uso della custodia cautelare; e [per] immediate modifiche legislative che impongano un’applicazione piena ed integrale della legge Gozzini e di tutte le misure alternative in tutti i tribunali di Sorveglianza e per tutti i detenuti, siano essi italiani o stranieri, malati o in buona salute, ristretti nelle sezioni normali o in quelle speciali."

Intorno a questo pacchetto di rivendicazioni, una protesta incondizionatamente pacifica si sta espandendo a macchia d’olio, in questi giorni e in queste settimane, nelle carceri italiane.

I detenuti, secondo le esilissime notizie offerte dai mezzi di informazione, stanno "scioperando". E se è vero, come è vero, che lo sciopero è un’astensione collettiva dal lavoro finalizzata all’ottenimento di vantaggi salariali o sociali, viene da chiedersi in cosa mai consista uno sciopero quando è attuato da una persona reclusa: da chi, cioè, non lavora (solo il 20% dei detenuti svolge una qualche attività: nella stragrande maggioranza dei casi, collegata al mantenimento e alla riproduzione del carcere stesso).

Dunque, si tratta dello sciopero di chi, per definizione, non ha strumenti di pressione (bloccare la produzione), capaci di indurre la controparte a trattare. E, tuttavia, è uno sciopero che mobilita migliaia di persone e modifica le condizioni interne alle carceri italiane. L’azione in atto, partita dagli istituti siciliani e campani e da Regina Coeli e Rebibbia, coinvolge attualmente circa 90 carceri sugli oltre 200 sparsi nel paese: e prevede lo sciopero dei "lavoranti" (quei pochi, appunto) e, poi, lo sciopero della fame "a scacchiera" di gruppi di detenuti che destinano il vitto a organismi di solidarietà sociale e rinunciano all’acquisto di beni di primo consumo; il rifiuto dell’ora d’aria o il suo prolungamento; lo "sciopero della televisione" o il completo silenzio per intere giornate; la "battitura" delle grate delle celle e delle finestre in vari momenti del giorno; la richiesta di pieno funzionamento dell’amministrazione interna ed esterna, per evidenziare il collasso della giustizia e dei suoi uffici: e per denunciare la mancata applicazione delle leggi (specie in materia di misure alternative).

Per capirci: a Regina Coeli sono state presentate al tribunale di Sorveglianza e alla procura della Repubblica oltre 2.000 istanze, tra richieste di sospensione della pena, domande di grazia, di scarcerazione con revoca, di colloquio, di visita del magistrato di Sorveglianza…E, per ogni istanza rigettata, i detenuti presenteranno reclamo presso il Tribunale della Libertà.

Questo è quanto sta accadendo, nella pressoché totale indifferenza della classe politica e del sistema dell’informazione. Ed è una mobilitazione particolarmente onerosa per chi la attua, in quanto chi è privato della libertà personale, quando sciopera non fa che rinunciare a quei diritti minimi (l’ora d’aria, la spesa, il cibo, la televisione, il colloquio con gli avvocati o con i familiari…) che rendono appena sopportabile la sua detenzione: e la cui fruizione è spesso ardua, talvolta negata, sempre faticosa.

È un atto di radicale rinuncia, quello dei detenuti, teso a denunciare la gravità delle condizioni della vita in carcere, attraverso una pratica di lotta che trova nell’autoprivazione la sua principale forma espressiva. Si intende, così, evidenziare l’eccezionale insostenibilità di una situazione già insostenibile di norma. I detenuti assumono, in tal modo, un ruolo di tutori di un bene collettivo (la giustizia, appunto) e la loro azione acquista il senso di un gesto di pubblica moralità.

Tanto più importante, questa iniziativa, perché la prossima finanziaria taglierà quasi il 20% delle risorse destinate al carcere e, in particolare, all’edilizia, all’informatizzazione e all’ammodernamento degli istituti di pena; e ridurrà le spese relative all’istruzione scolastica e all’assistenza sanitaria.

Tutto ciò mentre l’affollamento si fa ogni giorno più soffocante: e, invece di promuovere un maggiore ricorso alle misure alternative, si opera per ridurre l’utilizzo di esse. Il risultato è che nelle carceri ci si uccide di più, si muore di più, ci si ammala di più. Il vero nodo della questione, probabilmente, è una riforma capace di restituire al carcere il suo ruolo di risorsa ultima, e di extrema ratio, sottraendolo all’attuale funzione di strumento ordinario e quotidiano di sanzione e di "disciplinamento" e controllo sociale.

Il ministro Castelli ammette che quella degli istituti di pena è una situazione fatta di "luci e ombre"; ma non manca di sottolineare che "facendo i debiti scongiuri, questo è il primo governo durante il quale non ci sono state rivolte". Le cose non stanno affatto così.

È da tempo che nelle carceri italiane non ci sono "rivolte": da quando, esattamente da quando, alcune norme intelligenti e razionali (pochissime, ahinoi, dopo "la Gozzini") hanno introdotto dentro il "buco nero" della detenzione una opportunità di emancipazione. Ovvero la possibilità di immaginare e sperare e agire affinché la propria esistenza – l’intera esistenza: compresi errori e sanzioni – non si riduca a quella cella chiusa. Tornare indietro sarebbe un fallimento per tutti. Per chi sta in galera, ma anche – e non è un paradosso – per chi non sta in galera.

Una rete per l’assistenza legale gratuita dei senza dimora

 

Il Manifesto, 8 novembre 2004

 

Quando gli avvocati di strada debuttano a Bologna, nel gennaio 2001, sono solo in due. Oggi, sotto le due torri, a difendere gratis i senza fissa dimora sono stabilmente in trenta più un bel po’ di volontari. E questa esperienza, nata intorno al mensile Piazza grande, ne ha partorite di analoghe a Torino, Milano, Verona, Padova mentre Bari e Napoli, le due Reggio (Emilia e Calabria), Vicenza si preparano a seguirle. Il loro sportello bolognese era in via Libia 69, sede di Piazza grande - prima rivista italiana "dei senza tetto" - e degli omonimi magazzini: riparazione biciclette, vendite di oggetti usati, unità mobile di sostegno e molto altro ancora.

A luglio un incendio l’ha resa inagibile ma gli avvocati di strada - d’ora in poi avs - hanno continuato a lavorare, intensificando la loro presenza nei dormitori: una pratica senza dubbio più adatta a un tipo di clientela poco avvezza a frequentare studi legali. Di cosa avevano bisogno le persone - 341 uomini e 132 donne nei primi tre anni di attività - che a Bologna si sono rivolte agli avvocati di strada?

Perlopiù chiedevano aiuto per piccole noie legali di vario tipo: molto spesso multe non pagate o rapporti burrascosi con le forze dell’ordine. Ma al primo posto per importanza ci sono tutte le delicatissime questioni legate all’affidamento dei minori e (pur se sembrerebbe paradossale parlando di chi non ha un tetto sulla testa) il diritto a una residenza, che molte amministrazioni faticano a riconoscere "pur se è contemplato dalla Costituzione", ricorda l’avvocato Antonio Mumolo. Ed è qui che gli avs si sono scontrati con il Comune di Bologna: vincendo nel giugno 2001.

 

Causa pilota

 

La causa-pilota porta il nome di Antonio De Fazio che chiedeva di fissare la sua residenza nel dormitorio pubblico anche per esercitare il diritto di voto. Così De Fazio e altri trecento ospiti dei dormitori bolognesi alle ultime elezioni hanno potuto inserire la scheda nell’urna.

Ma avere una residenza ovviamente aiuta nella ricerca di un lavoro o di una casa. Frequenti anche i ricorsi contro le decisioni del Tribunale dei minori che spesso affidano i figli di uomini e donne in difficoltà (senza tetto, alcolisti, tossicodipendenti) a estranei: talvolta cancellando del tutto l’esistenza di una famiglia, i nonni ad esempio, che potrebbe occuparsi dei ragazzi evitando un trauma maggiore per i più piccoli e consentendo al genitore di restare vicino al figlio.

"E questo rapporto con i ragazzi è spesso uno stimolo a riprendere in mano la propria vita" spiegano gli avvocati bolognesi chiedendo però di non entrare troppo nei particolari: "perfino riconquistare la privacy può segnare il passaggio dall’esclusione a una cittadinanza".

A metà novembre un libro - almeno all’inizio distribuito, come inserto di un quotidiano locale, solo a Bologna - racconterà cosa fanno gli ads. Ma è evidente che, al di là delle modalità inedite, ci si trova di fronte a un vecchissimo problema, cioè la non parità nell’esercitare il fondamentale diritto a essere difesi, che sta riesplodendo. Nei confronti delle crescenti "nuove povertà" ma anche rispetto ai migranti, poco informati e ancor meno tutelati rispetto alle leggi italiane. Una maniera per affrontare questa emergenza sociale può essere quella scelta dall’Associazione dei giuristi democratici di Bologna che con la Regione Emilia-Romagna ha pubblicato in 8 lingue Il patrocinio a spese dello Stato in 15 domande, un testo rigorosamente gratis e no copyright. Ma altre - e opposte - strategie sono possibili: se girano troppi poveri, si può sempre fare come Enrico Hullweck, sindaco di Vicenza, che nel 2003 con l’ordinanza 25021 tentò di proibire sia l’esposizione di "deformità ributtanti" che il sovraffollamento di accattoni (ai quali veniva intimato per esempio di "lasciare uno spazio libero per il transito di pedoni di almeno un metro") nel territorio berico.

"I tentativi di inasprire le norme e/o di invitare le forze dell’ordine a maggiore severità non passano", spiega Antonio Mumolo, uno dei fondatori degli ads: "Sotto le due torri, tentò sia pure in sordina anche l’ex sindaco Giorgio Guazzaloca; e dovette fare marcia indietro".

 

Quanti sono?

 

Quanti italiani vivono in strada? Le stime più prudenti contano 220 mila persone (un quarto sono donne). Ma se l’ultima indagine Istat annuncia che circa il 10 per cento delle famiglie è a livelli di povertà, non è difficile prevedere che quelli definiti sfd (senza fissa dimora) siano comunque destinati a aumentare. "Mostrami il vicolo e il treno, mostrami il vagabondo che dorme sotto la pioggia. E io ti mostrerò, ragazzo mio, mille ragioni per cui è solo un caso se al suo posto non ci siamo noi".

È sempre dalla vecchia canzone-poesia di Phil Ochsche conviene partire: "There But for Fortune", solo per caso. In effetti basta che, in un momento di crisi economica e/o psicologica, manchi una rete amicale o familiare di sostegno per ritrovarsi in strada. "In 4 anni e seguendo centinaia di vicende a Bologna non abbiamo trovato nessun clochard per scelta. L’idea romantica del vagabondo va ripensata: oggi a chiedere l’elemosina, a cercare un letto al dormitorio incontri chi ha la pensione minima. Ma anche una separazione, il dover pagare gli alimenti, a volte fa saltare il difficile equilibrio reddito-casa", spiega Mumolo.

Gli ads difendono gratis chi non si può permettere di pagare neppure per difendere i diritti minimi, ristabilendo così un principio di giustizia. In alcune città (per esempio Reggio Calabria) ai nascenti ads viene lanciato un avvertimento: secondo l’ordine degli avvocati non sarebbe consentita la difesa gratuita. "Invece due sentenze della Cassazione civile, per la precisione sezione III, 30 dicembre 1993, numero 13008 e sezione II, 3 dicembre 1994, numero 10393 confermano che si può, anzi che è sacrosanto", insiste Mumolo.

Infatti - spiega Carmen Quattrone, avvocato reggino - "partiremo anche noi, appoggiandoci alla Curia, nel 2005". Di come allargare la rete degli ads si è parlato (a metà ottobre) in un convegno a Padova. Ricorda Sonia Mazzon, funzionaria del Comune, che una recente indagine a Padova ha registrato 2367 senza fissa dimora: fra loro 303 donne e un 65% di immigrati, ma in questo caso la definizione si riferisce semplicemente ai non nati in città. "Abbiamo messo in piedi due progetti per aiutare chi vive in strada ma soprattutto cerchiamo di rendere i servizi più flessibili e meno frammentati", racconta la Mazzon.

Una delle questioni aperte è come allargare la tutela degli ads ai detenuti (e agli ex): ne parla, per esperienze vissute sulla pelle, Francesco Morelli, collaboratore storico della rivista Ristretti Orizzonti. "Chi esce dal carcere spesso diventa, o torna, un sfd. A un nostro questionario hanno risposto, a inizio ottobre, 391 detenuti (245 italiani) e i tre quarti dicono che, al momento di uscire, non avranno un posto per dormire; il 31% ha già vissuto in strada". I commenti che arricchiscono il questionario sono illuminanti: "possedevo una casa prima che me la sequestrassero" oppure "sulla strada ci sono nato".

 

Difendere i detenuti

 

Esiste un modo per garantire la presenza degli ads anche fra i detenuti? "C’è un’esperienza nelle carceri toscane che vede impegnati 160 avvocati" racconta Ornella Favero di Ristretti Orizzonti. "Attenzione però" replica Mumolo: "È meglio uno sportello di informazione giuridica, magari con la clausola che quegli avvocati non potranno prendersi clienti nel carcere dove offrono la consulenza, altrimenti questo lavoro rischia di essere scambiato per una concorrenza ambigua". Per rompere il silenzio intorno ai "senza tetto" e alle altre forme di emarginazione, sempre a Padova è nato Il brontolo: mille e una voce dalle strade e dalle piazze.

Uno dei redattori, Daniele Sandonà, spiega: "È la prima uscita, dopo 6 mesi di incontri e ora affiancheremo alla rivista un sito. C’è bisogno di far sentire il brontolio della gente qualsiasi che troppi mass media non ascoltano". E c’è chi azzarda la battuta: "più che Brontolo le redazioni d’oggi dovrebbero chiamarsi Mammolo o Pisolo, visto come si comporta la maggior parte dei giornalisti".

Nel dibattito padovano - che ne segue uno analogo a Roma in luglio - si sottolinea che l’impegno degli avvocati e dei volontari non può bastare se "il piatto delle risorse è sempre più piccolo" e che dunque occorre muoversi anche a livello economico e politico. Ottimista cosmico è don Gianfranco Zannato, direttore della Caritas diocesana, che si è spinto (se pure in modo sorridente) a suggerire: "Lo Spirito Santo è un collega di questi avvocati". Qualcuno che in strada ci ha vissuto gli ha risposto, sottovoce: "Il vero miracolo sarebbe curarsi i denti gratis ma io mi accontenterei che resuscitasse il welfare".

 

Difensori di tutta Italia unitevi

 

Gli avvocati di strada bolognesi invitano i colleghi di altre città a dare il via a esperienze analoghe, senza volontà di egemonia. Attività simili preesistenti ora sono interessate a mettersi in rete, pur con la loro autonomia: come gli "Avvocati per niente" di Milano, i toscani che fanno riferimento a "L’altro diritto" o quelli di Roma con la Comunità di Sant’Egidio.

 

La mappa

 

Bologna: 051.397971, avvocatodistrada@piazzagrande.it; Catania: 095.3701174, studiolegale.puglisi@puglisi.biz; Firenze: 055.283644, fipetr@tin.it Milano: 02.67380261, avvocatiperniente@caritas.it; Padova: 049.654233, www.ristretti.it, agora-psd@ilbrontolo.org; Reggio Calabria: 0965.22971, carmenquattrone@interfree.it; Reggio Emilia: 0522.551111, nicolagualdi@virgilio.it; Roma: 06.585661, marinaceccarelli@libero.it; Torino: 011.3841066, segreteria@gruppoabele.org; Verona: 045.918168, segreteria@comunitadeigiovani.org, Vicenza: 0444.304986, sportello_legale@caritas.vicenza.it.

Segnaliamo un nuovo suicidio avvenuto a San Vittore…

 

Osservatorio Calamandrana, 8 novembre 2004

 

Segnalo un nuovo suicidio avvenuto a San Vittore mercoledì 20 ottobre alle 3.30 del mattino. Il detenuto era stato in cella di isolamento con un altro colpevole come lui di omicidio della moglie. Da quattro mesi.

Da qualche tempo erano stati messi insieme in una cella normale e l’Ispettore aveva dato la possibilità ad entrambi di "piantonarsi" vicendevolmente, risparmiando così altro personale. L’uomo che si è tolto la vita impiccandosi aveva 54 anni, era schivo e mite, i compagni lo vedevano raramente uscire di cella e sempre in ciabatte, magro e sciupato.

Dicono che non ha avuto un adeguato sostegno psicologico e che la cosa più grave è che è avvenuto nel reparto "infermeria al piano terra, dove dovrebbe esserci più sorveglianza. 

Savona: il carcere scoppia, riaperte celle adibite a magazzino

 

Secolo XIX, 8 novembre 2004

 

Sant’Agostino, allarme rosso. La storia della costruzione della nuova casa circondariale savonese sembra davvero infinita, mentre tornano prepotentemente d’attualità i problemi del vetusto carcere di piazza Monticello: un passo avanti e due indietro, con la situazione che sta ritornando pericolosamente ai livelli di guardia. Che succede dunque adesso?

"Gli agenti di polizia penitenziaria sono sotto organico in maniera clamorosa, mentre i detenuti sono ben oltre la capienza massima consentita: questa sproporzione finisce per creare un pesante clima di tensione, è necessario varare entro breve una serie di provvedimenti mirati". A stigmatizzare una situazione definita "intollerabile" sono i rappresentanti del sindacato di polizia che, in attesa di avere al più presto risposte chiare su tempi, modi e luoghi di costruzione del nuovo penitenziario, denunciano le condizioni di invivibilità del vecchio Sant’Agostino.

"Gli agenti in servizio dovrebbero essere cinquantanove, in realtà sono diciassette di meno e non si hanno notizie né di concorsi né di trasferimenti che consentano di ritornare a operare in condizioni di normalità", sottolinea innanzitutto Michele Lorenzo, segretario regionale del Sappe.

Turni "massacranti" dunque per i poliziotti, ma anche la pericolosa sensazione di "non sentirsi sicuri sul lavoro". In compenso i numeri abbondano per quanto riguarda i detenuti: a fronte di un tetto massimo di quarantacinque, durante i fine settimana e nei mesi estivi si arriva anche alla quota record di sessantadue.

"Il sovraffollamento determina palpabile malumore fra chi è costretto a convivere con altre sette-otto persone nei cameroni quando il carcere è strapieno, ma comunque ci sono come minimo sempre quattro detenuti per cella: ovviamente quest’atmosfera tesa si riflette anche sugli agenti", afferma Aniello Peluso, segretario provinciale del sindacato.

Per cercare in qualche maniera di risolvere il problema dei detenuti in sovrannumero si cercano sempre eventuali posti disponibili in altri istituti di pena della Liguria, ma spesso vengono anche utilizzate vecchie celle, ora adibite a ripostigli, che erano state chiuse perché prive di finestre o addirittura sotto il livello della strada, con condizioni di vivibilità facilmente immaginabili.

"Ma al di là delle situazioni di emergenza, non bisogna dimenticare che è l’ambiente in generale a essere fatiscente", precisano Lorenzo e Peluso. Nonostante gli interventi di ristrutturazione, siamo ancora a livelli da "logica medievale", con il carcere savonese che "non risponde ai concetti richiesti dalla riforma penitenziaria". Qualche esempio? Mancano le docce e l’acqua calda, per non parlare poi delle condizioni dei bagni, ancora alla turca.

Ma se la situazione del Sant’Agostino è ancora questa, quali sono le risposte che il Sappe vuole avere al più presto? "Vogliamo avere sostanzialmente una riconferma dello stato avanzato di progettazione del nuovo carcere - dicono i due responsabili sindacali - Dev’essere chiaro una volta per tutte se esiste veramente la volontà di risolvere il problema del carcere di Savona oppure se si sta cercando solamente di prendere tempo per non dire come stanno veramente le cose". Gli agenti e i detenuti non ce la fanno più, il Sant’Agostino è più che mai un caso.

 

La denuncia degli agenti

 

Carcere Sant’Agostino, allarme rosso. Gli agenti di polizia penitenziaria denunciano: "Siamo pesantemente sotto organico, i detenuti sono oltre la capienza massima consentita, c’è un pesante clima di tensione". Gli agenti in servizio dovrebbero essere 59, in realtà sono 17 di meno.

I detenuti non dovrebbero superare quota 45 e invece arrivano a essere 62. Spesso vengono utilizzate vecchie celle, ora adibite a ripostigli, che erano state chiuse perché prive di finestre o sotto il livello della strada. Mancano le docce e l’acqua calda. E il Sappe chiede lumi sul nuovo carcere, promesso da anni, finanziato con 30 milioni e mai realizzato.

 

Il Ministero: un investimento di oltre 30 milioni di euro entro il 2006

 

La nuova casa circondariale che prenderà il posto del Sant’Agostino è fra le priorità che sono state fissate dal Ministero della Giustizia. I penitenziari di Rieti e Marsala sono ai primi due posti fra le situazioni di emergenza, mentre il carcere di Savona viene subito dopo, al terzo posto.

Per quanto riguarda il finanziamento dell’opera, solamente per la progettazione è stato stanziato un milione e mezzo di euro entro la fine dell’anno in corso, mentre altri ventinove milioni saranno impiegati entro il 2006. Il Comune di Savona ha già individuato il sito per realizzare il nuovo carcere: si tratta della località Passeggi, fra il tracciato dell’autostrada Savona-Torino e il confine con il territorio comunale di Quiliano, nella zona a monte della valletta che è chiusa alle spalle dalla nuova sede dell’Ata.

Si è arrivati all’individuazione di Passeggi dopo la ferma opposizione dell’amministrazione quilianese, che ha respinto qualsiasi coinvolgimento ed è decisa a salvaguardare l’area archeologica e di particolare pregio che confina con il sito del nuovo penitenziario.

È anche tramontata in maniera definitiva l’ipotesi che era sorta relativa alla zona di Santuario. In quel caso s’era trattato sostanzialmente di un equivoco, nato a livello ministeriale, che aveva fatto ritardare ulteriormente le procedure per la definizione del progetto del nuovo carcere savonese. 

Catanzaro: cultura "tra le sbarre", i libri di Cannavò e Ceniti

 

Il Quotidiano della Calabria, 8 novembre 2004

 

Puntata speciale (e molto affollata) per la trasmissione televisiva "Verso Camelot" che presso l’auditorium del centro di giustizia minorile di Catanzaro ha ufficialmente presentato il progetto "Legal...media" della collaterale associazione no profit "Diventeranno Famosi".

Domenico Gareri ha fatto gli onori di casa davanti a una platea che annoverava anche il vice ministro Mario Tassone, il capo dipartimento delle giustizia minorile Rosario Priore, l’onorevole Ida D’Ippolito, l’assessore regionale Saverio Zavettieri e il suo omologo comunale Tony Sgromo.

L’occasione serviva anche per presentare ufficialmente "I Cassetti Perduti" (edito da Laruffa), il bel libro di Francesco Ceniti, giovane catanzarese con le stimmate del giornalismo che al suo fianco aveva Candido Cannavò, una delle firme storiche della carta stampata italiana che ne ha tessute giuste lodi.

Per motivi di tempo (e il piccolo ritardo marcato dal sottosegretario Jole Santelli), non si è potuto effettuare il previsto dibattito tra autori e pubblico ma l’incontro ha avuto parecchi motivi d’interesse. Intanto il progetto in sé che si ripropone in maniera lodevole di sensibilizzare la società sugli scottanti temi della legalità e giustizia minorile attraverso la televisione, il più devastante tra i mezzi di comunicazione proprio perché il suo impatto spesso non ha alcun filtro se non la sensibilità del singolo spettatore con tutte le incognite del caso.

Da qui la necessità di fornire al pubblico tutti quegli elementi capaci di rielaborare le problematiche connesse alla devianza minorile con un percorso ragionato in cui verranno presentate le strutture che li ospitano oltre a diffondere l’altrettanto necessaria cultura di attenzione al disagio. Parlare di libri sullo sfondo di una ambientazione del genere, ribadisce l’innegabile valore formativo della letteratura che può diventare strumento di prevenzione nella lotta alla illegalità soprattutto quando sono i minori a rimanerne irretiti.

La presentazione dei due testi si è subito prestata come spunto per affrontare una discussione molto più ampia sulla realtà carceraria, nel chiaro intento di far conoscere un mondo parallelo, ricco di umanità, talvolta vittima di eccessivo giustizialismo, un mondo duro e forse meno ipocrita di quello che sta fuori dalle sbarre.

Santelli, Cannavò e Zavettieri si sono misurati concitatamente sul tema della riabilitazione attraverso l’auspicabile impegno di enti privati e non, nell’offrire possibilità lavorative ai detenuti con il fine di favorirne la reintegrazione in società. Tematiche delicate e complesse su un tratto sociale, difficile da immaginare e bisognoso di una forte opera di educazione alla consapevolezza.

L’ex direttore della Gazzetta dello sport ha parlato di quella che lui stesso ha definito "carcerite", una passione difficile da spiegare se non nelle storie che animano quella realtà così come il mestiere del giornalista, con perizia e sagacia nel suo "Libertà dietro le sbarre" (edito da Rizzoli): vicende di intelligenze sprecate all’interno di quello che molti definiscono a torto un immondezzaio, mentre Ceniti ha ricordato, tra le altre cose, l’importanza della lettura per aprire dinnanzi a sé mondi fantastici in cui trovare risposte o confronto, come capitò a lui da adolescente con "Il Barone Rampante" di Italo Calvino.

Ha ricordato inoltre "Sfide", uno dei programmi migliori della Rai che proprio di recente ha trasmesso la puntata sul campionato di calcio vinto dalla squadra del carcere Opera di Milano in terza categoria lombarda, una formazione che "giocava sempre in casa" ma che di certo non per questo motivo è riuscita a conquistare la promozione.

Intrecciandosi con le proprie vicende personali, l’autore una volta trovata la stabilità professionale ha deciso di riaprire passati ricordi, ultimando con naturale fantasia (riprendendo le parole di Cannavò) e scorrevolezza un libro destinato a diventare un piccolo caso editoriale se supportato da adeguata distribuzione.

Il prossimo appuntamento istituzionale di "Verso Camelot" è fissato per il 16 dicembre a Roma con la terza edizione del concorso nazionale "Una sceneggiatura per la realizzazione di prodotti multimediali" indetto tra gli istituti penali minorili italiani. 

Agrigento: quando il carcere è l’unico tetto disponibile…

 

La Sicilia, 8 novembre 2004

 

Per oltre una settimana ha dormito in macchina davanti alla caserma dei carabinieri di Sommatino dopo che il fratello gli ha impedito di far rientro nell’abitazione dove stava scontando gli arresti domiciliari. Tra i due, infatti, erano sorti dei problemi e da qui la decisione a negargli l’ospitalità è stata breve. Alla fine senza soldi in tasca e non avendo altro posto dove potere scontare la pena restrittiva è tornato di nuovo in carcere.

Protagonista di questa storia il pregiudicato canicattinese Gaspare Facciponte, 29 anni finito nei guai con la giustizia la scorsa estate dopo essere rimasto coinvolto in una storia di spaccio e detenzione di droga. Ieri mattina, Gaspare Facciponte è stato ammanettato dagli agenti del commissariato di polizia di Canicattì dopo che il magistrato gli ha revocato il beneficio dei domiciliari concessi dal Tribunale del Riesame di Palermo su istanza del suo legale di fiducia l’avvocato Calogero Meli.

Per il canicattinese si sono quindi spalancate nuovamente le porte del carcere, stavolta non del Malaspina di Caltanissetta ma di Petrusa ad Agrigento dove è stato condotto subito dopo il suo arresto. I guai giudiziari di Gaspare Facciponte hanno inizio il 25 giugno scorso, data in cui gli agenti del commissariato di pubblica sicurezza di Canicattì avevano condotto l’operazione. In manette, oltre a Gaspare Facciponte, era finito anche un altro giovane di Canicattì ritornato pure lui in libertà, entrambi accusati di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti.

La polizia aveva bloccato Gaspare Facciponte alla guida di un Mercedes di proprietà del padre dell’altro indagato, mentre tornava, assieme alla propria convivente, denunciata per concorso in spaccio, da Palermo dove si era rifornito di sostanza stupefacente. All’altezza del bivio di Capodarso, in territorio di Caltanissetta, Facciponte era stato bloccato e perquisito.

All’interno dell’abitacolo della vettura, i poliziotti avevano rinvenuto 10 panetti di hashish, pari a due chilogrammi e mezzo per un valore commerciale di 7.000 euro circa. Successivamente era stata perquisita un’abitazione rurale in contrada ponte Bonavia a Canicattì dove era stato sorpreso anche l’altro giovane, che attendeva, assieme alla sua convivente, una ragazza rumena, l’arrivo di Facciponte. 

Napoli: adolescenti a Forcella, una generazione da rifondare

 

Il Messaggero, 8 novembre 2004

 

Il peggio non è la camorra con i suoi 100 omicidi in dieci mesi, non è l’indifferenza della borghesia, oggi come ieri arroccata sui quartieri alti dove fortifica vecchie e nuove rendite, non è l’albagia di una politica chiusa da anni entro una nicchia geografica e culturale, non è l’impotenza di un sistema di sicurezza che pure conta un agente ogni 238 persone.

Il peggio è ciò che Napoli esprime nel Paese come anticipatrice di una modernità universale e tragica: un’adolescenza armata che ha tradotto nel sangue il conflitto generazionale, la perdita di ruolo dei padri che trasmoda dalla società civile a quella criminale, la frantumazione degli antichi fortini della famiglia meridionale in uno spazio aperto nel quale non ci sono più presidi sociali, politici e di fede.

Chi scambia questa congiuntura con l’ennesima guerra di mafia e non vede altro che presidi militari, per arginare il degrado dilagante, commette un errore di imperdonabile miopia, poiché la crisi è dissecante, taglia longitudinalmente la società napoletana senza risparmiare nessuno.

"La mia città vive giorni di uno scoraggiamento nietzschiano, una consapevolezza diffusa che nulla è vero, alla quale Napoli storicamente ha risposto con una neutralità pericolosa - dice il filosofo Aldo Masullo, promotore dalle colonne del Mattino di un manifesto intitolato "Salviamo Napoli", che suona come uno sprone al silenzio degli intellettuali -.

Dopo l’entusiasmo degli anni ‘93-’94, il declino è stato inarrestabile: è mancata una pianificazione metropolitana che consentisse a Napoli di sottrarsi all’accerchiamento di un’urbanizzazione selvaggia ed è mancato uno sviluppo organico della propria rete culturale e una sua proiezione nel resto del Paese. Così, la borghesia è tornata a ripararsi in campo economico dietro alle sue rendite e in campo civile sotto le sue antiche protezioni, assecondando un vecchio sedimento feudale per cui l’individuo può difendersi solo sotto l’ombrello di un potente, o di un camorrista".

Tra l’ambiguità del potere e i baby assassini c’è un filo che don Gennaro Matino, teologo, autore insieme con Erri De Luca del libro Mestieri all’aria aperta , riannoda così: la società civile è franata nel vuoto della politica, la famiglia si è frantumata in mille isole di egoismi. Ciò è avvenuto anche dentro l’universo camorristico, che ne è uscito palesemente indebolito: perduta la sua dimensione patriarcale, ha sviluppato un’anarchia criminale in cui mancano i ruoli".

In questo senso i ragazzi di Napoli sono metafora del Sud e il loro Sud rischia di diventare la metafora di un Paese. Non ammazzano più aderendo a un comando per conquistare il riconoscimento del clan, né per emulare le gesta dei loro padri killer.

Uccidono per spontaneità criminale, reazione propria, gangsterismo urbano espropriato agli adulti e ormai vissuto come naturale. Nella loro libertà, l’unica mediazione è tecnologica. Spazia tra un palmare e un coltellino, entrambi di fabbricazione cinese, con i quali si identificano e si difendono. Sono figli della camorra, non necessariamente dei camorristi.

"Se c’è una cosa che accomuna questi ragazzi è l’incapacità di dominare l’istinto, la totale assenza di educazione - dice don Luigi Merola, parroco di Forcella -. Se anche oggi attorno a loro non ci fosse Napoli con tutti i suoi mali, questi ragazzi sarebbero una generazione da rifondare. Ci vorrebbe un investimento di amore, di esempio, di valori lungo anni".

La cronaca degli ultimi 12 mesi di sangue rivoluziona la leadership dell’orrore e porta i minori su una ribalta inedita. Da Francesco Estatico, ucciso per un sorriso di troppo a una ragazza, ad Annalisa Durante, usata come scudo da un giovane boss e poi colpita a morte nella sparatoria che ne seguì, a Salvatore Albino, freddato tra i quartieri spagnoli e il Vomero per aver rubato il motorino alla figlia di un camorrista, gli adolescenti monopolizzano la scena da attori protagonisti, tanto che le altre figure, sicari o vittime che siano, sembrano comprimari.

"La disarticolazione dei clan storici e l’arresto degli esponenti più carismatici - spiegano i carabinieri del Ros in un recente rapporto - scatenano l’aggressività dei gregari lanciati in una guerra per le nuove leadership". Ma sarebbe sbagliato confinare l’analisi di ciò che accade a Napoli in una radiografia investigativa, poiché la crisi della criminalità si specchia in quella più generale di tutta la società civile.

"Bisogna avere l’onestà di ammettere che il camorristico e il civile sono due realtà che s’intersecano nella cultura della città, e riconoscere che l’etica di riferimento della società pesca purtroppo in entrambe le sfere - dice Giuseppe Ferraro, filosofo morale, autore di un libro intitolato Filosofia in carcere che riassume la sua esperienza d’insegnamento nell’istituto di custodia minorile di Nisida -.

Il ragazzo che uccide con il coltello cerca in un attimo d’assurdo il recupero dell’identità perduta e la cerca attorno a un mito della padronanza assoluta sulla vita del rivale, perché gli mancano improvvisamente la mediazione del padre e del boss, che gli impedirebbero, l’uno e l’altro, una sciocchezza simile".

Ciò è tanto più evidente nella vicenda della quindicenne arrestata per aver indotto il padre ad uccidere il coetaneo che le avrebbe rubato il motorino. Del tutto inedita è la loro complicità, governata dalla ragazza, su un terreno che dovrebbe essere di esclusivo appannaggio patriarcale. "Non mi stupisce - dice Francesco Casavola, presidente emerito della Consulta e docente all’Università Federico II -.

Non ci sono più interposizioni tutorie degli adulti, e questo vale anche per la malavita. La famiglia non esiste, i ruoli educativi sono andati perduti. In una società che rivendica il massimo di libertà, ci toccherà il massimo della coercizione: non è causale che molti pensino di affrontare la crisi della città con contingenti di polizia.

A ciò si aggiunge lo specifico napoletano, le sue grandi diversità, i quartieri dei poveri divisi dai quartieri dei ricchi, i ricchi che dicono "a noi della camorra non interessa niente". E invece gli interstizi del tessuto sociale sono tanti che la malapianta alla fine arriverà dappertutto. Speriamo che la profezia della "livella" non sia la metafora di una Napoli che muore".

La "Piccola posta" di Adriano Sofri… e il "detenuto ignoto"

 

Il Foglio, 8 novembre 2004

 

"Al Congresso radicale è stata annunciata la costituzione di un’associazione dedicata al "detenuto ignoto". Ne hanno parlato in particolare Irene Testa e Jolanda Casigliani: quest’ultima ha il merito di aver sollevato da tempo (e finora invano) la questione della Cassa delle Ammende, destinata per legge a finanziare il reinserimento dei detenuti.

Si tratta dell’ingente cifra di 60 milioni di euro, finora congelata, oltre che dall’universale distrazione, dalla mancanza di un Regolamento esecutivo. È un punto che la mobilitazione in corso nelle carceri, promossa dall’associazione Papillon, potrebbe prendere in serio conto.

Casigliani ha informato anche di interventi regionali, come quello che ha procurato alle carceri piemontesi 22 educatrici ed educatori in più: acquisto prezioso, come sanno i detenuti, perché la vastamente mancata o ritardata applicazione della legge detta Gozzini viene così spesso motivata con il numero insufficiente, oltre che di magistrati di sorveglianza, di educatori incaricati di redigere le relazioni previste.

Intanto fa uno strano effetto, ai detenuti ignoti, seguire la commedia italiana della revoca del permesso a Giovanni Brusca, premiato nonostante quantità e qualità formidabile di omicidi, scioglimenti nell’acido compresi, e punito per un abusino di telefonino. Ah, patria del diritto!". 

Palermo: detenuti in 41 bis gestivano cosca dal carcere

 

La Sicilia, 8 novembre 2004

 

I boss mafiosi Vito e Leonardo Vitale, detenuti sottoposti al 41 bis, hanno continuato a gestire dal carcere la cosca mafiosa di Partinico, riuscendo a violare il carcere duro e a far arrivare fuori dall’istituto di pena ordini sulla gestione degli appalti pubblici e sull’imposizione del pizzo alle aziende, in particolare quelle vitivinicole, che ricadono nel territorio in cui comanda la loro famiglia. La vicenda emerge nell’inchiesta che stamani i carabinieri e gli investigatori del Gico della Guardia di Finanza hanno portato a termine, eseguendo 24 ordini di custodia cautelare firmati dal gip Antonio Tricoli, su richiesta dei sostituti procuratori della Dda Maurizio De Lucia e Francesco Del Bene e del procuratore aggiunto Alfredo Morvillo.

Gli inquirenti mettono a nudo le "falle" che vi sono nel nuovo 41 bis, l’articolo del codice penitenziario che stabilisce restrizioni per i boss. Gli investigatori sono riusciti a dimostrare con le intercettazioni e le indagini, che i mafiosi riescono a gestire anche dal carcere gli affari delle cosche, facendo arrivare all’esterno messaggi e riuscendo a comunicare fra di loro.

I provvedimenti riguardano anche alcune donne che a Partinico fanno parte della famiglia dei boss Vitale, le quali avrebbero gestito la cosca, riportando agli affiliati rimasti liberi i messaggi e imponendo gli ordini che arrivavano da Vito e Leonardo Vitale

Le accuse contestate sono a vario titolo quelle di associazione mafiosa ed estorsione. Fra le tante irregolarità che gli investigatori hanno riscontrato nei boss sottoposti al 41 bis, una riguarda Leonardo Vitale, detenuto nel carcere di Viterbo, il quale riusciva a far passare "bigliettini" in cui dava ordini, nascondendoli dentro la biancheria sporca. Allo stesso modo i familiari gli facevano arrivare messaggi quando gli portavano i vestiti puliti. 

Centaro: ordini dal 41 bis? non possiamo murarli vivi!

 

Adnkronos, 8 novembre 2004

 

"Gli ordini dei boss arrivavano anche dal 41 bis? Ma non possiamo mica murarli vivi i detenuti...". È quanto dice all’Adnkronos il presidente della commissione nazionale Antimafia, Roberto Centaro, commentando l’operazione portata a termine la notte scorsa nel palermitano per estorsione.

Dall’inchiesta emerge che gli ordini del boss Leonardo Vitale e del fratello Vito Vitale, venivano impartiti anche mentre erano al 41 bis, cioè il carcere duro, attraverso bigliettini oppure messaggi criptati.

Grasso: necessari più controlli per i detenuti in 41 bis

 

Adnkronos, 8 novembre 2004

 

"Si impone un maggiore controllo per i detenuti che sono in regime di carcere duro, il cosiddetto 41 bis". È quanto auspica il procuratore capo di Palermo, Pietro Grasso, commentando l’operazione di Carabinieri e Finanza che all’alba di oggi ha portato all’emissione di 23 ordinanze di custodia cautelare, tra cui due donne.

Proprio dal carcere duro il boss Leonardo Vitale sarebbe riuscito, secondo gli investigatori, a impartire ordini alla moglie sull’imposizione del pizzo. "Sembra incredibile - aggiunge Grasso - eppure dal 41 bis Vitale è riuscito persino a mandare un fax, cosa che gli viene consentita, alla moglie in cui, anche se in maniera criptata, impartiva ordini".

Morbillo: assistiamo impotenti a comunicazioni dal 41 bis

 

Adnkronos, 8 novembre 2004

 

"Fino a quando dobbiamo assistere impotenti davanti ai detenuti che, malgrado siano sottoposti al carcere duro, il 41 bis, continuano a gestire gli affari di Cosa nostra?". È l’amaro sfogo del Procuratore aggiunto, Alfredo Morvillo, nel corso della conferenza stampa "Terra bruciata" che ha portato all’emissione di 23 ordinanze di custodia cautelare nel palermitano. Secondo Morvillo, "Sarebbe il caso che il legislatore rafforzi il 41 bis". "Lo Stato - dice ancora Morvillo - non riesce a evitare che i boss impartiscano ordini dal carcere. C’è questo canale di collegamento non viene rescisso".

Vizzini: rafforzare 41bis, per lotta efficace a criminalità

 

Agi, 8 novembre 2004

 

L’urgenza di rafforzare il 41bis per una sempre più efficace lotta alla criminalità organizzata viene ribadita dal senatore Carlo Vizzini componente della Commissione parlamentare Antimafia e responsabile del Dipartimento Sicurezza e criminalità di Forza Italia "Complimenti alla Magistratura inquirente, ai Carabinieri ed al Gico della Guardia di Finanza, - dichiara Vizzini - per l’importante operazione che sgomina la cosca mafiosa che fa capo ai Boss Leonardo e Vito Vitale.

È, tuttavia, drammaticamente inquietante la scoperta che sinanche il carcere duro viene aggirato per tenere i contatti con la mafia che opera all’esterno ed impartire ordini. Occorre ricordare l’offensiva dei detenuti mafiosi che circa due anni fa, lanciarono un proclama attraverso il boss Bagarella e inviarono un appello agli avvocati parlamentari, mostrando finanche uno striscione allo stadio di Palermo contro il 41bis.

Evidentemente quella protesta, che non ottenne apparentemente risultati, si fermò perché erano stati escogitati i modi per comunicare ugualmente con l’esterno. Quanto scoperto dai Magistrati deve impegnarci con urgenza a riconsiderare i metodi di applicazione del carcere duro, recidendo drasticamente ogni possibile legame volto a mostrare potenza mafiosa, tanto più forte se mostrata da chi è in galera. Occorre riesaminare tutte le revoche del carcere duro effettuate nell’ultimo anno forse con eccesso di prodigalità.

Occorre, infine, tenere presenti le esigenze dei familiari di questi detenuti, dicendo loro con chiarezza che,ove venissero scoperti a far da tramite, sarebbero puniti drasticamente. Se il 41bis fallisse il proprio obiettivo, - conclude il senatore Carlo Vizzini - sarebbe una irrimediabile sconfitta nella lotta alla criminalità mafiosa e, proprio per questo, è opportuno che la Commissione parlamentare antimafia se ne occupi con urgenza, collaborando con Investigatori, Magistrati e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per trovare una soluzione reale condivisa da tutti".

Verbania: detenuti diventano operatori ecologici per un giorno

 

Vita, 8 novembre 2004

 

Operatori ecologici per un giorno: lo saranno stamattina una ventina di detenuti del carcere di Verbania, impegnati a pulire le aree verdi attorno alle scuole di Mergozzo, in valle Ossola. Lo stesso penitenziario è stato protagonista, nell’ agosto scorso, di due iniziative analoghe. In un caso i reclusi si occuparono della manutenzione del parco nazionale della Val Grande, nel Piemonte nord-orientale, nell’ altra ripulirono le spiagge di Arona, sul Lago Maggiore.

I detenuti, che non sono gli stessi già coinvolti nelle occasioni precedenti (il carcere di Verbania ospita una novantina di persone), saranno accompagnati da una trentina di agenti, uomini della Forestale, del Wwf e di Legambiente.

Dopo il lavoro, il cui termine si prevede attorno alle 14, saranno impegnati in una partita di calcio tra loro e una squadra di rappresentanti comunali e volontari. L’intero progetto si chiama "Recupero patrimonio ambientale" ed è promosso dal Dap, il Dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria.

Ad occuparsene in prima persone sono Vincenzo Lo Cascio e Marco Santoro, dei reparti speciali della polizia penitenziaria. E sono sempre loro che stanno curando l’organizzazione, nel mese di dicembre, di una giornata altrettanto particolare, che vedrà uscire in permesso premio detenuti di tutta Italia, in possesso dei necessari requisiti giuridici.

Umbria: in carcere i servizi dei Centri provinciali per Impiego

 

Redattore Sociale, 8 novembre 2004

 

Mettere a disposizione anche dei reclusi presso gli istituti penitenziari di Perugia e di Spoleto i servizi offerti dai Centri per l’impiego provinciali. Con questo obiettivo è stato appena costituito un gruppo di lavoro costituito da operatori della Provincia di Perugia e da operatori dell’amministrazione penitenziaria: il gruppo avrà il compito di predisporre strumenti per adeguare i programmi delle "politiche attive del lavoro" alle particolari esigenze delle persone sottoposte a misure detentive. L’iniziativa è guidata dall’assessore alla Formazione, lavoro e istruzione della Provincia di Perugia, Giuliano Granocchia, su sollecitazione dell’amministrazione penitenziaria.

"Attraverso il lavoro si fa concreta l’opportunità di reinserimento sociale – dice Granocchia - e la riduzione del rischio di reiterazione dei reati". Attualmente, in sintonia col Provveditorato regionale per l’Umbria del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si è deciso di pubblicare sul portale della Provincia di Perugia (www.provincia.perugia.it) la guida tematica "Lavoro" dedicata alla normativa sugli sgravi fiscali e contributivi per le aziende che assumono soggetti in esecuzione di pena e sui benefici ad essa relativa.

Roma: i vincitori del Premio letterario "Emanuele Casalini"

 

Redattore Sociale, 8 novembre 2004

 

Sono stati nominati i vincitori del Premio letterario nazionale "Emanuele Casalini". Giunto alla sua terza edizione, il concorso, che è promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli e dall’Università delle Tre Età ed è riservato ai detenuti delle carceri italiane, si distingue nel vasto panorama letterario italiano per l’ascolto prestato alle voci che provengono dal mondo penitenziario.

La cerimonia di assegnazione dei premi avrà luogo il 12 novembre nel teatro del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso, che aprirà i propri cancelli all’incontro tra persone che quotidianamente vivono separate, in mondi diversi, distanti, seppure parte della stessa città. Così, ai detenuti di Rebibbia si mescoleranno per l’occasione molti volontari della San Vincenzo De Paoli di tutt’Italia, soci dell’Unitre, oltre alle autorità che figurano nel Comitato d’onore, a rappresentanti istituzionali, ai componenti della giuria e ai vincitori e loro familiari.

"Il recupero della parola scritta, nella forma poetica e nel racconto – sottolineano i promotori del concorso -, è sempre un’esperienza che vale la pena di percorrere, perché capace di unire all’espressione artistica dei significati che giacciono e premono, spesso incompresi, nel profondo. Se questo è vero per tutti, a maggior ragione lo è per le persone private della libertà, alle quali sono concesse ben poche occasioni per dire e per essere ascoltate, finendo spesso per diventare del tutto estranee perfino a se stesse".

Da parte sua Ernesto Ferrero, presidente della giuria, scrive: "È difficile fare poesia con la felicità, perché per sua natura il tempo felice vive, non pensa, è poco incline all’auto-consapevolezza. L’infelicità - etichetta generica che comprende una gamma di sentimenti tutti al negativo - purtroppo abbonda. È dalla sofferenza e dal disagio che nasce la spinta alla riflessione, all’oggetti­vazione del malessere, alla sua sublimazione nella scrittura."

E nei numerosissimi lavori pervenuti da quasi tutti gli istituti di pena italiani, ecco allora che si ritrovano espressioni, spesso ingenue, ma talvolta all’altezza della migliore invenzione poetica, "per vincere l’angoscia e per tentare una solidarietà con altri uomini, nostri compagni di strada e di sventura - come scrive ancora Ferrero.

Che così prosegue: "È notevole il numero dei testi che si distinguono per un grado elevato di elaborazione stilistica e tentano la sfida che è poi quella tipica della poesia: provare ad esprimere l’indicibile, il non ancora detto; dire in modo originale gli eterni sentimenti degli uomini."

Andrea Pancani, giornalista de La7, sarà il conduttore della manifestazione di premiazione, mentre spetterà all’attore Sergio Castellitto e a Margaret Mazzantini, anch’essa attrice e scrittrice, dare lettura dei lavori premiati, insieme ad alcuni attori del gruppo teatrale di Rebibbia. La pianista Raffaella D’Esposito, docente al Conservatorio di Santa Cecilia, accompagnerà le letture con brani musicali.

A margine della cerimonia sarà inoltre assegnato il Premio "Carlo Castelli", istituito dalla Società di San Vincenzo De Paoli, per premiare la migliore tesi di laurea su aspetti giuridico-sociali inerenti la realtà carceraria in Italia. Ecco, in conclusione, l’elenco dei premiati.

Sezione Poesia. Vincitori: Gabriele Aral per "Evasione", Giuseppe Cafora per "Naufragio" e Ke Fa Hu per "Un cinese, un carcere, un vocabolario". Segnalati anche Ruggero Botto per "Bla bla", Luigi Ciardelli per "Sfiora-Menti", Gregorio Facchini per "Che odore ha l’amore?", Salvatore Giacobbe per "Dove sei …", Flavio Grugnetti per "Canto di stelle", Celeste Panigilinan Pante per "Sguardo positivo sulla vita", Gian Carlo Ragona per "Ho vissuto", Rinaldo Schirru per "Solo tu mi ascolti", Angelo Domenico Verdoni per "Le piume di cristallo" e Alessandro Volpi per "Esifora".

Sezione Prosa. Vincitori: Francesco Di Pasquale per "Una giornata qualunque", Domenico Strangio per "Christós a Potamia" e Alessandro Buoso per "Il grizzly". Segnalati anche Ignazio Abbruzzo per "Pescare lontano", Antonino Bonura per "Aveva un nome d’uomo", Bruno Condello per "Gino…", Antonio Bartolomeo Fonzo per "Dal diario della mia vita", Carmelo Gallico per "Tempus omnia medetur", Dimitri Ghiani per "Torino Porta Nuova", Elton Kalica per "Un marocchino come tanti", Nabil Mahwachi per "L’avaro e il contadino", Marco Purita per "Giri di blues", Graziano Traballi per "Osteria Miseramundi …".

Segnalati anche due minorenni meritevoli di riconoscimento (Poesia): Cristian B. per "Labirinto" e Francisco Isac Yaray per "Trittico".

Ai vincitori di ciascuna delle due sezioni andranno 2mila euro al primo classificato, 1.200 euro al secondo e 900 euro al terzo. 

Roma: "Sorvegliare le pene", parla Vittorio Antonini (Papillon)

 

La Gazzetta Politica, 8 novembre 2004

 

I delitti e le pene. Quasi la metà delle carceri italiane protesta per ottenere l’applicazione di una legge che oramai ha quasi vent’anni. L’intervento del Papa riuscì, l’anno scorso, a sbloccare il provvedimento sull’indulto. Ora è tornato il silenzio. Occuparsi della condizione delle prigioni, vuol dire migliorare la sicurezza di tutti i cittadini

Quasi la metà di tutte le prigioni italiane stanno manifestando. Unite in un’unica protesta chiedono che il Parlamento si occupi, come ha promesso dai tempi dell’indultino, del problema carcerario.

Erano anni che non accadeva, e probabilmente, con questa forma di coordinamento che lega tutto il territorio nazionale, con tecniche e forme di lotta mutuate dal movimento non violento, non era mai accaduto. Ma voi non lo sapete.

Il primo giorno la stampa si è occupata dell’emergenza, ma nelle due ultime settimane è calato il silenzio. Eppure le prigioni non crescono nel nulla. Sono dentro le nostre città, e, anche chi non ha a cuore il problema dei diritti umani, dovrebbe pensare che migliorare le condizioni di vita in un penitenziario significa vivere tutti più sicuri. Abbiamo sentito Vittorio Antonini, coordinatore dell’associazione penitenziaria Papillon che ha promosso lo sciopero.

 

Da cosa nasce questa protesta?

Da un dato di fatto. In Italia esistono 205 carceri che possono contenere circa 41.000 persone, ora siamo sopra i 57.000. Significa che c’è un sovraffollamento che rende, anche con tutta la buona volontà, qualunque tipo di trattamento intramurario impraticabile. L’articolo 27 della Costituzione parla di rieducazione, ma così è impossibile. Già in condizioni normali il lavoro della cosiddetta equipe interna - psicologici, operatori, educatori - funzionerebbe poco e male; con una sovraffollamento di queste proporzioni non funziona affatto. Siamo al limite della vivibilità.

 

Le statistiche dicono che c’è un 70% di recidivi. Dà la dimensione di un sistema penitenziario che non svolge il suo dovere?

Se hai come riferimento la finalità che dovrebbe avere la pena, significa che questo sistema punitivo, fondato quasi esclusivamente sulla reclusione, non funziona. Il carcere è come una persona stupida. La chiamo "istituzione stupida" perché è incapace di fare un bilancio storico della sua esperienza. Se imparasse dai propri errori, e riuscisse a svolgere una funzione di prevenzione e recupero, noi oggi non avremmo questo tipo di recidività, né questo tipo di reati. Questo significa che probabilmente è maturo il tempo per ragionare su forme di pena che, da una parte garantiscano sicurezza ai cittadini, perché non si può vivere nella paura di subire un reato; dall’altra garantiscano che le pene a cui le persone sono sottoposte, permettano di modificare, almeno in parte, le loro condizioni di partenza.

 

Che cosa chiedete?

Risolvere il sovraffollamento. Diamo per scontata la buona fede del Ministero, dei dirigenti, dei direttori, ma concretamente, senza un provvedimento di indulto e amnistia di carattere generale, che sia applicato a tutti i reati, per condanne di 2 o 3 anni, non esistono le condizioni per far funzionare il carcere. Ci vuole uno sfoltimento che ristabilisca un minimo di equilibrio, che permetta la vivibilità quotidiana del carcere. Non lo diciamo solo noi ma anche i sindacati degli operatori. In secondo luogo chiediamo un pronunciamento del Parlamento per limitare gli abusi sulla custodia cautelare, che significa, nella stragrande maggioranza dei casi, carcerazione preventiva. In Italia ci sono circa 21.000 detenuti che non sono condannati in maniera definitiva. Le statistiche ci dicono che il 50% di loro risulterà, alla fine dei processi innocente.

 

Se la statistica è esatta vuol dire che ora ci sono in carcere 10.000 persone incarcerate ingiustamente?

Esattamente. Serve una legge che valga per tutti, non solo per i detenuti eccellenti. La terza cosa è che venga regolamentata, per legge, l’eccessiva discrezionalità del magistrato di sorveglianza nell’applicazione della legge Gozzini. Questa discrezionalità va ridotta. Comprendiamo che il tema è spinoso, ma anche una parte della magistratura, per esempio quelli di scuola "margariana" lo riconosce. Figli, culturalmente, di Alessandro Margara, ex direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un uomo che ha difeso a spada tratta la lettera della legge Gozzini. Loro sono disposti a mettere in discussione quella discrezionalità. È fondamentale che la Gozzini sia applicata in maniera uniforme e integrale, dalla Val d’Aosta alla Sicilia.

 

Quante carceri stanno protestando?

Adesso siamo ad oltre 90, ma siamo partiti in 49.

 

Che forme di lotta sono state attuate?

In alcune carceri alcuni gruppi di detenuti, a rotazione, fanno lo sciopero della fame. Intorno a loro altri gruppi compiono altre forme di protesta pacifica, come lo sciopero del vitto che passa il carcere, dei lavoranti interni, la battitura fatta dai detenuti tutti i giorni ad una data ora (la battitura" sono i colpi dati dalle guardie alle sbarre per saggiare che siano integre). In altre carceri si rifiuta l’aria o la si prolunga per venti minuti. In altre, è stata un’idea del carcere di Pisa, dunque anche di Adriano Sofri, si fa lo sciopero della televisione, o si sta in silenzio. Sono organizzate per durare fino a quando il Parlamento non risponderà.

 

C’è attenzione da parte dei mass media?

I primi due giorni si sono interessati, poi è calata una cappa di silenzio. È sintomatico di come tutti i gruppi parlamentari, dall’estrema destra alla sinistra, pur essendo all’ordine del giorno una riforma della giustizia, non hanno interesse ad ascoltarci. I detenuti stanno solo chiedendo l’applicazione di leggi che già esistono. All’orecchio dei detenuti questo silenzio suona come un incitamento alla rivolta. Ogni volta che senatori e deputati visitano il carcere, stilano relazioni che chiedono, allarmate, quello che noi da anni stiamo chiedendo. Per un detenuto cadere nella disperazione è assolutamente facile. Se questa lotta, assolutamente pacifica, non trova ascolto, si rischia la rivolta.

 

Tra Nord e Sud, nel sistema penitenziario, esistono differenze?

Molto dipende dall’istituto. Se lei mette il miglior direttore del mondo a Regina Coeli, che potrebbe tenere un migliaio di detenuti e ne ospita invece più di 1.600, ed è una struttura stretta negli spazi, nei cortili, nelle stanze… Fare il riformista in una struttura arcaica è impossibile. Bisogna ragionare sulla possibilità di applicare forme alternative al carcere, fino ad arrivare a pensare pene alternative alla detenzione.

 

Esempi?

Già esiste per i reati minori la possibilità che intervengano convenzioni tra i tribunali e gli enti locali per fare in modo che, invece di essere condannati a 2 anni di carcere, si venga condannati a due anni di lavori socialmente utili. Questo dà la possibilità al detenuto di non recidere completamente le sue relazioni, di essere inserito nel mondo del lavoro, che può aiutarlo a maturare un punto di vista diverso dal mondo da cui proviene. Oltretutto non si grava sul sistema penitenziario. Molti sono quelli che stanno in galera per reati legati alla droga. Ma sono persone che hanno bisogno di cure, non di mura. C’è gente nel reparto di infermeria di Rebibbia che, a immuno deficienze conclamate, stanno lì, a pagare sei mesi, un anno. Un inferno.

 

Ora come funziona il reinserimento? Qualunque detenuto può accedervi? Chi è sottoposto al 41- bis, no. Ma chi è nel 41 bis incontra gli altri?

No. C’è chi l’ha definito una tortura. Se va bene vedi gli altri del tuo reparto. Significa che la Costituzione vale per tutti, tranne che per loro. Chiunque l’abbia votato ha sbagliato. Perché stabilisce che una categoria di cittadini non ha la possibilità di accedere ai benefici della legge. Questo poi per parlare del piano teorico; sul piano concreto la maggior parte dei detenuti italiani non usufruisce della legge Gozzini. O meglio fanno richiesta di usufruire di quelle misure alternative che accompagnano il detenuto verso l’esterno: dopo un quarto di pena puoi incominciare a chiedere i permessi premio, dopo la metà puoi chiedere la semilibertà…

 

Quanto dura un permesso?

Da poche ore fino ad un massimo di 15 giorni. Di solito si va gradualmente a salire. La Gozzini è una legge che è in vigore dal 1986, ma, in particolare i detenuti più poveri, quelli che all’esterno non hanno un punto di riferimento, quell’insieme di sicurezze minime che aiutano a ricostruire un futuro, ne resta escluso.

 

Per semplificare: i poveri non possono pagarsi un avvocati capaci?

È uno dei problemi, ma quello fondamentale è che la magistratura di sorveglianza, nella stragrande maggioranza dei casi, applica in maniera assolutamente restrittiva la legge. L’applicazione è condizionata dal clima che si crea nel paese. Ciclicamente si mettono in campo campagne forcaiole e la magistratura ristringe la porta.

 

Le statistiche che dicono?

Solo l’1,9%, di chi sta usufruendo della Gozzini, commette un’infrazione. Altro problema è quando il detenuto si avvicina all’uscita. Ma uscire senza che, dentro e fuori il carcere, ci sia una seria di filtri che aiutino il detenuto ad avere, almeno una possibilità di non fare ciò che faceva prima - mi riferisco in particolare al lavoro - significa disarmare una persona anche se ha le migliori intenzioni.

 

C’è un profilo tipo del detenuto?

Tutto è molto cambiato negli ultimi anni. Perché sono cambiate le forme di violazione della legge. Fino agli anni ‘70 esisteva una tipologia di detenuto che proveniva da una sorta di "artigianato del crimine", ladri, bande di rapinatori, una specie di organizzazione del lavoro di tipo familiare. Oggi, con l’espansione dei reati legati alla droga, tutto ciò si è frantumato. Una buona parte di detenuti, circa 16.000 sono dentro per reati legati alla droga, o perché ne facevano uso o perché spacciavano. Il che significa che hanno la mentalità tipica del commerciante, al quale non interessa chi sia il compratore, ciò che gli interessa è comprare a poco e vendere a tanto. Tale mentalità ha bisogno, per essere recuperata, di un intervento che il sistema carcere non sa garantire.

 

Esiste ancora un tessuto sociale intorno alla criminalità?

Italiani o stranieri che entrano in carcere vengono dalla povertà e dall’emarginazione. Ma è diverso il rapporto tra di loro. Trent’anni fa anche il ladro era parte integrante di una borgata, penso a San Basilio, al Tiburtino, alla Magliana. Ora non gli interessa. Il quartiere gli serve solo perché è il suo ambito di commercio. Contemporaneamente sono odiati da chi gli vive intorno. Giustamente le persone non vogliono svegliarsi la mattina e scoprire che gli hanno rubato la macchina. Ma il ragazzo che chiunque di noi appenderebbe al muro se lo vedesse scippare un’anziana, messo due anni dentro una gabbia di certo non migliora. Sul recupero di questi soggetti va investito socialmente. L’ipotesi di aggravare le pene per questi reati non farebbe che aumentare il disagio.

 

Modelli europei che potrebbero essere d’aiuto per una riforma?

Per esempio in Spagna è automatico il sistema dei benefici. Tu hai 3 mesi di sconto ogni anno, ma in Italia devi mettere in moto un meccanismo burocratico di istanze e domande al tribunale…

 

Ma se un detenuto viene dall’Algeria o dalla Romania c’è qualcuno che lo aiuta e che gli spiega il procedimento?

No, e spesso è solo anche in fase processuale. L’automatismo che vige in Spagna è un’ipotesi che andrebbe sperimentata. Se il detenuto commette reati, ovviamente, gli si toglie il beneficio, ma altrimenti gli sconti di pena si potrebbero applicare senza dover, ogni volta, fare domande al tribunale. Un’altra idea è il lavoro all’esterno. Detenuti che invece di stare 24 ore al giorno in prigione, abbiano la possibilità di lavorare fuori il giorno e poi di tornare la notte nel penitenziario. In questo modo ci sarebbe il controllo dell’istituto, come quello del datore di lavoro e della polizia. Così si ricostruisce il rapporto, rete per rete, con l’esterno. Italiani, africani, persone dell’ex blocco comunista. Il carcere sembra il famoso villaggio globale. La possibilità di unire cose e persone tanto diversa è un fatto. Più che integrarsi, costruiscono un equilibrio. Ma le differenze sono tante, troppe. L’incapacità anche culturale di affrontare la vita con il diverso da sé produce tanti momenti di attrito. Lampante è l’esempio dei mussulmani. Emarginati tra gli emarginati. Visto che poi le ambasciate non ne vogliono sapere, tu, se sei straniero, finisci per fare gruppo con i tuoi e vedi gli altri come possibili antagonisti.

 

Nessuno aiuta gli stranieri?

In qualche carcere la figura del mediatore culturale è la normalità. In molte non se ne è mai visto uno e alle direzioni non interessa.

 

Ma così non si peggiora la vita all’interno della prigione?

La filosofia in carcere è: c’è un problema? Chiudiamo. Alziamo un muro, facciamo una sezione speciale. Anche dove ci sono fondi, i mediatori incontrano un’infinità di problemi ad entrare. Questi problemi sono dati dal prevalere dei motivi della sicurezza interna su quella del trattamento.

 

Dentro il carcere si fa politica?

No. Ogni detenuto ha le sue idee. Negli anni ‘70 c’erano circa 6.000 detenuti politici. Le loro lotte hanno spinto alle riforme del ‘74 e ‘75. Ma erano proteste che avvenivano sia dentro che fuori il mondo penitenziario.

 

Vuol dire che esisteva più solidarietà fuori dal carcere?

Sì, ma ora non più. Abbiamo visto durante il Giubileo che la parte della società che più ci sostiene è la Chiesa. Come ha fatto il Papa di fronte al Parlamento, reclamando un indulto generale. Il Parlamento ha applaudito, ma poi ha fatto altrimenti, approvando l’indultino che non è servito assolutamente a niente. Come si dice: passata la festa, gabbato il santo. Forse trent’anni fa questa solidarietà sarebbe venuta dai movimenti politici, dai giovani, dalle forze di opposizione.

 

La politica ufficiale come si comporta?

La politica ha difficoltà a recepire le nostre richieste. Se non costretta dall’ingovernabilità della situazione penitenziaria, non interviene. È una pessima pubblicità occuparsi dei problemi di chi ha violato la legge. Fa perdere voti. Per esempio esistono leggi che concedono sgravi fiscali a chi assume detenuti, parliamo di quasi 600 euro, ma gli imprenditori non le conoscono e nessuno è interessato ad investire perché queste leggi vengano pubblicizzate alle associazioni di categoria.

 

In Italia c’è gente che riesce a guadagnare sul carcere?

Ci sono continui lavori edilizi, ristrutturazioni, che, nella maggior parte dei casi, non servono a niente. Un cantiere perenne che brucia fondi e non influisce sulla qualità della vita dei detenuti. Avremmo bisogno di investimenti sul trattamento più che sulla mura. Per esempio gli stipendi dei detenuti lavoranti, parliamo di circa 11mila persone, che si occupano delle cucine, delle pulizie etc., sono fermi al ‘93. C’è stato anche un pronunciamento della Cassazione che l’ha denunciato.

 

Quando è nata Papillon?

Papillon è nata otto fa. Abbiamo organizzato iniziative culturali, letterarie, musicali, per far conoscere ciò che è il carcere all’esterno e per far circolare la cultura nelle prigioni. Vogliamo dare una possibilità in più ai detenuti di riflettere sul loro passato, così che possano progettare il loro futuro. Oggi c’è una sorta di feticismo del denaro che se non viene combattuto è devastante per la società. Vivo in una borgata e vedo mio padre alzarsi alle 6 per andare a faticare in cantiere, mentre io, trafficando, posso in una settimana mettere insieme ciò che lui guadagna in un mese. Disarmato culturalmente ho difficoltà a progettarmi diversamente.

Roma: il vino dei detenuti di Velletri è andato "a ruba"…

 

Vita, 8 novembre 2004

 

Se non fosse irriverente si potrebbe dire che il vino prodotto dai detenuti del carcere di Velletri è andato letteralmente "a ruba". Eppure, quale che sia la forma usata, la realtà è proprio questa. L’intera produzione di novello 2004, oltre cinquemila bottiglie di vino chiamato "Fuggiasco", è già stata venduta: duemila bottiglie nel circuito carcerario, le altre tremila sono finite sugli scaffali di negozi e supermercati italiani ed esteri. È la prima volta in Italia che un vino prodotto da detenuti viene immesso sul mercato esterno. La produzione 2004 del Novello è stata presentata nella casa circondariale di Velletri con una cerimonia cui hanno presenziato anche l’assessore provinciale al Lavoro Gloria Malaspina e l’ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso.

Il carcere di Velletri è una struttura che ospita 350 detenuti dove, circa 6 anni fa, venne avviato l’esperimento di realizzare una sorta di orto. Da quella esperienza è nata un’azienda agricola di circa 6 ettari, una cantina da 50mila bottiglie per la produzione del vino con sistemi di vinificazione d’alta qualità, un frantoio che ha prodotto 1.500 litri d’olio e un laboratorio per la produzione di confetture e succhi di frutta in grado di lavorare fino a 100 chili di prodotto l’ora. All’interno dell’azienda agricola un apiario con oltre 30 arnie, oltre 600 piante da frutto, 400 olivi, 100 viti per uva da tavola e tre ettati di vigneti per produzioni di qualità di uve bianche (Trebbiano e Toscano e Lavasia di Candia) e rosse (Merlot, Sangiovese e Cabernet).

Il sistema è gestito dalla cooperativa vinicola onlus "Lazzaria", creata nel luglio 2003 con un duplice scopo: consentire la commercializzazione dei prodotti all’ esterno del circuito carcerario e sfruttare i benefici della legge Smuraglia (che riconosce agevolazioni fiscali per chi assume detenuti) per creare opportunità di lavoro fra i detenuti.

Attualmente nell’attività agricola (che secondo il tecnico agrario Rodolfo Craia sfrutta solo il 50% delle potenzialità)sono impiegati 15 detenuti addetti alla commercializzazione del vino e alla gestione della cantina, del frantoio e delle coltivazioni. L’amministrazione, da parte propria, contribuisce con il personale di polizia penitenziaria e attraverso la concessione in comodato d’uso di ambienti produttivi e terreni coltivati.

"L’attività della cooperativa Lazzaria non finisce con il novello - ha detto il presidente della coop Stefano Lenci - a dicembre arriverà sul mercato anche il bianco Chardonnay". "Stiamo facendo sforzi per aumentare la produzione creando maggiori opportunità di lavoro - ha detto il direttore del carcere Giuseppe Makovec -.

E speriamo di poter presto organizzare veri e proprio corsi professionali". E intanto, sfruttando l’esperienza positiva della cooperativa "Lazzaria", nel carcere è nata un’altra coop. la "Sfera Service", che si occupa della cura del verde pubblico di Velletri attraverso due detenuti autorizzati dalla direzione al lavoro esterno.

Milano: colorare San Vittore con murales e graffiti…

 

Redattore Sociale, 8 novembre 2004

 

Una provocazione: e se il muro di San Vittore fosse colorato da murales e graffiti? Avrebbe un bell’effetto. Virtualmente ci ha provato l’architetto Giovanna Franco Repellini, esperta di ristrutturazione di spazi urbani, in passato anche direttrice del Settore arredo urbano del Comune di Milano. "È una piccola testimonianza di come la città potrebbe essere anche con pochi semplici interventi", dice lei che, proprio attraverso la grafica ha inventato la rubrica "Inventa città", ospite del sito Chiamamilano.it. "Un modo di ridisegnare e colorare gli spazi urbani: da via Montenapoleone alla Stazione Centrale", spiega l’architetto.

L’ultima provocazione invece riguarda il carcere e fonde due temi di grande attualità milanese: i graffiti e lo storico penitenziario milanese. I primi (nella forma di imbrattamento di muri cittadini) oggetto di una campagna specifica del Comune; il secondo di un dibattito e dell’intenzione dichiarata dell’attuale amministrazione comunale di demolire San Vittore, costruire un carcere fuori città, e realizzare sull’area dove sorge attualmente il penitenziario parchi e grattacieli.

"Naturalmente si tratta di un gioco, ma l’effetto visivo della grafica offre spunti interessanti - dice Giovanna Repellini -. Ogni mattina passo davanti al carcere e quelle sue mura grigie mi fanno un immensa tristezza. Così mi è venuta l’idea di provare a colorarlo. Ha tutto un altro effetto e chissà potrebbe essere un modo per mantenerlo nel cuore della città, ma con un altro spirito". L’architetto lancia la sfida a grafici, curiosi e fantasiosi: "Chi ha voglia provi a colorare le mura di San Vittore. Non a caso la terza foto presenta un muro completamente bianco". Non solo. "Mi piacerebbe avviare un corso di grafica tra i detenuti, in cui magari partire proprio da idee e disegni su come si potrebbe colorare il muro perimetrale del carcere", dice l’architetto.

 

 

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