Rassegna stampa 20 novembre

 

Napoli: detenuto muore a Secondigliano, sospetta overdose

 

Il Mattino, 20 novembre 2004

 

Morte nel carcere di Secondigliano per un giovane di Giugliano. Inquietante il sospetto degli inquirenti: forse una overdose. Ma solo l’autopsia e l’esame tossicologico, disposti dal pm, potranno stabilire le cause esatte del decesso. Grave anche il compagno di cella di Francesco Pirozzi, 31 anni, precedenti per reati contro il patrimonio e spaccio di stupefacenti, da tre anni detenuto a Secondigliano. Il riserbo intorno a questa vicenda è massimo.

Ma a Giugliano, dopo che sono state eseguite le perquisizioni in casa della moglie di Pirozzi, si è diffusa la notizia che la donna sarebbe indagata per l’ipotesi di reato di cessione di stupefacenti e omicidio. Notizia che però non trova ancora conferma. La famiglia, che ha nominato un proprio perito, smentisce con forza "ogni coinvolgimento della moglie nel presunto ingresso della droga nel carcere". "È un’ipotesi assurda e priva di ogni fondamento - afferma l’avvocato Umberto Perga, legale di fiducia della famiglia -.

Siamo fiduciosi nel lavoro della magistratura e certi che sarà chiarita la totale estraneità ai fatti della signora Pirozzi". Pirozzi è morto nella notte tra mercoledì e giovedì. La donna è sospettata perché entrata a Secondigliano mercoledì mattina, dunque, poche ore prima della tragedia. I coniugi si erano intrattenuti a lungo, avevano anche consumato una torta - preparata da Pirozzi nel carcere - per festeggiare l’anniversario di matrimonio. In nottata, poco prima delle tre, l’allarme. Immediati i soccorsi, che però non sono valsi a salvare il 31enne.

Più fortunato il compagno di cella, trasportato d’urgenza in ospedale, dove è stato sottoposto a terapia intensiva: è fuori pericolo, anche se le sue condizioni restano gravi. La polizia penitenziaria ha immediatamente disposto una serie di controlli. Perquisita la cella occupata dai due. Tra gli effetti personali di Pirozzi, gli agenti hanno trovato una lettera indirizzata alla moglie, con la quale l’invitava a verificare "dove hai messo gli 11 spinelli" e se "sono caduti in macchina".

A seguito del rinvenimento della lettera, il pm che coordina l’indagine, il dottor Guerriero, ha disposto alcune perquisizioni domiciliari, eseguite dai carabinieri della compagnia di Giugliano, coordinati dal capitano Gianluca Trombetti. I militari hanno perquisito le abitazioni del Pirozzi e della madre di quest’ultimo, cercando tracce degli "spinelli" cui si faceva riferimento nella lettera e dell’eroina che gli investigatori sospettano possa essere entrata in carcere grazie alla donna. Sull’esito delle perquisizioni c’è il più stretto riserbo.

Sembrerebbe, però, che abbiano avuto esito negativo. Non vi sarebbe traccia di stupefacenti in nessuna delle due abitazioni e neppure nell’auto della donna. I militari - stando ad alcune indiscrezioni - avrebbero però sequestrato una borsa all’interno contenente un migliaio di francobolli, che la moglie di Pirozzi avrebbe ammesso esserle stati consegnati dal marito.

 

Soltanto l’autopsia potrà chiarire il mistero

 

La risposta ai perché della morte di un detenuto sano e giovane, deceduto in circostanze che la magistratura sta tentando di chiarire, si conosceranno tra un paio di settimane. Ieri pomeriggio, presso l’obitorio, è stata eseguita l’autopsia sul corpo senza vita di Francesco Pirozzi di Giugliano. L’esame necroscopico, effettuato dal medico legale Antonio D’Ettorre (consulente nominato dalla magistratura inquirente) si è protratto per circa due ore. Ha assistito anche un perito settore di parte. Poi la salma è stata restituita alla famiglia per i funerali.

Il dottor D’Ettorre ha effettuato sia prelievi istologici che biologici. Da essi, dopo gli esami di laboratorio del caso - primo tra tutti, ovviamente, quello tossicologico - si attende la risposta anche alla domanda più inquietante, ovvero se il detenuto sia morto per assunzione di sostanze stupefacenti. Ipotesi avanzata dai congiunti del detenuto di Giugliano. Sul decesso lavora la Procura della Repubblica di Napoli. Il sostituto procuratore Antonio Guerriero è stato incaricato di coordinare le indagini affidate alla polizia penitenziaria. Il magistrato inquirente, che ha disposto anche perquisizioni nella cella che il detenuto condivideva con un altro recluso (che pure, la notte tra mercoledì e giovedì scorso, è stato colto da malore) e presso l’abitazione dove vive la famiglia del Pirozzi, a Giugliano.

Come detto, all’esame necroscopico (che è un intervento unico e irripetibile) eseguito presso l’obitorio dell’ipogeo di Poggioreale, ha assistito anche un medico legale di parte. La salma del giovane, dopo l’autopsia è stata trasferita nella cappella dell’obitorio. Forse oggi verranno celebrati i funerali. Tra non meno di tre settimane - tanto tempo occorre per avere i risultati degli esami tossicologici - si conosceranno, dunque, le cause precise del decesso di Francesco Pirozzi, detenuto trentenne, morto in cella per cause al momento misteriose.

Napoli: violenza giovanile, come a Nizza, Monaco o Londra

 

Il Mattino, 20 novembre 2004

 

Napoli come Nizza, Monaco o Londra. Ovvero una delle capitali della delinquenza minorile. "La violenza giovanile urbana: il caso Napoli e le principali esperienze europee" è l’ultima ricerca dell’Eurispes, condotta insieme a Telefono Azzurro. E ne escono dati inquietanti e sconfortanti. Basta dare uno sguardo alla premessa della ricerca: la camorra si sta intrecciando con forme estreme di microcriminalità urbana, criminalità comune, fenomeni di violenza e devianza giovanile. L’Eurispes anzi parla di gangsterismo urbano da parte dei giovani in aree come il centro storico, il Vomero, piazza Sannazaro. O di vandalismo in scuole e strutture pubbliche alla Vicaria e a Napoli Est. Atti e misfatti a cui non sfuggono neanche i giovani "per bene", i figli della borghesia.

Questi sono investiti dal "disagio dell’agio" e, "per noia o per un malinteso senso di appartenenza al gruppo, diventano sempre più spesso protagonisti di serate violente, in una sorta di "Arancia meccanica" partenopea". Un quadro dunque a tinte fosche, del resto corroborato da cifre e dati. Ad esempio, se in Italia i minorenni ospitati in Centri di prima accoglienza o in carcere sono per il 56,5% stranieri, a Napoli la situazione si ribalta radicalmente: per 43 stranieri ospitati al Cpa di Napoli ci sono 226 napoletani; e per 87 stranieri rinchiusi nei carceri minorili di Napoli e Airola, i napoletani sono 144. Sono 2308 i minorenni denunciati, per un totale di 2919 reati: una fetta importante del panorama nazionale, visto che rappresenta poco più del 5,5%.

Oltre alle statistiche, da parte di Eurispes ci sono anche i sondaggi. Su un campione di 2000 napoletani, il 67,9% ritiene molto o abbastanza diffusa tra i giovani l’abitudine di girare armati di coltello (percentuale del 78% tra gli intervistati di età compresa tra i 18 e i 29 anni); il 70,5% afferma di sentirso poco o per niente sicuro a uscire da solo nel quartiere in cui vive quando è buio, mentre il 26,9% lo pensa addirittura di giorno. Sentimenti di insicurezza e paura, secondo l’"Istituto di studi politici, economici e sociali di via Arenula, "che riflettono il clima di diffusa microcriminalità e delinquenza con cui la cittadinanza è costretta a confrontarsi.

Una quota significativa di intervistati è rimasta vittima di scippo o borseggio (12,2%) negli ultimi due anni, l’8,5% ha subito il furto dell’automobile o del motorino, il 3,6% è stato vittima di furto in casa, l’1,9% di aggressione e l’1,7% di estorsioni di denaro". Colpa di chi? Secondo il 44,8% di una mancanza di educazione in famiglia, per il 19,7% della disoccupazione, del 16% dei modelli sociali che spingono al facile guadagno e solo per il 5,8% della evasione o dispersione scolastica.

Un caso Napoli di cui è conscio lo stesso sindaco Iervolino, che proprio ieri ha siglato un accordo con il prefetto Profili e l’assessore alla Sicurezza della Regione Campania, Maria Fortuna Incostante, per un progetto pilota destinato ai minori a rischio e finanziato nell’ambito del Pon (Progetto operativo nazionale) Sicurezza.

"Questo dell’accrescersi della violenza giovanile è un fatto che preoccupa molto anche me. Ricorderete la battaglia che con il prefetto abbiamo fatto contro i coltelli? - ha detto la Iervolino spiegando l’impegno delle istituzioni - Non era una questione né di repressione del commercio e non era nemmeno una questione di repressione della libera volontà dei giovani. Era motivata dalla paura che certe cose, incentivate anche dalla pubblicità televisiva potessero diventare moda e potesse diventare moda il fatto di avere in tasca un coltello". E per il prefetto Profili "dobbiamo soprattutto formare i giovani, il progetto approvato va in questa direzione".

Verona: incontri su sclerosi multipla e problemi del carcere

 

L’Arena di Verona, 20 novembre 2004

 

"Le malattie invalidanti: la sclerosi multipla. Conoscerla per combatterla" è il titolo del convegno organizzato per oggi alle 14,30 all’auditorium dall’Associazione nazionale mutilati ed invalidi civili (Anmic) e dall’Associazione italiana sclerosi multipla (Aism).

Per discutere di una malattia che colpisce un italiano ogni 1100 e della quale non si conoscono purtropo ancora cause e terapia, sono stati chiamati tra gli altri il presidente provinciale Anmic Mirco Croce, il presidente Aism di Verona Anna Maria Morbidi e il deputato europeo Antonio De Poli. La parte più squisitamente sanitaria sarà affrontata da Luciano Deotto, neurologo, Ferdinando Ambrosi, fisiatra e geriatra, da Barbara Neerman, pricologa, e da Michele Benamati, direttore dei servizi sociali della Ulss 22. Garantita anche la presenza del sindaco Luciano Zanolli, dell’assessore Dario Cordioli e del responsabile Anmic di Villafranca Renzo Faccioli.

Sensibilizzare i cittadini sui problemi di chi sta in carcere ed agevolarne il reinserimento nel tessuto sociale è invece l’obiettivo della Giornata della fraternità e della solidarietà programmata per domani nei locali della parrocchia di San Pietro e Paolo.

L’appuntamento, organizzato dall’associazione "La Fraternità" di Verona, prevede tra l’altro l’allestimento di un gazebo, con relativi banchetti, destinato ad ospitare i dipinti ed i lavori di artigianato di detenuti e detenute del carcere di Montorio, a Verona. Il ricavato della vendita delle opere, al via dalle 9 del mattino, andrà agli stessi detenuti.

Alle 10 seguirà la messa celebrata dal parroco, don Dario, il quale affiderà però l’omelia a fra Beppe Prioli, da quarant’anni vicino alla popolazione carceraria, attento alle loro esigenze, impegnato nel risolvere anche i loro problemi più banali. Fra Beppe parlerà di carcere e giustizia, e sarà affiancato da un detenuto, presente per offrire ai presenti una testimonianza diretta. Alle 13 chiunque potrà poi pranzare coi detenuti nel ristorante Maurina di via Messedaglia al costo di 16 euro. Chi volesse prenotarsi o avere ulteriori informazioni può telefonare ai numeri 347.4115048 o 340.5377528.

Del Bono: (Margherita): intervenire su sicurezza e carcere

 

Giornale di Brescia, 20 novembre 2004

 

La Margherita torna sul tema della sicurezza e si affida alle parole dell’on. Emilio Del Bono per chiarire le iniziative future: "Il territorio sta attraversando un momento allarmante ma, prima di soffermarmi sull’argomento, vorrei precisare come la sicurezza non sia esclusivo appalto della destra. Ma, anzi, si ponga come tema centrale del nostro impegno politico". Scarso presidio sul territorio, reati in aumento, ma anche bilanci sempre più in rosso ed un clima di paura generale "causato da uno spregiudicato uso dei media da parte della maggioranza".

Queste le emergenze principali da risolvere ricorrendo ad "iniziative che non si limitino a critiche sterili ma compiano significativi passi in avanti a livello di proposte e di soluzioni praticabili". In particolare, all’interno di un ipotetico "pacchetto bresciano sicurezza", Del Bono ha individuato quattro principali disfunzioni: due riguardano l’organico della magistratura, "rimasta ai tempi dell’unità d’Italia come numero di effettivi, nonostante Brescia sia sede di Corte d’appello", e della Polizia di Stato, "sottodimensionata come numero di agenti, specie su settori delicati quali la vigilanza sulle Poste e sulle strade". Le altre due vittime delle bacchettate della Margherita sono due veri e propri totem di questa "malasicurezza", ovvero "il Palagiustizia ed il carcere di Canton Mombello". "Sulla casa circondariale basti dire che è stata individuata come peggior carcere della penisola.

A proposito del Palagiustizia ci accontenteremmo invece di sapere quando potrà diventare operativo". Stesso tono per le considerazioni dell’on. Maurizio Fistarol, responsabile nazionale della Margherita per la sicurezza e la legalità. "I dati rivelano un trend criminoso in aumento, a dimostrazione di come le contromisure individuate dal governo di centrodestra per arginare il dilagare della criminalità non abbiano minimamente inciso sul numero di reati commessi". I rappresentanti dell’opposizione temono che il colpo di grazia lo darà la Finanziaria: "I tagli di spesa previsti in certi casi sfiorano il parossismo. Si parla di un -73% per i mezzi operativi di pubblica sicurezza (attrezzature investigative, manutenzione delle caserme ndr), che diventa -22,23% per i Carabinieri e -68% per l’Aeronautica militare. Non vediamo il nesso tra una miglioria della sicurezza nazionale ed il ricorso ad una politica di tagli così invasiva". In risposta alle "tanto sbandierate soluzioni miracolistiche della destra" la Margherita propone "una visione più ampia in cui, ad un maggior investimento a sostegno dei tutori dell’ordine, si affianchi un intervento sulle città mirato a creare un clima che possa contrastare fenomeni criminali". "Prima però di puntare il dito - ha precisato il segretario provinciale Gianni Girelli - è doveroso stabilire a chi tocca fare cosa. I Comuni non devono diventare il capro espiatorio per questioni che devono fare capo allo Stato".

Perugia: Caritas, la solidarietà va oltre le sbarre

 

Il Messaggero, 20 novembre 2004

 

Si aprono i cancelli del super carcere di Capanne per un appuntamento di sensibilizzazione, promosso dalla Caritas diocesana. "Guardare oltre le mura" è il titolo dell’incontro di ieri che è inserito all’interno di un programma diocesano il cui slogan è "Le 7 opere di Misericordia". Quando gli spazi di libertà individuali si ristringono, quelli del pensiero, dunque della solidarietà umana si allargano. E’ questo, in sintesi, il senso di questa iniziativa.

Più di duecento persone hanno voluto parteciparvi: "Una vera sorpresa – ha commentato Tiziana Quintarelli, direttrice della Casa circondariale – per noi organizzatori che non ci aspettavamo una così sentita partecipazione". Lo ribadisce anche Monsignor Giuseppe Chiaretti, Vescovo di Perugia: "Questa presenza è il segno di una sensibilità cittadina che dobbiamo essere in grado di intercettare e valorizzare, stimolando il protagonismo di tutti".

La nuova casa penitenziaria "che aprirà fra qualche mese – lo ribadisce Quintarelli – ha un’estensione di 40 ettari, 20 dei quali sono stati già occupati dalle strutture presenti". I restanti 20 ettari di terreno sono stati affidati alla Facoltà di Agraria che insieme alle istituzioni carcerarie elaborerà la destinazione d’uso. Ospiterà 320 detenuti e 75 detenute che – secondo quanto anticipato dalla direttrice – "saranno impegnati in attività agricole i cui prodotti verranno immessi nel mercato".

Droghe: don Luigi Ciotti "questa è la legge peggiore"

 

Liberazione, 20 novembre 2004

 

La storia è quella, antica, delle droghe e dei tentativi delle società e delle autorità, di volta in volta, di combatterle, di conviverci, di distinguerle contrastandone alcune e accettandone altre.

Venendo a tempi e problematiche più recenti, la storia è quella della legge sugli stupefacenti attualmente in vigore che l’attuale decreto legge Fini vorrebbe sostituire. È datata 1990, l’anno in cui per la prima volta, il numero delle morti per overdose superò le mille unità, arrivando a 1161.

A distanza di tre decenni il conto è diventato impressionante: da allora ad oggi sono migliaia le persone che risultano decedute per overdose.

La legge del 1990 conteneva alcuni aspetti positivi, quali il rafforzamento delle politiche e delle strutture per la prevenzione e un più deciso contrasto al "narcotraffico" (almeno negli intenti). Alcune parti furono invece più controverse: quelle incentrate sulla strategia della punibilità del tossicodipendente e sotto il profilo tecnico, sulla cosiddetta "dose media giornaliera" vale a dire la quantità di sostanza, definita rigidamente dalla legge, oltre la quale il suo possesso veniva giuridicamente qualificato come spaccio, comportando dunque l’arresto.

Tale scelta lacerò sia il mondo politico, sia quello degli operatori, delle comunità, della società civile. Una parte consistente di quest’ultima si riunì in un cartello dal nome significativo, "Educare, non punire", che criticava la strategia punitiva in quanto ideologica, ingiusta e controproducente, definendola una "illusione repressiva".

Da subito, infatti, vi fu una impennata del numero dei detenuti e giovani appena arrestati per piccole quantità di droghe che si suicidarono in cella. Così già nell’agosto del 1991 venne varato il "Decreto Martelli" teso a mitigare la durezza e la rigidità della legge appena istituita e che rendeva non più obbligatorio l’arresto nel caso di possesso di una quantità di droga eccedente la dose media giornaliera.

Due anni dopo, il 18 aprile del 1993, si tenne un referendum: la maggioranza dei cittadini votò per l’abrogazione delle parti maggiormente punitive della legge, compresa la "dose media giornaliera"

Da allora la situazione si è evoluta con fasi diverse, spesso contraddittorie. Sono subentrati altri fattori e altre sostanze (basti pensare alle nuove droghe e alle nuove forme di dipendenza), le attività dei servizi pubblici e delle comunità terapeutiche si sono affinate e diversificate.

La situazione penitenziaria è, però, rimasta grave, ed è in continuo peggioramento; il numero delle persone detenute con problemi di dipendenza intollerabile (oltre 15mila); alcuni risultati positivi si sono raggiunti sul piano della prevenzione dell’Aids, della maggiore informazione, della riduzione delle morti, dell’offerta di più ampie opportunità di percorsi educativi e di reinserimento sociale. Ciò è stato possibile perché ci sono stati meno pronunciamenti ideologici, e pur con differenti metodologie, impostazioni e riferimenti, con più operatività sul campo, o meglio sulla strada.

Ora il clima è cambiato e l’impostazione e la filosofia che vi è nel decreto legge Fini si pone in contrasto con un serio approccio educativo al problema, e, se applicata, questa legge avrà come risultato quello di aumentare pericolosamente la presenza in carcere di persone tossicodipendenti e porterà alla criminalizzazione di vasti strati della popolazione, soprattutto giovanile. Ci si illude, colpendo l’ultimo anello, il più esposto e fragile della catena del narcotraffico, di contenere il fenomeno con il deterrente della punibilità. A partire da una legge più severa si prefigurano percorsi virtuosi di prevenzione e di recupero già smentiti dall’esperienza italiana prima del ‘75 e da altre esperienze in Europa.

Una Europa che si sta invece orientando verso la politica dei quattro pilastri: lotta al narcotraffico, prevenzione, cura, riduzione del danno. Paesi europei, anche a maggioranza di centro destra, stanno sperimentando "narcosalas" e test sulla composizione delle varie sostanze stupefacenti, soprattutto quelle sintetiche, per attivare un sistema di allarme rapido e consentire al pronto soccorso degli ospedali la conoscenza dei "veleni" su cui poter intervenire. In Italia non solo niente di tutto questo, ma il tentativo di cancellare gli interventi che mirano a salvaguardare la vita e il mantenimento della salute (distribuzione di siringhe sterili in cambio di sporche, unità di strada, fornitura di narcan) alle stesse persone tossicodipendenti verrebbe garantito solo attraverso l’imputabilità e il carcere.

Invece di percorrere la strada dal penale al sociale, si pratica quella inversa: dal sociale al penale.

Il primo aspetto negativo di questo disegno di legge è quello che alcuni hanno definito la "visione farmaceutica del diritto" e cioè l’introduzione della dose massima giornaliera, al di sopra della quale, chi la possiede, viene automaticamente considerato uno spacciatore. Quindi carcere da scontare con pene molto severe, tra le più lunghe d’Europa.

È molto grave che si tolga al giudice la possibilità di valutare caso per caso se la detenzione della sostanza significhi consumo o spaccio.

Un altro aspetto negativo è l’unificazione in un’unica tabella di tutte le droghe, equiparando per pericolosità la cannabis, alla cocaina e all’eroina; dietro l’intenzione di punire il consumo di cannabis c’è l’idea, stereotipata e smentita dalla realtà, che ogni ragazzo che si fa uno spinello sia destinato a diventare un tossicodipendente da eroina.

Con questa equiparazione e con l’irrisoria quantità minima consentita, soprattutto nel caso dei cannabinoidi, si collocherebbe la maggior parte dei consumatori, anche occasionali, nell’area del reato di spaccio per il quale la legislazione italiana prevede già ora pesanti pene.

Il consumo viene comunque punito con pesanti sanzioni amministrative revocabili solo se l’interessato si sottopone a programma terapeutico, di cui si è certificato il buon andamento.

La riduzione del danno è totalmente assente nel testo di legge ed il trattamento metadonico viene assurdamente limitato per legge togliendo al medico la proprietà di poter agire secondo scienza e coscienza

Ancora più grave risulta l’assetto dei servizi che derivano da questo predispositivo: non si limita solo a mettere in competizione servizi pubblici e privato sociale, ma a creare soggetti privati con poteri e funzioni pari a quelli pubblici.

L’impostazione complessiva che ne risulta non risente solo di autoritarismo, ma ciò che più inquieta è che si ostina a non tener conto delle sempre più marcate evidenze scientifiche a sostegno dell’integrazione di interventi diversi.

Il proibizionismo così inteso non dà alcuna garanzia di arginare il fenomeno, ma porta alla criminalizzazione di comportamenti presenti in tutti gli strati della popolazione, in particolare fra i giovani, oltre che incrementare i guadagni della criminalità organizzata.

Bisognerebbe invece avere il coraggio di depenalizzare completamente il consumo, estendere gli interventi di riduzione del danno, anche nelle carceri e strapparli da una logica di precarietà e provvisorietà. Mai come ora è necessario affermare "Educare e non punire".

 

Napoli: all’università parte un master in criminologia

 

Il Denaro, 20 novembre 2004

 

Si svolge oggi, alle ore 16.30, presso la Presidenza della Facoltà di Medicina della II Università di Napoli in via Costantinopoli, 104 la cerimonia inaugurale del master di secondo livello in scienze socio-penitenziarie e criminologiche. La cerimonia inaugurale prevede i saluti di Antonio Grella Rettore II Università di Napoli, Raffaele Numerico I Presidente Corte di Appello, Francesco Rossi Preside Facoltà di Medicina, Vittorio Salemme Commissario Asl Napoli I.

I lavori saranno introdotti dal direttore del Master Goffredo Sciaudone mentre Emilio Di Somma vice capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria svolgerà la prima lezione sul tema "Umanizzazione della pena e diritti dei detenuti".

Latina: nuovo carcere, riunione con consulente del ministero

 

Il Messaggero, 20 novembre 2004

 

Il sindaco di Latina ci tiene a sottolinearlo: lui del carcere si è occupato fin dal primo giorno del suo mandato. E solleva "le prove": gli articoli dei quotidiani locali. Ed è così, fin da subito ha detto che il carcere di via Aspromonte andava "rottamato", portato via dal centro della città, e fin da subito lo ha inserito nei progetti di finanza. Ieri insieme al consulente del ministro di Giustizia Castelli, il dottor Giuseppe Magni, hanno fatto un sopralluogo, ma non al carcere, nella zona che secondo l’amministrazione comunale dovrebbe essere la più idonea ad accogliere la nuova struttura. "Il problema - dice Zaccheo - è rientrare tra le priorità stabilite dalla commissione paritetica interministeriale, l’incontro di oggi va in questa direzione. La collocazione? Sarà un’area adibita a servizi, con infrastrutture e collegamenti sullo stesso asse viario di collegamento della Cittadella giudiziaria e nella stessa direttrice della metropolitana di superficie".

Il dottor Magni ha sottolineato che rispetto all’attuale carcere, quello nuovo avrà dimensioni molto maggiori: "Perché - dice - per il recupero e il reinserimento dei detenuti è necessario avere spazi per attività scolastiche e lavorative". Quando si riunirà il comitato paritetico formato ministero di Giustizia e ministero della Infrastrutture? "A gennaio o fine febbraio, credo ci siano elementi per cui dovrebbe essere inserita anche Latina tra le priorità. Priorità che poi devono necessariamente fare i conti con la disponibilità di risorse che è sempre esigua rispetto alle necessità".

Alla riunione con il sindaco e il consulente del Ministero erano presenti il prefetto Salvatore La Rosa, il presidente del Tribunale Bruno Raponi, il Procuratore capo della Repubblica Giuseppe Mancini, il direttore del carcere Piccari e l’assessore all’Urbanistica Massimo Rosolini.

"È una decisione condivisa - sottolinea il sindaco - c’è la volontà univoca di rottamare il carcere, un intervento che peraltro abbiamo già inserito nel Piano triennale delle Opere pubbliche del Comune, perché crediamo sia fondamentale, anche per la sicurezza, non dimentichiamo il recente black out".

Sassari: processo, botte e umiliazioni a San Sebastiano

 

L’Unione Sarda, 20 novembre 2004

 

I nomi e i volti dei giustizieri non li ricordano tutti. Ma le botte, la sofferenza e le umiliazioni subite quel pomeriggio di orrore del 3 aprile 2000, nel carcere di San Sebastiano, i detenuti non le dimenticheranno facilmente. E le raccontano fra mille difficoltà davanti al giudice Massimo Zaniboni, nel processo in corso al tribunale di Sassari contro gli ultimi nove imputati del maxi pestaggio ai detenuti.

A giudizio sono gli agenti di polizia penitenziaria Mario Loriga, Mario Casu, Pietro Casu, Paolo Lai, Alessio Lupinu, Pietro Mura, Antonio Muzzolu, Giuseppe Renda, Renato Sardu. Sono gli imputati che hanno scelto di non ricorrere al rito abbreviato ma il dibattimento in aula. Gli atri sono stati giudicati nel febbraio 2003 con il rito abbreviato, chiuso con tre condanne eccellenti: quattro anni di carcere erano stati inflitti al provveditore regionale Giuseppe Della Vecchia, al direttore Cristina Di Marzio, e al capo delle guardie Ettore Tomassi.

Altri nove agenti erano stati condannati con pene dai 100 euro di multa a un anno di reclusione, mentre per il medico del carcere la condanna era stata a quattro mesi. Settanta gli agenti assolti. Nell’udienza di ieri hanno continuato a deporre i testimoni, e vittime, di quella che doveva essere una vera e propria spedizione punitiva contro i detenuti considerati un po’ troppo turbolenti. Carcerati che comunque, anche ieri, hanno dichiarato di non avere avuto mai particolari problemi con le guardie prima di quel giorno. Tre i testi sentiti ieri dal collegio dei giudici, tre nuove deposizioni nettamente a favore dell’accusa, sostenuta dal pm Gianni Caria.

Nei racconti di tre delle vittime del pestaggio, infatti, affiorano i nomi di alcuni degli imputati. Oltre alla conferma delle testimonianze precedenti, che descrivevano nei particolari i pugni, i calci, le manganellate e le pesanti minacce ricevute. I nomi riecheggiati nell’aula del tribunale sono quelli degli agenti Mario Casu, Pietro Casu, Giuseppe Renda e Renato Sardu.

Aguzzini con la divisa da buono, pronti a picchiare senza pietà. Come il capo delle guardie Ettore Tomassi, che nei racconti di uno dei testi ha il volto del boia: "Dopo essere stato pestato non riuscivo a togliermi il piercing dalla narice", ricorda, "si è offerto di toglierlo lui, e mi ha sferrato due pugni sul naso".

I nomi e i volti dei giustizieri non li ricordano tutti. Ma le botte, la sofferenza e le umiliazioni subite quel pomeriggio di orrore del 3 aprile 2000, nel carcere di San Sebastiano, i detenuti non le dimenticheranno facilmente. E le raccontano fra mille difficoltà davanti al giudice Massimo Zaniboni, nel processo in corso al tribunale di Sassari contro gli ultimi nove imputati del maxi pestaggio ai detenuti.

A giudizio sono gli agenti di polizia penitenziaria Mario Loriga, Mario Casu, Pietro Casu, Paolo Lai, Alessio Lupinu, Pietro Mura, Antonio Muzzolu, Giuseppe Renda, Renato Sardu. Sono gli imputati che hanno scelto di non ricorrere al rito abbreviato ma il dibattimento in aula. Gli atri sono stati giudicati nel febbraio 2003 con il rito abbreviato, chiuso con tre condanne eccellenti: quattro anni di carcere erano stati inflitti al provveditore regionale Giuseppe Della Vecchia, al direttore Cristina Di Marzio, e al capo delle guardie Ettore Tomassi.

Altri nove agenti erano stati condannati con pene dai 100 euro di multa a un anno di reclusione, mentre per il medico del carcere la condanna era stata a quattro mesi. Settanta gli agenti assolti. Nell’udienza di ieri hanno continuato a deporre i testimoni, e vittime, di quella che doveva essere una vera e propria spedizione punitiva contro i detenuti considerati un po’ troppo turbolenti. Carcerati che comunque, anche ieri, hanno dichiarato di non avere avuto mai particolari problemi con le guardie prima di quel giorno. Tre i testi sentiti ieri dal collegio dei giudici, tre nuove deposizioni nettamente a favore dell’accusa, sostenuta dal pm Gianni Caria.

Nei racconti di tre delle vittime del pestaggio, infatti, affiorano i nomi di alcuni degli imputati. Oltre alla conferma delle testimonianze precedenti, che descrivevano nei particolari i pugni, i calci, le manganellate e le pesanti minacce ricevute.

I nomi riecheggiati nell’aula del tribunale sono quelli degli agenti Mario Casu, Pietro Casu, Giuseppe Renda e Renato Sardu. Aguzzini con la divisa da buono, pronti a picchiare senza pietà. Come il capo delle guardie Ettore Tomassi, che nei racconti di uno dei testi ha il volto del boia: "Dopo essere stato pestato non riuscivo a togliermi il piercing dalla narice", ricorda, "si è offerto di toglierlo lui, e mi ha sferrato due pugni sul naso".

Carcere per i giornalisti che divulgano segreti militari

 

Centomovimenti, 20 novembre 2004

 

Carcere duro, fino a venti anni, per i giornalisti che divulgheranno "segreti militari". Lo ha deciso l’aula di Palazzo Madama, che con i voti della Casa delle Libertà ha approvato una modifica al codice penale militare.

Una decisione, quella del centrodestra, che ha messo in allarme le opposizioni e i sindacati dei giornalisti. "È una scelta molto inopportuna sotto diversi aspetti - ha spiegato il senatore diessino Elvio Fassone - che rischia di avere conseguenze gravi anche nel campo della libertà dell’informazione".

Letteralmente infuriato il segretario della Federazione Nazionale della Stampa Paolo Serventi Longhi, secondo il quale "il contenuto della legge è incredibile e assurdo".

"La legge prevede l’estensione alle missioni di pace, a cominciare da quella in Iraq, delle gravissime sanzioni previste in caso di guerra per chi si procura e diffonde notizie sulle missioni stesse - ha tuonato - in pratica si prevede il carcere duro per i giornalisti che diffondono le notizie sull’attività del contingente militare italiano e, forse, anche sulle operazioni dei contingenti alleati". Immediata la replica della Maggioranza, affidata al senatore di Forza Italia Domenico Contestabile.

"La libertà di stampa non c’entra niente - ha affermato - si tratta di tutelare la vita dei militari italiani impegnati in operazioni in zone di altissimo rischio. Non c’è chi non veda che qualunque Paese ha il dovere di garantire la massima sicurezza possibile ai propri soldati. L’indignazione di Serventi Longhi ha perciò il livello di una sceneggiata".

Potenza: progetto di riapertura del carcere di Lagonegro

 

Basilicata News, 20 novembre 2004

 

Nuovo appello del sindaco di Lagonegro Franco Costanza al Ministro della Giustizia per la riapertura del carcere di Lagonegro. Il primo cittadino a nome dell’amministrazione comunale chiede al Ministro Roberto Castelli e ai suoi collaboratori il finanziamento per la ristrutturazione dell’edificio della Casa circondariale di Lagonegro e il suo conseguente ripristino.

Per il raggiungimento di tale obiettivo Costanza sollecita anche l’intervento, presso il Ministero e le competenti Commissioni parlamentari, del Sottosegretario alle Infrastrutture Guido Viceconte e dei Parlamentari lucani, perché si facciano carico di questa istanza facendo, tra l’altro, inserire nella Finanziaria 2005 la quota economica da destinare alla ristrutturazione della Casa circondariale di Lagonegro.

Inoltre il sindaco si rivolge anche ai Presidenti di Giunta e Consiglio regionale nonché all’Amministrazione provinciale, Consiglieri regionali e provinciali del circondario chiedendo di rappresentare - come si legge nel documento - il disagio che le popolazioni dell’area sud di Basilicata sopportano per la mancata riattivazione della struttura penitenziaria. In particolare al Presidente della Provincia e agli esponenti regionali e provinciali del territorio si chiede.

Infine il sindaco chiede alle Comunità montane e ai sindaci del circondario di deliberare prontamente a sostegno della causa. La riattivazione del carcere di Lagonegro, così come scrive Costanza, avrebbe ricadute vantaggiose e benefiche sull’intero territorio. Non è la prima volta che il sindaco e l’amministrazione di Lagonegro si mobilitano su questo fronte.

Già altre volte nel recente passato sono state avanzate richieste corredate anche da proposte progettuali al fine di ottenere il ripristino del carcere. Questo - come si spiega nel documento - per evitare i disagi legati all’amministrazione della giustizia essendo Lagonegro sede anche di tribunale ma anche per ragioni socio economiche. Al documento inviato alle varie autorità istituzionali è stata allegata la relazione scaturita a seguito del sopralluogo sul carcere dimesso di Lagonegro da parte della Commissione Giustizia del Senato nel marzo del 2002. Sopralluogo che venne effettuato su richiesta della stessa amministrazione comunale e dell’ordine forense di Lagonegro.

Cagliari: concluso il convegno sulla devianza giovanile

 

L’Unione Sarda, 20 novembre 2004

 

Calato il sipario sul disagio giovanile. Quasi ottocento persone hanno assistito al convegno nazionale organizzato dal Cnos-Fap che si è concluso ieri mattina. Dal convegno, a cui hanno partecipato, oltre ad esperti del settore scientifico e universitario, anche personalità come don Domenico Ricca e Gianfranco Zola si è notata l’assenza dei politici regionali.

"Quest’assenza è troppo pesante", tuona il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana Franco Siddi, "soprattutto se si pensa all’importanza dei temi affrontati". Al tavolo del dibattito si è parlato di tutto. Dal disagio giovanile in sé, alle sue cause, alle nuove dipendenze, al bullismo, ai disturbi del comportamento alimentare, all’esperienza nelle carceri, nella formazione professionale, nei consultori, nelle strade.

L’ultimo round si è svolto sulle prospettive di intervento. Sul disagio dell’identità, sul recupero della devianza, sulle nuove politiche giovanili. Illuminante l’intervento del bomber del Cagliari Gianfranco Zola: "Nella vita non è importante raggiungere il successo ma crescere con il rispetto di sé stessi".

 

 

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