Carcere e famiglia

 

Voglia di carcere e vendetta

di Franco Carlini

 

Il Manifesto, 09.03.2004

 

Carcere e famiglia: attorno a questo binomio sembra svolgersi la discussione, dato che è proprio l'interprete dell'unità nazionale, il presidente della repubblica, a collegare sciaguratamente le due cose quando sostiene che non si darà grazia senza perdono delle famiglie delle vittime. Così facendo si nega l'idea che di fronte a un delitto sia la comunità nel suo insieme a farsi carico sia della punizione che del recupero, il famoso "monopolio della violenza" che lo stato moderno inventò per non lasciarla in balia di faide familiari o vendette di gruppo. Ogni dolore personale è degno del massimo rispetto, ma esso non può mai essere il metro del fare giustizia o dell'attribuire grazia: tocca a lui, al presidente, che già avrebbe potuto farlo (per Sofri) e che non fa. Le quali famiglie poi, questa volta sotto forma di culle vuote da riempire, tornano in ballo l'8 marzo e di nuovo nelle parole di Ciampi reincatenando le donne alla prevalente funzione riproduttiva, addirittura fonte di benessere nazionale ("è necessario un sostegno, forte e convinto, al recupero della natalità, essenziale per conservare i livelli di benessere di cui godiamo"). Nella versione del ministro Moratti, infine, le famiglie vengono lasciate a se stesse (e dotate al massimo di buoni scuola per le private), a farsi metro dell'istruzione dei figli, personalizzandone il "portfolio delle competenze" e avendo come referente non già la costruzione dei cittadini, ma il mercato e le imprese. È attraverso tali campagne ideologiche, cui partecipa convinta qualche sinistra, che si smonta l'idea stessa di nazione solidale e coesa e di bene pubblico che con altre parole ed enfasi si dice di voler tutelare, sventolando tricolori e ragazzi bersaglieri.

 

Quanto al carcere: esso riemerge prepotente, come ha indicato Rossana Rossanda, non già dalla pancia dei cittadini, ma come simbolica espiazione vendicativa, inutilmente inflitta e protratta a un Tanzi, a un Priebke, a un Sofri, a un Habib qualsiasi dal nome e dai natali magrebini. Nella sua intervista su Cesare Battisti e Priebke Luciano Violante sembra voler masochisticamente confermare le caricature inquisitorie che di lui stesso ha sempre dato la destra, oltre che la sua debolezza di politico e di storico: confonde appunto il ruolo dello stato con il dolore delle vittime, pretende da Priebke che si assuma "le sue responsabilità", la qual cosa può essere molto auspicabile, ma negli stati moderni non può e non deve essere richiesta ad alcun responsabile di reati (in tempi passati ma nemmeno troppo, era la richiesta di pentimento e costrizione). Ma vale la pena comunque di prenderlo sul serio Violante, laddove afferma che "si tratta di capire le ragioni di scelte profondamente sbagliate, senza parificazioni e revisionismi". Violante pensa ai Ragazzi di Salò, da lui a suo tempo citati, ma lo stesso utile esercizio egli e tutti noi dovremmo fare anche verso le scelte ancora più sbagliate che portarono dei Cesare Battisti a uccidere in quel modo e in quegli anni. Lo dobbiamo a noi, e tuttavia si continua a non farlo, cinicamente tirando vittime a assassini dall'una e dall'altra parte secondo piccole e minute convenienze della piccola politica senza valori.

 

 

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