Rassegna stampa 22 maggio

 

Aprilia (RM): condannati al volontariato, invece del carcere

 

Il Messaggero, 21 maggio 2004

 

Il tribunale dei minori ha accettato la "messa alla prova" per i due cugini che uccisero, in un incidente, Laura Sabbatini e il figlioletto.

Simone dovrà assistere, per due anni, i malati terminali di tumore in una struttura sanitaria. Mariano per un anno e mezzo dovrà prestare assistenza e accompagnare giovani handicappati. È questa la decisione dei giudici del tribunale dei minorenni di Roma hanno preso per i due cugini di Aprilia responsabili del drammatico incidente che tre anni fa tolse la vita ad una giovane mamma, Laura Sabbatini, e al suo figlioletto Matteo di appena 3 anni. Un incidente che non fu una tragica fatalità. Simone e Mariano non avevano l’età per guidare, l’auto sulla quale viaggiavano, una Lancia Thema, era stata rubata il giorno prima e, al momento del fatto, stavano scappando a velocità folle inseguiti da una pattuglia dei carabinieri.

Un fatto grave, commesso da due minorenni in cerca di emozioni forti. Due ragazzi che volevano "emergere" sul gruppo di amici della periferia di Aprilia con i quali convivevano i pomeriggi. Una bravata portata all’esasperazione e finita in tragedia. Ma con i minorenni la giustizia segue percorsi diversi rispetto agli adulti.

E così, dopo qualche giorno trascorso a Casal del Marmo, i due cugini tornarono a casa ai "domiciliari" e in seguito gli venne data la possibilità di studiare (Mariano) e lavorare (Simone), in attesa della decisione della magistratura minorile.L’avvocato Amleto Coronella, che ha assistito i due minorenni in questa dolora vicenda, ha proceduto con grande cautela e per gradi.

C’era da superare innanzitutto la comprensibile ostilità che gravava sui due cugini non appena tornati a casa. L’impatto emotivo della tragedia che avevano provocato era troppo grande per lasciare spazio al perdono di chi era stato colpito direttamente ed alla comprensione della gente.

Così per tre anni i due ragazzi sono stati "protetti" e controllati dalle loro famiglie e dagli assistenti sociali in attesa che la giustizia compisse il suo corso. Evitato il processo, l’avvocato Coronella con il parere favorevole del Pm Floquet ha indirizzato il procedimento verso la "messa alla prova" una misura alternativa al carcere, prevista dalla giustizia minorile. Ieri a Roma c’è stata l’udienza al termine della quale il magistrato ha stabilito che Simone dovrà assistere per due anni, due volte la settimana, i malati terminali di tumore mentre il cugino per un anno e mezzo dovrà accompagnare persone handicappate. Al termine del periodo, durante il quale i ragazzi saranno ovviamente seguiti, la prova "sarà superata" e il reato estinto.

"Abbiamo la massima considerazione per le vittime di questa tragica vicenda - ha commentato l’avvocato Amleto Coronella - Ma una eventuale condanna, una punizione più dura, non avrebbe mai potuto rendere mamma e figlioletto ai loro familiari. Dall’altra parte c’era la possibilità di recuperare due ragazzi che avevano preso una strada sbagliata e dare loro una possibilità. Probabilmente per alcuni è una situazione difficile da accettare, ma ritengo che sia giusto così".

Simone e Mariano avevano chiesto perdono dopo il fatto, ma la famiglia delle vittime (che non ha potuto costituirsi parte civile poiché non è consentito nei processi con minori) non ha mai voluto accettare il loro pentimento.

Legge quadro sul volontariato: slitta valutazione Consiglio Ministri

 

Redattore sociale, 21 maggio 2004

 

Non è approdato in Consiglio dei ministri il disegno di legge concernente le modifiche alla legge 266 del 1991, vale a dire la legge quadro sul volontariato. La seduta di oggi avrebbe dovuto prendere in esame il testo, il tutto dopo circa due anni di dibattito e confronto. Tuttavia il Consiglio ha fatto slittare la presa in esame del Ddl, che a questo punto verrà riproposto in una delle prossime riunioni. Difficilmente in quella di mercoledì prossimo (26 maggio), che motivi organizzativi vogliono già brevissima.

Quello previsto per oggi era, per la verità, di una sorta di pre-esame, perché il testo deve essere sottoposto ancora al vaglio della Conferenza Stato-Regioni. Un passaggio non solo dovuto, ma che si preannuncia anche sostanziale viste le modifiche che la nuova legge prevede di apportare in merito al ruolo degli stessi enti regionali. Proprio il rapporto tra competenze statali e regionali assume rilievo centrale, nel momento in cui talune Regioni hanno già legiferato (o stanno legiferando) in materia. Tuttavia, l’approdo al Consiglio dei Ministri è sicuramente aspetto rilevante, trattandosi di fatto del primo passaggio "ufficiale" del nuovo testo di legge.

 La genesi della nuova legge, come detto, non è stata semplicissima. Già ad inizio del 2002 la riforma della legge quadro sul volontariato era al centro del dibattito di associazioni e Governo. Un iter lungo, passato attraverso confronti, scontri, precisazioni. Nel novembre scorso, lo stesso Governo aveva convocato gli "Stati generali del volontariato", a cui era stata sottoposta proprio la nuova bozza di riforma. Precedentemente, in un documento proposto da 18 delle maggiori associazioni e dal Coordinamento nazionale dei Centri di servizio (e sottoscritto da centinaia di realtà), si chiedeva una revisione in qualche maniera concertata, frutto cioè di un’ampia partecipazione delle associazioni, delle autonomie locali, delle fondazioni di origine bancaria, le parti sociali (lavoratori, ma anche imprenditori). Non mancavano elementi di preoccupazione circa il testo della nuova legge, un testo che aveva sì recepito alcune istanze delle organizzazioni di volontariato ma che presentava ancora alcuni punti oscuri. L’Osservatorio del Volontariato (dove sono presenti diverse organizzazioni nazionali e coordinamenti del volontariato) aveva espresso a fine novembre 2003 un parere di "non approvazione" della proposta di legge, considerandola un contributo opportuno e utile, ma non sottoscrivibile come proposta unitaria e definitiva per i numerosi punti dubbi e di contrarietà.

 Ma cosa prevede, in concreto, la legge? Innanzitutto viene introdotta la figura degli enti di secondo livello (art. 4), costituiti da fenomeni aggregativi di organismi di volontariato (coordinamenti) e con lo scopo di coordinare l’attività degli stessi. Essi vengono dunque equiparati alle organizzazioni di volontariato, con il vincolo di essere costituiti esclusivamente da organizzazioni di volontariato. Soprattutto viene introdotto la derogabilità con procedura partecipata dei requisiti della democraticità e della gratuità delle cariche associative. Ma se questo, viene sottolineato dal legislatore, è stato introdotto per garantire "una maggiore aderenza alla realtà e sulla falsariga di quanto previsto dalla legge sull’associazionismo di promozione sociale" (la legge 383 del 2000), va anche detto che sulla deroga alla democraticità molti dubbi sono stati sollevati.

L’art. 6, poi (altro aspetto in chiaroscuro che fa discutere) sostituisce i rimborsi con le entrate derivanti da convenzioni. Il successivo articolo (art. 7) introduce il registro delle organizzazioni di volontariato di carattere nazionale, presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Fino ad oggi, ricordiamolo, sono le Regioni a tenere un albo regionale delle associazioni.

L’art.12 riconferma la natura dell’Osservatorio nazionale del volontariato quale organo consultivo del Ministro, ma aumenta i membri dell’osservatorio.

Importantissimi gli artt. 15 e 16, oggetto di critiche soprattutto da parte dei Centri di servizio per il volontariato. L’art. 15 infatti modifica in maniera sostanziale il meccanismo di finanziamento del volontariato, attraverso le fondazioni bancarie ridisciplina i fondi speciali di ambito regionale. Costituito, inoltre, un fondo perequativo ripartito dal Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali attraverso una procedura a "discrezionalità vincolata". Decisamente innovativo (e frutto di critiche da parte dei Csv) quanto contemplato dall’art.16, che concede in capo ai comitati di gestione il compito di ripartire le risorse in parte ai centri di servizio e in parte direttamente alle organizzazioni di volontariato.

Rebibbia: interrogazione al Ministro Castelli su situazione scuola

 

Interrogazione a risposta scritta dell'On. Russo Spena

 

Premesso che:

da venerdì 14 maggio u.s., l’Istituto tecnico commerciale di Rebibbia non funziona più perché gli uomini del Gom (Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria), che da tre mesi pattugliano la sezione penale del carcere di Rebibbia a Roma, hanno chiesto ed ottenuto dal Direttore dell’Istituto, Stefano Ricca, che dopo la prima ora di lezione gli studenti-detenuti rientrino in cella per la conta. La procedura dura un’ora e mezza, pertanto, "dopo un tempo così lungo molti detenuti preferiscono non tornare in classe" così denuncia la docente e rappresentante Rsu per i Cobas, Anna Grazia Stammati;

risulta all’interrogante che tale provvedimento, voluto dall’unità speciale della polizia penitenziaria è unico nel suo genere. In nessuna sezione carceraria in Italia le lezioni scolastiche vengono interrotte per la conta dei detenuti;

la direttiva, però, è solo l’ultimo atto negli ultimi tre mesi, con l’arrivo, appunto, dei Gom nel carcere: perquisizioni degli insegnanti all’ingresso e all’uscita, verifiche dei permessi che durano anche due ore. "Ultimamente hanno preso l’abitudine di entrare in classe quando noi non ci siamo" racconta la Stammati, "aprire il quaderno degli studenti e chiedere cosa hanno studiato";

già in una precedente interrogazione (4-09095 del 26 febbraio 2004), l’interpellante, insieme all’On. Paolo Cento (primo firmatario) avevano denunciato la politica, intrapresa dalla direzione della Casa di Reclusione di Rebibbia di Roma, di sistematico peggioramento delle condizioni di reclusione dei detenuti ristretti nella sezione semilibertà e articolo 21;

infine, venerdì scorso la decisione di far rientrare i detenuti nelle loro celle, senza nessun ordine di servizio ai docenti.


chiede

 

quali iniziative intenda porre in essere, affinché venga ripristinato il normale orario di studio e permettere, quindi, ai detenuti di frequentare l’Istituto tecnico commerciale di Rebibbia;

quali iniziative intenda adottare affinché non vengano adottati, nel carcere di Rebibbia, provvedimenti che ledono i diritti acquisiti dei detenuti.

 

Roma, 20 maggio 2004

Bolzano: tutti assolti agenti accusati di maltrattamenti ai detenuti

 

Alto Adige, 22 maggio 2004

 

Sono stati assolti i 21 agenti di custodia del carcere di Bolzano accusati di maltrattamenti sui detenuti. Secondo quanto sostenuto dall’accusa, gli atti di violenza avrebbero dovuto essere stati compiuti in una famigerata "Cella X".

Nel corso del dibattimento nel tribunale bolzanino tutti gli imputati avevano respinto fermamente ogni accusa, supportati dall’ex direttore della casa mandamentale, Gaetano Sarrubbo, che nella sua deposizione in aula aveva ribadito: "Le presunte torture non sono mai esistite". Il PM Andrea Postiglione nella sua requisitoria aveva chiesto 12 condanne a tre mesi ed una a cinque e l’assoluzione di altri otto imputati.

Varese: "Carcere da ristrutturare, all’avanguardia in Lombardia"

 

Varese News, 21 maggio 2004

 

Una visita dentro il carcere dei Miogni, non la prima, per verificare una volta di più come si presenta quell’universo rinchiuso che potrebbe a breve trasferirsi a Bizzozero. Per Giovanni Martina, consigliere regionale di Rifondazione Comunista, da sempre oppositore al progetto del nuovo penitenziario, il sopralluogo nella vecchia casa circondariale di via Morandi porta solo conferme: "Non posso che ribadire quanto da sempre sostenuto: questo carcere, al di là delle sue condizioni strutturali che hanno bisogno di interventi, sul piano delle attività, delle relazioni, dell’impegno è all’avanguardia in Lombardia".

Martina ha avuto colloqui con i volontari, l’educatrice, il comandante della struttura; ha constatato le migliorie intercorse, i lavori di pavimentazione e le ridipinture. "L’ambiente sta cambiando positivamente - ribadisce - ed ho avuto l’ulteriore conferma che dei circa 130 detenuti presenti più della metà sono impegnati in attività lavorative e formative. Un dato che non ha eguali nella nostra regione". 
Rifondazione porta fuori dal consiglio comunale la spinosa questione relativa al futuro dei Miogni. Un futuro che, mal di pancia della maggioranza a parte, sembra segnato: intorno  finanziamenti del ministero si è coagulata una maggioranza politica, non del tutto coesa, ma sufficiente almeno fino ad oggi, ad approvare i passi amministrativi che danno il via libera alla nuova costruzione nella zona sud della città.

Un progetto che porterebbe la capacità "recettiva" dell’istituto di pena varesino dagli attuali 130 (in eccedenza rispetto alla capienza) ai 200 ufficiali previsti dalla nuova struttura: "Ma dappertutto - incalza Martina - è dimostrato che 200 detenuti diventano 300 0 400, Busto insegna". Una condizione che azzererebbe proprio quel patrimonio di relazioni che si mantengono pur nella senescenza del Miogni.

Il ministro Castelli ha annunciato che a breve inaugurerà il carcere di Lecco appena restaurato. "Allora è possibile trovare altre via - si convince il consigliere regionale -;  per questo continuano a non convincermi le tesi di chi si dice impietosito dalle condizioni dei detenuti ma esclude drasticamente l’ipotesi di una ristrutturazione. Non riesco a non convincermi che vi sia una regia esterna a Varese, ma di cui questa amministrazione si fa garante, che voglia a tutti costi costruire in nome di altri interessi". 

Roma: le detenute di Rebibbia saranno stiliste per un giorno

 

Roma One, 22 maggio 2004

 

Roma Alta Moda kermesse sostenuta e realizzata anche grazie al contributo della Regione Lazio, del Comune di Roma, della Camera di Commercio capitolina, vedrà scendere in campo più di cinquanta sfilate, caratterizzate tra l’altro da una forte presenza internazionale. Saliranno infatti in passerella stilisti provenienti da Spagna, India, Grecia, Russia e Usa. Quanto alle location, quella dedicata resta l’Auditorium Parco della Musica, cui si aggiunge il Tempi di Adriano, a piazza di Pietra e quelle che gli stilisti, di volta in volta, designeranno.

Ma l’evento più atteso si svolgerà nel cortile del carcere di Rebibbia. Le detenute infatti avranno portato a termine il progetto "La Moda Oltre", un’iniziativa inaugurata a gennaio e che ha coinvolto 16 carcerate che hanno seguito il corso di moda di 160 ore di lezione, teoriche e pratiche. A sfilare nel final work, saranno venti capi realizzati nel laboratorio dell’istituto di pena, creato appositamente per il progetto. Un cammino che nasce con l’intanto di formare delle professionalità e favorirne il reinserimento nel mondo del lavoro alla fine del periodo di detenzione.

Roma: cresce il consumo di droghe nei campi rom

 

Redattore sociale, 21 maggio 2004

 

Nei campi rom della capitale, aumenta il consumo di droghe: soprattutto cocaina (49,3% del totale), oggi molto più diffusa l’eroina (28,8%). È quanto emerge dai dati raccolti durante i primi quattro mesi del progetto Gipsy, presentati oggi in Campidoglio.

"La droga sta distruggendo le nostre famiglie e la nostra cultura. Se volete aiutarci, dovete farlo sinceramente e in maniera continuativa": questo l’appello rivolto da Guerino Casamonica, mediatore rom, ai rappresentanti del Comune e delle associazioni, presenti stamattina alla presentazione.

Affidato dalla giunta comunale alle associazioni Magliana ‘80, Opera Nomadi e Villa Maraini e finanziato dall’Agenzia Comunale per le Tossicodipendenze, il progetto Gipsy è stato concepito per offrire una risposta all’emergenza del consumo di droghe all’interno dei campi rom.

Un’emergenza che si manifestò la prima volta, nei campi romani, il 14 agosto 1984, quando a Spinaceto morì di overdose il primo rom della capitale. Presto, altri casi si verificarono nei campi di Porta Furba, Torre Angela, Laurentino: "così, decidemmo di farci carico del grido di aiuto del popolo zingaro, attraverso il coinvolgimento di organizzazioni esperte nel lavoro sulle tossicodipendenze", ha riferito Massimo Converso, presidente dell’Opera Nomadi, ricordando le origini storiche di quello che oggi si chiama "progetto Gipsy".

Ci vollero però quindici anni perché questa emergenza fosse ascoltata dalle istituzioni e ricevesse da queste un sostegno: nel 1999, l’A.C.T. finanziò il primo intervento sperimentale su tossicodipendenza e zingari: era l’esordio del progetto Gipsy, cui parteciparono le stesse associazioni che oggi lo stanno portando avanti.

L’anno successivo, constatati i risultati positivi della sperimentazione, fu pubblicato il bando per l’affidamento del servizio di unità di strada tossicodipendenti nei campi nomadi, che fu vinto dalle tre organizzazioni che avevano partecipato alla prima fase. Per ben tre volte, tuttavia (nel 2000, nel 2001 e nel 2002), a causa della mancanza di fondi, il progetto fu interrotto, "tra richieste di aiuto sempre più pressanti dai campi e notizie di cronaca su bambini rom che sniffavano benzina dalle taniche". Solo nel dicembre 2003, Gipsy ottenne un nuovo finanziamento, decurtato di un terzo rispetto a quanto previsto a suo tempo dal bando.

Da allora, l’equipe di operatori delle diverse associazioni opera presso nove comunità, dislocate in diversi campi della città: via Casilina, Villa Gordiani, Tor dÈCenci, via di Ciampino, Via di Salone, via Salviati, Spinacelo, via della Martora, Vicolo Savini e via Casal Lombroso. "Ma stiamo ancora scontando le conseguenze dell’interruzione", lamenta Germana Castrano, presidente di Magliana ‘80. "Non è facile riconquistare la fiducia delle persone a cui hai prima offerto un servizio e poi, da un, giorno all’altro, l’hai tolto".

Le limitate risorse destinate al progetto, poi, riducono notevolmente la presenza degli operatori: "Andiamo nei campi solo una volta la settimana", riferisce Patrizia Amorosino, una delle operatrici. "Per il lavoro che dobbiamo svolgere, decisamente poco: dobbiamo fare informazione sulle sostanze e sui servizi socio-sanitari territoriali e accompagnare i rom nelle strutture che prestano questi servizi. E poi, c’è tutto il lavoro di rilevazione e monitoraggio".

Ma ciò che più preoccupa chi sta portando avanti questo progetto, è la possibilità che, allo scadere di questa annualità, esso venga nuovamente interrotto: "Se questo accadesse, non credo che ad accoglierci un’altra volta", ha affermato la Cesarano. "Se vogliamo che questo progetto produca risultati, dobbiamo garantirgli continuità, sinergia di risorse, lavoro di rete".

Lucca: ricerca su 160 detenuti della Casa Circondariale

 

Redattore sociale, 21 maggio 2004

L’indagine nel dettaglio

 

Essere una lente d’ingrandimento sulla realtà del carcere e le condizioni di vita dei detenuti. È l’obiettivo del Primo censimento della popolazione carceraria della casa circondariale S. Giorgio di Lucca, promosso dalla Provincia e curato dalla società di ricerca sociale Derco.

Lo studio, che sarà presentato nel corso del pomeriggio nell’ambito del convegno "Carcere: un mondo a parte o una parte del mondo?", presenta i risultati di 162 interviste ai detenuti dell’istituto penitenziario realizzate tra luglio e settembre 2003 dal Gruppo Volontari Carcere mediante la somministrazione di questionari.

È stato possibile – si legge nello studio – raccogliere dati affidabili sul 73,6% dei detenuti censiti nel periodo di riferimento. Emerge dall’analisi un rapporto di sostanziale equilibrio tra i detenuti italiani (46,3%) e quelli stranieri (48,1%). Inoltre la popolazione carceraria censita è tendenzialmente autoctona, considerando che l’84,6% proviene dal territorio regionale, e questo incide sulla possibilità di mantenere nel tempo della detenzione rapporti significativi con le reti primarie ed amicali.

"Una tendenza positiva in questo senso è confermata dal fatto che almeno un terzo dei detenuti mantiene relazioni stabili con la propria famiglia – ha affermato Gabriele Tomei, direttore di Derco, che ha presentato la ricerca – rispetto alla quale, in relazione a qualità e natura delle relazioni, il 79% degli intervistati esprime un giudizio positivo". Il 47,5% della popolazione censita inoltre, individua nella famiglia il principale obiettivo da conquistare – o riconquistare – una volta terminato il periodo di detenzione.

Il lavoro costituisce l’altra esperienza forte cui la memoria del cittadino detenuto può attingere in vista di una ridefinizione e riorganizzazione del proprio futuro. Il 46.3% degli intervistati ha, infatti, esperienze di lavoro precedenti al carcere. Il 56.8% dei detenuti, inoltre, (percentuale che sale al 70.1% nel caso dei detenuti stranieri) immagina di ricostruire il proprio futuro a partire proprio da un rinnovato impegno nel lavoro. Il carcere è stato definito luogo di sofferenza, soprattutto per la separazione dagli affetti familiari dal 52.5% dei detenuti, ma anche per la capacità che dimostra di degradare la dignità della persona.

Tuttavia il carcere consente anche spazi di ri-umanizzazione, soprattutto attraverso la socializzazione tra detenuti, definita di una buon livello dal 51.9% degli intervistati. Lo studio e la lettura sono state segnalate come attività ricreative prevalenti dal 56.2% degli intervistati, e particolarmente dagli stranieri.

Lettura, studio, formazione e lavoro, sono i cardini della strategia riabilitativa e di inclusione sociale che gli stessi cittadini detenuti sottolineano come cruciali per poter affrontare con maggiori chances il rientro in una società che si prefigura (nel 51.8% dei rispondenti) molto difficile. Sono questi i settori in cui - si legge nelle conclusioni della ricerca - è più opportuno impegnare le energie progettuali ed organizzative degli enti locali che vogliano sostenere l’attivazione di una strategia integrata di reinserimento dei cittadini detenuti.

 "Antigone" presenta disegno di legge contro la tortura

 

Redattore sociale, 21 maggio 2004

 

L’Associazione Antigone ha promosso un disegno di legge di ratifica ed esecuzione del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, che vede come prima firmataria la senatrice De Zulueta e raccoglie fino a questo momento le firme di 45 senatori di diverse forze politiche. 

"Il Protocollo opzionale, adottato Dall’Onu nel dicembre 2002 e firmato dall’Italia nell’agosto 2003 – precisa l’associazione -, segna un decisivo passo in avanti rispetto alla Convenzione dell’’84, che istituiva un Comitato contro la tortura dal valore fondamentalmente simbolico e privo di poteri incisivi di controllo. Il Protocollo, firmato fino ad oggi da 24 Paesi e ratificato dalle sole Albania, Malta e Inghilterra, il quale entrerà in vigore al momento della 20° ratifica, prevede l’istituzione di un meccanismo universale di controllo dei luoghi di detenzione (anche in aree di conflitto) e impone inoltre a ciascun Paese firmatario la creazione immediata di un sistema di ispezione di tutti i luoghi di privazione della libertà personale sul territorio nazionale (istituti penitenziari, ma anche stazioni di polizia, centri di permanenza temporanea per stranieri, ecc.), un organo indipendente con poteri incondizionati di visita, la cui costituzione andrà regolamentata a livello di legislazione nazionale".

 "È evidente l’importanza di un segnale di questo tipo da parte dell’Italia - ha dichiarato Francesca D’Elia di Antigone -, in un momento in cui le vicende internazionali che ci vedono coinvolti riportano drammaticamente in primo piano l’argomento della tortura".

Droghe: il consumo multiplo diffuso in tutte le fasce d’età

 

Redattore sociale, 21 maggio 2004

 

"Un fenomeno che coinvolge i giovani come gli adulti e che sarebbe ora di affrontare superando vecchie categorie". Riccardo Gatti responsabile del Servizio dipendenze della Asl di Milano interviene così sul tema della poliassunzione di droghe legali e illegali, tema del convegno (promosso dalla Asl di Milano)  tenutosi oggi a Milano (hotel dei Cavalieri) e intitolato "Le forme del consumo. La presa in cura dell’assuntore multiplo di sostanze nei servizi pubblici e privati per le dipendenze".

L’incontro ha rappresentato il momento conclusivo del "Progetto Caleidoscopio":promosso dalla Asl del capoluogo lombardo per approfondire la conoscenza del fenomeno del poliabuso giovanile in soggetti di età compresa tra i 13 e i 19 anni. In occasione dell’incontro, inoltre, è stato presentato il volume "Polidipendenze" (autori Pinamonti e Rossin) che affronta proprio il tema del consumo multiplo di sostanze. Ma chi sono i poliassuntori?

"Definizioni univoche non esistono – dice Gatti -. Si tratta di persone giovani come di adulti. È un fenomeno che è sempre esistito, ma che oggi si accompagna all’uso di sostanze eccitanti assunte in modo massiccio". Cambiano, quindi le combinazioni, ma non il fenomeno. "Una volta si parlava di monoconsumatori, ad esempio nel caso dell’eroina, in realtà anche questo tipo di abuso era accompagnato da consumo di alcol e sedativi", spiega Gatti.

Ma qualcosa è cambiato: "Innanzitutto, il problema è diffuso a tutti i livelli e spesso in forme non immediatamente percepibili - avverte Gatti -. Ci sono persone che consumano mix di sostanze per periodi limitati di tempo che si ripetono nella loro vita. Per gli attuali criteri di diagnosi non rientrano nella categoria dell’abuso, ma è evidente che il problema resta".

Il responsabile del Servizio dipendenze della Asl fa, inoltre, una puntualizzazione su uno dei temi del dibattito di questa mattina: i giovani e il consumo. "Si ricorre spesso a un’equivalenza profondamente sbagliata tra abuso e gioventù e si dà risalto solo a quelle situazioni che producono devianza e marginalità sociale. Un modo riduttivo di affrontare un tema complesso come questo". Come intervenire?

"Innanzitutto ridefinendo le vecchie categorie costruite sulla monoassunzione di sostanze. I servizi, tanto quelli pubblici quanto quelli privati dovrebbero rimodulare la propria capacità di intervento sulla realtà odierna. Altrimenti gli interventi rischiano di intercettare una fascia ormai ridotta della popolazione che fa uso di droghe sia legali che illegali".

Avezzano: detenuto morto per avere simulato l’impiccagione

 

Il Messaggero, 21 maggio 2004

 

L’ipotesi che Mohamed Abrufhay, marocchino di 20 anni morto in carcere, possa essere stato ucciso resta in piedi ma appare sempre meno consistente. Ora si fa strada quella dell’incidente (una strana forma di protesta messa in atto dal detenuto finita, poi, male) e, comunque, il "caso" è al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica avezzanese, anche perché ieri è arrivata ad Avezzano la madre del giovane morto in carcere ed i suoi connazionali stanno mettendo su una colletta per poterlo rimpatriare.

Sulla vicenda c’è il riserbo più assoluto ma le indagini portate avanti dalla squadra di Polizia giudiziaria del Commissariato di Avezzano potrebbero arrivare ad una svolta clamorosa. Quale? Proviamo a fare alcuni ragionamenti ovvii. Mohamed Abrufay entra nella casa circndariale di pena del San Nicola di Avezzano. Non ha ottemperato all’ordine di lasciare il paese ed inoltre ha qualche precedente per droga. Viene messo tra i detenuti comuni ma poi viene passato "in isolamento".

La giustificazione ufficiale consiste nel fatto che il ventenne marocchino (che ha più volte chiesto di essere trasferito) non va d’accordo con alcuni suoi connazionali e dunque deve stare da solo. La mattina dopo viene trovato nella cella in una strana postura.

Ha il lenzuolo attorcigliato al collo, come se lo avesse usato per impiccarsi, ma respira ancora. Viene trasportato all’ospedale dove cercano di strapparlo inutilmente alla morte. Poco dopo il giovane muore. Perché? Asfissia è la diagnosi. Il magistrato, nella persona del sostituto procuratore della Repubblica Annamaria Tracanna, apre un’inchiesta e dispone l’autopsia.

Fin qui tutto accertato. Poi cominciano le supposizioni. La Polizia blinda la vicenda e cominciano le ipotesi. Perché è stata disposta l’autopsia? Il giovane presenta delle lesioni sul corpo ma, dal momento che aveva avuto delle discussioni con i connazionali, esse potrebbero essere giustificate.

Ma allora tutto si concentra proprio sull’asfissia: il giovane non riuscì a morire sebbene avesse tentato di suicidarsi o ha tentato una strana "sceneggiata" per convincere tutti che si sarebbe tolto la vita e poi è rimasto vittima del suo incontrollato gesto?

Palermo: dal Pagliarelli un aiuto ai non vedenti


La Sicilia, 22 maggio 2004


"Forse non sai che cosa è la solitudine… è quel sorriso che aspetti e non arriva". Con questi toccanti e commossi versi del "detenuto" Salvatore P., è stata aperta ieri pomeriggio al teatro del Carcere Pagliarelli la conferenza stampa di presentazione del progetto "Un libro, una voce", promosso da due funzionari dei gruppi operativi mobili (Gom) della polizia penitenziaria, Vincenzo Lo Cascio e Marco Santoro.

Presenti per l’occasione i detenuti, gli stagisti e i tirocinanti della Facoltà di Scienze della Formazione e un cospicuo numero di donne poliziotto. L’iniziativa, a cui ha già preso parte il carcere romano di Rebibbia, coinvolge in prima persona i detenuti del Pagliarelli per "investirli" del ruolo di attori e narratori di audiolibri, tratti da noti libri di narrativa.

I libri registrati e incisi sono poi destinati all’Unione Italiana Ciechi, che da molti anni istituito il Centro Nazionale del Libro Parlato, dove sono raccolti ormai più di 10.000 titoli, dalla narrativa alla scienza, dalla storia alla filosofia.

Palermo rappresenta una delle sedi periferiche del Centro e, grazie al sostegno di molti volontari, è uno dei punti di riferimento nazionale per la registrazione dei libri richiesti dai non vedenti. "Un libro, una voce" rende, dunque, i detenuti protagonisti di un servizio di rilevante valore sociale e culturale, sia per i non vedenti che per gli stessi carcerati.

Enrica Bonaccorti, madrina dell’iniziativa, ha infatti ricordato come un detenuto di Rebibbia dopo aver letto "Lettere al padre" di Kafka sia rimasto profondamente commosso e abbia iniziato un processo di ricostruzione e reinterpretazione della sua infanzia e della sua vita per sciogliere alcuni problemi interiori irrisolti. La lettura avvicina così le diverse solitudini di ciechi e carcerati, dando conforto, sostegno e speranza sia a chi riceve che a chi offre il suo aiuto. Anche da dietro le sbarre si può continuare a dare, a offrire un dono, al di là dei limiti fisici della distanza e della separazione.
Laura Brancato, direttrice del Pagliarelli, ha infatti precisato che: "La scelta di partecipare a questa iniziativa nasce dalla convinzione di dover offrire a chi è detenuto la possibilità di lottare contro la solitudine. Per questo motivo aderiremo prossimamente anche a un altro progetto, che consiste nell’affidare al carcerato un cane abbandonato o di strada da accudire. Il cane è infatti in grado di dare affetto e compagnia al suo padrone senza chiedere mai nulla in cambio".

Dal suo canto, Tommaso Di Gesaro, ex assessore alle Attività Sociali, ha così commentato il progetto: "Tutti coloro che soffrono di una minoranza visiva sono costretti a vivere dietro le sbarre dell’oscurità. Se si pensa che è stato dimostrato come il 75% delle nostre conoscenze deriva dalla vista, è facile comprendere le difficoltà che i non vedenti si trovano a dovere affrontare. Eppure è possibile trovare delle soluzioni per soddisfare il bisogno di conoscenza e cultura dei ciechi. E la registrazione dei libri è una delle strade da poter percorrere. Per questo motivo sono felicissimo che il Pagliarelli abbia aderito a questo progetto, e spero che alla fine sia possibile organizzare una grande festa qui dentro il carcere con i detenuti e i non vedenti insieme".

Oltre il progetto "Un libro, una voce", il carcere Pagliarelli ha intrapreso altre iniziative. I detenuti sono impegnati in varie attività, coltivano un orto, e quest’anno hanno avuto un ottimo raccolto di fave, producono il miele, realizzano installazioni scenografiche e modellano vasi. Ben presto inoltre daranno vita a un giornale.

Si può concludere pertanto ripetendo alcune parole di Enrica Bonaccorti: "Nella mia vita ho frequentato svariati ambienti, anche istituzionali, ma soltanto nelle carceri ho sentito tanta anima".

Belluno, denuncia degli agenti: "Detenuti sembrano sepolti vivi"

 

Il Gazzettino, 22 maggio 2004

Celle sovraffollate e polizia penitenziaria sottorganico. La situazione, nel carcere di massima sicurezza di Baldenich, ha toccato punte di esasperazione lunedì quando un detenuto magrebino, stanco dell’isolamento, si è cosparso d’olio annunciando di volersi dar fuoco. Poi, richiamata l’attenzione degli agenti, precipitatisi ad aprire la cella, ha scagliato contro di loro un fornellino da cucina, colpendoli alla testa. Tutti e tre sono rimasti feriti, un solo lievemente, dopo una carambola da una testa all’altra del pesante oggetto.

Scopo delle rimostranze, che hanno messo in subbuglio il carcere, era quello di protestare contro il lungo periodo di isolamento e poter essere trasferito in un altro carcere. È stato accontentato il giorno successivo. Il sindacato di polizia penitenziaria, Sappe, denuncia così l’ennesimo episodio di violenza ed insofferenza che affligge la struttura nel suo insieme.

"Vi sono detenuti - spiega il segretario Adamo Nicodemo - che da oltre tre mesi sono in isolamento. Sembrano sepolti vivi. Chi conosce il carcere sa benissimo cosa comporti, psicologicamente, la detenzione in queste condizioni. E a farne le spese è anche il personale. La situazione qui dentro sta diventando sempre più calda e ingestibile".

La voce del Sappe torna quindi a levarsi assieme a quella di altri sindacati di categoria che da anni denunciano la situazione all’interno del carcere, tra le cui mura, da anni, alloggia anche, in regime di 41 bis, il detenuto speciale, ex capo incontrastato della nuova Camorra organizzata, Raffaele Cutolo.

Piacenza: Aids e carcere, le regole per la prevenzione

 

Libertà, 22 maggio 2004

 

Le mura che circondano il cortile all’aperto del carcere delle Novate sono troppo alte per consentire a chi sta "dentro" di guardare oltre la dura realtà della detenzione: la scuola e le lezioni dispensate ai detenuti sono una valida alternativa all’ora d’aria, per cercare di mantenere un qualche contatto con il "fuori".

In tanti, fra i reclusi nella casa circondariale cittadina hanno deciso di frequentare i corsi formativi interni al penitenziario, che da lunedì ad oggi hanno trattato di un argomento assai delicato: Aids, prevenzione del virus e interazione fra vita carceraria e sieropositività.

Sono stati la Lila (Lega italiana per la lotta contro l’Aids) di Piacenza, in collaborazione con gli insegnanti dell’istituto "Italo Calvino" e la direzione del carcere ad organizzare una serie di incontri con cinque classi (medie ed elementari) formate da detenuti.

La scuola dentro alle mura carcerarie è una realtà consolidata da diversi anni ormai, assai innovativo è invece l’avvio di laboratori educativi specifici, legati a tematiche che investono la salute e la qualità della vita di chi è costretto a trascorrere la maggior parte del proprio tempo all’interno di una cella.

"La prevenzione del virus - spiegano Antonio Iacono ed Elena Prati, operatori della Lila - in un ambiente sociale così particolare passa attraverso anche piccole attenzioni e indicazioni igieniche essenziali, date per scontate da chi non sta in prigione. Ad esempio la raccomandazione di non scambiarsi un taglia-unghie senza pulirlo a dovere.
Abbiamo cercato di parlare di Aids, - viene sottolineato - trasmissione della malattia, sieropositività, adattando le prescrizioni alla realtà carceraria: provando a fugare dubbi e paure immotivate che possono essere fonte di tensioni fra i detenuti".

Il problema dell’Aids e del rischio di contagio nelle carceri è rimasto finora quasi un tabù, poiché le principali cause di trasmissione, il sesso e l’uso di droga, sono completamente banditi dai luoghi di detenzione: tuttavia il virus è una realtà con cui occorre fare i conti comunque, data l’alta percentuale di popolazione carceraria tossicodipendente e la vita contraddistinta da una promiscuità "forzata".

"È praticamente impossibile - affermano gli operatori della Lila - disporre di dati certi sull’incidenza dell’Aids nei penitenziari, anche per comprensibili ragioni di privacy. Una tendenza di questi ultimi anni è però preoccupante: sempre meno detenuti scelgono di sottoporsi volontariamente al test per l’Hiv; nel corso dell’ultimo decennio la percentuale che ha optato per l’esame in Emilia Romagna è si è ridotta di oltre 15 punti, arrivando al 28,6 per cento".

Il ciclo di lezioni che si conclude oggi ha interessato circa 50 persone sul totale di 320 ospiti delle Novate, la maggior parte di questi sono stranieri che frequentano i corsi di scuola elementare e media.
"Abbiamo trovato grande disponibilità negli allievi -sostiene Elena Prati- ed una accresciuta sensibilità nei confronti della malattia; fare questo tipo di attività fra le quattro mura di un carcere non è così scontato: dobbiamo un grande ringraziamento alla direzione della casa circondariale per l’opportunità che ci ha concesso".

Sempre nell’ambito dell’azione di prevenzione svolta dalla Lila, l’anno scorso era stato distribuito per ciascun detenuto un kit essenziale per l’igiene personale, formato da uno spazzolino da denti, un taglia-unghie, una salvietta battericida, un rasoio da barba usa e getta.

"L’osservanza delle più elementari regole di pulizia non è infatti appannaggio di tutti: i carcerati più poveri o i più abbandonati, come gli stranieri, spesso non possono contare su questi semplici strumenti".

Salerno: cercasi insegnante di giardinaggio per i detenuti


La Città di Salerno, 22 maggio 2004

 

Un corso per giardiniere da svolgersi presso la casa circondariale di Sala Consilina, riservato ai detenuti, e la Ragione Campania ha la necessità di trovare un docente per le lezioni teoriche e pratiche. Gli interessati dovranno essere titolari di partita Iva e in possesso di una laurea di scienze agrarie o equipollenti oppure del diploma rilasciato dagli istituti tecnici agrari o dagli istituti professionali agrari.

Inoltre dovranno dimostrare di avere competenza ed esperienza professionale nel settore e pertanto dovranno presentarsi, con il curriculum vitae e professionale presso la sezione decentrata di Teggiano, in località Piedimonte. Saranno valutate prima di tutto le esperienze professionali ed eventuali pubblicazioni, o altro che permetterà la formazione di una graduatoria finale per l’affidamento dell’incarico.

La scadenza per la presentazione della domanda è fissata alle 12 del 28 maggio. Per quanto riguarda la quota oraria prevista dalla Regione, questa sarà comunicata nel momento i cui verrà presentata la richiesta e il curriculum. Il corso ha la funzione di avviamento alle attività occupazionali nei confronti dei detenuti della casa circondariale di via Gioberti ed è un modo per far sì che i detenuti stiano a contatto con le attività di ogni giorno.

Firenze: incontro su "Minori stranieri, fra marginalità e devianza"

 

La Nazione, 22 maggio 2004

 

"Minori stranieri a Firenze: fra marginalità e devianza", un incontro in cui si affronterà il tema dei minori non accompagnati. Verranno presentati i risultati del progetto "Aladino" una ricerca -intervento realizzata a Firenze sui minori stranieri fuori e dentro il carcere.

Segnaliamo la partecipazione di Don Gino Rigoldi che ha un’esperienza molto lunga con i minori stranieri sia all’interno del carcere Beccaria di Milano che sul territorio con progetti come "Oudes", sul lavoro di strada in aree marginali della città .

 

Giovedì 3 giugno 2004

Sala Convegni Cassa di Risparmio di Firenze – Via Portinari

Per informazioni

Tel: 055.6263316-5
web: http://www.cesda.net

Modena: in carcere c’è sovraffollamento e carenza di organico

 

Il Nuovo Giornale di Modena, 22 maggio 2004

 

Passano gli anni ma i punti critici del carcere di S. Anna di Modena rimangono gli stessi. Attualmente ci sono 371 detenuti, di cui 210 stranieri. Secondo il direttore Paolo Madonna il carcere, per legge, ne dovrebbe contenere al massimo 180.

L’organico è composto da 174 agenti e 12 addetti del Ministero. In tutto 30 unità in meno rispetto agli standard previsti. "Le cause di questi problemi - afferma il direttore - sono da ricondurre sia alle lungaggini dell’apparato giudiziario, sia all’efficace attività delle Forze dell’ordine sul fronte della repressione del crimine". La maggior parte dei detenuti che si trovano alla casa circondariale di S. Anna scontano pene per reati legati al traffico di stupefacenti.

Nonostante le carenze strutturali e di organico il carcere continua a garantire elevati standard in termini di reinserimento e sicurezza. Forse è anche per questo che in oltre 10 anni non si sono mai verificati casi di evasione.

Roma: in attività l’Ufficio per la Garanzia dei diritti dei detenuti

 

Comune di Roma on line, 22 maggio 2004

 

L’Ufficio del Garante dei diritti e delle opportunità delle persone private della libertà personale, da poco costituito dal Comune, muove i primi passi. Compito dell’Ufficio, tutelare i diritti dei detenuti in carcere, di quelli sottoposti a misure alternative e degli ex detenuti.

Il lavoro della struttura parte da due esigenze primarie riscontrate nella popolazione carceraria: il fluire di informazioni, e dunque di opportunità , da dentro a fuori gli istituti, e viceversa, e l’accesso alle cure sanitarie.

L’Ufficio del Garante ha presentato i risultati della ricerca "Come si muore in galera". Nelle carceri romane l’incidenza dei suicidi raggiunge il tasso medio di 11,54 ogni 10.000 detenuti. Il suicida ha, per il 48.5% dei casi, tra i 18 e i 35 anni. L’ingresso e la prima permanenza costituiscono la fase più delicata e drammatica della detenzione.

Presentata anche la campagna informativa, già in corso, per far conoscere l’Ufficio alla popolazione carceraria. L’Ufficio del Garante è in Lungotevere dei Cenci 5

Tel. 06.67106344

Mail: garante.detenuti@comune.roma.it

Libreria Donna on-line attiva la rubrica "Scritti dal carcere"

 

www.libreriadonna.com/carcere

 

Novità nel sito www.libreriadonna.com: è stata aperta la rubrica: "Scritti dal carcere" curata da Rita D’Amario, per divulgare storie e poesie dei detenuti italiani e stranieri che vogliono far conoscere la realtà carceraria.

"Andare ai resti": libro sugli anni 70 a mano armata

 

La Stampa, 22 maggio 2004


Nelle grandi metropoli del triangolo industriale le gang giovanili si trasformarono in temibili "batterie": erano decise a ritagliarsi, col salto del bancone e la razzia del contante dietro gli sportelli, la loro parte di bottino di un benessere da cui si sentivano ingiustamente escluse

Quello che Emilio Quadrelli va a raccontare in "Andare ai resti". Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta è una storia di barbari. Non di un’invasione barbarica, ma di un’irruzione di barbari. È il racconto delle vicende di un ribellismo violento e illegale, spesso a connotazione proletaria e con qualche trascorsa esperienza nelle organizzazioni della sinistra tradizionale o extraparlamentare, che esplode in quella terra di nessuno, affilata come una lama, che si pone tra le "working classes" e le "criminal classes" (per usare un lessico da vittoriani).

I nuovi barbari di cui parla Quadrelli sono nettamente estranei alla criminalità tradizionale, e, la loro, costituisce "una storia anomala e inconsueta le cui tracce non è sempre facile trovare. Un’anomalia barbara...".

"A differenza del selvaggio, continuamente vezzeggiato e corteggiato da schiere di pensatori e filosofi, il barbaro - ricorda Quadrelli - è figura perennemente rimossa e posta in ombra. La sua comparsa è sinonimo di distruzione, inciviltà, rapina e saccheggio...".

Irrompono queste gang giovanili nelle grandi metropoli del triangolo industriale e nel giro di brevissimo tempo si trasformano in temibili "batterie" di rapinatori che vanno all’assalto di quel che resta del boom economico italiano. Decisi a ritagliarsi, col salto del bancone e la razzia del contante dietro gli sportelli, la loro parte di bottino di un benessere da cui si sentono esclusi.

Ma, il loro agire - come emerge dalle decine di interviste riportate (asciutte testimonianze di azioni spesso cruente e con uno strascico di sangue innocente) - non ha, come obiettivo centrale, l’arricchimento immediato e illegale. Finalità che, invece, costituisce il motivo conduttore dei tradizionali "duristi" (vale a dire i professionisti della rapina) che "stanno sul ciocco" (ovvero entrano in azione).

I nuovi barbari di cui si sta parlando amano, al contrario, "andare ai resti": ovvero giocare il tutto per tutto, a cominciare dalla vita stessa, in una sfida di totale belligeranza esplicitamente dichiarata verso la società così come è organizzata. A cominciare dalle forze dell’ordine.

È forse questo l’aspetto che immediatamente distingue le "nuove batterie" di rapinatori dalla malavita tradizionale. Assieme al fatto che, spesso, i protagonisti di questo nuovo ribellismo, continuano a conservare rapporti di frequentazione e consuetudine con gli ambienti e i quartieri da cui provengono: "Noi facevano rapine, loro andavano a lavorare, noi eravamo ricercati o in bandiera e loro no... Un certo legame c’è sempre stato e negli anni non è mai venuto meno. Eravamo tutta gente della stessa zona e avevamo molte cose in comune".

Quando i primi banditi vengono arrestati e arrivano nelle carceri il confronto delle differenze che emergono con la malavita tradizionale non potrebbe risultate più netto: "Loro avevano paura degli sbirri - dice uno delle nuove batterie - e noi no.

Allora in carcere se dovevi cioccare invece di tagliarti mettevi su un barricamento, se uno aveva dei problemi invece di mangiarsi i chiodi saliva sui tetti. Se le cose non andavano mettevi su una rivolta. Ecco, per noi tra dentro e fuori non c’era differenza. Questo ha fatto cambiare il carcere".

Il cambiamento risulta immediatamente percepibile, sia agli occhi dei boss della mala tradizionale sia nell’osservazione dei più sperimentati sottufficiali della polizia penitenziaria. Il mondo della criminalità tradizionale è stato sempre, ben più di quanto si supponga, un mondo tutt’altro che disordinato. Anzi, un mondo in cui ci deve essere un posto per ogni cosa e una cosa per ogni posto: ossessivamente.

Questi nuovi arrivati - stando alla testimonianza di un vecchio boss - colpiscono per "la mancanza, nel loro modo di agire e di pensare, del senso delle gerarchie. Tra di loro non c’era nessuno che comandava o che contava di più di un altro. Con loro non potevi neppure scendere a patti, perché nella loro mentalità non c’era la volontà di prendere il tuo posto.

A loro piaceva solo andare in giro a rapinare, sparare, combinare bordelli. Mi facevano venire in mente - conclude "l’uomo d’onore" - i barbari che avevano distrutto l’impero romano e pensavano solo a saccheggiare". Spiazzato anche il sottufficiale della penitenziaria che rammenta gli inizi di quella fase, le prime entrate in carcere dei nuovi banditi: "Non ci voleva molto a capire che questi ci avrebbero dato un sacco di problemi... Mi ricordo di gente che è evasa con neanche sei mesi da fare. Questo dà un’idea di come ragionassero...".

E infatti i "nuovi banditi" arrivati nelle carceri sono protagonisti di un radicale cambiamento che il libro di Quadrelli descrive con ampiezza e profondità. I rapporti con i detenuti politici, le rivolte, l’istituzione delle carceri speciali, la brutalità del sistema repressivo che - gestito dall’istituzione o delegato ai boss - colpisce tutti coloro che non accettano le consolidate gerarchie e le regole.

E poi la stagione dei killers degli speciali, il dominio totalitario della nuova camorra organizzata, la follia sanguinaria in cui tutti sono nemici di tutti. Ci sono pagine di violenze, e soprusi, che fanno pensare alle immagini di questi giorni e rimarcano come il dominare sia sempre anche padroneggiare corpi.

E poi c’è uno stravolgente soffermarsi, in questo libro, sul lato femminile dell’"andare ai resti" - le capobanda, le dure e le "pazze" - che finisce poi, una volta represso e incarcerato, col far emergere la brutalità che ha regnato anche nelle galere femminili. Ultimo dato di fondamentale interesse è il confronto, fatto dai ragazzi delle "batterie" di allora, con la realtà carceraria di oggi.

Ovvero "il delirio dei carceri giudiziari di oggi" - come dice un veterano - "un carcere dove è evaporata ogni idea di appartenenza e di identità collettiva. Dove chi sta un po’ più in alto schiaccia chi sta in basso e guarda con rispetto chi sta sopra". Proprio come nella vita di ogni giorno fuori. Solo che dietro le sbarre, il basso e l’alto, si misurano in brutale violenza, nell’esercizio della forza e della più selvaggia sopraffazione. Insomma, dai nuovi barbari ai nuovi selvaggi. Così, pare, funzioni la ruota della civiltà.

 

 

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