Rassegna stampa 21 maggio

 

Sardegna. Protocollo d’Intesa su cura detenuti tossicodipendenti

 

Redattore sociale, 21 maggio 2004

 

È stato firmato il Protocollo d’intesa tra l’assessorato regionale della Sanità e il provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la cura e riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti e alcooldipendenti, presenti negli Istituti di pena della Sardegna. "L’obiettivo – ha affermato l’assessore Roberto Capelli – è di definire le direttive per le Asl e le direzioni degli Istituti di pena al fine di omogeneizzare e razionalizzare gli interventi in tutto il territorio regionale. Il Protocollo avrà anche il compito di favorire il dialogo tra le Asl e gli Istituti con l’obiettivo di tutelare la salute del detenuto". 

Il protocollo definisce i compiti attribuiti alle Aziende sanitarie locali e all’Amministrazione penitenziaria. Le prime dovranno assicurare gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti, presenti negli Istituti, avvalendosi degli operatori dei Ser.T. e del personale dell’ex presidio tossicodipendenze. In particolare le Asl si occuperanno del programma terapeutico e socio-riabilitativo individualizzato per i detenuti affetti da tossicodipendenze e alcooldipendenza; provvederanno all’esecuzione delle analisi cliniche ritenute necessarie per l’accertamento dello stato di tossicodipendenza e alcooldipendenza e per la verifica dell’andamento del programma terapeutico socio-riabilitativo; collaboreranno con i Servizi di infettivologia che operano all’interno dell’Istituto nell’attuazione di interventi di informazione e prevenzione delle patologie correlate alla tossicodipendenza, quali l’infezione da Hiv; collaboreranno con il Cssa per la stesura dei programmi di affidamento e con gli Enti ausiliari le strutture di recupero sociale.

Il coordinamento tecnico-funzionale degli interventi oggetto della convenzione, fatte salve le specifiche competenze del direttore in qualità di responsabile dell’Istituto, è affidato al direttore del Ser.T..

Il Servizio sanitario penitenziario assicurerà l’assistenza sanitaria di base, le prestazioni sanitarie urgenti e il monitoraggio delle patologie correlate allo stato di tossicodipendenza e alcoldipendenza, avvalendosi della collaborazione degli specialisti infettivologi.

Il Servizio sanitario penitenziario, inoltre, assicurerà gli interventi di pronto soccorso che si rendessero necessari al momento dell’ingresso o durante i periodi di detenzione, ma anche per l’attuazione dei programmi predisposti dal Ser.T., compresa la somministrazione dei farmaci sostitutivi.

Il Servizio si occuperà, tra l’altro, di integrare i programmi di trattamento e le relazioni di sintesi con le indicazioni sugli esiti del programma terapeutico e socio-riabilitativo. Il Protocollo avrà durata annuale e gli oneri finanziari per gli interventi attuati dal Ser.T. saranno a carico del Fondo regionale. Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Massidda, ha espresso soddisfazione per l’attuazione del Protocollo e ha, inoltre, chiesto all’assessore Capelli la possibilità di avere piccoli spazi all’interno degli ospedali di Cagliari, Sassari e Nuoro, dove poter ricoverare, se necessario, i detenuti, garantendo riservatezza e maggiore sicurezza.

Roma: a Rebibbia per portare i valori del pugilato

 

Roma One, 20 maggio 2004

 

Il campione europeo, Vincenzo Cantatore, salirà sul ring del carcere romano per insegnare la box ai detenuti. "Il mio desiderio - ha spiegato - è portare i principi del mio sport e fornire un’alternativa ai carcerati" .

Impegno, costanza, sacrificio, ma soprattutto forza di spirito e integrità mentale. Sono questi i requisiti necessari per praticare il pugilato, sport duro certo, ma non a caso chiamato anche "noble art", perché la lotta sportiva non è una guerra e chi vince è sempre il migliore, colui che ha saputo dare di più. Tutto questo Vincenzo Cantatore lo sa bene e i ko che ha conquistato, oltre a suon di pugni, li ha ottenuti anche grazie a quei requisiti che fanno di un pugile un campione, nel suo caso campione europeo. Cantatore ha deciso di uscire dal ring del palazzetto dello sport per entrare in un quadrato ben più ostile, quello della prigione di Rebibbia così da "offrire ai detenuti una possibilità di reinserimento nella società civile attraverso la pratica del pugilato" e aiutarli a vincere il "match" con la vita.

È questa la bella iniziativa del campione europeo, Vincenzo Cantatore, che, insieme al suo staff tecnico, sabato prossimo alle 16 entrerà come allenatore nel carcere romano per restarci fino all’autunno. Il sogno del pugile è diventato realtà grazie agli sforzi del direttore del carcere Stefano Ricca, del magistrato di sorveglianza e dell’educatore, Antonio Turco. "Il mio desiderio - ha spiegato il campione - è portare i valori del mio sport tra i detenuti e fornire loro un’alternativa. L’obiettivo è di coniugare l’attività sportiva a valori importanti come la solidarietà e il recupero sociale". "Determinante - ha sottolinea il pugile - sarà il dialogo con i detenuti e la possibilità per loro di guardare ad un futuro diverso: fatto di sacrifici, costanza nell’impegno e rispetto per gli altri. Valori che il pugilato contiene e sviluppa, come scelta di vita". Gli incontri avranno una cadenza costante. Cantatore insieme al suo maestro, Franco Piatti, si allenerà con i detenuti che hanno già aderito numerosissimi e con entusiasmo. La palestra del carcere verrà attrezzata per l’iniziativa, grazie all’ intervento di uno sponsor tecnico, coinvolto dallo stesso Cantatore, che fornirà gli strumenti necessari per lo svolgimento degli allenamenti. "I detenuti - ha continuato il campione - potranno toccare con mano la fatica, l’impegno e la costanza che, a prescindere dall’esito di un incontro, servono per arrivare a certi livelli. La sconfitta, nello sport come nella vita, ci deve insegnare - ha concluso - ad andare avanti e a fare tesoro degli errori commessi per non ripeterli, l’insegnamento più grande che lo sport sa dare".

Bari: no a discariche umane, le persone non sono immondizia

 

Melting Pot, 20 maggio 2004

 

Persone in fuga dalla guerra e dalla fame, pur non avendo commesso nessun reato, vengono private della loro libertà e dei loro diritti, rinchiuse in centri che solo apparentemente fanno accoglienza. In realtà i centri di permanenza temporanea (cpt) sono luoghi di reclusione, in cui nessuna forma di comunicazione con l’esterno è consentita, da cui nessuno si può allontanare, circondati da mura e recinti di filo spinato.

Questi luoghi chiusi, i centri di permanenza temporanea e assistenza, si sottraggono ad ogni controllo esterno: sono sempre più frequenti le denunce di maltrattamenti fisici sui migranti reclusi, di utilizzo di psicofarmaci, di negazione delle cure mediche anche a persone gravemente malate. Chi vi è rinchiuso è volutamente reso invisibile: non a caso questi luoghi sorgono alle periferie delle città o in aperta campagna.

Questi luoghi sono carceri speciali, non è importante chi tu sia, quale sia la tua storia individuale, le motivazioni della tua fuga: sei già stato giudicato un "soggetto pericoloso" da espellere e rimpatriare. E non importa se, al rientro nel tuo paese, rischi il carcere, la tortura o la vita. Anche il centro che stanno costruendo a Bari ha queste caratteristiche: lontano dal centro abitato, vicino a siti militari e di polizia. Inaccessibile e invisibile dalla strada pubblica, occultato dalla Cittadella della Finanza nel quartiere San Paolo, si sta cercando di tenerlo nascosto alla città fino a quando non sarà operativo. Si gioca con la paura della gente, costruita dai media, di una presunta invasione di masse di migranti "poveri e diseredati" che premono alle frontiere di un "occidente ricco e opulento". In realtà si è cercato il luogo più facile da sottoporre al controllo delle forze di polizia con il minimo dispendio di uomini e mezzi e vicino agli aeroporti per semplificare le operazioni di rimpatrio.
I costi di questa struttura si aggirano intorno ai 5.000.000,00 di euro ed è prevedibile che la sua gestione sarà altrettanto costosa, come per altri centri di permanenza italiani. Invece a Bari mancano spazi di aggregazione ed è inesistente una politica sociale di ridistribuzione delle risorse. Bari non ha bisogno di ulteriori luoghi di reclusione, né di ulteriori investimenti in operazioni di facciata; questi centri sono imposti dall’ alto, senza alcuna considerazione dei bisogni dei territori in cui vengono costruiti e della volontà dei cittadini di non ospitare sul territorio nessun luogo di privazione del diritto.

Rifiutiamo la presenza di un centro di permanenza temporanea, benché previsto da una legge; Scanzano ha dimostrato che la presa di parola della gente può impedire l’attuazione di scelte legislative ingiuste. Non possiamo accettare che la nostra regione diventi una discarica anche di esseri umani. Vogliamo che i lavori di costruzione siano bloccati, che un altro mostro giuridico non compaia sul nostro territorio, che tutti, le istituzioni locali, il mondo cattolico, le associazioni, i partiti, i singoli cittadini esprimano il loro dissenso, unendosi alle mobilitazioni del movimento in Puglia che in questi anni ha fatto emergere le contraddizioni insite nel sistema dell’accoglienza, svelandone i veri meccanismi. Non è importante chi gestirà questa struttura (Prefettura, Croce Rossa o associazioni del terzo settore), perché, qui come ovunque in Italia, i cpt non sono centri di accoglienza per i migranti, ma di detenzione e pertanto incompatibili con una "gestione umanitaria".

Tutto questo è possibile; altrove in Italia è già avvenuto sulla spinta dei movimenti che hanno aperto una campagna, anche europea, per la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti. Così nel 1998 a Trieste l’allora ministro degli interni Russo Iervolino fu costretta a chiudere il centro dopo una mobilitazione ampia; la regione Marche ha dichiarato che il proprio territorio è incompatibile con un cpt; a Bologna il candidato sindaco Cofferati ha promesso la chiusura del cpt; a Crotone il senatore Ds Iovene ha chiesto la chiusura del centro dopo averlo visitato; la Regione Friuli e il Sindaco di Gradisca hanno rifiutato di ospitare un centro di permanenza. Questi luoghi esistono dal 1998 ed è stato dimostrato che non possono essere riformati né migliorati; né qui né altrove.

Per questo ci rivolgiamo a tutti, alle istituzioni locali, al mondo cattolico, alle associazioni, ai partiti, ai sindacati,ai singoli cittadini affinché si uniscano alle mobilitazioni dei movimenti che da anni hanno svelato i veri meccanismi e le contraddizioni insite in un sistema di finta accoglienza. Chiediamo a tutti una chiara espressione di contrarietà e di incompatibilità ai CPT ed alle leggi che li hanno istituiti, perché l’immigrazione non è un problema di ordine pubblico.

Facciamo appello a tutti perché si manifesti e si sostengano le mobilitazioni contro ogni forma di esclusione, di limitazione della libertà e per una nuova idea di cittadinanza per tutte e tutti, per migranti e non. Perché il restringimento dei diritti riguarda tutti: i migranti sono solo l’aspetto più evidente dell’esclusione che si sta producendo per garantire un’inclusione sempre più ristretta. Noi comunque ci saremo ad impedire l’apertura di questa "galera etnica", a partire dal 5 e dal 18 giugno.

 

Presidio P.zza Prefettura

Bari 5 Giugno ore 19.00

Rete No CPT

Avezzano: detenuto morto, non si esclude la pista dell’omicidio

 

Il Centro, 21 maggio 2004

 

Il caso del giovane marocchino deceduto nel carcere di Avezzano si tinge di giallo. Dall’autopsia, disposta dalla Procura, sarebbero emersi elementi che hanno portato al blocco delle procedure per la sepoltura. In un primo momento si era pensato a un suicidio, ma dopo l’esito dell’autopsia, gli investigatori non scartano nessuna pista, compresa quella dell’omicidio. Le indagini, comunque, proseguono.
Si è tolto la vita in carcere dopo aver litigato con gli altri detenuti. Un giovane marocchino, Moamed Abrufai, 20 anni, è stato trovato ieri mattina dal personale del carcere in fin di vita. I soccorsi, però, non sono serviti.  Il giovane è morto poco dopo al pronto soccorso dell’ospedale di Avezzano. Una lite con i compagni di carcere sarebbe stata la causa dell’estremo gesto. Si tratta, ovviamente, soltanto di un’ipotesi, ma il giovane non ha lasciato biglietti, né ci sono altri elementi oggettivi per dare una spiegazione all’accaduto. Il fatto è avvenuto durante la notte. Mercoledì sera il marocchino è stato alloggiato in una cella singola, forse proprio a causa di alcune discussioni che aveva avuto con altri detenuti. Nessuno poteva immaginare quello che sarebbe accaduto nel corso della notte. La vittima ha utilizzato alcune lenzuola per fare un cappio che ha appeso a un gancio della cella.  Quando il personale dell’istituto penitenziario ha aperto la cella ha trovato il detenuto in fin di vita. Il giovane, che era in carcere perché accusato di diversi reati, è stato soccorso e subito è stato chiesto l’intervento del 118.  È stato portato al pronto soccorso dell’ospedale però per lui non c’è stato nulla da fare.

Intervista all’avv. Randazzo: "Le nostre carceri emulano quelle turche"

 

L’Opinione on line, 21 maggio 2004

 

L’articolo 41 bis prevede l’inasprimento della condizione carceraria: abolizione delle telefonate, colloqui ridotti ad una sola ora al mese (e filtrati con vetri) con i soli familiari, che vengono controllati da citofoni, microfoni e telecamere. Il pacco regalo che i congiunti possono portare al detenuto è ridotto a cinque chilogrammi al mese. Aria ridotta al massimo di 2 ore al giorno, isolamento in cella singola, partecipazione ai processi soltanto in video-conferenza, ed una lunga serie di restrizioni decise caso per caso. Da quando nel 1992 è entrato in vigore il regime di carcere duro (il cosiddetto 41 bis) molti detenuti hanno fatto sentire la loro voce per protestare contro le condizioni di vita in carcere stabilite dalla norma restrittiva.

Nel dicembre 1995, Raffaele Cutolo venne assoggettato al 41 bis, e così commentò: "Le condizioni in cui è costretto a vivere un uomo sottoposto al regime del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi, sono indegne per un paese civile; meglio la pena di morte che una vita dove è proibito fare e ricevere telefonate, parlare con altre persone se non con un familiare una volta al mese per un’ora, cucinarsi e svolgere qualsiasi attività ricreativa, culturale o sportiva".

Nell’aprile 2002 il 41 bis toccò Pietro Aglieri: "Non sarà con metodi o processi, che in certi casi vanno oltre quegli stessi metodi che si dice di volere combattere, che uno Stato laico e democratico riuscirà a dare più sicurezza ai suoi cittadini - spiegava Aglieri -. Non è demonizzando l’avversario, o umiliando la sua dignità, o alimentando rancori con tetra ostinazione di sicofanti prezzolati, o arroccandosi nella torre d’avorio di una presunta superiorità che si riuscirà a risolvere queste complesse questioni".

Nel luglio 2002 l’ennesima protesta dei detenuti: in circa 60, sottoposti al regime del 41 bis nel carcere di massima sicurezza di Marino del Tronto (vi era rinchiuso anche Totò Riina) protestarono con uno sciopero della fame. La protesta s’allargò fino a coinvolgere 13 carceri e circa 300 dei 645 boss in regime di 41 bis. La protesta rientrava il 26 luglio per riprendere il 17 settembre del 2002, ma soltanto a Novara. Durante quel caldo luglio il boss Leoluca Bagarella interpretò le esigenze dei tanti: "Parlo a nome di tutti di detenuti ristretti a L’Aquila, sottoposti al regime del 41 bis, stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche".

Nel luglio 2002, Salvatore Madonia lanciò una accesa polemica: "Dove sono gli avvocati delle regioni meridionali, in cui sono più numerosi i detenuti sottoposti a questo regime, che hanno difeso molti degli imputati per mafia e che ora siedono negli scranni parlamentari e sono nei posti apicali di molte commissioni preposte a fare queste leggi: loro erano i primi, quando svolgevano la professione forense, a deprecare più degli altri l’applicazione del 41 bis: allora svolgevano la professione solo per far cassa". Abbiamo commentato la vicenda del 41 bis con l’avvocato Luciano Randazzo, che è stato impegnato nella difesa di molti detenuti assoggettati al regime di massima restrizione.

 

Avvocati, magistrati e politici si mostrano l’uno contro l’altro armati ma pare che tutti abbiano dimenticato le torture perpetrate dal 41 bis?

Il 41bis rappresenta una macchia vergognosa per i legislatori, rappresenta un potere residuale nelle mani del Guardasigilli (che dispone a proprio piacimento del detenuto trasformato in torturato) che nessuno stato assolutista ha mai pensato d’applicare in Europa negli ultimi 200 anni. Un ordinamento come il nostro, che si picca di poter insegnare civiltà e democrazia, dovrebbe garantire per primo una vivibilità a chi costretto ad un regime di rieducazione.

 

In questi giorni ha assistito a qualche pratica da 41 bis?

Ho seguito un indagato che, in fase ad ordinanza di custodia cautelare, è stato recluso nel carcere di Viterbo: sono stato costretto a parlargli attraverso i vetri. Durante il colloquio eravamo guardati ed ascoltati dalle guardie carcerarie. L’uomo, fortemente provato, ha chiesto di vedere la propria figlioletta, e non ha potuto far altro che baciarla attraverso i vetri. In quei momenti ci si rende conto che i politici parlano di violazioni di diritti umani nel mondo e, spesso, evitano d’alleviare le tante torture (piccole e grandi) a cui sono sottoposti i detenuti nelle carceri italiane.

 

L’Europa ha bacchettato l’Italia per il 41 bis ed in alcuni documenti ha messo lo Stivale sullo stesso piano della Turchia?

L’Europa ha espresso una formale condanna per il 41 bis. Che la Turchia sia una nazione poco democratica è evidente in primis dalla sua atavica situazione carceraria, ma che sia l’Italia a ricordarlo, sindacando negli affari turchi, è a dir poco parossistico. L’Italia non può dire "la Turchia entrando in Europa deve rivedere il suo sistema carcerario", perché la Turchia potrebbe rispondere "l’Italia non può sindacare quando fa di peggio".

 

Ma il 41 bis è dimenticato?

Il problema del 41 bis è affrontato quotidianamente. Rammento le battaglie in materia fatte dall’avvocato Mauro Mellini, dall’avvocato Lupis e dal professor Paolo Signorelli: sono esempi di lotta contro il 41 bis. Non comprendo perché la spinta garantista che s’è avuta per la Cirami non è riuscita a spazzar via il 41 bis. Il diritto penale romano non concepiva che l’esilio, la pena di morte la troviamo solo con il diritto romano canonico, che subentrava a quello romano. La morte come pena è un fatto recente. Il 41 bis è un passo indietro. Perché se da un lato c’è l’investigazione dall’altro le garanzie non vengono estese ai condannati. Mi risultano oltre 100 detenuti, che hanno superato i 70 anni, assoggettati al 41 bis.

 

 

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