Rassegna stampa 5 giugno

 

Giampaolo Landi (An): la Bossi - Fini funziona benissimo

 

Agi, 5 giugno 2004

 

"I numeri complessivi delle espulsioni effettivamente eseguite dal governo di centrodestra smentiscono platealmente le strumentalizzazioni politiche" contro la legge Bossi-Fini sull’immigrazione. Lo dice Giampaolo Landi di Chiavenna, responsabile immigrazione di An, che sottolinea: "Rispetto ai fallimenti dei governi di centrosinistra, nei primi tre anni del governo di centrodestra sono stati fisicamente rimpatriati mediamente 75 mila extracomunitari su base annuale. Contemporaneamente sono stati pesantemente ridotti gli sbarchi sulle coste italiane.

Questi dati confermano che gli effetti della legge sono sostanzialmente positivi: tuttavia è necessario introdurre alcune modifiche, in particolare agli art. 13 e 14, peraltro recentemente sanzionati dalla Corte costituzionale".

Per Landi "non è un mistero che An, fin dalla prima stesura della bozza della legge, avesse richiesto l’applicazione del reato di permanenza in clandestinità fin dalla prima violazione da parte del clandestino o dell’irregolare. Tale istituto, sanzionato con una pena da 1 a 4 anni, comporterebbe l’obbligatorietà dell’arresto e la relativa condanna da espiare in carcere o da convertire in un provvedimento di espulsione coatta. È necessario quindi introdurre questo meccanismo e di ciò se ne devono convincere anche FI e Udc".

Castelli: "il nuovo carcere di Varese sarà innovativo"

 

Varese News, 5 giugno

 

"Sarebbe irrazionale ristrutturare il Miogni. Il nuovo carcere di Varese sarà un edificio che rispetterà le nuove normative e finanziato in maniera innovativa". Non ha dubbi il ministro di Giustizia Roberto Castelli. È a Malnate, alla passerella dei candidati leghisti in vista delle elezioni, dove arriva in ritardo. Nella tarda mattinata ha dovuto infatti essere a Lecco, all’inaugurazione del carcere, appena ristrutturato. L’occasione è troppo ghiotta per non tornare su uno degli argomenti più caldi delle ultime vicende amministrative del capoluogo.

 
Ministro Castelli, uno degli argomenti contro il nuovo carcere di Bizzozero è proprio il riferimento a Lecco: in entrambi casi un carcere di modeste dimensioni. Lì restaurato, qui a Varese se ne vuole costruire uno nuovo per forza. Cosa ne pensa?

"Credo che i paragoni siano improponibili. A Lecco c’è un piccolo carcere da 60/70 detenuti. A Varese c’è un struttura più grossa. Nel suo caso non era proponibile, conveniente o razionale ristrutturarlo".

Eppure in molti continuano a sostenere la tesi della non necessità del nuovo penitenziario.

"Mi stupisce la polemica. L’Italia è un paese strano. Ho ricevuto da tutte le parti inviti e sollecitazioni perché si andasse oltre ai Miogni, ritenuti superati in quanto obsoleti. La nuova struttura sarà invece innovativa secondo molti punti di vista e costruita secondo le nuove normative che regolano le condizioni di vita dei detenuti. Penso sia solo una polemica politica".

L’altro aspetto che ha scatenato polemiche è la ubicazione della nuovo insediamento che andrà ad intaccare una zona verde che molti vorrebbero protetta.

"L’area su cui sorgerà è di stretta competenza decisionale degli enti locali, il ministero non decide. E penso che il comune abbia scelto quell’area a ragion veduta".


Le opposizioni e non solo, sostengono che così com’è delineato il nuovo progetto darà vita ad un carcere sovradimensionato rispetto alle reali esigenze della città.

"Anche questa polemica la trovo strana. Sono continuamente sollecitato, anche dalla stessa opposizione, proprio a causa del problema del sovraffollamento carcerario. Un problema che ha tutta Italia, alle prese con un flusso migratorio che va ad allargare gli strati di microcriminalità e di cui la Lombardia ha un triste primato. Non faccio affermazioni politiche, ma riporto una dato fisiologico: ogni anno in Italia la popolazione carceraria aumenta di circa 2000 unità. A San Vittore c’è una media di 70 arresti al giorno. Chi solleva obiezioni di quel tipo è fuori dalla realtà".

Lei accennava al carattere innovativo del penitenziario. In che senso?

"Intanto abbiamo fatto una legge apposta, uno strumento legislativo che permetterà modalità d’appalto nuove e più rapide. La novità più sostanziale è che la struttura sarà costruita in leasing. Ciò significa che sarà un’entità privata ad erigere la struttura, seguendo i dettami ministeriali, mentre la gestione sarà totalmente a carico nostro. Il vantaggio è che noi copriremo l’investimento non pagando subito l’intera cifra, ma diluendola in 15 anni. Una sorta di canone annuo.  Questa è l’innovazione, si tratta del primo caso in Italia. E d’altro canto, il privato sarà sgravato da tutta una serie di rallentamenti burocratici che gli consentirà di completare l’opera in tempi più brevi. Recentemente ho inaugurato un carcere nel sud d’Italia cominciato nel 1984. Cose di questo tipo non possono più succedere".


Tempi previsti, dunque?

"La gara d’appalto è già stata istituita, apriremo le buste entro fine estate, si può pensare che per il 2005 i lavori possano iniziare. Realisticamente si prevedono cinque anni per la consegna. Sembrano tanti, ma le assicuro che per l’Italia è un tempo molto breve".


Qual è esattamente la cifra stanziata?

"So che il Ministero ha stanziato complessivamente 90 milioni di euro per la costruzione dei carceri carcere di Varese, Pordenone e l’ampliamento di quello di Bollate. Per Varese, credo che la cifra sia intorno ai 35 milioni. Ma io, nel mio ruolo, come potrà immaginare, mi tengo lontano dalle questioni "contabili" del progetto. Non si sa mai, in Italia...".

Reggio Emilia: agli agenti dell'Opg servono rinforzi

 

Telereggio, 5 giugno 2004

 

È un luogo che alle persone comuni incute soggezione, timore. È certamente un luogo in cui ci si muove sempre a cavallo della sottile linea di confine fra malattia mentale e devianza criminale. L’ospedale psichiatrico giudiziario solo nel nome non è più un carcere. Nei fatti lo è. È un carcere difficile per tutti. Per chi vi è rinchiuso e per chi vi lavora. L’Opg di Reggio ha conquistato la palma negativa del numero di suicidi, insieme al Marassi di Genova, al San Vittore di Milano ed ai penitenziari sardi. A Reggio sono state 7 - tra il 2001 e il 2002 - le persone che si sono tolte la vita. Per lo più giovani sui trent’anni, ma già da tempo internati.

Ultimamente su questo fronte le cose sembrano andare un po’ meglio ma la situazione fra le mura dell’Opg resta difficile soprattutto per la scarsità di personale. In pianta organica gli agenti dovrebbero essere 121. In realtà in servizio ve ne sono solo 95. Calcolando quelli distaccati in altre sede la presenza effettiva è di ottanta agenti suddivisi in 3/4 turni di servizio. Capita quindi che un singolo agente si trovi a vigilare sezioni con oltre 40 ricoverati di giorno, 80 di notte. Con le ferie estive la situazione diverrà ancor più grave e quasi certamente verranno sospese le varie attività che servono da valvola di sfogo per i detenuti e contribuiscono a mantenere la situazione sotto controllo.
Gli agenti accusano il Provveditorato regionale ma anche i palazzi romani di non dare retta alle loro continue proteste e così questa mattina hanno incontrato il vice-prefetto denunciando l’attuale situazione e sperando che per suo tramite la situazione si sblocchi.

Catania: risarcito due anni dopo la morte per suicidio

 

Ansa, 4 giugno 2004

 

Arrestato ingiustamente, aveva chiesto il risarcimento allo Stato. I tremila euro sono arrivati ma 2 anni dopo il suicidio in carcere. Aurelio Accardo, 27 anni, arrestato nel 2000 nell’ambito di un’operazione antidroga, si era ucciso nel 2002 a causa di una forte depressione. Il padre annuncia che devolverà il risarcimento per ingiusta detenzione in beneficenza e chiede che il figlio venga ricordato come un bravo ragazzo.

Sassari: protestano gli agenti "applicheremo contratto alla lettera"

 

L’Unione Sarda, 5 giugno 2004

 

Un incontro col prefetto, ultima spiaggia prima di incominciare uno sciopero bianco. "Uno sciopero bianco in carcere significa applicare il regolamento alla lettera - dicono gli agenti di polizia penitenziaria di san Sebastiano - Vuol dire perquisizioni accurate prima dei colloqui, e quindi un colloquio anziché dieci. Oppure codice della strada alla mano durante le traduzioni. In parole povere, la macchina si inceppa, per tutti. Con tutte le conseguenze di un’esasperazione che coinvolge, per motivi identici, carcerieri e carcerati".

Niente più steccati, fra gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di San Sebastiano. Al sit in di ieri davanti al portellone in ferro dell’ingresso sono sotto le bandiere di tutti i sindacati, per la prima volta. "Inutile dividersi - commenta Antonio Cannas, rappresentante del Sappe - i problemi di uno sono i problemi di tutti e si ripercuotono sulla sicurezza esterna".

Già, la sicurezza. Sulle mura le sentinelle latitano, così come nel campo di calcetto interno, inaugurato in pompa magna qualche settimana fa. Non ha più visto una partita: non c’è personale per vigilare. Con le ferie alle porte e il caldo che incombe, sono quei numeri che non tornano, a far girare la testa agli agenti. "Continuano a mandare a Sassari detenuti in condizioni fisiche disastrate, che quasi certamente necessiteranno di servizi esterni - commenta un’agente battagliera - i giorni scorsi siamo arrivati ad avere sei piantonamenti, ognuno di essi significa almeno due uomini fuori, ogni turno. Assenze che tirano una coperta sempre più corta".

"Paradossalmente ci troviamo a pagare noi per primi le conseguenze di questo organico insufficiente: un collega, di turno durante un suicidio in cella, è stato formalmente richiamato per non aver fatto il suo dovere. Ma quell’agente non stava giocando, aveva il compito di sorvegliare tre piani, da solo. E purtroppo era successo il fattaccio". Su una cosa concordano, i poliziotti di San Sebastiano: il cambio di rotta impresso dalla nuova direttrice, Patrizia Incollu.

"Ha fatto più incontri lei in questi tre mesi di quanti ne abbiano fatti i direttori succedutisi negli ultimi vent’anni", commenta un’infermiera. È una che lavora dieci ore al giorno, mentalità aperta, confronto costante, attenzione ai problemi degli agenti come dei detenuti: "fa quello che può, ma il potere é in altre mani".

Il ricordo del tre aprile del 2000, giorno del maxipestaggio in carcere, è un incubo da rimuovere. Ma quello che è successo allora era frutto della rabbia e dell’esasperazione, sussurra qualcuno, "e per quello ci avevano arrestato tutti. Siamo stati i soli a pagare: in questi anni niente è cambiato, si sono avvicendati in tanti e in tanti hanno promesso. Tutto è rimasto immobile, passato il polverone".

Le lettere nel frattempo si sono sprecate: hanno scritto a tutti, dal ministro della Giustizia al direttore del carcere. "Forse stanno aspettando che a San Sebastiano ci scappi il morto", commenta un agente, vent’anni di servizio alle spalle. L’ultima volta ci si è andati vicino. Un detenuto aveva aggredito con una lametta un poliziotto durante il trasferimento dall’infermeria alla cella. L’ennesima tragedia sfiorata.

Lecco: ministro Castelli contestato dalla polizia penitenziaria

 

Ansa, 5 giugno 2004

 

Il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, è stato contestato dagli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Lecco. Gli agenti, che chiedono l’aumento degli organici per tutte le strutture della Lombardia, hanno manifestato davanti al carcere lecchese nella cerimonia per l’inaugurazione della ristrutturazione. Castelli non ha negato problemi di organico: "Ormai sono abituato a queste accoglienze" ha detto aggiungendo che si sta "cercando di attenuare il problema".

Ascoli: tre medici sotto processo per la morte di un detenuto


Il Messaggero, 5 giugno 2004

 

Tre medici del supercarcere di Marino del Tronto saranno processati davanti al giudice del tribunale di Ascoli, Emilio Pocci, per la morte di Giuliano Costantini. Il procedimento si aprirà il prossimo 25 ottobre e i tre (S.C, A.D.S, E.P.) risponderanno del reato di omicidio colposo in concorso. Così ha deciso ieri dopo una lunga camera di consiglio il giudice delle udienze preliminari Alessandra Panichi che ha accolto quindi l’impianto accusatorio del sostituto procuratore Umberto Monti.
Soddisfatto il magistrato come pure i legali di parte civile Francesca Palma, Ugo Ciarrocchi (per il patrigno e la zia del deceduto) e Francesco De Minicis per l’associazione Antigone, un ente esponenziale che si occupa della tutela delle vittime di soprusi nelle carceri.

"Sono state accolte le nostre richieste e attendiamo fiduciosi il processo" ha commentato l’avvocato Palma. Ma la difesa promette battaglia. "Nonostante questo rinvio a giudizio, ribadiamo che non ci sono elementi contro i medici che non hanno fatto nulla che abbia rilevanza penale; al contrario, hanno fatto tutto il possibile per assistere il paziente" ha replicato l’avvocato Alessandro Trofino.

Giuliano Costantini morì il 28 settembre del 2000 a poche ore di distanza dal ricovero all’ospedale Mazzoni dove fu sottoposto ad un intervento chirurgico urgente. Per Monti, Costantini poteva essere salvato se fosse stato diagnosticato per tempo "l’addome acuto" e fosse stato disposto un ricovero al Mazzoni più repentino. Il detenuto era arrivato all’ospedale febbricitante ed in preda a forti dolori addominali. I medici del pronto soccorso riscontrarono una grave emorragia interna che richiese un intervento d’urgenza effettuato dall’equipe del primario di chirurgia Emidio Senati.

L’operazione durò oltre tre ore, ma non servì a salvare la vita del quarantenne che morì per collasso cardiocircolatorio conseguente a peritonite diffusa addominale. Le perizie degli specialisti Tombolini e Corradini avrebbero fatto emergere importanti indicazioni sulla presunta responsabilità dei tre medici. In sostanza l’uomo, da tempo malato, non sarebbe stato trasferito in tempo utile in ospedale. Ciò secondo il Pm Monti nonostante evidenti segni della grave infezione che stava minando il suo fisico. Tra questi l’addome acuto e le particolari caratteristiche del materiale organico che aveva rimesso.

Brasiliani in carcere: detenuti o dimenticati?

 

Brasil news, 5 giugno 2004


Quarantadue cittadini brasiliani sono detenuti nelle carceri del Centro-sud Italia, per crimini per lo più connessi alla detenzione e allo spaccio di sostanze stupefacenti. Altrettanti potrebbero essercene negli istituti di pena del Nord. Un numero assai modesto, percentualmente rapportato alla presenza brasiliana nel nostro paese, ma che evoca comunque il delicato tema riguardante la condizione degli stranieri detenuti nelle carceri italiane. Ne abbiamo parlato con Maria Edileuza Fontenele Reis, console generale aggiunto del consolato brasiliano di Roma, e Lucia Rodrigues, ex detenuta del carcere di Rebibbia.

Due esperienze a confronto, due testimonianze contrapposte che risentono delle rispettive realtà: quella del console, secondo cui  "non ci sono lamentele per quanto riguarda il rapporto tra detenuti e istituzioni carcerarie italiane, perché il consolato è consapevole dell’osservanza dei principi fondamentali dei diritti umani"; quella dell’ex detenuta, che chiede di "fare conoscere ai detenuti i propri diritti e di non fare pagare loro due volte per il reato che hanno commesso".

Dal Dossier statistico immigrazione 2003 è emerso che i detenuti stranieri costituiscono ben il 30,1 per cento della popolazione carceraria in Italia (16.788 su 55.670): ben un terzo del totale. Un bel numero, non c’è che dire. Purtroppo, a tale crescita non corrisponde un’adeguata riforma del regolamento vigente: emarginazione, isolamento e difficoltà per garantire il rispetto dei diritti degli stranieri in carcere, sono all’ordine del giorno. E tutto questo, nonostante l’articolo 1 comma 2° dell’ordinamento penitenziario escluda "qualsiasi discriminazione in ordine a nazionalità e razza". La normativa vigente, frutto della riforma del 1975 e dei successivi interventi (dalla legge "Gozzini" del 1986 sino alla legge "Simeone" del maggio 1998), non tiene assolutamente conto delle esigenze della popolazione straniera detenuta nelle carceri italiane. Non possiamo negarlo, le condizioni di detenzione degli stranieri sono di gran lunga più dure di quelle degli italiani: non vogliamo pensare che si tratti di razzismo, bensì di inadeguatezza delle norme vigenti. 

Ma diamo ora un’occhiata, nello specifico, al numero dei detenuti brasiliani in Italia: nella giurisdizione del Consolato generale del Brasile a Roma, che comprende più della metà del territorio italiano dal nord di Firenze sino alla Sicilia e Sardegna (a nord di Firenze vige il Consolato generale del Brasile a Milano), sono detenuti 42 brasiliani negli istituti penitenziari di Roma, Civitavecchia, Viterbo, Pescara, Firenze, Spoleto, Napoli, Pozzuoli, Bari, Terni, Orvieto, Isili e Mamone. Tra i 42 detenuti vi sono solamente sette donne. "Il numero è nettamente diminuito considerando i dati del 2002, quando il totale dei detenuti brasiliani arrivava quasi a 80", osserva il ministro Fontenele Reis: "molti di questi sono stati beneficiati della recente legge 189, testo unico sull’immigrazione, in vigore dal 10 settembre 2002, applicabile ai detenuti che avessero dimostrato buona condotta e una pena residua da scontare inferiore a due anni".

Quali sono i reati più frequenti commessi dai brasiliani in Italia?

"Gran parte di loro", spiega il ministro, "risponde per la violazione della legge sulle sostanze stupefacenti. Si tratta d’individui conosciuti in Brasile con il nome di "mula" (corriere): cittadini comuni al di sopra di ogni sospetto, assunti da organizzazioni criminali con l’incarico di portare piccole quantità di cocaina (da 600 grammi a due chili) in Europa. Si è verificato solamente un caso di traffico che riguarda quantità superiore a 14 chili. Tra tutti i prigionieri vi sono solamente tre persone che scontano una pena per il reato di omicidio, furto e aggressione".

E aggiunge: "Le storie più drammatiche riguardano i corrieri delle organizzazioni a delinquere del traffico di droga. Mariti che lasciano le mogli in critiche condizioni economiche per offerte di circa un milione di reais da ricevere al ritorno, abbandonando i figli alle cure dei vicini nel periodo del viaggio verso l’Italia per la consegna degli stupefacenti. Al momento dell’arresto, gli imputati lasciano i figli in Brasile totalmente abbandonati per l’intero periodo della pena che si aggira sui due anni circa. La situazione è particolarmente commovente dal momento che molte di queste ingenue persone vengono aggirate ed utilizzate come esche: trasportando piccole quantità di droga (circa un chilo), vengono denunciate dagli stessi malviventi che hanno commissionato loro il viaggio con lo scopo di spostare l’attenzione da altri corrieri che viaggiano nello stesso volo, ma che trasportano quantità molto superiori".

 Storie di ordinaria miseria, dunque. "Sto scrivendo un libro sulla vita in carcere", annuncia Lucia Rodrigues, "perché lì dentro succedono cose che nessuno, di fuori, può immaginare. Il grande problema delle carceri è l’ignoranza dei detenuti: e ai vertici non fa comodo che i detenuti siano coscienti di ciò che spetta loro". Lingua e cultura possono a volte costituire barriere insormontabili per gli stranieri, portandoli, spesso, a una totale inconsapevolezza dei propri diritti: questa condizione non fa altro che inasprire le condizioni d’isolamento dell’extracomunitario in carcere.

"Il vero problema per gli stranieri detenuti", aggiunge Rodrigues, "sta nella difficoltà di comunicazione. Non capendo la lingua, non sono al corrente dei loro diritti più elementari: ciò può determinare una detenzione più lunga. È nostro dovere far conoscere ai detenuti i propri diritti: è giusto che paghino per il proprio reato, ma non è giusto che debbano pagare due volte". E ci parla del progetto di dar vita ad una cooperativa per il supporto dei detenuti immigrati, non solo durante il periodo di detenzione ma, una volta usciti, trovando loro un’occupazione.

"Purtroppo spesso accade che molti ex detenuti non trovando lavoro, ricadano nella criminalità", continua Rodrigues. "E la maggior parte delle volte finiscono di nuovo dentro: è un circolo vizioso. È vero che ci sono dei criminali "matricolati" tra i detenuti, ma è anche vero che molti di loro ricadono nel crimine perché non vengono aiutati dalla società.

È ciò che è accaduto ad alcuni miei amici. Ed è un peccato, perché solo chi ci è stato può sapere che cosa significhi stare in carcere. Nessuno fa nulla di concreto in questo senso. Ed è per questo che vogliamo dar vita ad una cooperativa". I detenuti stranieri, sostiene, non sarebbero abbastanza tutelati dalle istituzioni competenti, né durante il periodo di detenzione, né al momento del loro reinserimento nella società.

Chiediamo allora al ministro Fontenele Reis in che modo il consolato supporti i propri connazionali in carcere. "Dal momento in cui il consolato viene informato della presenza di un detenuto brasiliano", risponde, "prende immediatamente l’iniziativa di inviargli un modulo per l’iscrizione. Dopo di che i prigionieri ricevono visite trimestrali da parte dei funzionari consolari. Il consolato inoltre provvede a mettere in contatto i detenuti e lo stesso istituto penitenziario con le congregazioni religiose dedite al sostegno morale dei carcerati.

I reclusi ricevono dal consolato materiale per l’igiene personale, scarpe, indumenti, oltre a carta, francobolli e penne per la loro corrispondenza personale. Infine, invia periodicamente riviste e pubblicazioni brasiliane. La maggior parte dei detenuti brasiliani sconta l’intera pena. Nel caso degli arresti domiciliari, il consolato intercede con l’istituzione religiosa e l’accoglienza per provvedere ad un alloggio al recluso per l’intero periodo della pena".

Il consolato insomma manterrebbe costanti contatti con le autorità della direzione dei carceri, grazie all’aiuto delle quali intercederebbe per beneficiare i cittadini brasiliani per questioni relative alla salute, alle cure dentistiche, al conseguimento di un posto lavorativo all’interno dell’istituto penitenziario e al contatto con i familiari in Brasile. "Abbiamo sempre ottenuto riscontri imminenti e positivi da parte degli istituti penitenziari", sottolinea il console: "non ci sono lamentele, per quanto riguarda il rapporto tra i detenuti e le istituzioni carcerarie italiane. Il consolato è consapevole dell’osservanza dei principi fondamentali dei diritti umani".

Tuttavia a sentire Lucia Rodrigues, che il carcere l’ha vissuto sulla propria pelle, le cose non starebbero proprio così. "Persone che devono aspettare due anni per poter fare un’analisi, ricette mediche rinchiuse per mesi in un cassetto, terapie mandate al carcere che i detenuti nemmeno vedono", denuncia l’ex detenuta. "Conoscevo una donna, affetta da una cisti alle ovaie, che ha aspettato un anno prima di poter ricevere le prima cure. Per quanto mi riguarda ho i reni rovinati perché per un anno e mezzo non sono state ascoltate le mie richieste di aiuto.

Dovevo provvedere io all’acquisto dell’acqua termale idonea (tra l’altro molto cara), ed ero costretta a comprare in carcere le medicine che mi servivano. Solo quando ho iniziato a protestare per rivendicare i miei diritti, facendo la voce grossa, hanno cominciato ad ascoltarmi. Ho minacciato di denunciare un medico che voleva sospendermi dal lavoro in cucina: non avendo famiglia e nemmeno i soldi, come avrei potuto comprare l’acqua e le medicine per curare i miei reni? Quando l’ho saputo, mi sono detta: adesso basta, i miei diritti sono i miei diritti. Ho mandato un fax al consolato scritto in italiano (sapevo che la direzione del carcere legge la corrispondenza prima di inviarla), e così sono riuscita ottenere ciò che volevo. Ma questo solo perché ero consapevole dei miei diritti".

Secondo Rodrigues, il problema delle carceri italiane non risiede assolutamente nel comportamento del personale addetto, anzi: "le guardie sono molto preparate, probabilmente seguono dei corsi per sostenere psicologicamente il detenuto, che non sempre è una persona facile", precisa. "Se il carcere fosse solo quelle quattro mura che ti separano dal mondo, sarebbe un conto. Ma purtroppo non è soltanto questo: psicologicamente è molto dura. Spesso mi è capitato, in momenti di profondo sconforto, di trovare una parola amica da una guardia.

Probabilmente perché molte delle guardie che lavorano a Rebibbia, sono lì da più di venti anni: sono mamme, sono nonne. Esiste un rapporto affettuoso con loro". Attualmente l’ex detenuta lavora in un maneggio, frequenta un corso di inglese e un altro di informatica, e collabora come volontaria presso l’associazione "Donne brasiliane in Italia", che si occupa, tra l’altro, di dare un sostegno alle detenute. "Vivo in una casa-famiglia: sarebbe molto bello se tutti gli ex detenuti trovassero un posto come l’ho trovato io".

Documentario "Codice a sbarre" a Mostra Cinema di Venezia

 

Il Messaggero, 5 giugno 2004

 

"Quando si parla della vita in carcere si tende sempre ad esagerare in un modo o nell’altro. La mia idea è quella di mostrare realmente cosa accade nei quattro metri per quattro di una cella, popolata da persone che hanno provato cosa vuol dire stare dietro le sbarre".

Il regista Ivano De Matteo fa sul serio. Così come Valerio Mastandrea, per l’occasione in veste di produttore insieme a Giorgio Formica, che ha provato sulla sua pelle la dura legge della prigione. La loro provocazione diventa realtà tangibile e si trasformerà in un documentario "che speriamo sia ancora in tempo per una possibile selezione alla Mostra del Cinema di Venezia. Sarebbe un piccolo miracolo". Oggi, al centro di Piazza Trilussa, monteranno davanti ad una platea di strada una struttura in plexiglas trasparente, che riproduce fedelmente una cella con tanto di piccolo lavabo, fornelletto, tavolo e letto a castello per una performance dal vivo assolutamente improvvisata che ha inizio alle 18. Titolo, Codice a sbarre.

In quel microcosmo lontano dal mondo, il tempo è scandito da caffè mandati giù a ripetizione, sigarette, partite a carte, chiacchiere su sport e politica, "rigidi cerimoniali, come la pulizia della cella, il pranzo, la cena, il bucato, che ricordano instancabilmente a che punto della giornata si è arrivati. Un secondo di carcere - dice ancora De Matteo - non vale centocinquanta giorni di "tugurio" di un reality show. Ma Codice a sbarre non è certo una risposta alle invenzioni della tv.

Qui si tratta di vita che brucia" Si chiamano Giulio, 48 anni, Ezio, 76 e Adamo, 38, tutti romani e Adel, 39 anni di Tunisi. Generazioni a confronto che, ognuna col suo preciso codice di vita, restituiscono emozioni, insegnamenti: "È certo un lavoro di sensibilizzazione il nostro - sottolinea Valerio Mastandrea - ma io, che spesso ho avuto modo di lavorare per e con i detenuti, ogni volta mi sono portato nella mente e nel cuore informazioni indicibili.

La persone che vivono in carcere hanno sensibilità e creatività impensabili, una energia incontrollabile. Quando sto lì dentro - dice ancora Valerio - mi sento male, ma poi capisco che non ne ho motivo perché le vibrazioni sono positive: le generazioni si annullano, così come il tempo. Tutto diventa irreale e allo stesso tempo molto più vivo che nel cosiddetto mondo dei giusti". I versi su nastro di poesie scritte dai parenti dei detenuti si uniscono a pensieri letti dagli stessi protagonisti del lavoro accompagnati da musiche di Mendhelson e Ciaikovskij. Alle 21 la porta della cella si aprirà "e i detenuti torneranno liberi - spiega Mastandrea -. Liberi di parlare con il pubblico, di respirare l’aria di una città che speriamo sempre più aperta".

Catania: con il Progetto Argo cuccioli "adottati" dai detenuti

 

La Sicilia, 5 giugno 2004

 

I cuccioli abbandonati saranno svezzati e curati fino al compimento del primo anno di vita. Saranno dati in affidamento ai detenuti che insegneranno loro i primi comandi, il controllo degli istinti, il contatto con il padrone e la guida al guinzaglio. È quanto accadrà al carcere di Giarre grazie al progetto Argo, lanciato in tutt’Italia dal gruppo parlamentare dell’Udc, che finanzia il recupero dei cani abbandonati tramite l’adozione nelle carceri.

Gli animali, una volta cresciuti, verranno poi presi in carico dai centri specializzati in addestramento di cani guida per ciechi e dunque formati per un servizio speciale alla persona. Il progetto è stato presentato ieri dal sindaco di Giarre, Teresa Sodano con l’assessore ai servizi sociali Lina Lopatriello, il deputato dell’Udc Filippo Drago, il direttore del carcere Milena Mormina e il componente della sezione provinciale dell’Enpa Alberto Castiglia.

"Argo è stato finanziato dal gruppo dell’Udc assieme ad altri progetti a favore del sociale - è stato detto, - abbiamo infatti messo da parte fondi speciali oltre che per il recupero dei detenuti delle carceri, e per gli animali abbandonati, anche per due case famiglia per bambini in Brasile e Argentina. È un modo per essere utili verso chi ha bisogno ma anche per andare incontro alle amministrazioni locali che altrimenti non potrebbero affrontare problematiche fuori dalle loro competenze". Il carcere di Giarre, che detiene ex tossicodipendenti, sta attualmente sperimentando in collaborazione con il Dap diverse attività per i detenuti, tra le quali la decorazione delle ceramiche e la coltura di piante in serra e l’agricoltura biologica.

"Ci auguriamo di incrementare questo progetto a favore degli animali - ha aggiunto il sindaco Sodano - in modo da poter stipulare una convenzione con il Comune per combattere il randagismo e modulare il progetto anche verso animali non adatti solo alla guida per i non vedenti".

Il gruppo dell’Udc ha anche sponsorizzato l’iniziativa "una voce un libro" sempre indirizzato ai detenuti delle carceri italiane e a favore di persone non vedenti. "Queste iniziative - ha dichiarato il direttore Mormina - producono un duplice effetto positivo perché oltre ad aiutare i cani abbandonati per le strade, risvegliano buoni sentimenti e danno forza d’animo ai nostri ospiti che già lottano per il recupero dalla dipendenza da droga".

 

 

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