Ristretto insieme ai mie detenuti

 

Ristretto insieme ai mie detenuti

 

Ristretto insieme ai miei detenuti. Un’intervista a Luigi Pagano, direttore di San Vittore

  

Vita, 20 febbraio 2004

 

Luigi Pagano, direttore di San Vittore, abita da vent’anni dentro le mura di una prigione. Ci scherza su ("È il massimo della sicurezza") ma dice anche che questo sarà il suo ultimo incarico. Negli ultimi dieci anni ha aperto le porte di via Filangieri alla società civile, alle imprese, ai volontari. "Potevo finire male anch’io, come tanti miei amici. Ho avuto fortuna, e adesso voglio condividerla".

 

Tutto è concentrato nel carcere. La casa, la famiglia, il lavoro, gli amici. Questo da quando, a 25 anni, Luigi Pagano da Torre del Greco, Napoli, raccolse le sue poche cose, mano nella mano alla sua giovane moglie, in tasca una laurea in giurisprudenza e una specializzazione in criminologia, e sbarcò a Pianosa. "Fu uno shock. Mi trovai a sbattere la faccia contro una realtà che era tutto il contrario di quello che avevo studiato". Al buon Pagano ancora viene la pelle d’oca ripensando alla sua prima destinazione: l’ufficio di vicedirettore nel carcere di massima sicurezza dell’isola toscana. "Era una realtà bloccata, dove gli unici che avevano un ruolo reale e serio erano i detenuti. Per noi, i custodi, era una sopravvivenza senza uno scopo e senza una vita sociale. In un incubo del genere, ti sembra bella persino Piombino".

Dietro la scrivania di uno dei carceri più blindati d’Italia, infatti, non ci era certo finito per realizzare un futuro alla Charles Bronson, da vendicatore della notte. Ci era finito un po’ per paura e un po’ per idealismo giovanile, "paura di finire dall’ altra parte, come tanti dei miei amici di quegli anni" e "con l’idea di cambiare le cose. E quando vuoi cambiare le cose c’è bisogno di potere, altrimenti avrei fatto il criminologo". E magari oggi, invece di aprire le porte di San Vittore ai detenuti, riceverebbe in un ufficio dell’università di Napoli gli studenti interessati a una tesi sulla teoria della pena del filosofo francese Michel Foucault, il suo maestro. Dopo Pianosa, eccolo a Nuoro, Brescia, Taranto e, dal 1989, a Milano. Uno zigzagare su e giù per l’Italia che gli ha regalato due figlie "che oggi hanno 19 e 23 anni, studiano entrambe, una al liceo e l’altra alla facoltà di Lettere" e una moglie un po’ stanca "che sta ancora cercando di affrancarsi dal carcere, ma finalmente ha trovato un lavoro esterno".

La famiglia Pagano e il carcere milanese di piazza Filangieri sono infatti una cosa sola: "Noi qui ci abitiamo. Una posizione niente male, in centro a Milano, il massimo della sicurezza, peccato solo per lo stipendio", scherza per un attimo il direttore prima di ammettere che "per chi sta in cella passare 24 ore su 24 qui dentro non è facile. Non si stacca mai". Ma non deve essere facile nemmeno per lui. Passano solo pochi minuti dall’inizio dell’intèrvista per sentirlo annunciare, quasi augurandoselo, "un avvicendamento, che dopo tanti anni sarebbe naturale", e nemmeno la provocazione del giornalista lo scuote: "Un modo elegante per schivare un provvedimento annunciato, visto che con il ministro Castelli non corre buon sangue?", chiediamo. La risposta non è polemica, sembra sincera: "Proprio non è così. È che mi sento alla fine di un percorso. San Vittore sarà la mia ultima direzione".

Per comprendere da dove nasca la ferita, bisogna tornare indietro di qualche anno, almeno dieci. Gli anni delle delusioni, delle aspettative andate in fumo come quelle di Napoli e Inter, le squadre per cui tifa. Anni che oggi gli fanno dire che "è arrivato il momento di mettersi nell’ordine d’idee di aver fatto tanto, ma quel tanto è solo una goccia nel mare". E magari di rifugiarsi nei gialli di Clancy e nei romanzi di evasione che non mancano mai sul suo comodino.

 

Direttore, com’era San Vittore dieci anni fa?

Si stava concludendo la stagione di Mani Pulite. Dal 1992 al 1994 qui sono passati circa 400 colletti bianchi incriminati per tangenti. Su di noi erano puntati i riflettori dei media. Ma tanto clamore non è servito a risolvere nessuno dei problemi del carcere.

 

Cosa si sarebbe aspettato?

In quell’anno abbiamo toccato il picco di presenze: 2.300. Due anni prima, quando i detenuti erano 1.900, arrivò per un sopralluogo perfino la commissione contro la tortura del Parlamento europeo di Strasburgo. Ma allora la soluzione del dramma del Sovraffollamento poteva sembrare strumentale, come un favore ai detenuti eccellenti.

 

E invece?

La loro presenza finì per trasformarsi in un boomerang. Se si perseguivano reati finanziari, a maggior ragione si dovevano perseguire i reati comuni. Intanto, dopo una tregua successiva al referendum sulle droghe del 1993, gli ingressi dei tossicodipendenti stavano riprendendo a velocità sostenuta proprio nel momento in cui le carceri si stavano riempiendo di stranieri. Un trend che non si è più arrestato.

 

Oggi come si presenta San Vittore?

Dipende da che lato lo guardiamo. Finalmente siamo tornati a un livello di vivibilità accettabile.

Ospitiamo 900 in meno rispetto a dieci anni fa. siamo a quota 1.350 uomini e 135 donne. Dal 2001 finalmente si è messo mano alla ristrutturazione dei reparti. Così adesso nel terzo le celle hanno la doccia in camera e sono abitate da uno, al massimo due detenuti. In modo che si tengano compagnia e non per necessità. Rimane il fatto che il 55% di loro è straniero e metà è in carcere per reati legati alla droga.

 

Rimaniamo al 94. Come fu la convivenza fra detenuti eccellenti e detenuti normali?

Direi buona, anche se non tutti i colletti bianchi riuscirono a fare il carcere con dignità.

 

Cosa vuoI dire "Fare il carcere con dignità"?

Per un esterno come può essere lei, il carcere non ha niente di dignitoso. Per chi è qui dentro, invece, dignità significa voler essere trattato come gli altri, non lamentarsi per le privazioni. E rivendicare i propri diritti.

 

Il più dignitoso fra i carcerati di Mani Pulite?

Senza dubbio Sergio Cusani. Un uomo strano, talvolta mi proponeva iniziative impossibili da realizzare. Arrivò dopo il suicidio di Gardini. Ci aspettavamo una persona timorosa, impaurita. E invece era uno che nel suo futuro aveva già visto il carcere. Era preparato, forse anche grazie al suo passato da movimentista. Adesso ha messo su la Banca della solidarietà. San Vittore ha cambiato davvero la direzione della sua vita. Per gli altri non è stato così.

 

Lo ha ricordato lei: il carcere ormai parla straniero. Come vivono la detenzione gli extracomunitari?

Lo dico subito. lo non credo nel carcere riabilitante, io credo nella realtà e non vedo nessuna struttura segregante in grado di reinserire nella società. Detto questo, nei loro confronti questi principi vengono negati fin dalle fondamenta. L’ordinamento giudiziario pur essendo molto recente (del 1975, ndr), non poteva affrontare un fenomeno che sarebbe emerso anni dopo. Il punto di partenza del nostro sistema è che il reo ha alle spalle una sorta di normalità, una famiglia e un territorio. Da qui si parte per costruire il suo reinserimento. Questo diritto per i clandestini è invece totalmente annientato. Non hanno casa, non hanno famigliari, hanno una lingua diversa, e perfino un’alimentazione diversa. A loro il carcere serve come parcheggio: è un posto dove risolvere una serie di problemi, l’assistenza sanitaria e il cibo prima di tutto. Il paradosso è che alla fine diventa un accidente neanche tanto disgraziato. Ma per favore non si parli di riabilitazione.

 

E allora che si fa, aboliamo il carcere? Pensa davvero che sia una soluzione praticabile?

Il carcere è un’invenzione di 300 anni fa. Non è un’istituzione insita nell’uomo. Credo che abbia dei limiti funzionali e non strutturali. Di certo non produce persone migliori. Tanto è vero che il legislatore ha ammesso che fa male, e ha inventato le cosiddette misure alternative, come la semilibertà o l’ affidamento in prova. Peccato che funzionino solo per chi sta già fuori. In questo momento ci sono 40mila persone in trattamento alternativo. Ma tali misure si applicano solo a chi ha già un domicilio, non funzionano per chi magari si deve fare solo un mese, ma non ha una casa. Quasi tutti immigrati e tossicodipendenti. Questo luogo può avere solo la funzione di difesa sociale: "Ti metto dentro perché sei pericoloso e puoi fare del male". Ma qui i detenuti da cui tenersi lontano non sono più del 10%.

 

Quali le colpe della politica?

Il luogo comune dice che i politici non entrano in prigione perché il carcere non porta voti. In questi dieci anni mi sono convinto che le responsabilità vanno cercate altrove. Le leggi sull’affidamento in prova, sulle detenute madri, sugli extracomunitari, sull’Aids sono state approvate e anche a larghissima maggioranza. Se venissero applicate, a San Vittore adesso forse resteremmo solo io e lei. Da parte sua anche la società civile dà il suo contributo attraverso i volontari, che qui da noi sono almeno 200. Mancano completamente invece gli enti intermedi: la scuola, il collocamento lavorativo, gli enti locali. Siamo come quel millepiedi che soffre di mal di schiena e va dal dottore. Il medico gli dice: "Nessun problema, per guarire basta che cammini su due piedi". Il millepiedi ribatte: "E dove li metto gli altri 998?". E il medico: "Io il consiglio gliel’ho dato, per il resto sono cazzi suoi".

 

Lei però ha sostenuto che l’indultino era una misura inutile…

L’indultino nasce su input del Papa. Ma è una legge capestro. Chi l’ha approvata proclamando che avrebbe risolto il problema del sovraffollamento era in malafede. Da noi ne sono usciti 10, ma sono già rientrati quasi tutti. E anche il difensore civico dei detenuti mi sembra non abbia alcuna possibilità di successo.

 

San Vittore è anche casa sua: come vi si vive?

La mia è una vita schizofrenica, a volte frustrante. Ma qui sono il comandante e la rappresentanza esterna è una buona medicina per salvaguardare la sanità mentale. Peggio di me sta la polizia penitenziaria. Il carcere è un servizio sociale, ma fuori ci percepiscono ancora come secondini. Più simili agli ergastolani che agli operatori sociali. Recentemente 30 carcerati hanno trovato lavoro grazie al call center della Telecom. Ma si sappia che è stata un’iniziativa nata qui, su due piedi, in una conversazione con Massimo Moratti, che vuole dire Tronchetti Provera, che vuol dire Telecom. Negli ultimi dieci anni dall’esterno non ho ricevuto un solo segnale di disponibilità.

 

Però, lo ha detto lei, ci sono i volontari.

Sono il dodicesimo uomo in campo. Ho deciso di permettergli di accedere a tutti i bracci in piena autonomia. Non solo per una scelta di democrazia, ma anche per necessità.

 

Cosa portano a San Vittore, il buon cuore?

Ci sarà anche chi viene per assicurarsi un posto in paradiso. Molti però lo fanno per il mio stesso motivo: hanno la coscienza di esser stati fortunati a non finire dentro e voglio condividere la buona sorte.

 

Candido Cannavò, che le ha dedicato il libro che ha scritto su San Vittore, sostiene che il carcere ha un che di affascinante. Condivide?

È un’impressione tipica di chi viene qui con dei preconcetti e invece trova uomini che amano, che dicono barzellette, che sono intelligenti o idioti e che, fra l’ altro, hanno pure ammazzato.

 

Ha ammesso di essere stanco della vita che ha condotto fIno ad oggi. Ripensamenti?

Se tornassi indietro non cambierei una virgola. Sono stanco, ma portare le persone fuori e non vederle rientrare mi dà ancora tanta soddisfazione.

 

 

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