Rassegna stampa 30 dicembre

 

Si allunga ancora il dossier "Morire di carcere"…

 

Il Cittadino, 30 dicembre 2004

 

Due suicidi, tre morti per malattia, uno di overdose: a novembre 2004 il dossier "Morire di carcere" ha registrato sei nuovi casi e un triste "primato": a Parma è morto un detenuto di 77 anni, già gravemente ammalato e incapace di parlare a seguito di un intervento chirurgico. Basterebbe il racconto di una morte così assurda, 77 anni, la malattia e ancora la galera, a far capire il senso di questo monitoraggio paziente e preciso delle morti in carcere che svolge ogni mese la redazione di "Ristretti Orizzonti", giornale realizzato da volontari, detenuti e detenute della Casa di reclusione di Padova e dell’Istituto penale femminile della Giudecca. Il dossier "Morire di carcere" rappresenta un contributo importante per far conoscere all’opinione pubblica le reali condizioni del carcere, a cominciare dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria. La parte principale del dossier è costituita dalle storie dei detenuti morti nelle carceri italiane a partire dal gennaio 2002, per suicidio, per malattia, per overdose, per "cause non accertate".

Siamo riusciti così a restituire un’identità a molti di loro, togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli "eventi critici". Per alcune persone, morte in carcere in questi anni, non c’è stato invece modo di sapere nulla nonostante la rassegna stampa, che fa da base per l’indagine, contenga notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, uno passa "inosservato". Una seconda sezione del dossier raccoglie notizie e riflessioni tratte dai giornali carcerari: testimonianze di detenuti che conoscevano le persone morte, a volte degli stessi compagni di cella. Inoltre contiene materiali tratti da inchieste delle associazioni impegnate in difesa dei diritti civili (A buon diritto, Antigone, Nessuno tocchi Caino, Osservatorio Calamandrana, ecc.). L’ultima parte è costituita da tabelle riassuntive: l’elenco dei detenuti morti, la loro età e il motivo della morte, le carceri nelle quali si sono verificati i decessi.

"Ho pensato di suicidarmi, ma ho così tanti problemi che non sarebbe una soluzione": la battuta è di Woody Allen, o meglio del disastrato protagonista di un suo film, "Anything else". Non sappiamo neppure dire se sia possibile trasferire l’ironia sui suicidi da una finzione cinematografica alla realtà, ma osiamo farlo, perché l’ironia a volte sa essere più efficace e graffiante di altre forme di espressione. Ebbene, in carcere è esattamente così: la situazione è in molti casi a tal punto tragica, che nulla pare rappresentare una soluzione.

Ma purtroppo nella realtà i detenuti non solo pensano di suicidarsi, ma lo fanno, e paradossalmente anche suicidarsi in carcere è faticoso: perché l’istituzione si tutela in tutti i modi, togliendo alle persone i lacci delle scarpe, le cinture, mettendole, se sono considerate a rischio, nelle celle "lisce", cioè nude e prive di ogni possibile oggetto utile ad ammazzarsi.

Però ci si ammazza lo stesso, usando tutta l’ingegnosità che la galera ti costringe a tirar fuori in ogni circostanza, anche quella della morte. Il dossier "Morire di carcere" mette insieme, una dietro l’altra, le storie di suicidi, di sanità disastrata, di morti sospette che dalle carceri sono passate nelle cronache dei giornali del nostro paese: lette così, con la crudezza dei particolari delle lenzuola annodate, delle teste ficcate nei sacchetti pieni di gas, mettono finalmente angoscia. "Finalmente", diciamo, perché il nostro scopo era anche questo: cercare qualche cosa che almeno scuotesse, emozionasse le persone che hanno un minimo di sensibilità un po’ più dei numeri che l’amministrazione penitenziaria dà rispetto a questi eventi.

Ma c’è un secondo scopo, che ci siamo prefissati: continuare a monitorare, giorno per giorno, se possibile carcere per carcere, queste morti, coinvolgendo in questo paziente lavoro detenuti, volontari, operatori. Impedire che restino dei numeri, delle sigle, delle formule tipo "marocchino si impicca a San Vittore", ricostruire delle piccole storie, cercare le testimonianze dei compagni di chi si è ucciso. Perché l’idea di questo dossier è nata esattamente così: leggendo la testimonianza del compagno di cella di un detenuto albanese che si è suicidato a Piacenza, abbiamo pensato che era importante che chi muore di carcere fosse almeno ricordato dagli amici, dai compagni, dagli altri detenuti, dai "sopravvissuti" alla galera, con la pietà e l’affetto che non trovano spazio nelle statistiche.

Castelli: odiato e minacciato per Bompressi e Sofri

 

Ansa, 30 dicembre 2004

 

"C’è sempre più gente che mi odia e che sta cercando di farmi del male perché non do la grazia a Sofri e Bompressi". Lo rivela il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, in un’intervista al Messaggero. "Sono tanti, forti, potenti e variegati - sottolinea -.

Non è la solita lobby degli ex di Lotta Continua che non temo mica. È gente molto più, molto più forte, molto più temibile. (...) Sono molto più di minacce, sono pressioni e cose molto più complicate e preoccupanti.

Ma è difficile che riescano ad ammorbidirmi". Domani intanto riprenderà in Parlamento la discussione sulla riforma della Giustizia, dopo le rilevazioni di Ciampi. Avete deciso le correzioni? Gli chiede il giornalista del quotidiano romano.

"Non tutte e non ancora - risponde il Guardasigilli -. È chiaro che terremo conto dei rilievi fatti dal Quirinale e faremo delle modifiche per soddisfare queste osservazioni. Alcune sono scontate". "Ciampi ha di fatto certificato che la legge è bene all’interno del perimetro della Costituzione - conclude Castelli -. Tutta la parte della separazione delle funzioni è rimasta intatta, come la parte del procuratore. Cose importantissime. Lo stesso è accaduto, dopo mesi, mesi e mesi di discussioni e di sproloqui, per la tipizzazione degli illeciti disciplinari e per la copertura economica. Insomma: l’impianto della legge è rimasto saldamente in piedi".

Sofri: Di Francia - Corleone; Castelli e le minacce, a chi allude?

 

Ansa, 30 dicembre 2004

 

A chi si riferisce il ministro della Giustizia Castelli quando parla di "minacce dall’alto" e delle pressioni per convincerlo a dare la grazia ad Adriano Sofri e Ovidio Bompressi? Se lo chiedono Silvio Di Francia e Franco Corleone, promotori della catena di solidarietà e digiuno per la grazia a Sofri e Ovidio Bompressi, riferendosi all’intervista al guardasigilli pubblicata oggi dal quotidiano romano "Il Messaggero". "C’è da essere preoccupati - dicono Di Francia e Corleone - di un ministro come Castelli che oggi, su un quotidiano nazionale denuncia, senza fare nomi e con frasi ambigue e confuse, oscure minacce dall’alto.

Più in alto di lui, che è il Ministro Guardasigilli della Repubblica, gerarchicamente c’è: il Presidente del Consiglio e il Capo dello Stato. Chissà a chi si riferisce Castelli. O forse le frasi oscure e confuse suggeriscono che il Ministro l’abbia sparata per l’ennesima volta grossa". "È, invece, ancora più preoccupante - fanno rilevare - che il Ministro insista, ancora oggi, a ritenersi il detentore del potere di Grazia, prerogativa che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. A questo punto, poichè non vorremmo dover seguire nei prossimi mesi ancora simili peripezie da parte del Ministro occorre, più che mai, che il Presidente della Repubblica attivi la procedura chiarificatrice".

Sofri: Brutti, perché Castelli non denuncia minacce?

 

Ansa, 30 dicembre 2004

 

"Se il ministro Castelli ha ricevuto delle minacce le denunci alla magistratura". È quanto sollecita il vicepresidente dei Ds del Senato, Massimo Brutti, in un’interrogazione al ministro della Giustizia e al presidente del Consiglio riferendosi alle affermazioni di Castelli che in un’intervista a "Il Messaggero" ha rivelato di aver subito minacce e pressioni per indurlo a concedere la grazia a Sofri e Bompressi.

"I riferimenti alle minacce subite - afferma l’esponente diessino - appaiono del tutto incomprensibili, ma comunque di eccezionale gravità poiché le pressioni nei confronti di un componente del governo, volte a condizionare le sue scelte, configurano un delitto, che il ministro Castelli avrebbe il dovere di denunciare all’Autorità Giudiziaria, indicando i responsabili".

"È necessario - prosegue Brutti - che il ministro Castelli spieghi anche al Parlamento da chi siano venute ed in quali forme si siano espresse le minacce e le pressioni nei suoi confronti del ministro e dica quali iniziative abbia assunto affinché venissero perseguiti i responsabili di tali comportamenti. Su questo argomento - conclude - dovrebbe esprimersi anche il presidente del Consiglio per riferire quale sia la sua valutazione circa le dichiarazioni avventate ed inquietanti del ministro della Giustizia, ennesima prova di deprimente superficialità".

Sofri: Cento, gravi le parole di Castelli, a chi si riferisce?

 

Ansa, 30 dicembre 2004

 

L’intervista rilasciata al quotidiano Il Messaggero dal ministro Castelli, "contiene affermazioni e allusioni gravissime che non possono passare sotto silenzio", afferma il vicepresidente della commissione giustizia della Camera, Paolo Cento. "A chi si riferisce il ministro - si chiede il parlamentare dei Verdi - quando parla di minacce ricevute a causa della sua opposizione alla grazia a Sofri e Bompressi? Il ministro ha il dovere - dice tra l’altro Cento - di essere chiaro, di fare nomi e cognomi, altrimenti le sue parole potrebbero suonare come intimidazioni politiche generiche per quanti si battono per un provvedimento di clemenza per i due ex di Lotta Continua mentre l’opinione pubblica si troverebbe di fronte a manovre oscure e indecifrabili".

Preoccupa inoltre "la volontà del ministro di non modificare radicalmente la riforma dell’ordinamento giudiziario perché - conclude - prefigura un preoccupante prolungamento di un conflitto istituzionale".

Lodi: gesto disperato di un detenuto della Casa circondariale

 

Il Cittadino, 30 dicembre 2004

 

Quando la disperazione arriva a livelli estremi può sfociare in un gesto disperato come la scelta di togliersi la vita. Questo è quanto è accaduto pochi giorni fa nel carcere di Lodi, dove un uomo di soli 44 anni si è impiccato alle sbarre della finestra. Conoscevo personalmente Fiorenzo, lo incontravo ogni giorno nello svolgimento della mia mansione di addetto alla spesa dei detenuti; scambiavamo qualche parola e col tempo lui aveva iniziato a parlarmi della sua situazione carceraria, delle sue problematiche di vita, lavoro, economiche, legate alla sua famiglia, alla quale era molto legato.

Sperava per le festività di ottenere un permesso premio da trascorrere in famiglia, ma la questione che più lo assillava era legata alla richiesta che aveva attualmente in corso per potere essere autorizzato al lavoro esterno, che per lui era una questione vitale, in quanto con lo stipendio che avrebbe guadagnato avrebbe potuto aiutare la famiglia che versava in gravi problemi economici.

Le forme alternative alla detenzione troppo spesso sono complicatissime da ottenere, i tempi per una richiesta sono lunghissimi, l’esito è sempre incerto perché alla fine è sempre il magistrato che decide in maniera autonoma e questa attesa spesso diventa logorante per una persona che ripone tutte le sue speranze in un provvedimento che lo possa parzialmente restituire alla vita. Molto probabilmente questa persona non era abbastanza forte per sostenere una tensione di questo tipo e l’unica soluzione che ha trovato è stata quella di rinunciare alla vita.

I suicidi in carcere sono all’ordine del giorno, la percentuale delle morti in prigione è molto più alta in rapporto alla popolazione esterna; la pressione che deriva dalla privazione della libertà è fortissima e non sempre siamo in grado di mantenere quell’equilibrio che ci permette di continuare a lottare e vivere, tanto è grande la sofferenza e la disperazione che proviamo.

Personalmente la morte di questa persona mi ha molto turbato; lo avevo sentito poco tempo prima che succedesse l’irreparabile, era preoccupato per la mancanza di informazioni che riguardavano la sua pratica per il lavoro esterno. Come sempre lo avevo rassicurato dicendogli di stare tranquillo, che le cose stavano procedendo e che ci voleva del tempo, ma che ce l’avrebbe fatta. L’ho esortato a farsi coraggio, che presto la sua vita sarebbe cambiata. Ora posso pensare che già nella sua mente era entrata la sconvolgente decisione di togliersi la vita e quindi tutte le esortazioni, tutte le parole di incoraggiamento e di fiducia erano oramai inascoltate.

Dietro la morte di un uomo ci sarebbero tante cose da dire, da detenuto posso affermare che troppo spesso il sistema è di una durezza devastante, l’aspetto umano di una pratica - perché noi alla fine siamo delle pratiche, dei fascicoli - non viene in nessun modo preso in considerazione, i tempi di attesa per una risposta da un tribunale di sorveglianza sono lunghissimi e l’ansia per chi attende una decisione in merito a un beneficio diventa spesso distruttiva. In generale è minima la percentuale delle richieste che vengono accolte dai tribunali di sorveglianza e ogni volta che riceviamo una risposta negativa alle nostre speranze diventa un dramma per noi detenuti e per tutte le nostre famiglie che vivono con noi la nostra drammatica esperienza.

È con tanta amarezza che mi chiedo perché molti magistrati non tengano in considerazione anche l’aspetto umano nella valutazione della situazione di un detenuto, ma si limitino a un’arida applicazione della legge.

Quando si verifica un suicidio è un fallimento per tutti noi

 

Il Cittadino, 30 dicembre 2004

 

In questo carcere non era mai accaduto. In precedenza solo una morte naturale. A memoria d’uomo. A mia memoria solo un precedente, trent’anni fa. Non posso dire che le antenne non fossero attente a captare i segnali.

Chi ha letto l’intervista da me rilasciata al "Cittadino" di quest’anno, sa quanto le mie antenne siano sensibili. In passato mi è accaduto più volte di intervenire utilmente, e non solo per i detenuti. Questa volta però i segnali erano indecifrabili. Ed un detenuto si è tolto la vita. Non doveva accadere. Ogni volta che accade è un fallimento, nostro e suo.

Ma noi abbiamo il dovere di non fallire come anche il diritto di fallire. Sarebbe bastato sapere qualcosa di più dalla sua anamnesi personale e familiare, prima della carcerazione. Avremmo appreso, come abbiamo troppo tardi saputo, che in libertà quel detenuto aveva già due volte tentato il suicidio, avremmo saputo che c’era un precedente in famiglia, un fratello meno giovane anch’egli suicidatosi.

Ma tutto ciò non appaga la nostra coscienza, che tuttavia sentiamo libera da responsabilità, anche solo morali. Resta il profondo rammarico di una vita spentasi mentre era affidata alle nostre cure. E non sto usando il "plurale maiestatis". Il Natale di quella famiglia sarà un po’ meno sereno di quello di altre famiglie, anche il nostro Natale sarà venato di mestizia.

 

Luigi Morsello, direttore della Casa circondariale di Lodi

Lodi: sessanta futuri avvocati per un giorno dietro le sbarre

 

Il Cittadino, 30 dicembre 2004

 

Sabato 27 novembre presso la Casa circondariale di Lodi abbiamo avuto la visita di un gruppo di circa 60 studenti universitari della facoltà di Giurisprudenza, guidati dal loro docente prof. avv. Piermaria Corso, ordinario di procedura penale nell’Università di Parma.

Il gruppo è stato accolto dal nostro direttore, dott. Luigi Morsello, e dalla redazione del nostro giornale "Uomini liberi" nell’auditorio del nuovo complesso che fa parte della struttura nuova recentemente inaugurata del nostro carcere e che presto dovrebbe entrare a pieno regime. Dopo un breve discorso del dott. Morsello che raccontava dell’evoluzione del sistema penitenziario nel tempo, rifacendosi a situazioni di quasi cento anni addietro con un regolamento che era molto chiaro e che si poteva quasi confrontare con le regole attualmente vigenti, si è entrati nel vivo dell’incontro con una serie di domande e risposte attinenti la vita interna dei detenuti e a quelli che sono gli strumenti che la legge dispone per reinserire i detenuti nella società esterna.

Nello specifico la risposta del nostro direttore alla luce dei suoi 38 anni di servizio è stata la seguente: "l’unico strumento valido del quale disponiamo e che io ritengo fondamentale per un pieno recupero della persona è il lavoro, e più precisamente il lavoro esterno". Di seguito ha anche precisato quali sono le modalità attraverso le quali opera l’articolo 21 della legge che autorizza per i detenuti lo svolgimento di una attività lavorativa esterna, le regole alle quali il detenuto si deve attenere e dell’azione di controllo che periodicamente viene esercitata dagli agenti stessi del carcere con visite sul posto di lavoro e altri controlli mirati. Con soddisfazione il direttore ha anche confermato che alla luce dei buoni risultati ottenuti con le ultime persone che sono attualmente in regime di lavoro esterno è sua intenzione proseguire e potenziare questo strumento tanto importante per incrementare il numero dei detenuti che svolgono attività lavorativa esterna e che così si preparano a un pieno rientro nella società civile.

L’incontro è proseguito con una visita ai reparti detenuti con visite nelle singole celle, in un dialogo tra detenuti e visitatori svolto in piena armonia. Dalle parole degli studenti è emerso un interesse profondo legato oltre che all’incontro umano anche alla presa di conoscenza verso una realtà che un domani vedrà protagoniste queste persone nel mondo della giustizia, chi in veste di futuro magistrato o chi invece come avvocato. Un’esperienza importante, un incontro positivo per noi detenuti e credo anche per tutti gli esterni che avranno maturato con questa visita una realtà che farà sicuramente molto riflettere nel tempo. Auguriamo a tutti gli intervenuti la migliore riuscita in quella che dovrà essere la loro futura professione per una giustizia che sia applicata con senso di responsabilità, umanità nel pieno rispetto delle regole e dei diritti di tutti.

 

Luigi Morsello, direttore della Casa circondariale di Lodi

Cagliari: agenti penitenziari a lezione di pronto soccorso

 

L’Unione Sarda, 30 dicembre 2004

 

Operatori specializzati in emergenze sanitarie. Per 125 persone che lavorano nelle carceri isolane, sono in arrivo i corsi di pronto soccorso per qualificare il personale: medici e chi lavora in strutture sanitarie e agenti di polizia penitenziaria. È la prima volta in Italia che decolla un progetto del genere che pone l’Isola all’avanguardia. Non solo: l’iniziativa nasce grazie alla collaborazione tra il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, l’Università di Cagliari e la Asl 8.

Il progetto vuole offrire quelle conoscenze pratiche per poter aiutare chi si trova in situazioni critiche: un detenuto con un malore improvviso, un infarto, un trauma. Momenti spesso di confusione, ma nei quali è invece importante saper mantenere la calma e "gestire" la situazione. Proprio per questo durante il corso verranno offerte simulazioni di eventi del genere e, accanto alle metodiche di base, verranno illustrati la gestione del paziente, il controllo delle vie aeree, l’uso del defibrillatore, come assistere una persona davanti ad un trauma.

Il corso è stato presentato ieri durante un incontro dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Massidda, dal preside della facoltà di medicina dell’Università, Gavino Faa, e da Giuseppe Iasiello, responsabile del 118 per la Asl 8. In Sardegna gli agenti di polizia penitenziaria sono milletrecento mentre lo stage (che si terrà nella scuola allievi di Monastir) prevede per il momento la frequenza di 125 "studenti" suddivisi in cinque moduli (venticinque corsisti per volta). L’obiettivo è formare un team che, a sua volta, possa poi portare le competenze acquisite agli altri. Anche se la speranza è quella, pur con la difficoltà del reperimento fondi, di estenderlo a tutte le persone che lavorano negli istituti di pena.

Il progetto, che costa quasi trentamila euro, è rivolto a tutti: sarà di formazione per gli agenti di polizia penitenziaria, mentre costituirà un aggiornamento professionale per i medici che lavorano nelle strutture carcerarie. Si tratta - hanno sottolineato i responsabili - di un’iniziativa inedita, la prima in Italia: gli agenti di polizia penitenziaria faranno così da apripista per tutti i loro colleghi della Penisola.

Alghero: "Jeff" Onorato campione di umanità tra i detenuti

 

L’Unione Sarda, 30 dicembre 2004

 

Continuando la sua attività di "testimonial" nel sociale, Gianfranco "Jeff" Onorato ha visitato il carcere di Alghero. L’atleta maddalenino, più volte campione mondiale di sci nautico per diversamente abili, ha accettato con entusiasmo di passare qualche ora con i detenuti. È la seconda esperienza per Jeff dopo la visita nel carcere minorile di Quartucciu. Come è stata l’accoglienza? "Magnifica. Mi hanno ricevuto nella biblioteca dove fanno anche delle proiezioni. C’è stata una notevole partecipazione, tenendo conto che non avevano l’obbligo di partecipare. Erano più di 120, praticamente tutti quelli che non erano a casa o impegnati in attività del carcere stesso".

Cosa hai detto loro? "Ho raccontato la mia vita, ho mostrato i video che ho girato sulla mia attività, e sono rimasti molto colpiti. Soprattutto hanno apprezzato la mia linea di pensiero ed i miei discorsi ritenuti credibili. Al di là di quello che ho potuto dire ho notato una enorme curiosità, ho distribuito il mio libro, "Il figlio del vento", che molti avevano letto perché ne avevo mandati alcuni al direttore diverso tempo fa". Cosa ti hanno chiesto?

"Volevano sapere come ho accettato la mia condizione di disabile. Ho raccontato che all’inizio mi vergognavo del braccio offeso, cercando di mascherare le mie difficoltà. Uno di loro mi ha chiesto come fossi riuscito a superare il problema, ed ho capito che lui, parallelamente, sta vivendo lo stesso condizionamento psicologico da detenuto. Ho detto che partendo dall’accettazione della propria condizione poi si può raggiungere ogni progetto.

Ecco, è questa la sostanza del messaggio che ho voluto trasmettere loro: anch’io dopo l’incidente mi sentivo un prigioniero, poi ho accettato la mia condizione, ho costruito un progetto su quella condizione ed ho vinto la scommessa. La realtà non si può modificare con un atteggiamento violento, né nasconderla. Accettare con coscienza quello che ci è capitato e farne la base per un progetto, ecco il pensiero che ho voluto esporre. Sono convinto che questo messaggio di fiducia nel futuro sia riuscito a trasmetterlo".

 

 

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