Rassegna stampa 7 agosto

 

Legittima difesa: polemica su riforma Nordio del Codice penale

 

Ansa, 7 agosto 2004

 

Una licenza a sparare sul ladro che entra in casa o, comunque, un incoraggiamento ad armarsi per i cittadini, che nel lungo periodo potrebbe portare il nostro Paese a una situazione simile a quella degli Usa. Gli operatori della giustizia condannano la norma contenuta nel testo del nuovo codice penale messo a punto dalla Commissione Nordio, che estende anche al privato cittadino l’uso legittimo delle armi - oggi riservato al pubblico ufficiale - per difendere il domicilio da un’intromissione se vi è il "ragionevole timore" per l’incolumità o la libertà personale.

Ad accendere la polemica che vede per una volta dalla stessa parte avvocati e magistrati sono tre righe contenute nell’ articolo 31 ("uso legittimo delle armi e degli altri mezzi di coazione fisica") dell’articolato che ridisegna la parte generale del codice e che è stato consegnato dalla Commissione al ministro: "È scriminato il fatto di chi fa uso di armi perché costretto dalla necessità di difendere l’inviolabilità del domicilio contro un’intromissione ingiusta, violenta o clandestina e tale da destare ragionevole timore per l’incolumità o la libertà delle persone presenti nel domicilio".

In sostanza, chi spara in presenza di queste condizioni non è punibile, mette nero su bianco la commissione.

"Non è proprio la licenza a sparare su chiunque entra nella nostra abitazione, ma ci siamo vicini" commenta preoccupato il segretario dell’Associazione nazionale magistrati Carlo Fucci, che punta il dito soprattutto su quel riferimento al "ragionevole timore" che giustifica l’uso delle armi. "È un concetto che può avere una valenza relativa.

Per qualcuno la soglia del ragionevole timore può scattare prima, il che può indurre erroneamente a ritenere di essere nelle condizioni che legittimano di far fuoco. Per questo è una norma molto rischiosa".

"Si apre la porta all’uso legittimo delle armi da parte del privato, che oggi è un’eccezione rigorosamente vagliata e domani finirebbe invece nel codice" avverte Ettore Randazzo, presidente dell’Unione delle Camere penali, secondo il quale la norma si potrebbe applicare anche "al caso della zingarella che entra in casa per rubacchiare visto che non si richiede che chi minaccia sia necessariamente armato".

Il problema, spiega, è nelle espressioni usate che si prestano a "una cattiva interpretazione; il risultato è che si rischia di invogliare i cittadini ad armarsi, e di avvicinare il nostro al sistema statunitense dove l’uso privato delle armi è diventato particolarmente allarmante". Un allarme condiviso anche da Fabio Roia, sostituto procuratore a Milano e segretario di Unità per la Costituzione, la corrente di maggioranza dei magistrati.

"Il mio giudizio è molto critico: è una norma molto pericolosa che autorizza anche un uso sconsiderato delle attività di difesa e può portare a degenerazioni. Trovo molto sbagliato anche il messaggio culturale: è come se lo Stato abdicasse a sue funzioni tipiche e cioè prevenire i reati e garantire sicurezza".

Roma: Rebibbia al collasso a causa del sovraffollamento

 

Asca, 7 agosto 2004

 

"L’hotel a cinque stelle Rebibbia Nuovo Complesso ha esaurito le camere ed i posti letto". È quanto manda a dire all’ing. Castelli, ministro razzista del governo Berlusconi, il capogruppo di Rifondazione Comunista alla Regione Lazio, Salvatore Bonadonna.

"Ho visitato, come di consueto, il carcere di Rebibbia - spiega Bonadonna. La situazione è oltre qualsiasi livello di sopportabilità, è una vergogna! Il complesso, che dovrebbe ospitare solo 900 detenuti, vede la presenza di circa 1.600 reclusi costretti a vivere in celle con sei letti a castello dove potrebbero starcene solo quattro. Persino le sale previste per la socialità, i giochi da tavolo o le palestre, sono trasformati in dormitori con dieci, quattordici brandine.

Due docce per oltre 150 detenuti quando va bene; nella gran parte dei casi solo una. Il caldo e il sovraffollamento rendono la vita dei detenuti insopportabile. Tutti i servizi, già largamente insufficienti, in primo luogo quello sanitario, sono saltati.

Si deve alla maturità civile dei reclusi e alla sensibilità della direzione e della sorveglianza - continua il capogruppo del Prc - se il malessere non si è finora trasformato in forme di protesta eclatanti o nelle rivolte di triste memoria.

Il personale di sorveglianza, strutturalmente sott’organico, è sottoposto a turni e carichi di lavoro intollerabili; e, per di più, oltre cento agenti sono comandati ai servizi di scorta o ad altri servizi ministeriali. Le manie di grandezza del Ministro richiedono, evidentemente, larghi apparati di rappresentanza".

"Per tutto questo invieremo una relazione alla Corte di Giustizia europea, che già altre volte ha condannato l’Italia per la condizione penitenziaria, e al Parlamento Europeo - continua Salvatore Bonadonna - ma ci chiediamo anche quale ruolo stia svolgendo la Regione Lazio, che pure aveva istituito il Garante per i detenuti ed in che cosa si concretizzi la grande attenzione che Storace aveva dichiarato di dedicare alla condizione delle carceri.

Verona: detenuto tunisino si taglia e poi aggredisce gli agenti

 

L’Arena di Verona, 7 agosto 2004

 

Due ore di follia, in carcere a Montorio, mercoledì pomeriggio, quando il detenuto tunisino Zaidi Hichem, che ha una pena per detenzione di droga che scadrà nel settembre 2006 ha tentato atti autolesionistici e aggredito sette poliziotti tra agenti e ispettori che poi si sono dovuti far medicare. L’uomo stava terminando quella che viene definita l’ora d’aria e di passeggiata nel cortile interno alla struttura carceraria. Ma quando è scaduto il tempo Zaidi, che doveva rientrare assieme agli altri detenuti ha estratto una lametta da barba e si è fatto due tagli sul torace urlando agli agenti: "Voglio farmi del male e voi non potete impedirmelo".

Un ispettore ha subito tentato di disarmare l’uomo, che lo ha a sua volta ferito, poi sono arrivati gli altri agenti, che però si sono presi spintoni, pugni e calci. Alla fine il tunisino è stato immobilizzato e portato in una stanza di isolamento. Ieri mattina il giudice Isabella Cesari ha convalidato l’arresto dell’uomo, ma accolto la richiesta dell’avvocato che ha chiesto i termini di difesa e il processo per direttissima è slittato al 17 agosto.

L’immigrato ha detto di aver protestato perché vuole essere trasferito in un altro istituto. Le accuse per lui sono di lesioni, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Ai detenuti non sono concesse lamette da barba normali, ma quelle dei rasoi usa e getta. Loro hanno imparato ad estrarle surriscaldando la plastica del rasoio, per farne poi piccoli, ma taglienti coltellini. Altro sistema usato per creare lame è quello di surriscaldare e appiattire i filtri delle sigarette che si trasformano così in piccolissimi rasoi.

La vicenda di mercoledì si è chiusa così, ma anche questi episodi sono sintomatici del malessere che si respira in carcere. Il caldo di questi giorni e la permanenza forzata in celle da tre metri per due, nate per ospitare un detenuto, e che adesso sono occupate da tre e in prospettiva anche quattro persone fanno salire la tensione.

Di positivo c’è il fatto che mercoledì pur essendoci altri detenuti in cortile, nessuno s’è mosso e gli agenti hanno potuto fare il loro lavoro senza altre aggressioni. Ma la situazione avrebbe potuto degenerare con conseguenze peggiori.

Viterbo: per i detenuti arriva l'agricoltura biologica

 

Il Messaggero, 7 agosto 2004

 

Siglata la convenzione tra la Confagricoltura e la Casa Circondariale per la realizzazione di un progetto formativo nel campo dell’agricoltura biologica. È stata siglata ieri mattina tra la Direzione della Casa Circondariale di Viterbo, nella persona del direttore dottor Pierpaolo D’Andria, e la Confagricoltura Viterbo, nella persona del presidente dottor Luigi Pasqualetti, la convenzione per la realizzazione del progetto denominato "Agricola 2002" predisposto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed approvato dal ministero della Giustizia.

Il progetto, della durata di tre anni, è finalizzato a sviluppare attività progettuali e formative nel campo dell’agricoltura biologica, ecocompatibile e della tipicità per l’intera filiera di trasformazione.

Sarà strutturato in due fasi: nella prima è prevista la realizzazione di un corso di formazione professionale nei settori ortofrutticolo, coltivazioni innovative ed allevamenti di tipo biologico ed è rivolto a quindici detenuti tossicodipendenti.

Il corso della durata di due mesi sarà realizzato dalla Confagricoltura di Viterbo con i propri docenti ed esperti; nella seconda fase ci sarà l’avvio al lavoro presso l’azienda agricola del carcere dei detenuti che hanno partecipato al corso formativo, in questa fase la Confagricoltura è impegnata a seguire lo svolgimento dell’attività lavorativa dei detenuti, anche al fine di valutare la ricaduta progettuale nei percorsi di vita.

 

Orvieto: volontariato a sostegno di chi esce dal carcere

 

Il Messaggero, 7 agosto 2004

 

Si chiama "Orientare il rientro" il progetto della Caritas della diocesi di Terni, Narni ed Amelia rivolto ai reclusi del carcere del vocabolo Sabbione, con la finalità di facilitare, una volta scontata la pena, il rientro nella società e, per i detenuti stranieri, il ritorno nei paesi d’origine. Il progetto è gestito da tre operatori della Caritas e da una decina di volontari. Tre volte la settimana gli operatori vengono in contatto con i detenuti attraverso un centro di ascolto e provvedono anche alla distribuzione di generi di prima necessità, come vestiario e generi alimentari. Per dieci detenuti italiani è prevista la realizzazione di un corso di orientamento e formazione di 50 ore per il loro inserimento lavorativo. Il finanziamento necessario per sostenere il progetto è sostenuto dalla Caritas nazionale attraverso i fondi dell’otto per mille.

Via libera dal Senato al piano per l’edilizia penitenziaria

 

Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2004

 

Emergenza carceri addio, almeno per il momento. Lo Stato ha deciso, infatti, di ricorrere al leasing. Dalla commissione Giustizia del Senato è arrivato il via libera al piano per l’edilizia giudiziaria e penitenziaria (circa 140milioni di euro) che sblocca la costruzione dei due nuovi penitenziari di Pordenone e

Varese , che lo Stato prenderà in locazione finanziaria dalle imprese costruttrici. Sarà la prima volta in Italia. La gara d’appalto per la costruzione degli istituti di pena è stata già fatta. E il presidente della commissione Antonino Caruso prevede che i lavori dovrebbero cominciare entro dicembre e concludersi nell’arco di tre anni. I costruttori hanno avuto la garanzia che lo Stato prenderà in leasing i due penitenziari. Trascorsi dieci anni la Giustizia potrà decidere se riscattare definitivamente le strutture.

Il piano approvato in commissione ha l’obiettivo di migliorare le strutture carcerarie esistenti, sia per quanto riguarda l’aspetto igienico-sanitario, sia per quanto riguarda la sicurezza (muri di cinta, controllo video interno ed esterno, impianti di automazione). In cantiere ci sono però anche altri progetti. Tra i più significativi, oltre quelli di Pordenone e Varese, la creazione di una nuova area di detenzione nell’isola di Favignana, dove i prigionieri lasceranno il vecchio e fatiscente castello. La ristrutturazione dell’ex sezione femminile di Milano Bollate consentirà la realizzazione di una nuova struttura per i detenuti sottoposti al regime di carcere duro previsto dall’articolo 41 bis. Previsto anche un piano di ristrutturazione delle vecchie carceri minorili di Bari, Cagliari, Firenze, Milano e Napoli.

Castelli: riforma giustizia blindata, se si va alle urne è morta

 

Brescia Oggi, 7 agosto 2004

 

Milano. Per Roberto Castelli, leghista, ministro della Giustizia l’autunno "sarà caldo in generale e per me lo sarà ancora di più". Alla festa leghista a Pontida, ha tenuto l’ultimo comizio prima delle vacanze. Lontano dal palco Castelli parla di Sofri e conferma la posizione sua e della Lega. "Sono restio a parlare dei detenuti singoli perché è crudele tenerli su una continua altalena. Stiamo parlando di gente che comunque soffre, qualunque delitto abbia commesso.

Ho visto questa improvvida e fondata sul nulla denuncia del senatore Passigli. Adesso non è più la lobby di opinion leader come Boato o Ferrara, è un altro tipo di mondo che mi manda un segnale minaccioso. La lotta non è più parlamentare, ricorrono alla magistratura su fatti inesistenti. Sono stato denunciato perché non firmo un documento che non è mai esistito".

Vede un pericolo per la Lega che, secondo alcune analisi, sarebbe al centro di un disegno neocentrista che tende a ridimensionarla? "Bisogna distinguere due filoni. Il primo è di linea politica generale definibile neocentrista che, più che eliminare la Lega, mi sembra mirato a emarginare o eliminare Berlusconi che da un vecchio mondo politico è sempre stato ritenuto un’anomalia, un usurpatore, uno strano evento che va comunque eliminato dalla scena politica.

Questo lo vedo come un piano a medio e lungo termine. A breve, e su questo la Lega è in prima linea, c’è il disegno di fermare le riforme perché l’Italia, soprattutto quella repubblicana, è andata avanti nel dopoguerra con una fortissima componente assistita e parassitaria che ha lucrato rendite di posizione sul famoso popolo delle partite Iva".

Un’Italia che voi avete sempre combattuto. "La Lega vuole cambiare questo stato di cose soprattutto con la riforma federalista. Chi ha tratto vantaggio da questa situazione, e cerca di trarne anche in futuro, non vuole cambiare. È un mondo trasversale che attraversa la società italiana, il Parlamento e anche la Casa delle Libertà".

Lei dice che c’è un disegno per eliminare Berlusconi. Il presidente del consiglio sembra però avere riallacciato i rapporti con l’Udc. "Berlusconi sa che l’alleato più stabile, più fedele e più affidabile siamo noi. L’Udc non è compatto, c’è l’anima di Follini ma anche quella di chi sa che non è così semplice rompere i patti con gli elettori e quindi preme per far rispettare il contratto con gli italiani".

E nel patto c’è la riforma federalista. Se a ottobre non dovesse passare, la Lega uscirà dal governo? "Abbiamo dimostrato, calendario alla mano, che una riforma costituzionale ha bisogno di tempi precisi. Siamo al limite di questi tempi. Se il provvedimento dovesse essere bocciato o stravolto si creerebbe un grave problema per la Lega".

Ma la Lega è pronta a lasciare? "Non voglio anticipare nulla perché non sono segretario della Lega. Abbiamo detto in tutte le salse che si aprirebbe un grave problema e la prospettiva di lasciare sarebbe una delle tante, forse la più realistica. Non spetta a me decidere, ma io propenderei per quella situazione".

La Lega senza Bossi è sembrata in difficoltà. "Non è vero che senza Bossi siamo più deboli. La Lega ha dimostrato di essere forte. Lo ha dimostrato perseguendo i risultati in Parlamento e ottenendo grande consenso elettorale alle europee. Sicuramente tutto è più difficile, però devo far rilevare, perché sono stato testimone di questo, che la Lega non è più senza Bossi".

A ottobre si dovrebbe approvare la riforma della giustizia. "Per quanto mi riguarda la riforma è al redde rationem. La voglio blindata non per capriccio ma perché la possibilità che si vada a votare l’anno venturo è realistica. Se si va a votare la riforma è già morta o quantomeno non si riuscirà a farla tutta. Se si andrà a votare nel 2006 siamo in zona Cesarini, ergo il testo va approvato.

È la stessa situazione della riforma federale, siamo arrivati al punto. Adesso nessuno può più bluffare". Anche nella Casa delle Libertà? "Certo, però sono ottimista perché sta andando sui binari giusti. L’Anm sa che se riesce a guadagnare altri tre o quattro mesi ha affossato la riforma. Ha organizzato un’assemblea straordinaria per sensibilizzare le forze politiche per cercare di procrastinare la discussione. Hanno organizzato altre due giornate di sciopero, vediamo se troveranno credito queste sirene all’interno della Casa delle Libertà".

Usa: tribunale boccia "reality show" in carcere per il web

 

Reuters, 7 agosto 2004

 

Uno sceriffo dell’Arizona ha violato i diritti dei detenuti usando delle Web cam per riprenderli nelle celle in una sorta i "reality show" per Internet. Lo ha deciso ieri una corte di appello federale.

Il nono circuito della corte di appello di San Francisco ha confermato la decisione di primo grado e si è espressa contro l’idea online dello sceriffo della contea di Maricopa, Joe Arpaio, che sosteneva che mostrare in pubblico come funziona un carcere potesse essere un deterrente al crimine.

Il giudice Richard Paez ha stabilito che usare le Webcam è come un "reality show" e va oltre a ciò che può essere considerato un ragionevole deterrente al crimine. "L’esposizione a milioni di totali sconosciuti (...) costituisce un livello di umiliazione che per tutti è profondamente indesiderabile", ha detto Paez.

Spagna: sarà abrogata legge su espulsione clandestini condannati

 

Agi, 7 agosto 2004

 

Il governo socialista spagnolo intende abrogare la legge che prevede l’espulsione automatica degli immigrati clandestini condannati a meno di sei anni di carcere. "Vogliamo che le persone prima scontino la pena e poi lascino il Paese", ha spiegato il ministro dell’Immigrazione, Consuelo Rumi, in un’intervista alla radio Cadena Ser. Altrimenti, ha sottolineato, "incoraggiamo la gente a compiere reati e ci rendiamo responsabili di una discriminazione rispetto agli spagnoli".

La legge sull’espulsione immediata fu voluta nel settembre 2003 dall’allora premier popolare José Maria Aznar. Di recente, però, la Corte costituzionale spagnola ha bloccato il decreto di espulsione di un bulgaro condannato per traffico di eroina. Gli alti magistrati hanno riconosciuto al detenuto il diritto di difendersi in gradi successivi e al giudice la discrezionalità di pronunciarsi sull’allontanamento tenendo conto anche di fattori ambientali e famigliari dell’immigrato.

"Un cimitero chiamato Mediterraneo", morti dimenticate di migranti

 

Il Manifesto, 7 agosto 2004

 

La vicenda della nave tedesca Cap Anamur e dei 37 naufraghi che trasportava a bordo - rimpatriati perché non riconosciuti come profughi dalla commissione che ne ha vagliato le richieste d’asilo - ha riportato la questione del diritto d’asilo alla ribalta delle cronache sugli sbarchi estivi, solitamente confezionate a uso e consumo di un’opinione pubblica ormai anestetizzata.

Ma, soprattutto, ha mostrato come quella del diritto d’asilo sia una questione europea. E non solo perché è impossibile definire la Cap Anamur come una "carretta del mare" guidata da esponenti di qualche mafia esotica che ha i suoi bacini sulle sponde opposte del Mediterraneo, ma perché europee sono le limitazioni e i lacci imposti a un diritto, quello d’asilo appunto, la cui definizione istituzionale sembra avere poco a che fare con le rivendicazioni di coloro che a quel diritto si appellano per ricevere protezione nel continente "fortezza".

Così come di matrice europea sono i dispositivi di controllo delle frontiere terresti e marittime che trasformano in "clandestini" gli uomini e le donne che cercano di varcarle. È proprio questo il punto messo in luce dall’ultimo libro di Marcella Delle Donne, Un cimitero chiamato Mediterraneo. Per una storia del diritto d’asilo nell’Unione Europea (Derive Approdi, pp. 200, € 15), che mostra bene lo scarto tra la lingua del diritto parlata dai documenti ufficiali e dai trattati internazionali - inclusa la Convenzione di Ginevra - e la realtà delle donne e degli uomini che utilizzano il Mediterraneo come via di fuga verso l’Europa.

E tagliata sul livello europeo è anche l’accurata ricostruzione che l’autrice fa della politiche sull’asilo. A partire dagli accordi di Schengen e dalla convenzione di Dublino, passando per il trattato di Amsterdam fino ai diversi vertici intergovernativi che si sono succeduti, le modifiche legislative e le prassi in materia di asilo - così come quelle sull’immigrazione - sono state, infatti, dettate da un processo di integrazione europea che, oltre a militarizzare i confini dell’Unione, è stato finalizzato a sospingerli sempre più all’esterno.

Così, oltre a riversare sui paesi limitrofi "sicuri" la responsabilità di accogliere profughi e richiedenti asilo, attraverso l’esternalizzazione delle pratiche di controllo, il continente culla del diritto ha esportato alcuni dei suoi obbrobri giuridici. Come nel caso delle strutture detentive per stranieri e richiedenti asilo costruite lungo i nuovi confini dell’Unione, o quelle preventivate nelle isole di Malta e Cipro.

Quello di focalizzare l’attenzione sulle politiche europee, invece che sulla situazione nazionale, è sicuramente un merito del libro di Marcella Delle Donne. Del resto, contestualizzando nella dimensione europea le scelte politiche nazionali - e pur senza disconoscere la cifra repressiva di una legge come la Bossi-Fini e delle misure speciali ripetutamente adottate nel nostro paese per far fronte alle "emergenze" degli sbarchi - risulta chiaro perché queste si assomiglino tanto, indipendentemente dal colore politico della maggioranza che le ha approvate.

Se è vero infatti che con la legge Bossi-Fini è stata prevista la detenzione amministrativa anche per i richiedenti asilo, è altrettanto vero che, come sottolinea la stessa autrice, profughi e richiedenti asilo venivano di fatto detenuti già nei centri di permanenza temporanea istituiti dalla legge Turco - Napolitano. Puntualizzazioni ancor più necessarie in un momento, come quello attuale, in cui ci si appresta a discutere in parlamento una legge sul diritto d’asilo la cui matrice sarà inevitabilmente in linea con le scelte legislative che negli ultimi anni hanno prevalso sia a livello nazionale che europeo, ovvero, con un livellamento verso il basso delle politiche di accoglienza. Mentre - e in senso qui dissonante rispetto a quanto sostiene l’autrice di Un cimitero chiamato Mediterraneo - di magra consolazione sembra essere la futura approvazione di un trattato costituzionale europeo, dal momento che nella sua parte terza riproduce in larga parte il meccanismo decisionale che era stato previsto con il trattato di Amsterdam e, soprattutto, mantiene le deroghe alla competenza giurisdizionale della Corte di giustizia per materie come l’asilo e l’immigrazione.

Ma il libro di Marcella Delle Donne ha soprattutto il merito di costituire un documento importante per ricostruire quello che può essere definito come un vero e proprio olocausto della contemporaneità, che si consuma ormai lungo tutte le frontiere, non solo quelle dell’Europa. Il Mediterraneo, come frontiera liquida e molle dell’Europa, rappresenta da questo punto di vista un esempio paradigmatico, sia per la drammaticità e l’entità delle tragedie che vi si consumano, sia perché queste stesse sciagure non possono che rovesciare la retorica della sicurezza che viene utilizzata come giustificazione delle politiche di controllo. Rileggere tutte insieme le cronache degli sbarchi e degli affondamenti nel Mediterraneo attraverso le pagine della stampa quotidiana - che l’autrice prende in considerazione dal 1996 al 2002 - non lascia dubbi su chi siano le "minacce" e chi i "minacciati" nel gioco crudele della tutela delle frontiere europee. E questo emerge dalle pagine del libro nonostante che il linguaggio e gli accostamenti semantici, utilizzati negli articoli di stampa che vengono riportati, non facciano altro che riprendere e amplificare la narrazione ufficiale: accostando i "clandestini" ai terroristi o ai criminali, o dipingendo le donne e gli uomini in fuga come vittime disperate di trafficanti senza scrupoli.

Documentare la guerra quotidiana che si consuma nel Mediterraneo significa sottrarre all’oblio del silenzio le sue vittime, restituire loro dignità e identità. Un compito, questo, che non può che rimanere incompiuto, dal momento che solo una parte di queste tragedie giunge sulle cronache quotidiane o viene testimoniata dai suoi superstiti. Come sottolinea anche Marcella Delle Donne, poche volte si considera che l’attraversamento del Mediterraneo costituisce spesso la parte finale di un viaggio cominciato molto prima, con molte altre frontiere attraversate e molti altri lutti che rimangono ignorati. Ma ridare voce direttamente alle vittime significa anche mettere in luce, ancora una volta, come la lingua parlata dalle leggi e dai trattati che pretendono di gerarchizzare le ragioni della fuga di migranti e profughi sia una lingua diversa da quella parlata da chi, praticando quella fuga, contesta radicalmente, nella pratica e al di là di ogni qualificazione giuridica soggettiva, il monopolio dello stato sul diritto di concedere asilo o protezione. Da questo punto di vista appare meno convincente il tentativo dell’autrice di distinguere su basi oggettive la condizione di profughi e richiedenti asilo da quella degli altri migranti. È dalle stesse pagine del libro, del resto, che attraverso la testimonianza di una naufraga sopravvissuta ci arriva un monito: "Non si può restare clandestini anche da morti".

Inchiesta sulle donne romene vittime del traffico di persone

 

Redattore Sociale, 7 agosto 2004

 

Se nei giorni scorso il caso del traffico di minori dalla Bulgaria è finito sulle pagine di tutti i giornali, non bisogna dimenticare che il problema della tratta coinvolge tutti i paesi balcanici e che in Romania riguarda soprattutto le donne. "Non molto è purtroppo cambiato da quando, un anno fa, l’Osservatorio ha pubblicato un dossier dedicato a questo tema specifico, dal quale emergevano su tutto le linee di relazione tra traffico di persone ed i problemi sociali dei Paesi d’origine e tra le dinamiche del trafficking e il fenomeno delle migrazioni: nella forma dei loro impedimenti, delle difficoltà o impossibilità dell’attraversamento delle frontiere", ricorda l’Osservatorio sui Balcani, nella sua newsletter visibile all’indirizzo www.osservatoriobalcani.org.

"Lasciano la Romania per sfuggire alla povertà e alla miseria, ma diventano "merce di scambio" nelle mani dei trafficanti, che le comprano e le rivendono per decine di volte. In Romania il prezzo di una donna varia tra i 300 e i 400 dollari, ma nel paese di destinazione può arrivare a 5-10.000 dollari", riferisce la giornalista Mihaela Iordache, ricordando che ogni anno migliaia di donne romene sono le vittime del traffico internazionale di persone: "Migliaia - secondo varie statistiche anche decine di migliaia, la maggior parte con l’inganno di un posto di lavoro - finiscono nelle reti delle organizzazioni criminali, che le costringono a prostituirsi nell’Europa Occidentale". Secondo l’Organizzazione Internazionale delle migrazioni, le destinazioni principali nel 2003-2004, in base alle statistiche dei rimpatri, sono state Macedonia (29%), Bosnia Erzegovina (23%), Albania (11%), Kossovo (11%), Italia (9%), Serbia e Montenegro (6%), l’11% in altri paesi.

"Arrivano maltrattate, denutrite, violentate e ridotte in stato di schiavitù, pagando caro la loro inconsapevolezza e ingenuità oppure semplicemente la loro decisione di fare soldi ad ogni costo". Tuttavia i dati parlano chiaro: la maggioranza di romene finiscono a prostituirsi all’estero "perché vittime del traffico internazionale, ingannate con il miraggio di un posto di lavoro come cameriera, badante, colf o baby sitter", anche se "non sono poche nemmeno quelle che intuiscono il tipo di lavoro che le aspetta".

Dal 2000 al 2003 l’Oim ha assistito 781 romene vittime di tratta. Nel 2000 il 24,84% di queste erano minorenni e il 75,16% maggiorenni. Tre anni dopo, le statistiche indicano il 14,10% di minorenni e l’85,90% di maggiorenni, con un’età media di 21,23 anni e con basso livello di istruzione. In ogni caso risulta la povertà la principale causa che le spinge a lasciare la Romania. Infatti la loro provenienza è soprattutto dalle zone più misere del paese, con la Moldova in cima alla lista (35%). Ma ci sono anche donne della Transilvania (il 21%), della Muntenia e di Bucarest (il 5%).

Una volta rimpatriate, le donne vittime del traffico di persone passano dalla filiale di Bucarest dell’Oim, che le affida alle Ong specializzate nei programmi d’integrazione. Per 6 mesi ricevono assistenza medica, consulenza psicologica, sociale e giuridica oppure possono beneficiare di corsi di qualificazione per imparare un mestiere. Molte di loro però non seguono questi programmi, nella maggior parte dei casi a causa dell’intervento delle proprie famiglie.

Hanno paura delle autorità e soprattutto della polizia, con cui difficilmente collaborano per dichiarare quello che è loro successo. Gli specialisti vedono in questo comportamento una dalle conseguenze psico-sociologiche nel caso la vittima abbia subito seri abusi nei paesi dove si prostituiva anche da parte di poliziotti complici dei trafficanti. Molte non vogliono più ritornare nelle famiglie di origine, per la vergogna o per l’odio verso i parenti o gli amici che le hanno vendute.

Il sito romeno www.anchete.ro, specializzato in inchieste, riporta storie di ragazze che si sono prostituite, finite nelle reti criminali che guadagnano milioni di dollari dalla tratta di persone. Alcune donne lasciano i bambini in patria "e non ponderano molto prima di accettare proposte di lavoro ingannevoli da parte di amici o parenti, complici di trafficanti. Una volta arrivate in Serbia, Italia, Spagna o Grecia - per fare solo qualche esempio di destinazione - le vengono confiscati i documenti e sono minacciate di dura vendetta contro le loro famiglie nel caso tentassero di scappare. Ci sono anche quelle che finiscono col collaborare con i propri sfruttatori e gestiscono esse stesse ‘il lavoro’ e i guadagni di altre prostitute", racconta Iordache, osservando che la Romania ha intensificato la collaborazione internazionale in materia di crimine organizzato, anche per far fronte alle esigenze dell’Unione europea che si attende un paese più sicuro nel 2007, anno della prevista adesione.

 

 

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