Rassegna stampa 1 agosto

 

Verona: scoperto altro caso di Tbc nel carcere di Montorio

 

L’Arena di Verona, 1 agosto 2004

 

Un altro caso di tubercolosi in carcere a Montorio. Lo hanno evidenziato le analisi eseguite venerdì mattina all’istituto di Marzana, dove assieme a Borgo Trento, ogni giorno vengono portati i detenuti della casa circondariale di Montorio per i controlli, dopo il caso scoperto ormai una quindicina di giorni fa.

Ieri mattina dopo i test che hanno dato esito negativo, gli uomini della scorta hanno riportato indietro il detenuto evidenziando che mentre il personale sanitario aveva operato dotato di mascherine, loro erano a volto scoperto, alla mercé di possibili contagi.

"Quando è stato scoperto il primo caso di Tbc in istituto", spiega Giovanni Sicilia, ispettore a Montorio e segretario regionale del Sappe, in sindacato autonomo di polizia, "anziché fare subito i controlli sanitari al personale s’è proceduto con i detenuti.

Non viene minimamente considerato che noi in carcere passiamo molte ore, siamo esposti al contagio e poi andiamo fuori, in famiglia, piuttosto che al cinema o altrove e possiamo così diventare portatori sani, o malati della Tbc".

Il Sappe quando c’è stato il primo caso ha scritto al provveditorato di Padova, al ministero e al prefetto di Verona, Francesco Giovannucci: "Il prefetto è stato l’unico a interessarsi di noi", continua Sicilia. In tutto a Montorio ci sono 665 detenuti della sezione maschile e 63 detenute. La celle sono strette, in ciascuna convivono tre o quattro persone, con un unico bagno, in cui dalle 15 alle 18 viene interrotta l’erogazione d’acqua. Un habitat ideale per la trasmissione della malattia, che viaggia via aerea da un soggetto all’altro.

Toscana: dalle Sughere a Sollicciano, vai in carcere e poi muori

 

Indymedia, 1 agosto 2004

 

Di carcere si muore e in quello di Livorno si muore anche di più. Un’altra vittima, il cileno Carlos Requelme, si aggiunge alle tante già raccolte in un elenco troppo lungo e sin troppo frequente per essere spiegato solo con la causa di un probabile o improbabile suicidio.

La scena è quasi sempre la stessa: una impiccagione con una cordicella di fortuna, che ha il dono di reggere il peso di un uomo senza spezzarsi mai, o con altre varianti simili, alle sbarre della finestra della cella.

Anche Marcello Lonzi è morto nel carcere delle Sughere di Livorno nel 12 luglio 2003. Stesso posto con diverse modalità tutte da accertare. Per il Pm Roberto Pennisi, che ha chiesto l’archiviazione del caso, non c’è nulla da capire: la causa della morte sarebbe un semplice arresto cardiaco.

Contro tale richiesta il 10 luglio è stato indetto un presidio sotto il carcere e il 15 luglio un altro appuntamento si è svolto sotto il tribunale. Le reali cause della morte di Marcello appaiono invece tanto più chiare a chi si oppone all’archiviazione. "Tredici le foto che inequivocabilmente mostrano 20 segni di vergate (presumibilmente prodotte con manganelli), dislocate dal collo alle ginocchia.

Lacerazioni e tumefazioni verosimilmente prodottesi durante una violenta colluttazione, che la presenza di oggetti rotti e sparsi nella cella tenderebbe ad avvalorare. A riprova dell’esistenza di emorragie interne non segnalate dal medico legale, la foto n° 4 mostra che il lenzuolo disposto sotto il corpo di Marcello era completamente sporco di sangue. La morte del giovane sarebbe piuttosto stata provocata da un colpo molto profondo ricevuto al cranio."

Nel giugno scorso Giuseppe Mazzantini è morto, tra gli altri, nel carcere di Sollicciano a Firenze. Cause? Non accertate: sembrava si sentisse poco bene. Khaled, sempre in giugno, sarebbe morto invece di suicidio. Solo pochi mesi prima l’Associazione "Ladri di biciclette" aveva indetto un Presidio in solidarietà con i detenuti e le detenute, tenutosi dinanzi lo stesso carcere.

La morte dei due detenuti a Sollicciano è avvenuta dopo la restrizione delle misure di sicurezza in conseguenza ad una evasione realizzata nel marzo scorso. Sono state rinforzate le sbarre di cemento, sigillate le finestre e la sezione dei detenuti di nazionalità albanese, già sottoposti a gravi limitazioni perché della stessa nazionalità degli evasi, è quella che ha subito maggiormente tali restrizioni. Essi vivono ora da murati vivi: niente lavoro, aria a turno, scuola e attività sospese, vigilanza accentuata.

Un morto in galera nel mondo della stampa ufficiale merita solo un trafiletto, in fondo alla decima pagina: la maggior parte delle persone incarcerate sono tossicodipendenti, stranieri, bollati come aventi problemi psichiatrici, senza fissa dimora (vale a dire senza casa).

Trapani: l’Ufficio di Sorveglianza è senza magistrati

 

La Sicilia, 1 agosto 2004

 

La denuncia non è nuova ed era giunta da più parti. Sembrava che la soluzione per l’Ufficio di Sorveglianza di Trapani fosse a portata di mano, ma non è stato così. E sono tanti i casi di detenuti che potrebbero lasciare il carcere o per benefici a cui hanno diritto o per questioni di salute, che invece vedono ritardata oltremodo la loro "pratica".

Quando era entrata in vigore la legge sul cosiddetto "indultino" la direttrice del carcere di San Giuliano Francesca Vazzana aveva fatto riferimento proprio alla situazione dell’Ufficio di Sorveglianza trapanese, per porre in evidenza come la nuova misura legislativa alla fine non era chissà che cosa e che certamente sarebbe stato opportuno fare funzionare bene quegli strumenti che già esistono, come, appunto, l’ufficio di sorveglianza.

A Trapani, su due posti previsti in organico, non vi è nessun magistrato titolare. Da qualche tempo viene mandato un magistrato, titolare di altro ufficio, solo per alcuni giorni, che non può fare certo fronte all’enorme mole di lavoro. Ed il risultato è che vi sono casi anche seri: c’è per esempio quello di un detenuto, gravemente ammalato, le cui condizioni non sono compatibili con la carcerazione. Invece di essere mandato a casa, è finito trasferito in un carcere del Nord Italia.

L’ufficio di sorveglianza è di quelli delicati. Per questo l’avvocato Vito Galluffo - un passato, anche recente, in politica nell’area socialista e di centrosinistra - ha deciso di scrivere al Ministro di Grazia e Giustizia Roberto Castelli per esporgli il problema trapanese.

Galluffo non fa sconti, parla di palese ingiustizia, parla di "inerzia periferica e centrale", di "completo disinteresse da parte dei parlamentari locali", parla di "irreparabile quanto gravissimo danno che grida anche ad un risarcimento per l’ingiusta detenzione sofferta".

L’avvocato Galluffo scrive al Ministro che "da troppi mesi l’ufficio di sorveglianza di Trapani, nonostante l’organico preveda due posti, manca dei suoi magistrati. È stato nel tempo delegato per pochi giorni ogni mese un magistrato sempre diverso e tutti già onerati dall’espletamento di altre funzioni assai delicate ed impegnative".

"Ricordo - aggiunge - che sull’ufficio di sorveglianza gravano compiti e responsabilità che riguardano la salute, le malattie, le esigenze, la vita stessa di centinaia di detenuti, diritti tutti negati per mancanza dei magistrati d’organico". Non manca la stoccata polemica. Al Ministro Galluffo chiede "cosa è stato fatto, oltre che votare in modo prono e silenzioso numerose leggi ad personam, per porre fine a tale inammissibile situazione.

Cosa veramente si sta facendo per contribuire all’attuazione del vero giusto processo ed al rispetto delle regole del diritto, al di là della civetteria politica". Ed ancora al Ministro Castelli l’avvocato chiede "come pensa possa contribuire a dare legalità ed attualità alla giustizia, oltre che contribuire a riformare gattopardescamente" e "cosa intende fare per evitare che cittadini detenuti, che hanno già maturato il diritto ad essere scarcerati, restino privati della libertà nonostante anche le gravi condizioni di salute solo perché mancano i magistrati".

Per Galluffo, la situazione trapanese ha "abbondantemente superato la soglia minima di sopportabilità, oltre la quale c’è l’inciviltà giuridica e la violazione dei principi costituzionali".

Pisa: Corleone e Di Francia portano auguri ad Adriano Sofri

 

Ansa, 1 agosto 2004

 

"Un abbraccio affettuoso" ma niente regali, perchè "quest’anno non c’è niente da festeggiare". Così Silvio Di Francia e Franco Corleone - membri del comitato "Contro l’oblio, per la grazia" che ha organizzato un digiuno a catena che va avanti da due anni e mezzo e che ha coinvolto quasi 2500 persone - hanno raccontato la loro visita ad Adriano Sofri, che si è svolta questa mattina al carcere di Pisa.

Poco più di mezz’ora di colloquio ("per lasciare spazio ai parenti", hanno spiegato) in compagnia di due consiglieri regionali della Toscana, Fabio Roggiolani dei Verdi e Lucia Franchini della Margherita, per portare gli auguri per il sessantaduesimo compleanno all’ex leader di Lotta Continua. "Ma quest’anno - ha aggiunto Di Francia - per il tempo trascorso, per quanto accaduto e per quello che attendiamo, riteniamo che per Sofri e Bompressi, ma anche per la giustizia italiana, non ci sia niente da festeggiare.

La situazione è la testimonianza dell’urgenza degli anni che passano e del nulla che accade". L’ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone si è detto comunque convinto che "siamo alla vigilia della decisione sulla grazia per Ovidio Bompressi". "Il Quirinale - ha spiegato Corleone, che ad inizio luglio ha scritto al Capo dello Stato - è in attesa di ricevere gli incartamenti richiesti alcuni mesi fa".

Il parere della procura generale di Milano, trasmesso alcuni giorni fa al Ministero della Giustizia, è risultato essere negativo rispetto alla domanda di grazia "ed è stato motivato - ha spiegato ancora Corleone - col solo fatto che la domanda è stata fatta in assenza del pentimento del detenuto. Una circostanza questa che giudico un errore grave da parte della Procura - ha detto ancora Corleone -.

La domanda è stata infatti firmata dalla figlia e dalla moglie di Bompressi, non dal detenuto". Secondo Corleone, che si augura "un parere diverso da parte del magistrato di sorveglianza", "appena ci sarà questo documento il Quirinale sarà nelle condizioni di decidere sulla grazia, in un modo o nell’altro. Troppo tempo è passato, adesso aspettiamo una decisione".

Agrigento: un campo Rom solo per donne, vecchi e bambini

 

La Sicilia, 1 agosto 2004

 

C’è un clima irreale nel campo nomadi di contrada Gasena. Basta infatti entrare nella baraccopoli alla periferia del capoluogo per rendersi conto di come siano rimaste praticamente solo le donne e i bambini.

Gli uomini, perlomeno la maggior parte di essi, sono detenuti nelle carceri di Agrigento e Catania. Si tratta dei rom che nelle scorse settimane vennero arrestati in quanto ritenuti responsabili dei recenti furti e rapine perpetrati in mezza Sicilia. Tutti mariti e padri di piccoli che di fatto sono rimasti senza una guida. Un contesto dunque che diventa sempre più emarginato ogni giorno che passa, causando un progressivo spopolamento della folta comunità dei "camminanti". Un campo al femminile dunque, tanto che gli unici "maschietti" che gironzolano nella bidonville sono i piccoli rom.

Bambini di pochi anni che già sanno molte cose della vita. Forse non sanno che i loro papà sono detenuti nelle patrie galere perché ritenuti ladri provetti. La popolazione nomade quantificata grazie a un recente censimento in circa 130 persone è stata ridotta quasi della metà. Il tutto proprio a causa dei provvedimenti restrittivi emessi dalle Procure della Repubblica che si sono occupate delle rapine effettuate dai rom "agrigentini" nel catanese. Su quei fatti tanto è stato detto e scritto, con i rom superstiti che non ci stanno a passare anche per stupratori, come evidenziato inizialmente dagli inquirenti. A farsi portavoce di questo sentimento è Dobrilla, una delle prime donne rom ad arrivare nella città dei templi oltre dieci anni fa. "Non siamo bestie. I nostri uomini non hanno violentato nessuno".

Alle parole di Dobrilla si aggiungono quelle di altre ragazze rom che però hanno preferito rimanere dietro l’anonimato, raccontando però i propri disagi dovuti alla mancanza degli uomini: "Molte di noi non sanno guidare la macchina e questo ci impedisce di recarci in città per fare la spesa. Da settimane ormai viviamo questa situazione che non riusciamo a sostenere. Siamo disperate, vogliamo i nostri mariti di nuovo a casa".

Un appello che l’autorità giudiziaria non si sa se sia intenzionata a raccogliere tenuto conto che, dopo gli arresti a raffica effettuati mesi addietro, ancora nessuno è uscito dalle carceri. Segno che le accuse mosse a carico dei rom di contrada Gasena sono supportate da prove concrete.

A farne le spese sono le "signore" rimaste vedove "bianche", con tanti piccoli da crescere tra l’immondizia che nella baraccopoli torna a regnare sovrana, dopo alcune settimane di tranquillità dal punto di vista igienico sanitario. All’esterno del campo e anche all’interno sono ricomparsi i cumuli di pattume, legna, carta e cartone ammassati dagli stessi nomadi giorno dopo giorno. Alla mancata raccolta da parte del comune, non si può non far rilevare l’abitudine deprecabile degli stessi rom di gettare la spazzatura per terra, incuranti dei cassonetti piazzati a suo tempo.

Torna dunque allarmante la situazione sanitaria nella bidonville agrigentina, dove tra qualche mese continuando il progressivo spopolamento rischia di rimanere solo la spazzatura adagiata ovunque. Una situazione che alcuni mesi fa nessuno avrebbe ipotizzato, visto che il campo di Gasena era diventato punto di riferimento delle comunità rom di tutta la Sicilia, con continui arrivi di interi nuclei familiari decisi a stabilirsi nella città dei templi anche per molti anni.

Il genitore che perde patria potestà è indegno a succedere

 

Agi, 1 agosto 2004

 

Il genitore che perde la patria potestà sui figli è escluso dalla successione per indegnità. È quanto prevede una proposta di legge approvata in sede legislativa dalla commissione Giustizia della Camera. Il testo, approvato all’unanimità, aggiunge all’elenco dei casi di indegnità a succedere anche quello del padre o della madre che hanno perso la patria potestà sui figli per aver trascurato o violato i propri doveri di genitore con grave pregiudizio per la prole.

Il provvedimento deve ora passare all’esame del Senato. "Sono molto soddisfatta - dichiara Francesca Martini (Lega) prima firmataria del testo - e ora speriamo che il Senato proceda rapidamente. Con una piccola modifica, dal grande valore, abbiamo colmato un grande vuoto legislativo. La norma aggiunge nuove fattispecie all’indegnità a succedere del genitore che viene dichiarato decaduto dalla potestà genitoriale dal tribunale.

Fino a oggi l’indegnità a succedere era la conseguenza di casi molto gravi come l’omicidio o il tentato omicidio". "Un genitore dichiarato indegno dal Tribunale dei minori è indegno di esercitare la patria potestà - spiega il relatore del provvedimento Ciro Falanga (Fi) - ma è degno di succedere.

Questo non si capisce. Secondo il nostro testo la sentenza di decadenza di potestà comporta immediatamente anche l’indegnità a succedere. Di conseguenza, in presenza di una sentenza di reintegrazione della potestà, viene a decadere anche l’indegnità a succedere".

 

 

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