Rassegna stampa 11 agosto

 

Roma: a Rebibbia ci sono 1.600 detenuti, anziché 900

 

Liberazione, 11 agosto 2004

 

L’hotel a cinque stelle "Rebibbia Nuovo Complesso" ha esaurito le camere ed i posti letto. I detenuti di Rebibbia mandano questo messaggio all’ingegner Castelli, ministro razzista del governo Berlusconi; idealmente, potrebbero mandarlo anche la Direzione e gli agenti della Polizia Penitenziaria. In verità, questo messaggio potrebbe giungere da tutte le carceri del paese, certamente da quelle che abbiamo visitato di recente e dalle altre che ci apprestiamo a visitare nei giorni e nelle settimane prossime. Rinnoviamo, anche quest’anno, il rapporto solidale con quella società separata che il sistema tende ad occultare quando si tratta di parlare dei diritti dei detenuti, o ad ostentare se, invece, si tratta di colpire diritti di libertà civili e di autodeterminazione.

Quando non riusciamo a prendere cognizione diretta di come si deteriora la vita nelle carceri, sono gli stessi detenuti, con le loro lettere, a tenerci informati ed a sollecitare le nostre visite.

Nel carcere di Civitavecchia, come tutti gli anni, d’estate, l’acqua non è sufficiente e, talvolta, manca del tutto. Si dirà che non è colpa dell’amministrazione penitenziaria ma di quella comunale. In questo cinico rimpallo di responsabilità sono solo i detenuti a soffrire e, se non si rompe l’isolamento che fa delle carceri una realtà separata, esso si ripeterà tutti gli anni. Il sindaco di Civitavecchia, il presidente della Regione, il ministro della Giustizia sono impegnati a fare danni anche in altri settori!

A Viterbo, nel carcere di Mammagialla, oltre la stretta securitaria smodata cui sta cercando di porre qualche rimedio il nuovo Direttore, lo stato di separatezza è tale che le pur minime attività culturali, ricreative, formative non hanno luogo, come rimane sulla carta il diritto al lavoro. Provincia e Comune sembra considerino zona extraterritoriale un luogo dove vivono centinaia di reclusi e, però, insieme, lavorano centinaia di cittadini residenti.

Ho visitato il carcere di Rebibbia. L’occasione che mi ha indotto ad anticipare di qualche giorno la visita è data da uno dei tanti "casi di giustizia ingiusta" che apprendi solo nelle carceri ed in presa diretta. Un uomo che ha sbagliato in passato, che ha ricostruito in anni di lavoro e di relazioni la propria vita, che ha pagato i propri errori con il carcere e, con una condotta carceraria dignitosa ed esemplare al punto di avere riconosciuti i benefici di legge ed essere già in libertà condizionata, viene arrestato e riportato in carcere lo stesso giorno che avrebbe iniziato a lavorare. Una vecchia condanna ad un anno e otto mesi per la quale la Cassazione ha respinto il ricorso, e Ugone si ritrova beffato mentre stava immerso nella preparazione della Festa, risucchiato in un girone infernale perfino peggiore di quello che aveva lasciato da due mesi.

Bastano poche battute e scopri che altri due detenuti, uno di settant’anni, sono nella stessa situazione; il settantenne, risbattuto in carcere, dopo otto anni, per un "fine pena" di quattro mesi. E ti accorgi che la giustizia ingiusta è pure cinica nelle sue concrete manifestazioni! E ti chiedi perché i tribunali di sorveglianza non si attivano e, ogni volta, trovi conferma all’antico giudizio di Pietro Nenni: "Uno Stato forte con i deboli e debole con i potenti".

A Rebibbia la situazione è oltre qualsiasi livello di sopportabilità, è una vergogna! Dovrebbe ospitare solo 900 detenuti, vede la presenza di circa 1.600 reclusi costretti a vivere in celle con sei letti a castello dove potrebbero starcene solo quattro. Persino le sale previste per la socialità, i giochi da tavolo o le palestre, sono trasformate in dormitori con dieci, quattordici brandine. Due docce per oltre 150 detenuti quando va bene; nella gran parte dei casi solo una. Con il caldo e il sovraffollamento tutti i servizi, già largamente insufficienti, in primo luogo quello sanitario, sono saltati.

Si deve alla maturità civile dei reclusi e alla sensibilità della direzione e della sorveglianza se il malessere non si è finora trasformato in forme di protesta eclatanti o nelle rivolte di triste memoria. Il personale di sorveglianza, strutturalmente sott’organico, è sottoposto a turni e carichi di lavoro intollerabili; e, per di più, oltre cento agenti, solo da Rebibbia, sono comandati al ministero e in amministrazioni collegate. Le manie di grandezza del ministro richiedono, evidentemente, larghi apparati di rappresentanza.

Invieremo una relazione alla Corte di Giustizia europea, che già altre volte ha condannato l’Italia per la condizione penitenziaria, e al Parlamento Europeo; ma ci chiediamo anche quale ruolo stia svolgendo la Regione Lazio, che pure aveva istituito il Garante per i detenuti, ed in che cosa si concretizzi la grande attenzione che Storace aveva dichiarato di dedicare alla condizione delle carceri.

È partita intanto la fase della costruzione delle carceri private, che tanto piace al ministro Castelli, e forse, proprio per garantire gli affari di quelli che le gestiranno, dopo averle costruite, la Lega lancia la campagna per la reclusione dei mendicanti. Non dovessero bastare tutti quelli che per piccoli reati e per grandi disagi sociali finiscono nelle galere, è bene prevedere come fornire nuova materia prima a quanti entrano nel mercato dello sfruttamento dei detenuti. Castelli può non saperne di giustizia ma è un ingegnere, e di organizzazione della produzione per il profitto ha spesso vantato di intendersene. Di razzismo, dà lezione persino ai suoi colleghi.

Genova: a Marassi la situazione sanitaria è insostenibile

 

Secolo XIX, 11 agosto 2004

 

Grave situazione sanitaria all’interno del carcere di Marassi, con mancanza di spazi per curare i reclusi afflitti da patologie a rischio. Il centro ricovero dei detenuti dell’ospedale San Martino con sei posti letto chiuso da luglio fino a settembre per mancanza di personale.

Sono accuse del vicepresidente del consiglio regionale Giacomo Ronzitti, dopo la visita compiuta ieri al carcere di Marassi. "Scriverò direttamente al ministro della Salute Sirchia - spiega Ronzitti - a quello della Giustizia Castelli e all’assessore alla Salute della Regione Levaggi per far presente la pesantissima situazione sanitaria che ho riscontrato".

Il vicepresidente del consiglio regionale disegna una situazione di difficoltà. "Ci sono problemi di sovraffollamento - sottolinea - (Marassi ospita 637 carcerati, cui si aggiungeranno 50 albanesi che devono essere giudicati dal Tribunale di Genova per reati contro la prostituzione, anziché i 450 previsti come capienza massima) e di carenza di personale tra gli agenti di custodia (sotto le 120 - 130 unità).

Ma la situazione sanitaria è grave. Ieri, su richiesta di una delegazione di detenuti malati, ho fatto una visita. Sono emersi problemi legati per patologie delicate (psichiche, cardiovascolari ed infettive), e per spazi per le cure. Infatti il "centro clinico" può essere collocato tra le "infermerie", quindi non adatto a cure di un certo tipo.

E a San Martino il centro ricovero dei detenuti con sei posti letto è chiuso da luglio fino a settembre per mancanza di personale. Quindi, ho avuto un incontro anche con il direttore (Mazzeo) e il personale del carcere, sono costretto a scrivere ai due ministri competenti, Sirchia e Castelli, per lamentare questa situazione incresciosa e all’assessore regionale Levaggi perché si riveda il protocollo di intesa per l’assistenza sanitaria tra Provveditorato del ministero di Giustizia -Dipartimento strutture penitenziarie e Regione. Infine, suggerirò di non fare lo stesso errore con il carcere di Pontedecimo, dove si sta costruendo un altro centro clinico che, da infermeria deve diventare un vero centro di cura".

Livorno: caso Lonzi alla Corte europea, "è stato torturato"

 

Il Tirreno, 11 agosto 2004

 

Il caso della morte del giovane Marcello Lonzi, al momento del decesso detenuto nel carcere delle Sughere per una breve condanna, varca i confini dell’Italia. Il legale di Maria Ciuffi, madre di Marcello, ha inoltrato ricorso alla Corte europea per la difesa dei diritti dell’uomo, nonché - spiega in una nota l’avvocato Vittorio Trupiano - "alla commissione anti-tortura in senso alla stessa".

Tutto quello che riguarda la vicenda della morte di Marcello, dunque, l’anno di indagini a carico di ignoti che ne è seguito, e la successiva richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero, Roberto Pennisi, arriva dunque al giudizio dell’organo di giustizia europeo. Compresa la copia di tutto il fascicolo pendente al tribunale di Livorno.

"Ho lamentato - spiega l’avvocato Trupiano che ha già depositato l’opposizione alla richiesta di archiviazione - la lesione dei fondamentali diritti dell’uomo, quello alla vita e quello ad un trattamento non umiliante e degradante. La cui negazione, sfocia, appunto nella tortura quale fu quella inferta al Lonzi durante tutto il tempo che venne bastonato".

A queste conclusioni il legale di Maria Ciuffi è arrivato dopo aver visto le numerose foto del cadavere di Marcello Lonzi contenute nel fascicolo depositato in tribunale: la schiena del giovane appare violentemente battuta da un corpo contundente che l’ha segnata, in maniera simmetrica, dal collo fin sotto le natiche.

"Ho anche denunciato, in sede europea - continua l’avvocato Trupiano - tutta la serie di morti e suicidi precedenti e successivi alla morte di Marcello Lonzi nel carcere delle Sughere". All’intero del quale è ancora aperta l’inchiesta sul detenuto cileno che si è tolto la vita qualche giorno fa.

L’udienza sull’opposizione all’archiviazione dovrebbe essere fissata per i primi di settembre. Vittorio Trupiano chiede che sia a porte aperte e conclude: "In sede europea mi hanno assicurato la massima sollecitudine istruttoria, sicché potrò far confluire nel fascicolo livornese anche il carteggio della Corte europea".

Roma: morire in un carcere italiano, la storia di Franco Marrone

 

L’Unità, 11 agosto 2004

 

Franco Marrone è morto molti mesi fa e non ha fatto notizia. Nessuno gli ha dato importanza, nemmeno quando ha chiuso gli occhi per sempre qualcuno ha ritagliato un piccolo spazio per lui. Franco Marrone era un uomo di serie B. Era un detenuto finito in carcere per un duplice tentato omicidio e come tale aveva perso ogni diritto, anche quello alla cura. Sul diario clinico stilato dal medico di turno del carcere romano di Rebibbia era scritto: "Simula svenimenti". Aveva un tumore al cervello. Sul referto dell’autopsia c’era scritto: "La lesione era talmente grande da procurare sofferenze atroci".

Nei giorni scorsi, dopo più di sei mesi, qualcuno ha restituito un po’ di dignità a Franco Marrone. Sono altri medici, sono i consulenti della procura di Roma che ha avviato un’indagine. Nella perizia depositata agli atti ed eseguita in incidente probatorio dicono che il detenuto Marrone avrebbe potuto vivere ancora un po’ se solo qualcuno lo avesse ascoltato. Dicono che la negligenza dei dottori di Rebibbia è stata la causa di una morte prematura Quaranta pagine che sono praticamente l’anticamera di una richiesta di rinvio a giudizio per le undici persone indagate che ora saranno chiamate a deporre davanti al giudice. Tra questi anche il dirigente sanitario del carcere insieme a dieci medici in servizio all’infermeria.

La storia di Franco Marrone è una vicenda dura da digerire. Aveva 41 anni e una vita tutta sbagliata. Nato a Petrosino in provincia si Trapani, ex tossicodipendente, sposato e padre di tre figli tra cui due gemelline di appena quattro anni, stava scontando una pena di quattro anni e nove mesi per il duplice tentato omicidio dei genitori della sua ex compagna: Giuseppe Buffa, consigliere comunale Ds e sua moglie Maria Lombardo.

Erano colpevoli - sosteneva Marrone - di negargli una visita alle due gemelline appena nate. Era il 16 gennaio del 2001. Marrone sfondò la finestra di casa dei quasi suoceri e davanti all’ultimo diniego afferrò il bastone e cominciò a picchiare. Finì con il suo arresto e con una sentenza del Tribunale dei minori di Palermo che negò ogni contatto con i figli. Marrone del resto non era nuovo a stravaganze: solo pochi mesi prima era entrato nella chiesa del paese con in mano un’ascia spargendo il terrore tra i fedeli. Marrone scappò. Venne sorpreso ad Amsterdam ed estradato. Nel luglio dello scorso anno, in carcere, accusa i primi malori. Svenimenti continui, nausea, vomito, crisi epilettiche.

Inizia il suo calvario tra una visita e l’altra senza che mai qualcuno disponesse accertamenti più seri. Lo racconta il suo legale, Michela Chiriaco: "C’era un diario clinico dove i medici di turno scrivevano via via. Uno di questi resoconti diceva "Simula stato di incoscienza"". Mesi e mesi così. Marrone viene sottoposto a dodici visite psichiatri che e sei neurologiche. L’elettroencefalogramma prescritto otto volte non viene mai eseguito. L’uomo viene curato con antidepressivi e antiepilettici e le crisi continuano. A un certo momento - racconta l’avvocato - sono gli stessi detenuti a sollecitare l’intervento di un medico esterno.

Così il fratello di Marrone, Nicola ex agente di polizia penitenziaria, si mette in con tatto con un avvocato a Roma. Ma è già troppo tardi. Ai primi di febbraio Franco Marrone entra in corna, è ancora in carcere, in isolamento. E ancora nessuno se ne accorge. Sul referto del 4 febbraio, due giorni prima del ricovero in ospedale, è scritto: "Biascica a mezza voce di star male".

Il sei febbraio l’uomo viene finalmente ricoverato al Pertini, è in coma. Il 16 muore senza aver mai ripreso conoscenza. Il medico dell’ospedale ai parenti dice che sì, qualcosa si sarebbe potuto fare. Pochi giorni dopo grazie alla famiglia, all’avvocato e al giudice undici persone finiscono sul registro degli indagati.

Negli ultimi tre anni sono circa 500 i detenuti morti per suicidio o malasanità nelle carceri italiane. Hanno tutti meno di 40 anni. Meno della metà degli istituti di pena ha una guardia medica presente 24 ore su 24; un solo istituto possiede un defibbrillatore.

Dall’ultimo rapporto della Conferenza nazionale volontariato e giustizia, maggio 2004: circa 17mila detenuti sono tossicodipendenti, 10mila hanno forme di disagio mentale, diecimila sono colpiti da malattie infettive. Tra queste c’è la Tbc: il 50, 7 % delle carceri italiane hanno registrato casi di tubercolosi.

Con indultino scarcerati 5.600 detenuti, invece dei 9.000 previsti

 

Il Manifesto, 11 agosto 2004

 

"Non è servito a niente l’indultino, come non è servito a niente il braccialetto elettronico copiato dagli americani". Lo scrive in una nota Domenico Mastrulli, vicesegretario nazionale dell’organizzazione degli agenti di polizia penitenziaria (Osapp).

Nella nota si afferma che il primo agosto 2003 i detenuti "risultavano essere 55.500 circa, tredicimila in più della soglia di tollerabilità, con una fortissima incidenza sulla qualità della vita degli Operatori della Sicurezza e della utenza detenuta".

Per l’Osapp si tratta di numeri "che mediamente portano a 135 persone ogni cento posti disponibili". Peggio fanno solo la Grecia (150 persone ogni 100 posti) e la Romania (143). Per effetto dell’indultino, approvato in dodici mesi nell’agosto 2003, sono state scarcerate 5.648 persone "a fronte di una previsione politica del governo di circa 9.000 detenuti".

Bologna: 3 casi di tubercolosi alla Dozza, chiesto screening di massa

 

Repubblica, 11 agosto 2004

 

Tre casi di Tbc alla Dozza in pochi mesi. La direzione del carcere, insieme all’Ausl, ha deciso così di controllare dal prossimo settembre tutti i "nuovi entrati", per evitare altre situazioni di emergenza. In queste settimane, più volte è entrata alla Dozza l’unità mobile dell’Ausl. Sono stati sottoposti a screening, con l’aiuto dei medici interni, un centinaio tra detenuti e volontari, comprese le settanta recluse nella sezione femminile. L’esame Mantoux è stato proposto poi a tutto il personale penitenziario, agenti compresi: circa seicento persone. Nessun caso sospetto, oltre ai tre noti, è stato segnalato. In una lettera, firmata "alcuni detenuti", si dice che i medici si sono accorti tardi di uno dei tre casi, ma la circostanza è smentita. Semmai, risulta che i compagni di cella di un malato non volevano saperne di fare esami e hanno accettato solo dopo essere stati messi di fronte alla prospettiva dell’isolamento.

I detenuti ammalati sono una donna e due uomini. Due sono stranieri e il terzo è un italiano, lo stesso che nei giorni scorsi è stato portato in ambulanza ad una udienza del gip. Ora questo detenuto, in cui la Tbc è insorta come effetto dell’infezione da Hiv, è fuori dal carcere, grazie a una misura alternativa. La donna è tornata già guarita nella sezione femminile, mentre l’altro è ancora al Sant’Orsola.

"I casi si sono verificati uno nei primi mesi dell’anno e gli altri due tra giugno e luglio - dice la direttrice della Dozza Manuela Ceresani - e sono indipendenti l’uno dall’altro. Non si è trattato di un focolaio di tubercolosi scoppiato in carcere. Ciò nonostante, abbiamo pensato che, viste le condizioni spesso precarie in cui vivono persone che poi finiscono in cella e il sovraffollamento interno, è il caso di fare una prevenzione più efficace". Da metà settembre, l’Ausl tornerà alla Dozza e inizierà uno screening generalizzato. A tutti gli arrestati verrà proposto di sottoporsi all’esame Mantoux e fors’anche ad una radiografia ai polmoni.

Palermo: l'Ucciardone, estate del detenuto in attesa di giudizio

 

Repubblica, 11 agosto 2004

 

Dietro le sbarre con la calura. Dietro le grate quando anche uno spiffero darebbe il senso del tempo che cambia. E invece portoni e chiavistelli a impedire fughe e refoli. Dai dannati delle galere le voci si levano flebili. Soverchiate dal peso delle cronache dei misfatti, non raccontano nulla su com’è il vivere lì dentro. A dispetto delle roboanti manifestazioni di intenti, dei progetti di recupero, "delle visite elettorali". E di tutto quello che fa annuncio di carcere moderno. E di recupero.

Senza fondi e a corto di strutture, il carcere rimane carcere. E l’Ucciardone è il simbolo e l’emblema di questo tempo immobile. Come il caldo ristagnante in celle piccole, sovraffollate. Carcere fortezza. Con cubicoli "in cui vivere per 20 ore, andando all’aria per 4 in bunker di cemento con la rete per tetto".

Con i bracci di questa croce sbilenca che si chiudono per consunzione in attesa di restauri che muoiono dentro a cartelle polverose. Coi muri neri di soggiorni lunghi e graffiti di ospiti passati.

Capita di rado che a qualcuno venga voglia di scrivere a un giornale. Di provare a gettare un ponte con chi sta fuori. Di raccontare in stampatello, superando i tempi lunghi della posta e della censura, di quanto sia inutilmente afflittivo, nel combinato disposto di leggi e regolamenti, un posto in cui andare sotto la doccia è un privilegio. Di quanto sia umiliante provare a lucidare un vetro sul quale si sono appoggiate mille mani e magari appoggiarci anche la bocca in un bacio che si infrange sul freddo di un cristallo lurido. Di come "non si possano tenere più di tre libri. E del perché per averne uno bisogna chiederlo con una settimana di anticipo".

Cose così racconta Gaspare Morello. Commerciante come tanti. Azienda di autoricambi ereditata. Un marchio e un blasone nel settore. Settant’anni di forniture da vantare e la voglia di espandersi. Gaspare cresce e con lui l’azienda. Vent’anni fa la prima grana. Storia di mafia. Un mese e mezzo dentro, poi fuori. Quindi prosciolto e libero. Nel novembre 2003 bussano ancora alla porta di casa all’alba. Lo accusano stavolta di essere capo di un gruppo di trafficanti di droga. "Capo occulto di una banda in cui quasi nessuno lo conosce. Tranne un suo vecchio dipendente", precisa il figlio. Ricorsi e controricorsi ma Gaspare, 54 anni e qualche acciacco, per i giudici deve restare dentro. Detenuto in attesa di giudizio. "Con l’azienda a rotoli e i figli alla fame. E tanta rabbia dentro", dice lui. La rabbia di chi è convinto che un processo gli "restituirà di certo la libertà". Ma il processo chissà quando arriva.

Vicenda giudiziaria a parte - sarebbe persino superfluo precisarlo - nella sua lettera c’è la cronaca comune della vita lì dentro. Racconta "di come le medicine non arrivino". "Un mese per una enterogermina", che, se non gira proprio storta, alla prima sorsata risolve una diarrea. "Un mese, un tentativo inutile di comprarla a proprie spese e dopo uno sciopero della fame l’enterogermina è arrivata". E così altri scioperi promette Gaspare Morello, ex imprenditore, barricadero carcerario per necessità, a sentire lui.

Racconta ancora di come sia difficile ottenere un cambio di biancheria se si finisce in isolamento a metà settimana e si cumulano 14 giorni senza cambiarsi le mutande con le quali si è stati catapultati dal proprio letto alla penombra di una cella.

Di come "un diniego alle telefonate a casa" gli renda più penosa la condizione di genitore forzatamente dimezzato.

Di come la vita costi cara. Con lo spesino che passa per la lista e compra i generi alimentari. Di come "col caldo si compra e si butta una quantità di roba". Perché non c’è modo di conservarla. Si compra il ghiaccio, certo. Ma il ghiaccio si scioglie. Ed è l’unica cosa che sembra davvero cambiare. Lì dentro.

Tunisia: nelle carceri casi mancato rispetto dei diritti umani

 

Notizie Radicali, 11 agosto 2004

 

Con cinque interrogazioni alla Commissione europea e al Consiglio, Emma Bonino e Marco Pannella, leader radicali e deputati europei, hanno posto la questione dell’Accordo di associazione tra Unione europea e Tunisia alla luce della violazione grave e persistente dei diritti umani fondamentali.

Bonino e Pannella hanno in particolare segnalato:

il caso del detenuto politico Nabil El Ouaer di 30 anni, arrestato all’età di 17 anni e condannato da un Tribunale militare a 15 anni di prigione, che nei primi giorni del mese di giugno è stato picchiato dal direttore del carcere di Borj Er Roumi e successivamente messo illegalmente in isolamento dove è stato violentato da quattro detenuti comuni. Dal 26 luglio Nabil El Ouaer ha iniziato uno sciopero della fame per poter vedere, com’è suo diritto, il proprio avvocato e per potere presentare denuncia per la violenza subita.

il caso dell’Associazione internazionale di sostegno ai prigionieri politici (Aispp) a cui è stato negato il diritto di organizzarsi e riunirsi.

il caso dei 597 detenuti politici censiti dall’Aispp di cui 40 ristretti in assoluto isolamento da 12 anni;

il processo detto "dei giovani di Zaris". Nove ragazzi accusati di aver scaricato dei documenti da internet. Alcuni di loro hanno detto durante il processo di essere stati torturati e costretti a sottoscrivere i verbali e due di essere stati anche violentati. Nel processo di secondo grado, quando gli sono state fatte vedere le prove - dei fogli di carta che sarebbero stati scaricati da internet, una carta telefonica e un tubetto di colla - gli accusati hanno negato che quei materiali fossero di loro proprietà e tanto meno che gli fossero stati sequestrati. Alla fine del processo di secondo grado sei di loro sono stati condannati a 13 anni di prigione, un minorenne a due anni e, gli altri due, uno a 26 anni e uno a 19 anni e tre mesi.

Bonino e Pannella hanno messo inoltre in evidenza che la Commissione avrebbe voluto ma non ha potuto realizzzare un progetto per modernizzare il sistema giudiziario e penitenziario tunisino ma le autorità lo avrebbero rifiutato. E ancora, hanno segnalato che il programma di sostegno ai media tunisini sarà realizzato da un Centro nel cui consiglio di amministrazione siedono numerosi membri del Governo, mentre la stessa federazione internazionale dei giornalisti ha l’escluso l’associazione di categoria tunisina perché controllata totalmente dal potere.

A partire anche da questi fatti, Bonino e Pannella, hanno chiesto alla Commissione e al Consiglio di applicare l’Accordo di associazione nella sua interezza e letteralità, ovvero di rispettare l’articolo 2 che vincola l’aiuto europeo al rispetto dei diritti umani e della democrazia.

Già nel 2000 il Parlamento aveva chiesto a Consiglio e Commissione di "utilizzare tutti i mezzi previsti" dall’accordo "per ottenere il rispetto delle libertà democratiche e dei diritti dell’uomo."

Il Consiglio ha avuto modo di rispondere che sebbene l’articolo 2 sia un elemento essenziale dell’accordo, le misure previste in caso di violazioni dovrebbero essere prese solo in casi estremi.

Da qui la richiesta di Bonino e Pannella di utilizzare indicatori chiari e verificabili per indurre la Tunisia - e tutti i paesi terzi con i quali l’UE ha accordi di cooperazione - a rispettare gli standard internazionali.

Dal 1999 al 2003 la Tunisia ha ricevuto aiuti dall’Unione Europea per circa 400 milioni di euro.

Oristano: Giovanni Marras (Fi), "il nuovo carcere ci sarà"

 

L’Unione Sarda, 11 agosto 2004

 

Sul nuovo carcere di Oristano prosegue la polemica a distanza tra Giovanni Marras deputato di Forza Italia e Francesco Carboni, suo collega dell’Ulivo. "Francesco Carboni - spiega Marras in una nota - preferendo un encomiabile tour delle carceri al paziente e faticoso lavoro in aula ed in Commissione, prosegue una personale caccia alle streghe non essendo aggiornato su quanto concerne la destinazione dei fondi riservati alla progettazione, al restauro ovvero all’edificazione ex novo di strutture carcerarie.

In Commissione Bilancio della Camera - sottolinea ancora il parlamentare oristanese nonché sindaco di Arborea - sono stati previsti i fondi che, con uno specifico decreto, il Governo Berlusconi ha destinato per progettare e a realizzare le nuove case circondariali dell’Isola, quindi anche quella di Oristano.

Questo decreto è stato firmato dal responsabile del dicastero Lunardi appena alcune settimane or sono e prevede la concessione di cinquantaquattro miliardi di vecchie lire per progettare e costruire il nuovo carcere oristanese. La struttura - fa sapere il deputato di FI - sarà realizzata dove decideranno, di concerto, il Comune di Oristano e il Ministero delle Infrastrutture".

Sassari: parte da carcere S. Sebastiano la Faradda dei Candelieri

 

L’Unione Sarda, 11 agosto 2004

 

Quest’anno la Faradda dei Candelieri parte da San Sebastiano. Venerdì, proprio alla vigilia della Festha Manna di tutti i sassaresi, i detenuti del carcere di via Roma riceveranno la visita dei rappresentanti dei Gremi e della curia diocesana. La loro sarà una testimonianza importante, segnata dal tentativo di rendere un po’ meno pesante l’aria che si respira in carcere. Almeno nei giorni in cui tutta la città è in festa qualcuno passerà un po’ di tempo coi detenuti e porterà fra loro un po’ di quel buonumore con cui Sassari si prepara alla discesa dei Candelieri, fissata per sabato prossimo.

Teatro dell’incontro sarà la cappella di San Sebastiano, dove gli ospiti riceveranno dai detenuti un dono che la dice lunga sulla voglia di non sentirsi esclusi dalla festa: consegneranno infatti due piccoli candelieri, realizzati da un gruppo di detenuti che ha partecipato a un corso di formazione professionale. Un simbolo, la dimostrazione di una voglia di riscatto non ancora sopita.

È un atto di affetto verso le tradizioni più importanti della cultura sassarese, che ha indotto la direzione di San Sebastiano a contattare l’Intergremio per organizzare questo breve momento di condivisione della festa. Venerdì pomeriggio ci saranno anche un pifferaio e un tamburino, che riproporranno all’interno di quella struttura austera e severa i ritmi tradizionali che solitamente accompagnano i candelieri durante la Faradda del 14 agosto.

Ma ci sarà spazio anche per una preghiera in comune, dato che sarà presente il padre guardiano di Santa Maria Ettore Floris e il vescovo di Alghero e Bosa Antonio Vacca, amministratore apostolico dell’arcidiocesi di Sassari. A San Sebastiano, comunque, la festa andrà avanti anche il giorno di Ferragosto, quando in carcere andrà in scena la commedia in Vernacolo Li Curombi, che sarà allestita dalla compagnia teatrale La Quinta.

Un’altra anticipazione della Festha Manna sarà rappresentata dalla cerimonia di consegna dei Candelieri d’oro e d’argento. Sempre venerdì, nel cortile della caserma Lamarmora, in piazza Castello, verranno premiati gli emigrati che da più tempo risiedono lontano da Sassari ma che ogni anno, in occasione della discesa dei candelieri, ritornano in città. Intanto sembrano ormai fatti i giochi anche per quanto riguarda l’assegnazione del candeliere d’oro speciale, che ogni anno viene assegnato a un sassarese che abbia dato particolare lustro alla città. Il Comune sembra orientato a conferire il premio al vescovo di Nuoro Pietro Meloni.

Intanto Sassari inizia a sentire il profumo della festa. Un piccolo assaggio è previsto già per questa sera. Nel piazzale del capolinea dei pullman dell’Arst si terrà la classica arrostita, organizzata dall’amministrazione comunale con la collaborazione dei circoli ricreativi del centro storico, guardiani di una tradizione culinaria cui Sassari è molto legata. Sapori e suoni, perché la serata sarà ravvivata dalla presenza di alcune delle più interessanti espressioni del panorama musicale cittadino. All’assenza dello zimino, messo al bando dalle rigide regole imposte dalla Comunità europea, si sopperirà ancora una volta con una enorme quantità di carni tipiche e di verdure alla griglia.

Immunità: se diventa impunità va cambiata, articolo di Rita Guma

 

Osservatorio sulla legalità, 11 agosto 2004

 

I limiti dell’immunità diplomatica (e dell’immunità in generale) sono tornati ad essere oggetto di polemica grazie al caso del quarantunenne diplomatico saudita accusato di violenza sessuale su una ragazzina britannica di 11 anni.

L’uso fatto in casi come questo di una protezione finalizzata a ben altri e più nobili scopi, ha sollevato un’ondata di indignazione, tanto che il Foreign Office ha fatto pressioni sul governo di Riyad perché revochi l’immunità al proprio rappresentante. I Sauditi insistono di star cooperando, ma non hanno ancora indicato quale azione potrebbero intraprendere.

Il processo per abuso sulla minore potrebbe quindi non essere celebrato in tempi brevi, e l’inchiesta della polizia resta congelata, anche perché grazie all’immunità, il diplomatico non può essere interrogato.

Il principio dell’immunità diplomatica - ovvero il proverbiale "ambasciator non porta pena" - venne formalizzato nel Congresso di Vienna sulle relazioni diplomatiche nel 1961. L’articolo 1 dice che "la persona di un agente diplomatico è inviolabile. Egli non può essere sottoposto ad alcuna forma di arresto o detenzione".

Ogni anno l’immunità diplomatica viene invocata per coprire, nella sola Gran Bretagna, una ventina di reati gravi, divenendo di fatto un passaporto di impunità. In alcuni casi il Paese di provenienza del diplomatico accetta di collaborare, come nel 2002, allorquando un funzionario diplomatico colombiano a Londra, Jairo Soto - Mendoza, fu accusato di aver colpito a morte un uomo che aveva attaccato suo figlio.

Il diplomatico e suo figlio narrarono l’accaduto alla polizia spontaneamente, ma non poterono essere interrogati né detenuti finché la Colombia - dopo quattro mesi - revocò l’immunità diplomatica e Soto - Mendoza fu giudicato per omicidio in un Tribunale.

Un Paese che si trovi invece a subire il rifiuto di revoca dell’immunità non riesce a perseguire il colpevole, che può andare e venire in qualsiasi momento portando con sé i suoi effetti personali e magari nascondendo all’estero le prove del delitto.

Lo Stato ha allora altra scelta che dichiarare l’autore delle offese "persona non grata" ed espellerlo. Ma ciò viene fatto di rado, ed anche in quei casi non garantisce una giusta punizione, la prevenzione di futuri delitti ed un equo risarcimento alla vittima.

La carta dell’immunità diplomatica è stata anche spesso usata dagli ex dittatori (Pinochet, Saddam) per tentare di eludere i tribunali stranieri che li volevano perseguire, a volte non riuscendovi e comunque scatenando le critiche delle associazioni per i diritti umani che invocano l’invalidità di questo istituto per chi si sia macchiato di crimini contro l’umanità, in base alla Convenzione contro la Tortura del 1948.

L’insieme di queste vicende ha convinto persino alcuni avvocati ipergarantisti che l’istituto dell’immunità diplomatica vada modificato, sebbene essi mettano in guardia sulla delicatezza di un eventuale revisione dell’articolo in questione.

Ma lo stesso parlamento europeo - in una raccomandazione del 2001 relativa alla "schiavitù domestica" praticata dai funzionari delle ambasciate - chiedeva che fosse modificata la convenzione di Vienna abolendo l’immunità diplomatica per tutti gli atti relativi alla vita privata.

D’altra parte l’immunità diplomatica non ha mai veramente garantito coloro che ne dovevano essere protetti laddove sarebbe stata applicata allo scopo per cui era stata creata: dittatori e "Stati forti" non si sono mai fatti scrupolo né di violare la Convenzione di Vienna né di calpestare quella di Ginevra.

Corte dei Conti: edilizia penitenziaria, appalti troppo frazionati

 

Agi, 11 agosto 2004

 

Un articolato referto nel quale si richiamano le amministrazioni del Ministero dell’Interno, della Giustizia, della Difesa, delle Infrastrutture e dei Trasporti, i comandi generali dell’Arma dei carabinieri e della Guardia di Finanza, gli organismi civili della Polizia di Stato, dei vigili del Fuoco e dell’agenzia del Demanio "ad un maggior rigore nella individuazione della disciplina applicabile, ricorrendo nel caso degli appalti misti (lavori e forniture, lavori e servizi, ecc.) al criterio della prevalenza come elaborato dal diritto comunitario (oggetto principale del contratto e valore economico superiore al 50%), è stato trasmesso al Parlamento dalla Sezione Centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello stato della Corte dei Conti (deliberazione n.16/2004 del 21 luglio).

L’indagine ha interessato le amministrazioni che nel quadriennio 1999 - 2002 hanno eseguito opere che per la loro natura o destinazione abbiano carattere riservato ovvero debbano essere eseguite con speciali misure di sicurezza da parte di imprese dotate di specifica abilitazione (Nos).

"Una diffusa patologia è rappresentata dall’artificioso frazionamento degli appalti - denuncia ancora la magistratura contabile -, talvolta giustificato con la necessità di rimanere entro i limiti della competenza per valore di Organi periferici, talaltra attribuito a dichiarate esigenze di celerità, sovente contraddette - peraltro - da sospensioni dei lavori per interferenze con interventi contestualmente affidati a più imprese nello stesso compendio edilizio (manutenzione ordinaria e straordinaria negli istituti penitenziari).

Gran parte delle perizie di variante e suppletive rispetto ai lavori principali - si sottolinea nel referto - sono risultate ascrivibili, non ad eventi sopravvenuti ed imprevedibili, ma piuttosto a lacune o insufficienze dei progetti originari emerse in fase esecutiva, come ad esempio nel caso della realizzazione dei Centri di permanenza temporanea di stranieri espulsi, a cura del Ministero dell’Interno".

Tossicodipendenze: sull'ipotesi ministero ad hoc il governo frena

 

Il Manifesto, 11 agosto 2004

 

L’idea di un ministero ad hoc antidroga non convince la maggioranza. Maurizio Gasparri, ministro per le Comunicazioni, liquida l’idea avanzata da Sirchia ricordando che "la legge finanziaria del 2003 ha spostato il dipartimento per la lotta alla droga alla Presidenza del Consiglio" e che "neanche il disegno di legge sulla tossicodipendenza prevede la costituzione di un ministero".

Più duro Sandro Bondi (Fi), invece, che non solo boccia la possibilità di dedicare alla droga un dicastero antidroga ma anche un semplice dipartimento. Inoltre, il coordinatore di FI critica apertamente anche la proposta di legge Fini-Calderoli che parla di "cure obbligatorie" come azione di contrasto all’espandersi della piaga della droga.

"Dubito seriamente che il problema possa essere risolto col carcere, né mi convince del tutto l’equiparazione di uno spinello con una dose di eroina, come non convince la comunità scientifica" provoca Bondi. E a contrattaccare è Alleanza Nazionale che, a detta di Roberto Salerno, il giudizio del coordinatore di FI sulla legge Fini sulla droga "è distorto e confuso".

Tana de Zulueta: "Immigrazione, colpe dell’Italia e non dell'Europa"

 

Il Manifesto del 11 agosto 2004

 

Parla Tana de Zulueta La senatrice ex Ds: invocano l’Ue per eludere le responsabilità. Ma non hanno ascoltato la corte di Strasburgo sulla Cap Anamur L’Europa che non c’è "Non esiste una politica comune dell’Unione, ma tutto si risolve attraverso accordi bilaterali tra i singoli stati"

"Troppo facile invocare l’Unione europea quando avvengono queste tragedie, e poi fare orecchie da mercante quando la Corte di Strasburgo intima all’Italia di non espellere i profughi raccolti dalla nave tedesca Cap Anamur. L’Europa viene chiamata in causa solo quando si vuole eludere una responsabilità diretta e renderla collettiva".

Tana De Zulueta, ex Ds ora senatrice del gruppo misto e vicepresidente della Commissione su immigrazione e asilo del Consiglio d’Europa, rifugge, in genere, i giudizi tranchant, ma questa volta non ha dubbi: "Mi dispiace dirlo, ma l’Italia ha delle responsabilità molto precise, e sulla questione delle migrazioni ha deciso di mostrare un volto feroce".

 

Questo volto feroce insegna che salvare una persona in mare non è sempre bene?

Questa, purtroppo, è la lezione terribile della Cap Anamur. E non è il primo caso in cui chi ha salvato dei naufraghi è stato punito, è successo già con dei pescatori italiani. Calderoli parla di cambiare le regole di ingaggio, ma il mio grande timore è che questo cambiamento sia in atto. Il comandante che ha salvato i 72 profughi è un polacco, viaggiava su un mercantile e per fortuna è capitato lì. Mi chiedo se adesso ci sono marittimi che guardano dall’altra parte pur di non rischiare.

 

Si parla tanto delle radici cristiane nella Costituzione, ma su quali valori si sta fondando l’Unione?

Il punto chiave è che l’Europa non riesce a darsi una politica comune e lascia ai singoli stati la gestione di ogni episodio come se fosse un’emergenza e non un quadro generale già preannunciato e conosciuto. L’inizio di questi arrivi dall’Africa subsahariana risale al 2002, e tutte le volte si cade dalle nuvole. Credo che ha ragione la portavoce dell’Acnur quando parla di una sfida, è del tutto evidente che il movimento delle persone è la sfida del nuovo millennio. Se impariamo a fronteggiarla in modo civile e condiviso con i paesi di origine allora potremo parlare di valori, non dico cristiani, ma almeno civili.

 

Quindi non esiste una politica comune...

In questi casi tutto si risolve con gli accordi bilaterali. I cui contenuti, peraltro, non sono mai stati portati in parlamento per un dibattito, e su cose su cui è in gioco la tutela dei diritti delle persone è quanto meno anomalo. Non conosciamo i termini degli accordi con la Libia, poi si parla di costruire centri di detenzione in quel paese. A cui, paradossalmente, l’Europa si appella nel caso dei medici bulgari condannati a morte... ma poi finge di non sapere e di non vedere e lascia agli accordi bilaterali la gestione di una cosa simile.

 

Eppure il nostro ministro dell’interno è considerato un moderato...

Faccio notare una contraddizione del governo, che tenta di giocare due parti in commedia. Da una parte quella del buon samaritano, dall’altro la parte del guardiano feroce della frontiera. I due ruoli sono inconciliabili. Pisanu recita un giorno una parte e un giorno l’altra, come può invocare l’Europa quando nulla di quello che ha combinato con il Ghana nel rimpatrio dei profughi della Cap Anamur è previsto dai trattati europei? Vorrei ricordare, infatti, che in Ghana è stato espulso anche un cittadino sierraleonese.

 

Lei aveva incontrato i profughi della Cap Anamur nel centro di Caltanissetta. Ora lì sono rinchiusi alcuni migranti reduci dal naufragio.

Pazzesco, e se li hanno messi nel centro di identificazione per i richiedenti asilo è persino peggio. Si tratta di container in una radura desolata, che si arroventano al sole. Poi all’interno c’è l’aria condizionata, altra assurdità. Le lenzuola sono di carta, non c’è un posto in cui sedersi. E lì porti delle persone che hanno subìto una grave disidratazione? È una cosa inumana.

 

 

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