Intervista a Mons. Caniato

 

Giorgio Caniato, direttore dei Cappellani

"L’indultino? Un mezzo fallimento"

 

L’Avvenire, 28 novembre 2003

 

Per l’ispettore generale dei cappellani delle carceri, il beneficio non "è stato di giovamento effettivo per i detenuti" perché "è troppo difficile accedervi e troppo pesanti le condizioni". "Sarebbe stato meglio raddoppiare lo sconto di pena per la liberazione anticipata". L’indultino non ha risolto niente. Né il problema del sovraffollamento delle carceri ("e del resto - dice monsignor Giorgio Caniato - non è certamente questo lo strumento più adatto"). Né è "stato di giovamento effettivo per i detenuti". Insomma, "un mezzo fallimento, com’era facile prevedere". Non usa giri di parole l’ispettore generale dei Cappellani delle carceri nel giudicare quello che sta succedendo nel mondo della detenzione dopo l’approvazione da parte del Parlamento della legge che risponde, anche se in maniera molto parziale, all’appello più volte lanciato dal Papa - in occasione del Giubileo e anche dopo - sulla necessità di un gesto di clemenza.

Monsignor Caniato, che per 41 anni è stato cappellano a San Vittore e dal ‘97 occupa l’attuale incarico, ha chiuso ieri a Roma il Consiglio pastorale nazionale dei sacerdoti che assicurano l’assistenza spirituale non solo ai detenuti, ma anche al personale carcerario. E a margine dei lavori, che erano focalizzati soprattutto sulla figura del cappellano come "inviato della Chiesa locale per evangelizzare", ha risposto ad alcune domande sui temi di più stretta attualità.

 

A cinque mesi dall’approvazione della legge sul cosiddetto "indultino", che bilancio si può trarre?

Di positivo c’è che anche il Parlamento italiano, come hanno fatto altri 20 Stati nel mondo, ha risposto all’appello giubilare del Papa. Ma che questo provvedimento sia stato di giovamento effettivo per i detenuti è un po’ difficile da sostenere.

 

Per quale motivo?

Troppo difficile accedervi e troppo pesanti le condizioni da rispettare. Tanto più che ci sono detenuti i quali possono scontare gli ultimi tre anni di pena, lavorando all’esterno del carcere, seguiti dai servizi sociali. Una misura, quest’ultima, ben più favorevole di quelle dell’indultino. Infatti finora non sono neanche mille i carcerati che ne hanno usufruito. Ed è dell’altro ieri la notizia che uno dei beneficiari è tornato in carcere. È il primo caso e i più pessimisti dicono che ben presto anche tutti gli altri lo seguiranno. Io, invece, non mi sento di fare un’affermazione del genere. Una rondine non fa primavera e c’è la speranza che chi è uscito voglia davvero rispettare le condizioni, pur pesanti, che gli vengono imposte. Piuttosto il discorso da fare è un altro.

 

Quale?

Forse sarebbe stato meglio potenziare alcuni strumenti già presenti nel nostro sistema giuridico. Mi viene in mente, ad esempio, la liberazione anticipata di chi in carcere si è comportato bene. In pratica si tratta di uno sconto di pena di tre mesi, che avrebbe potuto essere elevato a sei mesi e avrebbe portato fuori dal carcere almeno 5 o 6 mila detenuti.

 

E in questo modo si sarebbe risolto anche il problema del sovraffollamento?

No, il sovraffollamento delle carceri non si risolve con gli atti di clemenza. Occorrono mezzi ben più profondi e complessivi, come la depenalizzazione di alcuni reati minori e soprattutto l’applicazione delle misure alternative che, invece, i magistrati fan no fatica ad erogare. Il carcere difficilmente recupera. Più utile è l’affidamento ai servizi sociali, laddove sia possibile. Ricordiamoci, del resto, che se non esistesse la legge Simeone - Saraceni sull’estensione delle pene alternative, oggi avremmo in carcere altre 30 mila persone, oltre le 56 mila che ci sono già.

 

Che cosa possono fare i cappellani?

Siamo sacerdoti e non assistenti sociali. Il nostro servizio ai carcerati si chiama evangelizzazione. Con tutto ciò che questo comporta.

 

 

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