Carcere e cattivo giornalismo

 

Ma perché il carcere riesce sempre a ispirare
tanto cattivo giornalismo?

 

Mi chiamo Ornella Favero e sono la coordinatrice di un giornale, Ristretti Orizzonti, realizzato dai detenuti del carcere di Padova e dalle detenute della Giudecca. Scrivo in merito ad alcuni articoli, che sono usciti in questi giorni su molti quotidiani, con al centro una ipotetica richiesta di permesso premio avanzata da Marino Occhipinti, che sconta l’ergastolo nella Casa di Reclusione di Padova per un omicidio, di cui è responsabile insieme a "quelli della uno bianca".

Vorrei spiegare subito che non intendo, solo perché faccio un giornale con dei detenuti, "prendere le difese" di un altro detenuto, intendo solo parlare di quello di cui mi occupo, cioè informazione dal carcere e sul carcere.

Di una cosa sono certa, che se trovassi negli articoli che scrivono i redattori - dilettanti del mio giornale tante imprecisioni e fantasie, quante ne ho trovate negli articoli letti in questi giorni, quegli articoli glieli avrei sonoramente bocciati, infuriandomi doppiamente, perché io vado sostenendo da tempo che dal carcere, dal momento che a operare sono persone che le regole non le hanno mai rispettate, bisogna avere una attenzione ancora più inattaccabile alle regole della buona informazione.

Regole che invece, fuori, si fa a gara a violare, quando l’oggetto degli articoli sono persone "indifendibili" come i detenuti. Ma facciamo qualche esempio di "imprecisioni". Si dice che Occhipinti chiede i benefici, il primo permesso, etc.: ma qualcuno si è degnato di verificare se la notizia, su cui si andava a costruire tutto un articolo, è vera? Marino Occhipinti non ha mai chiesto un permesso premio, e questo si può facilmente verificare presso la Magistratura di Sorveglianza di Padova. Si dice che Marino Occhipinti ha ottenuto un encomio per aver sedato una rivolta nel carcere.

"Si dice"? Ma chi lo dice? L’encomio di Occhipinti riguarda un corretto comportamento in questi anni di detenzione e una partecipazione attiva a un laboratorio artigianale.

Alcuni giornali sostengono, per dimostrare quanto sono brevi le pene in Italia, che ogni anno di galera scontato ti regala sei mesi di abbuono.

E dove? La liberazione anticipata è di tre mesi all’anno, e non è affatto automatica: basta un rapporto per avere fumato una sigaretta in un luogo non consentito a farti perdere 45 giorni del citato abbuono.

Si parla ovunque di belve, si snocciolano gli omicidi mostruosi della banda della Uno bianca, ma almeno qualche puntualizzazione andrebbe fatta, no? O vogliamo pensare che il modello di buon giornalismo, che io dovrei proporre a dei dilettanti curiosi e attenti ai problemi dell’informazione come i detenuti che realizzano Ristretti Orizzonti, sia quello in cui un uomo, condannato per aver partecipato a due rapine, in una delle quali è stata uccisa una guardia giurata, e a nessun altro fatto di sangue, sia messo nel calderone con persone, che di omicidi ne hanno commessi 23?

Il reato di Marino Occhipinti è gravissimo, le responsabilità altrettanto gravi, ma sarà pure giusto informare la gente che lui dalla banda si è tirato fuori al primo omicidio, oppure si pensa davvero che informare significhi impaStare grossolanamente notizie dove quanto meno l’approssimazione regna sovrana, se non vogliamo parlare di malafede.

Un’ultima considerazione: si parla, giustamente, di parenti delle vittime, e si dice che dovrebbero essere loro ad avere l’ultima parola sulla concessione dei benefici ai detenuti. Voglio invitare solo a una riflessione: che cosa sarebbe successo, che cosa avrebbero detto i giornali, che cosa gli "avrebbe fatto dire" la televisione, cacciandogli il microfono davanti alla bocca, se il padre di Erika, la giovane omicida di Novi Ligure, fosse stato semplicemente il padre di una delle vittime e il marito dell’altra?

Che cosa avrebbe detto il "parente delle vittime" contro l’omicida? Avrebbe quasi sicuramente espresso tutta la legittima rabbia, l’odio, il desiderio di vendetta che si provano quando ti colpiscono una persona che ti è cara. Ma il padre di una delle vittime e il marito dell’altra è anche il padre dell’omicida: e così questo padre ha dovuto riscoprire in se stesso la pietà, l’amore, la paura ma anche la speranza che qualcosa, nella testa e nel cuore della figlia, possa davvero cambiare. Ecco, la differenza è tutta lì: ai parenti delle vittime non puoi chiedere di odiare un po’ meno e provare un po’ di pietà, a noi cittadini sì, noi dobbiamo cercare di scovare faticosamente, anche dietro i tratti da "belve", i segni di umanità.

 

 

Ora quelli della Uno bianca vogliono permessi premio

 

La Nazione, 12 marzo 2002

 

Pietro Gugliotta, condannato a vent’anni. Marino Occhipinti, ergastolo. Sentenze definite.

Di giorno facevano i poliziotti, la notte salivano sulla "Uno Bianca" dei fratelli Savi, seminando per tutta l’Emilia Romagna una scia di sangue lunga ventitré morti e centinaia di feriti.

Belve, si disse e si scrisse di loro. Belve feroci assetate di morte, gentaglia senza scrupoli, che proprio per l’uniforme calpestata uccideva due volte. Encomio in cella Presto potremo trovarli al bar, a bere un caffè a un palmo da noi. Liberi, liberissimi, in permesso premio. A otto anni dal loro arresto che lasciò di stucco l’Italia intera, grazie ai benefici di legge e a un comportamento da galeotti a dir poco impeccabile, i killer della "Uno bianca" potrebbero lasciare la galera in fretta.

All’inizio per qualche giorno, poi per più tempo ancora, fino a ottenere l’affidamento in prova presso qualche servizio sociale, magari in una comunità, e da lì restare fuori per sempre. Il loro destino è nelle mani del Tribunale di Sorveglianza. Gugliotta, che ora fa lo spazzino nel carcere di Bologna, alla Dozza, attraverso il suo legale Stefania Mannino ha già fatto domanda e resta in attesa di un "sì" dei giudici di Bologna. Spazza e spera, il poliziotto che fece saltare le poste di via Mazzini e fece rapine.

Occhìpinti, in galera a Padova, è solo all’inizio delle pratiche e comunque non dispera. Il suo curriculum di detenuto è perfetto. L’ex poliziotto assassino ha persino ricevuto un encomio per avere sedato una rivolta nel carcere. Chissà, il giudice potrebbe decidere di accontentarlo. E per aiutarlo a dirgli di "sì" il cattivo agente ha affidato al suo avvocato un memoriale scritto in cella. Diverse pagine cui sono affidati gli incubi e gli orrori degli anni di sangue al fianco di Roberto Savi, il silenzioso e feroce capo della banda.

"Ero come rapito da lui - scrive Occhipinti - facevo quello che lui voleva. Mi ha persino ordinato di mollare una ragazza ed io l’ho fatto... era pieno di soldi, io invece facevo fatica a tirare avanti... così mi ha convinto... Allora non capivo proprio niente, sembrava un gioco, adesso sono una persona diversa... Ho sbagliato, lo so, e mai e poi mai potrei ricadere in errore...".

Forse è tutto vero, forse in otto anni di galera effettivi - che per i benefici previsti dal codice gli valgono come dieci anni di carcere - l’hanno realmente cambiato. Ma l’orrore di quei morti ammazzati per niente, la strage dei Pilastro, gli assalti ai campi nomadi, le poste che saltano in aria, le grida dei feriti, le lacrime dei parenti delle vittime, sono ancora troppo vivi per pensare che loro, le belve, possano davvero uscire dalla gabbia. E alcuni familiari delle vittime, beffa del destino, sono ancora in attesa del risarcimento promesso dallo Stato.

I capi aspettano Occhipinti c’era quando la "Uno bianca" uccise Carlo Beccari, a Casalecchio di Reno. Era il febbraio dell’88. Nessuna pietà, allora. E adesso? Adesso vuole il premio.

Grazie ai benefici della "libertà anticipata" (che ogni anni di galera scontato in cella ti regala sei mesi di abbuono da sottrarre alla pena totale) così come Gugliotta e Occhipinti anche il resto della banda potrebbe tra pochissimo alzare la manina e chiedere d’uscire. Vorranno il premio anche loro?

Roberto, Fabio e Alberto Savi non l’hanno ancora fatto. Pudore? Vergogna? Desidero d’oblio? O solo una saggia attesa per vedere cosa succederà mai agli altri della banda usciti allo scoperto?

 

 

Rimetterli in libertà è uno schiaffo ai morti

 

Il resto del Carlino – 13 marzo 2002

 

La vedova di Primo Zecchi: "Permessi premio? Gugliotta e Occhipinti non hanno chiesto scusa. I giudici si mettano una mano sulla coscienza". La madre di Beccari: "Carlo aveva solo 22 anni Spero di morire io, prima di vederli fuori".

 

È come se una frustata li avesse colpiti nella carne viva, all’improvviso, al buio. Sale gettato nella ferita aperta. Possibile? In permesso premio i killer dei loro figli, dei loro mariti, dei loro fratelli? Sì, è una possibilità. Uno dei banditi della "Uno Bianca", Pietro Gugliotta, attende la risposta del giudice di sorveglianza di Bologna, e un altro, Marino Occhipinti, ergastolano, ha già incontrato più volte il giudice di Padova. Da un lato dice di non meritare niente, dall’altro incrocia le dita, l’ex poliziotto. Scrive memoriali a discolpa e spera.

 

Un insulto al sacrificio

 

"Se accadrà una cosa del genere - dice Rosanna Zecchi, presidente dell’Associazione vittime della Uno bianca e vedova di Primo Zecchi, io perderò fiducia per sempre in una giustizia in cui, a dispetto di tutto, non ho mai voluto smettere di credere. Ho fatto un salto sulla sedia, leggendo il Carlino, e poi quel telefono lì ribolle, è tutt’oggi che suona. Giornalisti da tutta Italia, associati in lacrime. Se escono quelli lì è una tragedia".

"Ma ve li ricordate in aula? - continua - Gugliotta e Occhipinti non hanno mai ammesso nulla, non hanno mai chiesto scusa. Spero che i giudici chiamati a decidere su richieste già fatte ed eventuali richieste future si passino una mano sulla coscienza. Altrimenti sarebbe come uccidere i nostri cari un’altra volta, sarebbe come dare uno schiaffo ai morti. I nostri morti non possono più uscire da dove quelle belve li hanno cacciati. Ditelo questo, ditelo sempre".

Rabbia, pianto, speranza. C’è tutta una vita in quel volto che cambia smorfia di attimo in attimo. Rosanna Zecchi soffre. "C’è chi dice che mio marito sia stato un eroe - aggiunge - io non lo so. So che è morto perché credeva in certi valori, spero che una legge sbagliata non insulti il suo sacrificio".

A casa Beccari, nel cuore di Bologna, non c’è spazio neppure per un sorriso. L’assassino di Carlo Beccari, 22 anni, guardia giurata, è pieno di encomi perché è un bravo galeotto. Peccato che sia stato un pessimo poliziotto. Dice di avere capito, di essere così addolorato da non avere nemmeno il coraggio di chiedere scusa.

"Si vergogni Occhipinti dice piangendo Catina Privitera, la madre della guardia giurata uccisa il 19 febbraio dell’88 a Casalecchio di Reno - da quando hanno ammazzato mio figlio io non sono più nulla. La mia famiglia, non è più nulla. Volevo uccidermi, sapete, per il dolore. E se non l’ho fatto è solo perché il mio figliolo mi ha lasciato una bimba bellissima che gli assomiglia tanto. È per quella bimba, Veronica, che non mi sono tolta la vita".

 

Il giuramento alla nipotina

 

Fa fatica a parlare, Catina. Singhiozza, mentre il marito, malato di cuore, scuote la testa. "Spero di morire io prima di vederli fuori - dice la madre - 22 anni aveva quando me l’hanno ucciso. Era un ragazzo d’oro. Non diceva mai di no, e anche quella maledetta mattina era al lavoro perché un collega gli aveva chiesto il cambio. Non stava bene, ma ha detto sì. E non è più tornato a casa. Mio marito lo ha sempre detto: "Se li vedo in giro li ammazzo, non consentirò a quelle belve di farsi beffa del nostro dolore. Se li fanno uscire di prigione li vado a cercare". Lo ha giurato davanti a Veronica un giorno in cui l’ha vista piangere. "Nonno - chiedeva la bimba - perché tutti hanno un papà e io no?". Adesso ha diciassette anni Veronica Beccari. Quando Occhipinti e soci le hanno ucciso il padre ne aveva soltanto tre.

 

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