Carceri private in GB e negli USA

 

Efficienti, anzi inflessibili

 

L’aumento dei detenuti e lo sviluppo delle carceri private
Una riflessione sull’esperienza in Gran Bretagna e USA
 

di Roger Matthews (Centre for Criminology, Middlesex University)

 

Fuoriluogo, giugno 2002

 

La privatizzazione può assumere forme differenti: nel campo della sfera penale, essa investe prevalentemente la gestione della costruzione o di leasing delle carceri, la fornitura di attrezzature e di servizi specializzati. Nel corso degli ultimi due decenni, queste forme di privatizzazione sono aumentate gradualmente, modificando l’equilibrio fra pubblico e privato.

In Gran Bretagna e in America, quando negli anni ‘80 si manifestò la tendenza alla privatizzazione, questa fu accolta con notevole resistenza e scetticismo. C’era l’idea che la privatizzazione non si attagliasse al sistema penale, nonostante questa si fosse già diffusa su larga scala nel settore dei trasporti e delle comunicazioni. Si credeva infatti che la raison d’etre dello stato fosse l’esercizio del monopolio sull’uso legittimo della forza: di conseguenza lo stato doveva assumere direttamente il controllo sul crimine e la punizione, e su questo c’era ampia convergenza di opinioni. Tuttavia ci si accorse subito che la crescente estensione delle privatizzazioni non avrebbe risparmiato il sistema della giustizia penale. L’argomento circa l’immoralità del profitto privato ricavato a spese della sofferenza di altre persone fu soppiantato da un altro più pragmatico: la privatizzazione avrebbe portato maggiore efficienza e ridotto i costi.

Inoltre si sosteneva che la privatizzazione avrebbe facilitato l’individuazione delle responsabilità e contribuito a superare la stretta soffocante delle organizzazioni sindacali del personale. Su questo si è aperto un dibattito senza fine, ma il punto che m’interessa affrontare è se lo sviluppo della privatizzazione abbia contribuito al rapido incremento della popolazione carceraria, negli ultimi anni, e fino a che punto abbia influenzato gli indirizzi delle politiche penali.

Si è sostenuto che lo sviluppo della privatizzazione nelle sue varie forme abbia favorito lo sviluppo di un "complesso industriale carcerario": vale a dire, l’affermarsi di una logica di mercato avrebbe mutato il sistema carcerario in un’industria, propensa ad anteporre i profitti alle persone.

Il "complesso industriale carcerario" si articola in tre diverse componenti: in primo luogo gli investimenti nella costruzione di prigioni o nella gestione di diversi tipi di servizi custodiali; in secondo luogo, la prigione di per se è diventata un’impresa che offre significativi sbocchi occupazionali, specie nelle aree deindustrializzate; in terzo luogo, la prigione è divenuta un luogo di sfruttamento del lavoro dei carcerati, oppure in alternativa il loro lavoro viene appaltato da ditte private.

Esaminiamo in ordine questi elementi, cominciando dagli investimenti. Le prigioni sono diventate un grosso business. Negli Stati Uniti, si stima che la spesa carceraria superi i 20 miliardi di dollari all’anno. Al momento in America ci sono 158 servizi correzionali privati che operano in trenta stati, e rappresentano il 7% del mercato statunitense. Le più grosse imprese sono la CCA (Correctional Corporation of America) che gestisce circa la metà delle prigioni private, e la Wackenut Corporation, che copre circa il 15% del mercato.

Nonostante i profitti considerevoli realizzati, queste imprese hanno rallentato la loro espansione negli ultimi anni ed è diminuito il loro valore azionario. Diverse sono le ragioni, a cominciare dai mancati risparmi per il cittadino che paga le tasse e dalla mancata introduzione di pratiche innovative: per molti importanti aspetti le carceri private assomigliano a quelle pubbliche, e non si sono realizzati i promessi vantaggi della privatizzazione.

L’impatto più significativo della privatizzazione è stato lo sviluppo di un sistema carcerario più impersonale e automatizzato. I profitti dei privati sulle carceri si sono potuti realizzare in gran parte con la riduzione del personale e delle indennità supplementari che percepivano. Di conseguenza gli impresari delle carceri private preferiscono progettare e costruire i penitenziari e poi gestirli.

In questi istituti di "nuova generazione", l’ obiettivo è lo sviluppo di un carcere completamente automatizzato, con alti livelli di sorveglianza e controllo dei detenuti, in modo da ridurre il personale.

Questa strategia si presta ad una politica di "inabilitazione" dei detenuti e di pura custodia, con scarsa incentivazione allo sviluppo di programmi riabilitativi e di relazioni costruttive fra il personale e i detenuti. A meno che non ci siano delle clausole di contratto, gli imprenditori privati hanno poco interesse alla rieducazione dei detenuti e alla riduzione dei tassi di recidiva.

Il secondo aspetto attiene alle carceri come fonte di occupazione locale. Fino a circa dieci anni fa, in diverse parti dell’America, gli abitanti erano in genere restii all’idea che si costruisse un carcere sul loro territorio. Ma da allora la situazione è cambiata, le comunità e i politici locali oggi si dedicano attivamente ad un’azione di lobby per avere un nuovo carcere nella loro zona. Infatti, in aree rurali povere o in zone colpite dalla deindustrializzazione, la costruzione di un nuovo penitenziario può essere una fonte importante d’occupazione, sia all’interno del carcere che nell’indotto di servizi per questa nuova industria locale.

È vero che questi nuovi penitenziari possono risollevare delle aree economicamente depresse stimolando l’occupazione locale; ma, a differenza del "complesso industriale militare", l’impatto delle carceri private sul mercato occupazionale generale è limitato, cosi come la loro capacità di stimolare l’economia nel suo insieme.

Quanto al terzo aspetto, ossia la commercializzazione del lavoro dei detenuti, ci sono stati notevoli sviluppi: ad esempio i biglietti aerei della TWA vengono distribuiti e venduti da una prigione in California, ed i jeans Levi sono confezionati in carcere.

I detenuti possono anche essere impiegati da ditte private, sulla base di permessi concessi per il lavoro esterno. Non c’è uniformità nelle retribuzioni, e, nonostante ogni tanto si avanzi la proposta di dare ai detenuti almeno il minimo contrattuale nazionale, le differenze rimangono e il dipartimento penitenziario di solito deduce una percentuale significativa del salario per coprire le spese di vitto e alloggio.

Anche se un certo numero di ditte private cerca di impiegare i detenuti, i settori d’utilizzo del loro lavoro sono limitati da una serie di fattori. In primo luogo i detenuti hanno di solito livelli bassi di istruzione e ridotte competenze; secondariamente, molti di loro hanno una scarsa storia lavorativa alle spalle ed in genere non sono molto motivati; in terzo luogo, i detenuti soggiornano per periodi relativamente brevi in un singolo carcere e sono spesso trasferiti, o perché vengono riclassificati, oppure perché si avvicinano al fine pena.

Perciò i lavori che comportano un lungo addestramento e una specializzazione non si addicono al carcere. Per di più il lavoro forzato è sempre meno produttivo di quello libero e perciò meno competitivo, anche se gli scarsi salari del lavoro carcerario permettono alle ditte private di produrre merci a prezzi competitivi.

In generale, ci sono dei limiti all’influenza della privatizzazione sulla crescita della carcerazione. Sembrerebbe che lo sviluppo di un "complesso industriale carcerario" sia servito a consolidare e a "solidificare" un sistema, che peraltro era già in fase d’espansione. Senza dubbio le ditte che hanno rapporti commerciali col carcere impiegano tempo e risorse per fare il loro interesse ed aumentare le quote di mercato, ma non sembra che i privati contribuiscano direttamente all’espansione del sistema carcerario, se non attraverso il "riciclaggio" dei detenuti che non riescono a riabilitare. Allo stesso modo, il crescente coinvolgimento delle comunità locali nell’occupazione collegata al carcere è stato più un prodotto dell’espansione delle prigioni, che una delle cause principali di questa stessa espansione. L’appalto del lavoro dei detenuti alle ditte private è un fenomeno limitato e i vantaggi, sia per il sistema carcerario che per il privato, sono tali che nessuno dei due è motivato ad aumentare il numero di detenuti per alimentare questo processo.

Perciò si può dire che lo sviluppo della privatizzazione abbia avuto un impatto limitato sull’aumento dei penitenziari, anche se sfortunatamente, come si è detto, ha favorito uno scivolamento verso una pratica puramente custodiale e un regime più impersonale e automatizzato.

Ma può darsi che la privatizzazione abbia influito sui livelli di carcerazione e sulla natura delle politiche penali per vie meno dirette e meno ovvie: in primo luogo attraverso l’aumento delle pene da scontare fuori dal carcere, gestite da privati; in secondo luogo attraverso la promozione di nuove tecniche manageriali.

Nell’ultimo decennio, l’interesse dei commentatori si è concentrato sulla rapida crescita della carcerazione, ma si è prestata minore attenzione all’espansione dei programmi sul territorio e al ruolo dei privati nella loro gestione, nonché nella fornitura di servizi e apparecchiature specializzate.

Se la popolazione carceraria americana è triplicata nel corso degli ultimi venti anni, altrettanto si può dire per le persone coinvolte in pene alternative sul territorio: queste ultime ammontano al vertiginoso numero di tre milioni e ottocentomila. Riveste un particolare interesse in questo sviluppo l’incremento delle cosiddette "sanzioni intermedie" durante gli anni ‘90, sia in America che in Gran Bretagna.

Ci sono diverse forme di sanzioni intermedie, comprese la libertà condizionale con un intenso regime di vigilanza, la prestazione di lavoro a favore della comunità locale e il controllo elettronico. Le ditte private sono soprattutto interessate alla fornitura di apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio, ma provvedono anche servizi specializzati, perlopiù servizi e programmi sul territorio rivolti ai consumatori di droghe e ai giovani "a rischio". L’aumento dei detenuti per reati correlati alla droga ha incoraggiato lo sviluppo di programmi trattamentali che operano come "alternative" alla detenzione, e così si sono sviluppati programmi sul territorio per i giovani, a fine di prevenzione o come alternativa al carcere.

Ma, paradossalmente, il contributo del settore privato al dispiegamento di un crescente numero e diversificazione delle pene ha alimentato l’espansione del sistema penale e la crescita della popolazione dentro il carcere.

La proliferazione di nuove agenzie e istituzioni ha creato una vasta rete, che da un lato cattura molti più "pesci piccoli" nel sistema della giustizia penale; dall’altro, gli individui che entrano nel sistema restano "ingabbiati" in una rete di controllo, per cui si trovano a transitare da un’agenzia all’altra. Questo processo è stato chiamato "transcarcerazione", e produce come risultato il passaggio degli individui da agenzia ad agenzia, invece che dalle agenzie alla società.

Il processo di "transcarcerazione" è reso meno evidente dal modo in cui sono compilate le statistiche ufficiali: queste ci forniscono un’istantanea delle persone presenti in carcere in un determinato momento dell’anno, dando così l’impressione che ci siano due popolazioni relativamente distinte, quella del carcere e quella delle pene alternative sul territorio. Se invece si esamina il flusso dei detenuti secondo una prospettiva diacronica, ci si accorge che c’è un continuo movimento di persone fra le due forme di pena e che molti di coloro che scontano pene alternative oggi, saranno in prigione domani e viceversa.

Uno dei maggiori contributi che ci si aspettava dall’ingresso del settore privato era l’introduzione di nuove pratiche di gestione. Si tratta del New Public Management (NPM), che si è sviluppato nel settore privato ed è stato poi introdotto nella maggior parte delle aree del settore pubblico.

In sintesi, esso punta sul raggiungimento dei risultati piuttosto che sulla gestione dei processi, ponendo l’accento sugli obiettivi e gli indicatori di performance per controllare l’efficacia e l’efficienza. Questo sistema manageriale postburocratico ha stretti legami con "l’analisi dei rischi" nella sfera penale e la nascita della "nuova penologia", che pone l’accento sul calcolo dei rischi e il controllo delle classi inferiori e della loro "pericolosità".

Lo sviluppo della "nuova gestione pubblica" e la promozione della cosiddetta "cultura degli indicatori di performance" ha sempre più enfatizzato i processi che possono essere misurati, con un sempre minor interesse per quei processi che sono invece meno visibili e quantificabili. In nome dell’efficienza e alla ricerca di politiche fondate sull’evidenza dei dati, le considerazioni d’ordine morale e politico passano in secondo piano, e in definitiva restano in ombra nella definizione delle politiche.

Inoltre, il New Public Management voleva essere una strategia di miglioramento dei servizi, ma si è trasformato in una strategia di "imposizione". I gestori del carcere, se vogliono raggiungere gli obiettivi individuati, devono "avere il pugno duro" al fine di aumentare l’efficienza. In America ad esempio, certe infrazioni alla libertà vigilata o all’affidamento in prova godevano una volta di una qualche tolleranza, mentre adesso hanno delle conseguenze, e chi non ottempera alle condizioni imposte con sempre maggiori probabilità va a finire in carcere o ci rientra.

Così un numero sempre crescente di infrazioni, in particolare l’uso di droga, vengono rilevate con gli esami clinici e le autorità che presiedono alla libertà vigilata sono sempre meno tolleranti. E tramite una più severa repressione delle trasgressioni che si alimenta il processo di "transcarcerazione".

Per concludere. Analizzando i recenti sviluppi del sistema penale in America e in Gran Bretagna, si ricava che la crescita della popolazione carceraria e la mutazione della natura del sistema penale non sono tanto in funzione di scelte consce e deliberate. Si tratta piuttosto di dinamiche più sottili e meno immediatamente visibili, in conseguenza di effetti non previsti. In molti casi questi effetti discendono da una ratio umanitaria, apparentemente a "fin di bene".

Cioè a dire, la proliferazione di misure alternative sul territorio è stata motivata dalla volontà di evitare il carcere agli autori di reato; tuttavia, come si è visto, proprio questa stessa proliferazione ha creato una rete allargata e più integrata che ha incoraggiato un processo di "transcarcerazione", invece che di "decarcerazione". La privatizzazione ha ricoperto un ruolo centrale in questo processo, non tanto per lo sviluppo di carceri private, quanto per l’incremento di misure alternative e di nuove pratiche manageriali, più rigorose nei confronti delle infrazioni.

Quest’analisi suggerisce la necessità di sviluppare un approccio al sistema non di tipo tecnico, sull’esempio del New Public Management, ma che invece cominci a svelare le dinamiche del processo penale, a identificare le connessioni fra le differenti agenzie e istituzioni e a superare gli effetti inaspettati e indesiderati dell’attuale sistema penale.

 

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