Sofri: "Il lusso della mia cella"

 

Adriano Sofri: "vi racconto il lusso della mia cella"

 

L’Unità, 22 agosto 2002

 

Pisa. La saletta riservata ai colloqui ha una finestra protetta da sbarre pesanti. Al di là, in un angusto cortile assolato, si affacciano le celle dei detenuti. Dalle inferriate sporgono le braccia e le gambe dei tanti uomini ammucchiati in questo luogo. Una stampa sbiadita della Torre pendente, appesa a un muro scrostato, ci ricorda dove siamo: nel carcere Don Bosco di Pisa. O meglio nel carcere dove è ristretto Adriano Sofri. L’ex leader di Lotta Continua, condannato a 22 anni di reclusione per l’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, interviene sul tema della condizione penitenziaria e sulle polemiche innestate dalle parole del Guardasigilli Castelli.

 

I detenuti di Rebibbia minacciano per settembre una serie di scioperi estremi contro il sovraffollamento. Prevede una rivolta nelle carceri?

«La situazione è molto pericolosa, perché la popolazione carceraria attuale rende estremamente difficile qualunque forma di lotta che resti sotto il controllo di chi la conduce. Negli ultimi anni c’è stata una precipitosa modificazione della composizione interna a vantaggio degli immigrati, specialmente magrebini e albanesi, e della quota di giovani italiani tossicodipendenti. I componenti dell’associazione Papillon, a Rebibbia, sono in maggior parte ancora detenuti politicizzati italiani e a mio parere non riusciranno a entrare in sintonia con questa nuova realtà: le tensioni infraetniche sono fortissime e sono l’unica ragione per cui non ci sono ancora le rivolte incontrollate tipiche dell’era pregozziniana. Le divisione tra gruppi etnici in carcere infatti impediscono l’unità dei detenuti nelle ribellioni».

 

Tali tensioni favoriscono dunque il governo del carcere?

«No, oggi non c’è alcun governo delle carceri, né un progetto sul mondo penitenziario che sta andando verso il disastro e l’assoluto abbandono. Ci sono ancora situazioni infami, come a Poggioreale dove il detenuto deve tenere gli occhi per terra senza guardare in faccia gli agenti. La popolazione penitenziaria vive per lo più nell’inerzia o rassegnazione autolesionista: soprattutto i giovani magrebini alle prime armi carcerarie si tagliano in continuazione, sanguinando in uno spettacolo ininterrotto e devono poi essere ricuciti dalla testa ai piedi».

 

È dunque impossibile organizzare una qualche protesta?

«Quando due anni fa, ai tempi del Giubileo, era in atto uno sciopero della fame molto serio appoggiato anche dall’esterno, da Antigone e Sant’Egidio, noi di Pisa facemmo un programma per un digiuno lungo, ma sostenibile. Una mattina incontrai i detenuti della sezione giudiziaria e gli spiegai cosa avevamo intenzione di fare e cosa bisognava evitare. In serata avrebbero dovuto cominciare il digiuno, accompagnato dalla battitura dei ferri. Nel pomeriggio avevano già incendiato le celle e i materassi e si sono salvati dall’asfissia e dal soffocamento per puro miracolo. In nottata sono stati portati tutti nel cortile e poi trasferiti in mutande in altre carceri».

 

Questo prova la difficoltà di una protesta pacifica?

«Quella è stata la dimostrazione di una cosa evidente: oggi in galera o c’è l’inerzia autolesionista che si traduce in una serie di tensioni irrisolte o un casino in cui la gente si fa male. Per questo non intendo assumere la responsabilità di iniziative promosse da altri in carcere e mi guardo bene dall’aderire o sabotare programmi proposti da Papillon o chiunque altro».

 

Non resta che sopportare i tanti mali del sistema penitenziario?

«Le mie preoccupazioni non sono una buona ragione per continuare a tollerare tutto quello che succede, in particolare quando questa inerzia diventa davvero insostenibile sia per il funzionamento interno delle carceri, che per la totale destituzione dei tribunali di sorveglianza».

 

Di chi sono le colpe maggiori?

«Innanzi tutto dei governi di centrosinistra che hanno avuto una sbagliata gestione della Giustizia e del suo braccio penitenziario. Oliviero Diliberto è stato addirittura un ministro caricaturale».

 

Perché?

«Aveva promesso l’abolizione dell’ergastolo e dopo una settimana era già ostaggio dei sindacati penitenziari, che sono uno scandalo. Per capire la questione della carenza di organici bisognerebbe indagare quanti agenti sono assenti per malattia o per permessi sindacali. L’allora direttore dell’amministrazione penitenziaria, Alessandro Margara, aveva denunciato questa evidente verità: il numero di agenti in rapporto ai detenuti, in Italia è più alto che in qualsiasi altro Paese europeo. E per questo fu cacciato».

 

E il governo di centrodestra?

«Ha irrigidito le misure che fanno uscire dal carcere e ha rafforzato quelle che vi fanno entrare. Per questo ha accresciuto la popolazione carceraria, battendo ogni record».

 

Castelli vuole nuove carceri. Che ne pensa?

«Con questo discorso edilizio e abbandonando le vere questioni penitenziarie ha lasciato che si ammucchiassero i problemi e i corpi umani in galera. Ma c’è di più. Il centrodestra mostra una fortissima idiosincrasia per i detenuti: c’è la sensazione di una radicata antipatia umana verso i carcerati. Il ministro della Giustizia non parla delle galere, se non con toni di forte avversione».

 

Che fare per diminuire la popolazione carceraria?

«È necessario un provvedimento di amnistia o indulto, per buttare fuori qualche migliaio di detenuti. Ma oggi è impensabile per motivi demagogici e elettorali. Quanto alla depenalizzazione dei reati minori promessa dal centrodestra, non ho visto alcun esito».

 

Il governo ha però depenalizzato il falso in bilancio, reato per il quale non c’era nessuno in galera...

«Sappiamo bene a chi ha fatto comodo quella depenalizzazione».

 

La legge Bossi-Fini aumenterà il numero di immigrati detenuti?

«Tutto quello che stanno facendo è in direzione di un ulteriore aumento di corpi in prigione».

 

Come giudica le parole di Castelli sul nuovo regolamento?

«Il regolamento penitenziario era opera di Margara e Corleone. Non era una vera riforma, ma una correzione sensata di alcuni dei punti più paradossali e ordinariamente vergognosi della normativa. È però rimasto inosservato. Le faccio un esempio. Si prevede che il detenuto possa avere l’interruttore della luce in cella. Io ancora non ce l’ho e per accendere il mio schifoso neon devo fare operazioni acrobatiche nelle quali ormai mi esibisco volentieri visto che sono diventato bravissimo. E ancora più difficile sarebbe introdurre una doccia in ogni cella: ci vorrebbero lavori di ristrutturazione inimmaginabili. Oggi però questo regolamento viene citato da Castelli come una prova che si vorrebbe far vivere i detenuti in un hotel di lusso, con tanto di tv color. E ciò dimostra che il ministro non sa di cosa sta parlando, ma cosa ancora più grave, dimostra che non conosce affatto le carceri. Come molti direttori di istituto, che non hanno mai trascorso una notte in galera».

 

Per capire il carcere bisogna vederlo di notte?

«Chi non sta di notte in carcere, non ha idea di cosa esso sia. Di notte ci sono quelli che diventano matti, quelli che vogliono un supplemento di terapia, quelli che si tagliano, quelli che si mettono a urlare disperati. Bisogna sentire che rumore fa il carcere quando tutti russano e va su e giù l’edificio. Insomma lo zoo di notte andrebbe visto».

 

Carceri in leasing, custodia attenuata affidata al privato sociale. Come giudica la tendenza del governo a privatizzare il penitenziario?

«Una terribile aberrazione, un errore fatale. Ci avviamo anche in Italia verso il business del penitenziario».

 

C’è chi lancia l’allarme di islamizzazione politica dei carcerati.

«In Italia non c’è nulla di tutto ciò. I detenuti musulmani che pregano sono pochissimi e chi lo fa è guardato con diffidenza. A Pisa nessuno degli arabi prega o discute di Islam».

 

Cosa si può fare per migliorare il carcere?

«Chi conosce davvero il problema sa che non c’è niente da fare. Se metti in rapporto il ministro Castelli con il problema carcerario ti accorgi che c’è una incompatibilità astrale. È disarmante. Nessuno per esempio conosce lo scandalo delle denunce dietro le sbarre. Detenuti che per le condotte più varie vengono denunciati dagli agenti e così non escono più di galera. Masturbarsi in cella per esempio è un reato».

 

Qual è la condizione di sovraffollamento del Don Bosco?

«Grave: quando arrivai cinque anni e mezzo fa, nella sezione penale c’erano due detenuti per cella. Oggi hanno tutte tre detenuti e sono incredibilmente piccole».

 

Con chi divide la sua stanza?

«Io sto solo e occupo una mezza cella derivata dal vano delle docce che ci sono accanto».

 

Nella letteratura penitenziaria viene indicato nella infantilizzazione dei detenuti uno dei mali del carcere.

«L’infantilizzazione è il criterio fondante della pedagogia carceraria, come pedagogia punitiva. La persona umana viene ridotta alla dimensione bambinesca e posta alla mercé fisica e morale del suo persecutore».

Che ruolo gioca la perdita della sessualità?

«Nel nuovo regolamento erano previste unità abitative per detenuti e partner. Ma il Consiglio di Stato ha abolito la norma in questione con una motivazione grottesca. Questa sarebbe invece una battaglia da fare; denunciando come crimine penale la privazione della sessualità nel sistema carcerario. Oggi con una popolazione composta per l’80 per cento da giovani animali tolti dalle strade e sbattuti in cella a farsi seghe dalla mattina alla sera, i politici dovrebbero vergognarsi: è sanitariamente inaccettabile».

 

È favorevole alla campagna per l’abolizione del 41 bis?

«La rivendicazione della sua cancellazione in questo momento è una pura sciocchezza. Gli stessi boss mafiosi non ne chiedono l’abolizione, ma solo un’applicazione meno brutale. La risposta del governo è demagogica: vogliono far vedere che non sono ostaggi della mafia».

 

Per Foucault la galera è una pena corporale.

«Senza dubbio, basta guardare ai suicidi e alle malattie che si diffondono in prigione. Io stesso non posso garantire di essere sano, visto che mi rifiuto di fare le analisi. Il carcere è davvero una concentrazione delle sofferenze del mondo, un luogo dove si massacrano i corpi».

 

Pietrostefani ha detto che tornerebbe in Italia se le succedesse qualcosa.

«Giorgio deve rimanere dov’è, ci mancherebbe altro».

 

Cosa pensa di questa staffetta di digiunanti che chiedono un atto di clemenza per lei e Ovidio Bompressi?

«Sono loro grato: sono simpatici, sono degli amici, ma so che non succederà assolutamente nulla».

 

 

 

Precedente Home Su Successiva